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Parliamo di piramidi
ABBIAMO BISOGNO DI METTERE IN DISCUSSIONE LE PIRAMIDI NON SOLO DEL SISTEMA CAPITALISTA MA ANCHE LE “NOSTRE” PIRAMIDI, QUELLE CREATE ALL’INTERNO DI ORGANIZZAZIONI CHE RESISTONO AL SISTEMA. “NON È UNA QUESTIONE DA POCO – SCRIVE RAÚL ZIBECHI -, PERCHÉ CI IMPONE DI GUARDARCI ALLO SPECCHIO E SCOPRIRE I SISTEMI OPPRESSIVI CHE CREIAMO QUANDO CERCHIAMO DI CAMBIARE IL MONDO…”. VERSO LO STRAORDINARIO SEMILLERO ZAPATISTA DI FINE ANNO: “DI PIRAMIDI, STORIE, AMORI E, NATURALMENTE, DI CUORI INFRANTI” (TRA GLI INVITATI RAÚL ZIBECHI) Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Pochi giorni fa, l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN) ha annunciato il Semillero “Di piramidi, storie, amori e, naturalmente, di cuori infranti”, che si terrà dal 26 al 30 dicembre presso il Centro Indigeno di Formazione Integrale (Cideci) di San Cristóbal de las Casas, Chiapas. L’annuncio chiarisce che il workshop affronterà il tema delle piramidi non solo all’interno del sistema capitalista, ma anche nei “movimenti di resistenza, nella sinistra e nel progressismo, nei diritti umani, nella lotta femminista e nelle arti” (Convocazione al Semillero 26-30 dicembre 2025). Trovo questo nuovo appello estremamente importante, come quelli precedenti, perché un dibattito rigoroso e approfondito è quasi inesistente all’interno dei movimenti sociali, una situazione che contrasta nettamente con l’impegno dell’EZLN a riflettere mentre si resiste e a creare nuovi mondi che non siano più capitalisti. Rigore non è sinonimo di accademico o di incomprensibile per le persone comuni e organizzate che resistono. Questo è un punto centrale: la riflessione e l’analisi non servono per ottenere attestati o promozioni, ma per rafforzare la resistenza, per renderla più perspicace e responsabile. Un aspetto degno di nota dell’appello all’azione non è solo quello di mettere in discussione le piramidi al vertice (anche se non usano questo termine), ma anche le “nostre” piramidi, quelle create all’interno di organizzazioni che resistono al sistema. Si parla molto delle prime; nulla delle seconde. Solo lo zapatismo ha la volontà e il coraggio di metterle in discussione. Nel pensiero critico e nei movimenti rivoluzionari, errori e orrori vengono solitamente attribuiti a singoli individui (come Stalin in Unione Sovietica), ma strutture come le piramidi, che ispirano partiti e sindacati, ma spesso anche coloro che combattono contro il sistema, non vengono messe in discussione. Se parliamo solo delle piramidi del capitalismo (lo Stato, la polizia, la giustizia, ecc.), tralasciamo le nostre deviazioni ed errori, il che sarebbe fin troppo comodo e poco utile. La verità è che tutte le rivoluzioni hanno costruito piramidi che, come diceva Immanuel Wallerstein, erano adatte a rovesciare le classi dominanti, ma che presto si sono trasformate in ostacoli alla creazione di nuovi mondi. “L’errore fondamentale delle forze anti-sistema nell’era precedente era credere che quanto più unificata era la struttura, tanto più efficace era” (Dopo il liberalismo). Da tempo sappiamo che nuove classi dirigenti post-rivoluzionarie sono state ricostruite dall’alto delle piramidi, impedendo la costruzione di mondi non capitalistici e instaurando regimi autoritari che hanno rafforzato gli stati nazionali. Un merito importante dell’EZLN risiede nell’aver fondato questi dibattiti sulla propria esperienza, su quanto accaduto nell’arco di due decenni in spazi autonomi come le Giunte di Buon Governo, un punto che avevano già sollevato chiaramente e apertamente ad agosto durante l’incontro “Alcune parti del tutto”, nel vivaio di Morelia. All’epoca, scrissi che l’autocritica pubblica dal basso era “un fenomeno assolutamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo” e che in questo modo gli zapatisti ci mostrano “cammini che nessun movimento ha mai percorso prima, in nessuna parte del mondo, in tutta la storia” (L’autocritica zapatista). Oggi non basta riaffermare questa percezione; dobbiamo anche riconoscere che gli zapatisti pongono una nuova sfida: affrontare le piramidi che creiamo alla base. Non è una questione da poco, perché ci impone di guardarci allo specchio e scoprire i sistemi oppressivi