
La Palestina vince La Vuelta
Jacobin Italia - Monday, September 15, 2025
Molte persone reputano noiose le competizioni ciclistiche: troppo lunghe e colpi di scena da ricercare negli ultimi chilometri. Uno sport eccessivamente lento per la velocità dei nostri tempi. Eppure, nonostante l’opinione comune dei non appassionati sia questa, i grandi giri continuano ad attirare tantissimi fan che a bordo strada seguono e partecipano con la loro foga incitatrice alla corsa. Oltre gli appassionati però i grandi giri sono capaci di attirare anche persone scettiche ma affascinate dal passaggio per le strade della propria quotidianità, ciclisti professionisti provenienti da tutto il mondo; sportivi che hanno bisogno di attraversare queste strade per raggiungere il traguardo, la vittoria. Ed è così che si riesce ad attirare anche i profani: sfruttando il legame viscerale con le loro strade.
La beauté est dans la rue recita uno slogan del maggio del ‘68 francese, nato per sintetizzare che le rivolte per la bellezza, per un mondo diverso e più giusto, avessero come luogo naturale e di espressione la strada. In questa Vuelta a España il popolo spagnolo ha deciso di far capire che le strade sono di chi le vive, ossia del popolo solidale a quello palestinese. A poco è servito lo spettacolo del combattimento tra Joao Almeida e Jonas Vingegaard. il ritorno alla vittoria del francese David Gaudu alla terza tappa, gli sprint serrati che hanno visto primeggiare Jasper Philipsen e Mads Pedersen, le 6 tappe vinte dalla Uae Team Emirates – Xrg, il podio in bilico fino alla fine primeggiato proprio da Vingegaard. La bellezza che ci hanno offerto i corridori è stata totalmente offuscata dalle manifestazioni dirompenti degli attivisti e le attiviste pro-Pal.
Le manifestazioni, inizialmente percepite come episodi isolati, hanno assunto una portata crescente man mano che la corsa avanzava verso il nord della Spagna. Nelle città basche, storicamente sensibili alle questioni di autodeterminazione e di giustizia sociale, gruppi di attivisti e attiviste hanno occupato tratti di strada e zone d’arrivo per contestare il team Israel Premier-Tech, considerato simbolo di un legame diretto con lo Stato d’Israele in un momento segnato dal genocidio a Gaza.
Un gruppo di manifestanti, nel corso della cronosquadre di Figueres, aveva letteralmente costretto i corridori del team israeliano ad alzare i piedi dai pedali, occupando tutta la strada al momento del loro passaggio; a Bilbao, durante l’undicesima tappa, decine di manifestanti, armati di bandiere palestinesi e striscioni che recitavano «Free Palestine» e «Stop Israel Apartheid», hanno bloccato l’accesso al traguardo costringendo i giudici di gara a fermare ufficialmente il cronometro tre chilometri prima della linea prevista dell’arrivo. Immagini che hanno fatto, ben presto, il giro del mondo assieme a quelle degli attimi prima della partenza quando i rappresentanti dei corridori si erano riuniti per decidere sull’eventualità di chiedere alla Israel Premier-Tech di abbandonare la corsa.
Eventualità che il patron del team israeliano, Sylvan Adams, aveva categoricamente escluso incassando anche il plauso del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu che sui propri social si era complimentato: «ottimo lavoro a Sylvan e alla squadra ciclistica israeliana per non aver ceduto all’odio e alle intimidazioni. Rendete orgoglioso Israele!». Nonostante quest’intransigenza verbale, il team – il giorno dopo – ha dovuto fare un passo indietro modificando la divisa ufficiale, rimuovendo il riferimento a Israele: «nell’interesse di dare priorità alla sicurezza dei nostri corridori e dell’intero gruppo Israel Premier-Tech ha fornito ai corridori una divisa con il monogramma della squadra per il resto della gara». La proprietà ha insistito che il cambiamento non fosse dettato da ragioni politiche ma solo da questioni di sicurezza, ribadendo che il team non rappresenta ufficialmente il governo israeliano. Tuttavia, la scelta è stata percepita come una resa simbolica: per molti attivisti, il gesto ha rappresentato una vittoria, mentre per i sostenitori del team israeliano è apparso un cedimento alle pressioni di piazza.
