Blocchiamo tutto. Anche in Europa

Jacobin Italia - Tuesday, September 9, 2025
Articolo di Salvatore Cannavò

Secondo lo storico Fernand Braudel «fu un errore immenso per il socialismo europeo di allora non essere stato in grado di bloccare il conflitto». Ci si riferisce al 1914, un’era geologica fa, e la citazione è riportata nel bel volume di Gilles Vergnon Cambiare la vita? Storia del socialismo europeo dal 1875 a oggi

Potrebbe sembrare un vezzo andare a recuperare quel dibattito storico di cui tutto ormai si sa, compresa la conseguenza della Grande guerra sull’implosione dell’Internazionale socialista nata a Parigi nel 1889, a un secolo esatto dalla grande rivoluzione francese. Se nei documenti iniziali dell’Internazionale la guerra non occupa alcun posto di rilievo, pochi anni dopo al congresso di Basilea del 1912 «invade l’agenda del congresso straordinario» convocato proprio per l’imminenza della guerra. L’idea condivisa pienamente è di fermarla all’insegna dello slogan «Proletari di tutti paesi unitevi», «Guerra alla guerra!». I socialisti appaiono unanimi nel giudizio drastico sulla guerra, intesa come strumento della competizione imperialistica tra gli Stati per la conquista dei mercati mondiali. Ma è condivisa anche l’idea che un’opposizione radicale alla guerra possa essere foriera di una rivoluzione, l’unica in grado di garantire la pace. L’impegno è di utilizzare ogni strumento possibile per arrivare all’obiettivo, ma quello che diviene centrale fin dal 1919, al congresso di Copenaghen, è «lo sciopero generale dei lavoratori soprattutto nelle industrie che forniscono alla guerra i suoi strumenti (armi, munizioni, trasporti)». 

Incredibile come il passare del tempo non renda meno attuali alcune parole d’ordine. Lo sciopero generale occupa il centro della scena, quindi, ma subito si imbatte in una difficoltà inedita, poco compresa all’inizio, ma che costituirà la ragione di fondo dell’implosione socialista allo scoccare della Prima guerra mondiale.

Saranno i delegati della tedesca Spd infatti a sollevare il problema della «desincronizzazione» dello sciopero con differenze di tempistica tra i vari paesi belligeranti. «Il paese che non sarebbe riuscito a organizzarlo [lo sciopero, ndr] avrebbe dato al proprio paese un vantaggio militare potenzialmente decisivo e avrebbe reso l’avversario politicamente ‘più avanzato’ una preda per l’invasione». Insomma, chi sciopera per primo avvantaggia il paese avversario, e alla fine i partiti socialisti decisero di stare ognuno con il proprio paese, il proprio governo, la propria borghesia, con i risultati che conosciamo.

Il racconto è utile perché permette di tornare a ragionare su un’ipotesi di sciopero generale contro la guerra, non paese per paese, ma «sincronizzato» in tutta Europa. Stavolta non ci sono paesi europei schierati l’uno contro l’altro: l’unica obiezione potrebbe essere quella di indebolire l’Europa stessa di fronte all’invasione imminente di Mosca. Ma si tratta con tutta evidenza di un’obiezione risibile anche se, nel clima di corsa alla guerra, di riarmo certosino dell’Unione europea e di militarizzazione-repressione dei vari paesi d’Europa, l’argomento potrebbe essere speso davvero. Ma non sarebbe serio. 

Quello che oggi l’Europa sta attraversando, di fronte a un’iniziativa militare della Russia in Ucraina che va certamente condannata e che costituisce una lesione del diritto internazionale, è una nuova costruzione politica che vuole farsi attorno al tema della guerra per creare quel collante, quella solidità interna e quel progetto unitario che altrimenti latita in ogni campo. C’è anche in molta classe dirigente europea, si veda in particolare il rapporto presentato da Mario Draghi, l’ipotesi-illusione che l’aumento delle spese militari, la solidificazione di un’industria militare europea e un’elasticità della spesa pubblica complessiva – il famoso «debito buono» che proprio Draghi ha ideato – possano costituire un volano positivo per la crescita economica in un continente che dalla fase post-Covid boccheggia su tutti i piani e arranca rispetto al protagonismo trumpiano e alla forza strutturale dei paesi dell’est asiatico.

La guerra sta divenendo quindi l’orizzonte comune europeo e la sua centralità, oltre che gli storici calcoli geopolitici, comportano anche la non volontà dei paesi europei di prendere una posizione morale, o anche solo improntata al diritto internazionale, nei confronti del massacro di Israele verso il  popolo palestinese, quel genocidio che ormai nessun organismo internazionale indipendente ha più remore nel denunciare.