che creiamo quando cerchiamo di cambiare il mondo. La sfida è tanto importante quanto complessa. Non credo si tratti di puntare il dito contro chi costruisce le piramidi, ma piuttosto di ragionare e spiegare i problemi che esse comportano, sulla base di oltre un secolo di esperienza storica dalla Rivoluzione russa e un secolo e mezzo dalla Comune di Parigi. Fu dopo la loro sconfitta che il movimento rivoluzionario iniziò a costruire apparati politici centralizzati e gerarchici: i partiti politici. Fino ad allora, la lotta era sostenuta da una galassia di organizzazioni meno gerarchiche, un po’ caotiche, certo, ma non per questo meno combattive. Siamo arrivati a un punto in cui solo gli apparati burocratici e gerarchici sono considerati vere organizzazioni, ovvero istituzioni che si modellano sulle piramidi statali e le riproducono simmetricamente. Ora ci rendiamo conto che questi apparati sono completamente inutili in questi tempi di caos sistemico e servono solo come scale per coloro la cui unica ambizione è quella di raggiungere l’apice del potere statale. Il dibattito a cui ci chiama lo zapatismo promette di essere illuminante in mezzo all’oscurità. Propongono di nuotare controcorrente rispetto al pensiero compiacente della sinistra e del mondo accademico, intrappolato nella logica del capitalismo. Questo è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno per scrollarci di dosso il nostro letargo, impegnarci nell’autocritica e liberarci da vecchie idee/prigioni per poter continuare a camminare attraverso la tempesta. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Parliamo di piramidi proviene da Comune-info.
Oltre i rapporti sociali capitalistici
SE PER UN MOMENTO ABBANDONASSIMO IL VUOTO DELLA CULTURA POLITICA DOMINANTE E ABBASSASSIMO IL NOSTRO SGUARDO, POTREMMO ACCORGERCI CHE LE PIÙ IMPORTANTI STORIE DI CAMBIAMENTO IN PROFONDITÀ DEGLI ULTIMI TRENT’ANNI, DALLE COMUNITÀ ZAPATISTE A QUELLE DEL ROJAVA PASSANDO PER LE RIVOLTE IN ARGENTINA (2001) E GRECIA (2008), NON SOLO HANNO MESSO IN DISCUSSIONE LO STATO E I PARTITI COME MEZZI DI LOTTA, MA LI HANNO CONSIDERATI ANCHE PARTE DEL PROBLEMA. PERTANTO, IL TIPO DI ORGANIZZAZIONE CHE, TRA INEVITABILI LIMITI, HANNO ADOTTANO, DICE ALEJANDRO OLMO, È ASSEMBLEARE E AUTODETERMINATO, FAVORENDO COSÌ PROCESSI DECISIONALI COLLETTIVI E DIRETTI Foto di Desinformémonos (che ringraziamo) -------------------------------------------------------------------------------- Come punto di partenza per affrontare la questione dell’identità e dell’anti-identità nella lotta di classe, mi interessa riflettere sui cambiamenti che si sono manifestati nelle lotte anticapitaliste negli ultimi decenni. Molte di queste ribellioni, rivolte o movimenti di resistenza hanno cominciato a segnare alcune importanti differenze rispetto alle lotte precedenti, soprattutto a partire dall’emergere dello zapatismo nel 1994, ma anche con la rivolta del Rojava del 2011/2 e le rivolte in Argentina del 2001, ad Atene del 2008 e in Cile del 2019 (tra molte altre). In linea di principio, queste esperienze non solo mettono fortemente in discussione lo Stato e i partiti politici come mezzo di ribellione, ma li considerano anche parte del problema. Pertanto, il tipo di organizzazione che adottano è assembleare e autodeterminato, favorendo il processo decisionale collettivo e diretto. Ciò crea un’eccedenza della forma statale; la forma di lotta incentrata sullo Stato stesso viene sopraffatta, generando una rottura con il carattere identitario predominante della lotta di classe. Le forme del capitale La forma-stato è generata dal rapporto sociale capitalista attraverso l’alienazione dell’attività umana in lavoro astratto e produzione di valore. Come parte della logica di questo processo di alienazione, esistono altre forme indicate da Marx, come la forma-valore, la forma-lavoro e la forma-denaro. Queste forme non esistono come qualcosa di statico, ma sono processi o “forme-processo”, come le chiama John Holloway nel suo libro La speranza. In un tempo senza speranza. Quindi, le forme, in quanto processi, sono processi di astrazione, alienazione e contenimento dell’attività vitale umana all’interno dei rapporti sociali capitalistici. Il lavoro astratto, dunque, è il processo di alienazione del lavoro