Una scelta che, ad ogni modo, non è servita a placare l’ondata di proteste. La sedicesima tappa, in Galizia, è stata ridotta di otto chilometri dopo che alcuni gruppi avevano annunciato, attraverso canali social, l’intenzione di bloccare la salita finale del Castro de Herville. La decisione di accorciare la tappa è arrivata in extremis, con la polizia che ha rafforzato i controlli lungo il percorso e ha utilizzato droni per monitorare i movimenti dei manifestanti. La cronometro di Valladolid, prevista sulla distanza di 27,2 chilometri, è stata drasticamente ridotta a meno della metà: una misura di sicurezza che ha suscitato polemiche, trasformando una prova chiave per la classifica generale in una frazione molto meno impegnativa, segnata più dalla solidarietà con la Palestina che dalla competizione sportiva. Così come la tappa conclusiva della Vuelta, con arrivo a Madrid, che addirittura è stata annullata (così come il cerimoniale della premiazione conclusiva) dopo che a 58 chilometri dalla conclusione un gruppo di manifestanti aveva invaso la strada portando il gruppo a spezzarsi e poi a fermarsi. Corsa che era ripresa per qualche centinaio di metri prima che i corridori fossero nuovamente costretti a fermarsi poiché nei pressi dell’arrivo era in corso una massiccia protesta che ha spinto gli organizzatori ad annullare definitivamente la tappa.
Le proteste che hanno spinto diversi corridori a esprimere pubblicamente la loro preoccupazione per la sicurezza, come già fatto nelle riunioni interne del peloton quando si era discusso della possibilità di un boicottaggio collettivo nei confronti del team israeliano se episodi del genere si fossero ripetuti. Ma ci sono state anche dichiarazioni che, in un certo qual modo, hanno dato sostegno e forza alle mobilitazioni come quelle del vincitore della Vuelta, Vingegaard, che parlando delle proteste lungo le strade ha affermato che «la gente lo fa per una ragione. Quello che sta succedendo a Gaza è terribile. Penso che chi protesta voglia farsi sentire, quindi forse dovrebbero essere i media a dare loro quella voce».
Il dibattito che si è creato attorno alle proteste lungo le strade della Vuelta ha immediatamente oltrepassato i confini dello sport. La Vuelta si è trasformata in un’arena politica, una sorta di palcoscenico globale dove ogni gesto ha assunto un valore non solo simbolico ma anche concreto. Per i manifestanti, il team Israel Premier-Tech rappresenta il cosiddetto «sport-washing», cioè l’uso dello sport per ripulire l’immagine di governi o Stati accusati di violazioni dei diritti umani. Perché nonostante il team sia, formalmente, privato ha chiari ed evidenti legami con il governo israeliano e con quelle che sono le sue politiche.
Non è un caso che proteste simili erano già andate in scena negli altri due grandi giri del circuito Uci. Il Tour de France 2025 ha visto episodi analoghi, con manifestanti che hanno provato a interrompere una tappa vicino a Tolosa e tentato di bloccare il passaggio del gruppo in diverse occasioni. Al Giro d’Italia, le contestazioni sono state altrettanto dirompenti, da nord a sud, anche in ricordo della partenza del Giro 2018 da Gerusalemme, vista da molti come un endorsement alle politiche israeliane ed ennesimo esempio di sportwashing. La Vuelta di quest’anno, però, segna un salto di qualità nella portata delle proteste: il numero degli interventi delle forze dell’ordine, l’intensità delle azioni dimostrative e il coinvolgimento diretto delle autorità politiche la rendono un caso unico nella storia recente del ciclismo.
Quest’edizione della corsa spagnola lascia quindi un’eredità che non deve essere dispersa: le mobilitazioni durante le grandi competizioni sportive internazionali possono essere fondamentali per spostare gli equilibri dei grandi e terribili eventi storici in corso. Aver costretto gli organizzatori a neutralizzare tappe, modificare percorsi e intervenire sull’immagine del team israeliano è la dimostrazione concreta che protestare e boicottare serve, e come se serve. Quello a cui abbiamo assistito nel corso di questa Vuelta è un precedente che deve pesare anche in futuro. Se oggi il ciclismo è stato chiamato a misurarsi con proteste organizzate e capillari, domani altri sport potrebbero trovarsi davanti alla stessa situazione. Sta al movimento di solidarietà con la Palestina renderlo nuovamente possibile.
Le ruote insanguinate dei complici del genocidio non macchieranno le nostre strade!
*Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, fa parte del progetto di Calcio&Rivoluzione di cui è tra i principali promotori. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori del progetto Calcio&Rivoluzione.
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