A dare senso a un’ipotesi di sciopero generale, e che sia europeo, internazionale, aggiungiamo, sono stati ii portuali di Genova in occasione del corteo a fianco della Global Sumud Flotilla per Gaza del 31 agosto 2025: «Se anche solo per 20 minuti perdiamo il contatto con le nostre barche, noi blocchiamo tutta l’Europa, dal Porto di Genova non uscirà più nulla», ha detto il rappresentante del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) di Genova, pronunciando parole tanto nette quanto semplici e di ispirazione per qualsiasi sindacato europeo voglia davvero schierarsi a fianco di Gaza e contro la guerra. I portuali genovesi sono impegnati da settimane nella raccolta degli aiuti per Gaza: «Vogliamo dimostrare che il porto di Genova è un porto civile e non di guerra. Vogliamo mandare il segnale che non solo blocchiamo armamenti, ma portiamo anche fisicamente aiuti alla popolazione palestinese» hanno spiegato. La stessa sala, chiamata dei camalli, della Compagnia Unica a Genova è stata trasformata in magazzino per ospitare gli aiuti e squadre di portuali volontari hanno contribuito alla spedizione anche con mezzi e organizzazione.

La parola d’ordine emersa nel vivo di una lotta e di un’azione di solidarietà internazionale – e anche nell’ambito di collettivi come i portuali che da sempre si distinguono per bloccare le navi che trasportano armi verso territori in guerra – dovrebbe diventare la parola d’ordine del sindacato europeo nonché delle forze di sinistra. 

Ma al momento non sembra sia così. L’ultima volta che la Confederazione europea dei sindacati (Ces) ha proclamato un simile sciopero è stato il 14 marzo 2003, alla vigilia dell’attacco statunitense contro l’Iraq, in quella che è stata la guerra decisiva, nel nuovo secolo, per ridisegnare la mappa dei rapporti mondiali. Fu uno sciopero di soli 15 minuti a cui seguì una giornata di mobilitazione il 21 marzo, data di svolgimento del Consiglio europeo, in cui i sindacati manifestarono «non solo la difesa del modello sociale europeo ma anche la concreta mobilitazione per la pace e per l’Europa sociale». 

Oggi non si parla nemmeno di questo, nemmeno di pochi minuti. Nel dibattito conosciuto della Ces non si fa cenno di iipotesi di mobilitazioni contro la guerra e solo la Cgil in Italia sembra impegnata sul serio su questo terreno. Eppure il sentimento di indignazione, per quello che sta accadendo a Gaza ovviamente, ma anche l’indifferenza o l’opposizione per l’aumento siderale delle spese militari deciso all’ultimo vertice Nato, indicano che esiste una volontà precisa per impedire che la guerra diventi la dominante dei prossimi anni. Certo, uno sciopero generale non si proclama per decreto, non si impone dall’alto. Si costruisce nel tempo, si discute a livello di base, si prepara con organismi unitari e plurali, tutte pratiche a cui siamo ormai poco abituati. Eppure il 10 settembre la Francia vivrà l’iniziativa del «Blocchiamo tutto» scaturita spontaneamente in ambiti sociali disparati, in parte eredità dei Gilet Gialli, in parte afferenti a forze della France insoumise o a forze diverse. Il sindacato e la sinistra hanno rilanciato la mobilitazione per il 18 settembre. In Italia la Cgil è già mobilitata per ottobre e comunque nel nostro paese esiste un calendario di manifestazioni d’autunno già molto ritmato (e forse affollato, con scarso coordinamento). La tensione verso mobilitazioni sociali c’è già, quello che sembra scarseggiare è una visione di insieme, uno sforzo di unità tra forze e opzioni diverse e la determinazione a individuare obiettivi unificanti ed emergenziali. 

Il no al progetto di riarmo europeo, alla militarizzazione dei nostri paesi e delle nostre società, la condanna del massacro del popolo palestinese, l’opposizione alla guerra russa senza che questo significhi schierarsi con i progetti di riarmo europeo, sembrano dei punti decisivi. Se nascesse un movimento unitario, sovranazionale, che tramite la richiesta di uno sciopero generale europeo, la ponesse al centro, potremmo proporci di rimediare, per la prima volta dopo più di un secolo, al grave errore dell’Internazionale socialista del 1914. E anche di evitare che la guerra diventi di nuovo la stella polare di un capitalismo in cerca d’autore.

*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme).

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