utile (o attività umana liberamente determinata); il valore o valore di scambio è il processo di alienazione del valore d’uso; e la merce, il processo di alienazione della nostra ricchezza (o come dice Marx nei Grundrisse: … l’universalità dei bisogni, delle capacità, dei godimenti, delle forze produttive, ecc. degli individui). Ogni forma è un processo identitario che ci limita e ci contiene, ma questo contenimento è un processo antagonistico. Ciò che è contenuto è in conflitto con la forma; c’è una resistenza anti-identitaria che spinge a traboccare dalla forma. Ciò che è contenuto è in antagonismo con la forma che lo contiene; la lotta di classe è antagonistica. Classe traboccante L’identificazione con la classe, e quindi con il lavoro, è forse l’identificazione più forte, la più naturalizzata e “invisibile”, e quindi quella che costituisce il maggiore ostacolo alla rottura con i rapporti sociali capitalistici. Anche la classe è una forma, un processo identitario che ci definisce come lavoratori, come classe operaia. Pertanto, per affrontare il capitale, dobbiamo traboccare dalla classe; dobbiamo abolire la classe operaia per abolire il capitale. Al contrario, se rimaniamo entro i limiti della classe, possiamo solo aspirare a lottare contro il capitale per ottenere migliori condizioni nella vendita della nostra forza lavoro in cambio di denaro. In altre parole, se lottiamo contro il capitale come lavoratori, cioè già identificati come tali, accettiamo l’alienazione della nostra attività vitale nel lavoro astratto e, pertanto, la lotta sarà per migliorare quella transazione che prima accettavamo come qualcosa di “naturale”. D’altra parte, assumere questa classificazione senza rivelarci e senza tentare di superarla implica rafforzare la stessa relazione sociale che ci racchiude e ci contiene all’interno della classe. Se non superiamo la forma di classe, rimaniamo intrappolati in una lotta di classe basata sull’identità, poiché l’identità di classe si genera dalla conversione della nostra attività in lavoro astratto. L’attività vitale umana è contenuta, negata, all’interno del “processo-forma” di classe, ma come abbiamo detto prima, questo è un processo antagonistico in cui ciò che è contenuto è sempre la resistenza anti-identitaria alla forma. Quindi, mentre è necessario combattere “dalla” classe, dobbiamo anche, e soprattutto, combattere “contro” la classe e superarla. La lotta di classe è anti-identità finché include la ribellione contro la propria classe, contro il processo di classificazione che ci identifica come classe produttrice di valore. Se la lotta di classe è antagonistica, allora non possiamo partire da nessun altro punto se non da quell’antagonismo, cioè da una posizione contraddittoria tra identitario e anti-identitario. Ma da questa tensione generata dall’antagonismo, è importante visualizzare la spinta anti-identitaria che esiste, sebbene negata, come una forza potenzialmente schiacciante contro quella negazione. Su quest’ultimo punto, mi interessa citare qualcosa che John Holloway scrive nel suo libro La speranza. In un tempo senza speranza: Per pensarla come l’apertura della speranza rivoluzionaria, dobbiamo vedere la classe operaia come anti-lavoro e anti-classe, come una dislocazione, un’eccedenza, qualcosa di incontenibile, qualcosa di inconquistato. Per rompere le forme del capitale, dobbiamo creare un’altra relazione sociale. Tornando al punto di partenza sui cambiamenti nelle lotte anticapitaliste, si potrebbe dire che una tendenza anti-identitaria nella lotta di classe sta iniziando a emergere, almeno in via embrionale. In modi diversi, la forma di classe viene sopraffatta in questi processi. Con questo non intendiamo affermare che questa tendenza sia predominante, ma piuttosto che il tipo di organizzazione che emerge in queste nuove lotte prefigura relazioni sociali autodeterminate e genera rotture che mettono in discussione la natura identitaria finora predominante. L’attuale crisi del capitalismo è la crisi delle sue forme, comprese quelle di lotta basate sull’identità. Da questa prospettiva, la caduta dell’URSS può essere vista come parte della crisi di queste forme, ed è probabile che, in seguito al crollo della “speranza” del socialismo reale, si sia creata