
Dai nostri corpi esausti e spezzati…
Comune-info - Wednesday, August 27, 2025
“La nostra professione è la speranza… dai nostri corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” con queste parole, trascritte da John Berger, il subcomandante Marcos, ci consegna una delle visioni più profonde e rivoluzionarie della lotta politica contemporanea. Non si tratta di un manifesto ideologico, ma di una dichiarazione esistenziale che ridefinisce il senso stesso della resistenza.
Berger ci ricorda che gli zapatisti non hanno un programma politico da imporre. La loro forza non risiede in un’agenda dettagliata di riforme o in una strategia di conquista del potere, ma in qualcosa di più sottile e potente: una coscienza politica che si propone come esempio. È questa la loro vera innovazione – trasformare la politica da imposizione a ispirazione, da conquista a contagio.
La loro convinzione è quella di rappresentare i morti, “tutti i morti maltrattati…”: la lotta zapatista si fa carico non solo delle ingiustizie presenti, ma di una genealogia di sofferenza che attraversa le generazioni. “Amor y dolore” – amore e dolore – “due parole che non solo fanno rima, ma che si uniscono e marciano insieme”. In questa sintesi poetica si nasconde una verità profonda: i morti non sono vittime passive da commemorare, ma compagni attivi di un cammino che continua. La loro sofferenza, intrisa d’amore per la giustizia e per la propria gente, diventa eredità trasformativa.
I morti zapatisti non reclamano risarcimenti o punizioni – chiedono che la loro sofferenza non sia stata vana. Il loro dolore si trasforma in energia costruttiva, in forza propulsiva verso un mondo che ancora non esiste ma che deve nascere. È una logica generativa. In questa visione, il tempo non è una linea che separa nettamente passato, presente e futuro, ma una spirale dove le generazioni si intrecciano. I morti camminano con i vivi, e i vivi preparano la strada per chi non è ancora nato. Ogni gesto di resistenza, ogni atto di cura, ogni momento di dolore vissuto con dignità diventa parte di un patrimonio collettivo che si trasmette e si moltiplica. Non si tratta di portare sulle spalle il peso del passato, ma di riconoscere di essere parte di un movimento che attraversa le generazioni e che dà senso anche ai gesti più piccoli e quotidiani.
“La nostra professione è la speranza” – Così dice Marcos. Non si combatte solo contro qualcosa, ma per qualcosa che ancora non esiste. La speranza diventa pratica quotidiana, disciplina rigorosa, mestiere che si apprende e si perfeziona.
Dai “corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” – non attraverso la vittoria nel senso tradizionale, ma attraverso una nascita che richiede tutto: vite, corpi, anime. Il sacrificio non è fine a se stesso ma generativo.
Gli zapatisti hanno intuito qualcosa di fondamentale: nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione istantanea, l’esempio può essere più potente della conquista. Una comunità che riesce a vivere diversamente, che dimostra che altri rapporti sociali sono possibili, che pratica la giustizia invece di limitarsi a rivendicarla, diventa un faro per chiunque nel mondo cerchi alternative.
Non si tratta di esportare un modello, ma di mostrare che la trasformazione è possibile. Ogni comunità troverà le sue forme, i suoi ritmi, le sue modalità – ma l’esempio zapatista dimostra che si può vivere la politica come atto d’amore, la resistenza come creazione di futuro, la lotta come professione di speranza. In fondo, continuare la lotta è già una forma di vittoria. Significa che non sono riusciti a spezzare lo spirito, a interrompere la trasmissione di valori, a cancellare la speranza. La continuità stessa diventa atto di resistenza.
I morti zapatisti vivono come semi che germogliano, come energie che si trasformano, come voci che continuano a parlare attraverso i gesti quotidiani di chi porta avanti la loro eredità. In un mondo che sembra aver perso la capacità di immaginare alternative, gli zapatisti ci ricordano che la rivoluzione più profonda potrebbe essere quella di ritrovare il senso del sacro nella lotta politica, non il sacro come dogma immutabile, ma come rispetto profondo per la vita, per i morti che ci hanno preceduto e per i non ancora nati che verranno dopo di noi.
La loro professione è la speranza. E forse, in questi tempi difficili, non c’è mestiere più urgente da imparare.
Mentre il mondo del 2025 si dibatte tra polarizzazioni crescenti, guerre che sembrano non avere fine e la tentazione sempre più forte di rispondere alla violenza con altra violenza, la lezione zapatista risuona con particolare urgenza. Come scriveva ancora Marcos: “Il nostro compito non è quello di vincere, ma di costruire. Non è quello di distruggere l’altro, ma di costruire noi stessi”.
In un’epoca che chiede scelte radicali, forse la vera radicalità sta proprio qui: scegliere di essere semi invece che macerie, di professare speranza invece che seminare disperazione.
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