Praticare resistenza democratica--------------------------------------------------------------------------------
Foto di Gianluca Peciola
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“We refuse to be what you wanted us to be. We are what we are, that’s the way
it’s going to be” (“Rifiutiamo di essere quello che volevate che fossimo. Siamo
quello che siamo. È così che andrà”, Bob Marley)
Sabato 31 maggio eravamo, in migliaia, in piazza a Roma ad opporci al decreto
sicurezza voluto dal Governo Meloni. In questi mesi, in migliaia, ci siamo
mobilitati in tutto il Paese, dando vita a decine di iniziative; presidi;
cortei. È stata una risposta di popolo, larga, plurale, non politicista
all’autoritarismo che questo esecutivo sta mettendo in campo.
Lo sappiamo bene come, da trent’anni, il tema della “sicurezza” sia usato come
specchietto per le allodole. Un paravento funzionale a legittimare leggi
violente, impregnate di razzismo, classismo e sessismo. Una colpa equamente
distribuita tra i governanti di destra e sinistra. Da Maroni, a Minniti-Orlando
fino ai decreti di Salvini e di Lamorgese. Una lunga catena repressiva, che ha
causato incommensurabili danni sociali: persone migranti costrette
all’irregolarità e detenute, in condizioni inumane, nei CPR (cui, ricordiamolo,
Minniti ha dato nuovo vigore); Daspo urbano per senza dimora; venditori
ambulanti; sex workers, giovani razzializzati allontanati dai nostri territori
come reietti; criminalizzazione delle lotte sociali; restrizione di ogni spazio
di dissenso, con l’impossibilità di esercitare il sacrosanto diritto di
manifestare.
Il Governo Meloni si era già trovato la strada spianata. E proprio per questo ha
potuto mettere in campo un provvedimento che segna un ulteriore salto di qualità
nelle dinamiche di controllo sociale e di repressione. Un cambio di paradigma
nel rapporto tra Stato e società civile, che ci riporta direttamente nei tempi
più bui della nostra storia. A dirlo, non sono state solo le migliaia di
persone; di associazioni; di spazi sociali; di realtà sindacali scesi in piazza
in questi mesi. Non è stata solo la magistratura; i e le docent3 universitarie;
gli e le avvocat3. A dirlo sono stati gli stessi organismi internazionali, dalle
Nazioni Unite al Consiglio d’Europa, che hanno affermato chiaramente come
l’approvazione di quel provvedimento avrebbe rappresentato per l’Italia una
rottura con lo Stato di diritto, traghettandoci direttamente in uno Stato di
Polizia, in cui è impedito l’esercizio delle libertà e dei diritti fondamentali.
Davanti a tutto questo, cos’ha fatto questo Governo? In maniera vile, ha
strappato il DDL Sicurezza da una discussione parlamentare che durava da oltre
un anno e lo ha trasformato in un decreto legge approvato, a colpi di Consiglio
dei Ministri, in meno di 48 ore. Perché hanno avuto paura. Paura di non
controllare l’opposizione a questo provvedimento, dentro e fuori il Parlamento.
Hanno dimostrato la vera pasta di cui sono fatti: vili e codardi. Utilizzando lo
strumento del decreto legge come un manganello legislativo. Dando vita a una
forzatura istituzionale gravissima, in sfregio a qualsiasi confronto democratico
e agli stessi organismi internazionali.
Dunque dall’11 aprile, con l’approvazione di questo decreto legge, siamo già in
uno scenario distopico, in un delirio repressivo: fino 5 anni di reclusione per
una resistenza passiva in carcere o nei CPR; 2 anni di galera per un blocco
stradale; 7 anni per l’organizzazione di un picchetto anti-sfratto; 3 anni per
l’imbrattamento di un edificio istituzionale. Anni di galera, per condotte
inoffensive. Anni di galera per chi pone in essere la benché minima forma di
dissenso. Per non parlare di ciò che si prevede per le madri detenute; per chi
si trova in una condizione di marginalità sociale; sul settore della cannabis;
sulla revoca della cittadinanza e sui privilegi elargiti alle forze dell’ordine…
Davanti a tutto questo, non può non cogliersi l’importanza della mobilitazione
che si è creata contro questo provvedimento. Una opposizione non solo difensiva
ma che ha saputo contrattaccare. Che intende ridare senso alla parola
“sicurezza”, sottraendola dalla spirale del securitarismo per ancorarla
all’unico significato che dovrebbe avere: la sicurezza sociale.
Sicurezza è avere un tetto sopra la testa; non morire sul lavoro; non aspettare
mesi per una mammografia; non subire il ricatto di una cittadinanza negata; non
perdere la libertà per un permesso di soggiorno che ti hanno impedito di avere.
Sicurezza è sapere che, se scendi in piazza, non rischi di finire in galera solo
perché hai manifestato il tuo dissenso. Sicurezza è non essere lasciato in balìa
dell’arbitrio delle forze dell’ordine, oramai forti della loro impunità e di uno
Stato che pagherà anche le spese processuali per i loro abusi di potere.
L’abbiamo detto, sabato, in piazza che è solo l’inizio. E ci crediamo veramente.
Ora tocca vincere una campagna referendaria fondamentale. Portare tutt3 a votare
per un diritto al lavoro degno e per dare cittadinanza a migliaia di italian3
che ne sono stati privati. Sarà lunga. Bisognerà lavorare tanto. Stare nei
nostri territori, presidiare i nostri quartieri, opporci alla loro
militarizzazione già avvenuta con le ignobili “zone rosse”. Bisognerà continuare
a praticare disobbedienza a questi leggi ingiuste. Continuare a tessere quei
legami di solidarietà che vogliono, in ogni modo, spezzare.
Ma la mobilitazione che abbiamo saputo creare, le convergenze inedite che –
finalmente – si stanno realizzando sono ossigeno. Ossigeno puro davanti alle
miserie di questo presente. Nei prossimi mesi, davanti a questo attacco inedito,
dovremmo continuare a realizzare alleanze inedite, a sperimentare linguaggi e
pratiche nuove; ad aprire spazi reali di trasformazione, praticando una
resistenza democratica diffusa.
Abbiamo imparato a camminare insieme, ora tocca solo non fermarci.
Scrive bell hooks in Elogio del margine: “Faccio una distinzione precisa tra
marginalità imposta da strutture oppressive e marginalità eletta a luogo di
resistenza, spazio di possibilità e di apertura radicale. […]. Noi giungiamo in
questo spazio attraverso la sofferenza, il dolore e la lotta. Sappiamo che la
lotta è il solo strumento capace di soddisfare, esaudire e appagare il
desiderio. La nostra trasformazione, individuale e collettiva, avviene
attraverso la costruzione di uno spazio creativo radicale, capace di affermare e
sostenere la nostra soggettività, di assegnarci una posizione nuova da cui poter
articolare il nostro senso del mondo…”.
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LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIULIANO SANTORO
Un antidoto al veleno securitario
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