un’apertura che ha reso possibili i cambiamenti nella lotta di classe in atto. Penso alle rotture con le forme del capitale come a un processo, o meglio, a un controprocesso che crea altre relazioni sociali, “contro e oltre” la relazione capitalista, una comunizzazione che mira a liberare capacità e ricchezza umane. In questo controprocesso, l’assemblea è fondamentale come politica dell’eccesso, come relazione autodeterminata che rompe con l’identità, sostituendo la relazione gerarchica dei partiti politici e delle istituzioni statali. Da questo tipo di auto-organizzazione, è necessario promuovere una nuova associazione tra le persone, una libera associazione che, anziché limitare il potenziale dell’attività umana, consenta, al contrario, il dispiegamento di quelle capacità e forze. In questo processo, si genererebbero rotture con il lavoro astratto (la forma lavoro), che è il nucleo delle relazioni sociali capitaliste e attraverso il quale alieniamo la nostra ricchezza in merci. L’auto-organizzazione in assemblee o comuni è ciò che osserviamo in diverse forme nei governi autonomi locali zapatisti (GAL) o nei cantoni del Confederalismo Democratico in Rojava. È presente anche, seppur in modo più rudimentale e fugace, in molti degli attuali movimenti di resistenza in tutto il mondo, o in recenti rivolte come quelle menzionate all’inizio di questo articolo. Molti di questi processi subiscono battute d’arresto negli eccessi che avevano generato o si dissolvono senza mai emergere in una relazione diversa, riproducendo rapidamente le logiche identitarie contro cui si stavano originariamente battendo. Il grosso problema è che in molti casi combattiamo contro qualcosa in particolare, come l’estrattivismo, il patriarcato o la discriminazione razziale, senza collegare l’oggetto di quella particolare lotta al nucleo che la genera, ovvero il capitale. Estrattivismo, patriarcato o discriminazione razziale non esistono al di fuori del rapporto sociale capitalista. La stessa relazione che cerca costantemente di alienare la nostra attività nella produzione di valore è ciò che genera, ad esempio, l’estrattivismo. Pertanto, se affrontiamo l’estrattivismo senza riconoscere questa connessione, ovvero senza prendere di mira il capitale, allora quella lotta rimane intrappolata nella logica identitaria che il rapporto capitalista impone. Per usare l’eccellente metafora zapatista, non si può combattere nessuna delle teste dell’idra capitalista in particolare senza ignorare il cuore stesso dell’idra. Dobbiamo vedere questa relazione e prendere di mira il cuore dell’idra; altrimenti, le teste dell’idra continueranno a riprodursi. Se siamo contro lo Stato (per fare l’esempio più comune), dobbiamo capire che lo Stato dipende dal capitale. Non possiamo liberarci dallo Stato se non ci liberiamo dal rapporto sociale capitalista, dall’alienazione del lavoro astratto. Quindi, per rompere con le forme identitarie del capitale, è necessario andare contro il nucleo stesso che le genera. Non a caso gli zapatisti usano la metafora dell’idra. Camminano, tra progressi e battute d’arresto, alla ricerca di un altro rapporto sociale, che chiamano “Beni Comuni”. Ciò che cerchiamo qui è di offrire una prospettiva critica e autocritica sulle esperienze di lotta anticapitalista, tenendo conto delle tendenze antagoniste identitarie e anti-identitarie esistenti. Tuttavia, allo stesso tempo, questa prospettiva critica deve permetterci di visualizzare i “risultati” conseguiti, siano essi duraturi nel tempo o fugaci. L’obiettivo è aprire percorsi che permettano di generare relazioni sociali diverse e di creare spazi di autodeterminazione, assembleari e anti-identitari. Liberare la nostra ricchezza dalla forma merce implica simultaneamente la creazione collettiva di altre relazioni sociali, di un altro mondo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato sul numero 4 della Revista Crítica Anticapitalista (dove è apparso con il titolo La classe operaia trabocca) di Comunizar, non-collettivo argentino fratello di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI JOHN HOLLOWAY: > Lotta di classe identitaria e non identitaria -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Oltre i rapporti sociali capitalistici proviene da Comune-info.
CHIAPAS: NUOVI ATTACCHI CONTRO I CARACOLES DELL’AUTONOMIA ZAPATISTA.
Nuovo attacco nel sudest del Messico contro l’autonomia zapatista. L’Assemblea dei Collettivi di Governo Autonomo Zapatisti (Acgaza) riferisce di un attacco, nella seconda metà di settembre 2025, al Caracol 8 “Dolores Hidalgo”, non distante dal Caracol che nell’ottobre 2024 aveva denunciato un’altra aggressione armata, stavolta contro la comunità “6 de Octubre”. “30 persone del municipio di Huixtán, protette dall’esercito federale e dalla polizia municipale di Ocosingo, sono entrate nell’abitato di Belén, dove vivono i nostri compagni basi di appoggio zapatisti, responsabili del lavoro collettivo della regione e del lavoro comune della milpa con i nostri fratelli non zapatisti. Questa proprietà è stata recuperata dal 1994…il 20 settembre “sono arrivati due camion dell’esercito federale, tre camion della polizia municipale di Ocosingo e quattro camion della Procura Generale dello Stato. Hanno distrutto e bruciato le case dei responsabili delle basi di appoggio zapatiste, hanno rubato il mais e chi è rimasto ha continuato a rubare”. La zona attaccata, quella del Caracol 8, non è un luogo qualunque; ha infatti ospitato le recenti iniziative per il 30esimo anniversario dell’inizio della rivoluzione zapatista del 1994 e oggi è al centro del progetto di costruzione di una nuova clinica comunitaria. “Il Chiapas di questi giorni – scrive il nostro collaboratore, Andrea Cegna, sulla newsletter Il Finestrino – è un campo di tensione dove il “comune zapatista” — quel tessuto di relazioni e decisioni collettive che si fa governo e comunità — viene assediato da ogni lato. Il Chiapas è sull’orlo della guerra civile, come tutto il Messico. Guerra che il capitale, con l’uso dello stato, sta portando avanti da quasi 20 anni nel paese con il falso mito dello scontro contro i gruppi criminali dediti alla vendita di droga. Ma le economie legali ed illegali, con la politica, e le forze armate, sono attori di un progetto di controllo di potere che vuole speculare sui territori. Sono parti di una stessa medaglia. L’EZLN resiste e con il comune…fa una proposta di pace al paese, al territorio, al mondo. E nel resistere continua a mostrare, al Messico e al mondo, che un’altra politica è possibile, così come un sistema di organizzazione economico-sociale che rifiuta la logica della proprietà e del privilegio. Le compagne e i compagni zapatisti lo stanno facendo, tutti i giorni, coinvolgendo anche chi zapatista non è”. Su Radio Onda d’Urto il contributo del nostro collaboratore Andrea Cegna, curatore della newsletter Il Finestrino. Ascolta o scarica  
L’autocritica zapatista
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta -------------------------------------------------------------------------------- Abbiamo osservato in diverse occasioni che l’autocritica sta scomparendo dalla sinistra mondiale, persino da coloro che si definiscono rivoluzionari o radicali. L’assenza di una pratica politica centrale tra coloro che vogliono cambiare il mondo è parte del collasso della sinistra e dei movimenti antisistemici. Durante la prima settimana di agosto, abbiamo assistito a uno sviluppo completamente nuovo tra i movimenti che lottano per cambiare il mondo. È accaduto al Semenzaio di Morelia, durante l’incontro “Algunas partes del todo“. Per diversi giorni, hanno messo in scena spettacoli che spaziavano da un’assemblea di morti (coloro che sono caduti nella lotta), insegnando agli zapatisti a non ripetere i vecchi errori, a un dialogo tra persone ancora da nascere (interpretato da cento spermatozoi e ovuli), a cui hanno trasmesso le loro riflessioni. Migliaia di persone hanno potuto vedere e ascoltare gli spettacoli, dai partecipanti nazionali e internazionali alle basi di supporto e ai membri delle milizie. L’aspetto più impressionante è stato il modo in cui sono stati messi in scena gli errori commessi dalle Giunte di Buon Governo e dai comuni autonomi, le varie forme di corruzione, come il furto di fondi collettivi, e gli abusi e le negligenze da parte delle autorità. Un primo punto degno di nota è che centinaia di zapatisti hanno messo in scena gli spettacoli, tutti molto giovani, con un numero uguale di ragazzi e ragazze. Il modo nel quale hanno spiegato e si sono comportati sull’enorme palcoscenico al centro dell’asilo nido (delle dimensioni di un campo da calcio) rivela mesi di prove tra basi di diverse comunità e caracoles, dimostrando un enorme coordinamento tra regioni, scrittura di sceneggiature e prove per un lungo periodo di tempo. Ciò che non si vede mi sembra importante quanto ciò che sentiamo. Ma la domanda che mi sembra quasi incredibile, perché non era mai successo prima e non avevo mai potuto assistervi in oltre 55 anni di attivismo, è come, dove e per chi. L’autocritica è stata resa pubblica, davanti alle basi di sostegno e ai partecipanti messicani e internazionali, così come a coloro che hanno partecipato tramite i social media. È stata condotta da gente comune, giovani zapatisti che hanno messo in discussione i metodi delle proprie autorità. L’hanno drammatizzata con una buona dose di umorismo, il che non significa che non fossero critiche rigorose e profonde, rivelando uno stato d’animo sereno e riflessivo. Nella cultura politica in cui ci siamo formati durante la rivoluzione mondiale del 1968 (come la chiamava Wallerstein), l’autocritica era importante, ma col tempo è diventata quasi inesistente e tutti i mali hanno iniziato a essere attribuiti al nemico. Forse è per questo che il Subcomandante Moisés, che ha parlato più volte durante l’incontro, ha sottolineato che “non tutti i problemi derivano dal capitalismo” (cito a memoria). In genere, se c’è autocritica, questa proviene dalla leadership, mai (ma mai) dalla base. Erano i leader a decidere cosa fosse giusto o sbagliato, e il resto dell’organizzazione seguiva la loro guida. “Ogni base di sostegno dovrebbe essere in grado di criticare il proprio governo”, si diceva in una delle performance. Nello zapatismo, si assiste a una clamorosa inversione di questa pratica gerarchica. L’autocritica non è solo pubblica e aperta, ma anche condotta dal basso. Sarebbe stato molto diverso se fosse stata riassunta in un comunicato. Il fatto che siano stati gli zapatisti di base a farlo dimostra due aspetti chiave: la loro fermezza e coerenza etica, implacabili e ostinate; e la decisione politica che le comunità organizzate debbano stabilire la direzione del movimento. Ciò non significa che il Capitano Marcos, il Subcomandante Moisés o il CCRI (Comitato Clandestino Rivoluzionario Indigeno) non abbiano alcun ruolo, ma piuttosto che abbiano preso la decisione etico-politica di comandare obbedendo, non come slogan ma come pratica concreta e reale, come guida per le loro azioni. Da lì al rovesciamento della piramide c’è stato solo un passo, compiuto anch’esso collettivamente, dal basso verso l’alto. In precedenza hanno ricordato gli aspetti positivi delle Giunte di Buon governo e dei comuni autonomi, perché non sono stati tutti dei problemi, ma sono stati anche una scuola di autonomia. A questo punto, come i partecipanti con cui ho avuto modo di condividere, credo che dobbiamo inchinarci all’EZLN e alle sue basi di appoggio, per la loro coerenza, per essere ciò che sono e per averci mostrato percorsi mai seguiti prima da nessun movimento, in nessuna parte del mondo, nel corso della storia. Il movimento zapatista è una vera rivoluzione, che non gioca con le parole, ma dimostra pratiche di profondo cambiamento, non capitaliste, non patriarcali. Mi sono formato durante gli anni della Rivoluzione Culturale Cinese, a cui ho aderito con entusiasmo perché credevo che fosse la continuazione delle lotte dopo la conquista del potere, a differenza di quanto era accaduto in Unione Sovietica, dove ogni critica dal basso veniva schiacciata. In seguito abbiamo appreso che la mobilitazione di massa era guidata dai leader del partito per risolvere le controversie tra élite, usando le masse, come sempre. Questo è orribile perché il sangue è stato versato dal basso per rafforzare la piramide. In questi tempi di oscurità globale, di genocidio e massacri dall’alto, lo zapatismo è l’unica speranza. Intatto, immacolato, con errori ma senza orrori. È l’eccezione nel piccolo mondo globale antisistemico, e dobbiamo riconoscerlo come tale. Ci sono riusciti senza arrendersi, senza svendersi, senza cedere… e senza deporre le armi. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su Desinformemonos: La autocrítica zapatista -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’autocritica zapatista proviene da Comune-info.
Dai nostri corpi esausti e spezzati…
-------------------------------------------------------------------------------- Foto di Red de Apoyo Iztapalapa Sexta, che ringraziamo -------------------------------------------------------------------------------- “La nostra professione è la speranza… dai nostri corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” con queste parole, trascritte da John Berger, il subcomandante Marcos, ci consegna una delle visioni più profonde e rivoluzionarie della lotta politica contemporanea. Non si tratta di un manifesto ideologico, ma di una dichiarazione esistenziale che ridefinisce il senso stesso della resistenza. Berger ci ricorda che gli zapatisti non hanno un programma politico da imporre. La loro forza non risiede in un’agenda dettagliata di riforme o in una strategia di conquista del potere, ma in qualcosa di più sottile e potente: una coscienza politica che si propone come esempio. È questa la loro vera innovazione – trasformare la politica da imposizione a ispirazione, da conquista a contagio. La loro convinzione è quella di rappresentare i morti, “tutti i morti maltrattati…”: la lotta zapatista si fa carico non solo delle ingiustizie presenti, ma di una genealogia di sofferenza che attraversa le generazioni. “Amor y dolore” – amore e dolore – “due parole che non solo fanno rima, ma che si uniscono e marciano insieme”. In questa sintesi poetica si nasconde una verità profonda: i morti non sono vittime passive da commemorare, ma compagni attivi di un cammino che continua. La loro sofferenza, intrisa d’amore per la giustizia e per la propria gente, diventa eredità trasformativa. I morti zapatisti non reclamano risarcimenti o punizioni – chiedono che la loro sofferenza non sia stata vana. Il loro dolore si trasforma in energia costruttiva, in forza propulsiva verso un mondo che ancora non esiste ma che deve nascere. È una logica generativa. In questa visione, il tempo non è una linea che separa nettamente passato, presente e futuro, ma una spirale dove le generazioni si intrecciano. I morti camminano con i vivi, e i vivi preparano la strada per chi non è ancora nato. Ogni gesto di resistenza, ogni atto di cura, ogni momento di dolore vissuto con dignità diventa parte di un patrimonio collettivo che si trasmette e si moltiplica. Non si tratta di portare sulle spalle il peso del passato, ma di riconoscere di essere parte di un movimento che attraversa le generazioni e che dà senso anche ai gesti più piccoli e quotidiani. “La nostra professione è la speranza” – Così dice Marcos. Non si combatte solo contro qualcosa, ma per qualcosa che ancora non esiste. La speranza diventa pratica quotidiana, disciplina rigorosa, mestiere che si apprende e si perfeziona. Dai “corpi esausti e spezzati deve sorgere un nuovo mondo” – non attraverso la vittoria nel senso tradizionale, ma attraverso una nascita che richiede tutto: vite, corpi, anime. Il sacrificio non è fine a se stesso ma generativo. Gli zapatisti hanno intuito qualcosa di fondamentale: nell’epoca della globalizzazione e della comunicazione istantanea, l’esempio può essere più potente della conquista. Una comunità che riesce a vivere diversamente, che dimostra che altri rapporti sociali sono possibili, che pratica la giustizia invece di limitarsi a rivendicarla, diventa un faro per chiunque nel mondo cerchi alternative. Non si tratta di esportare un modello, ma di mostrare che la trasformazione è possibile. Ogni comunità troverà le sue forme, i suoi ritmi, le sue modalità – ma l’esempio zapatista dimostra che si può vivere la politica come atto d’amore, la resistenza come creazione di futuro, la lotta come professione di speranza. In fondo, continuare la lotta è già una forma di vittoria. Significa che non sono riusciti a spezzare lo spirito, a interrompere la trasmissione di valori, a cancellare la speranza. La continuità stessa diventa atto di resistenza. I morti zapatisti vivono come semi che germogliano, come energie che si trasformano, come voci che continuano a parlare attraverso i gesti quotidiani di chi porta avanti la loro eredità. In un mondo che sembra aver perso la capacità di immaginare alternative, gli zapatisti ci ricordano che la rivoluzione più profonda potrebbe essere quella di ritrovare il senso del sacro nella lotta politica, non il sacro come dogma immutabile, ma come rispetto profondo per la vita, per i morti che ci hanno preceduto e per i non ancora nati che verranno dopo di noi. La loro professione è la speranza. E forse, in questi tempi difficili, non c’è mestiere più urgente da imparare. Mentre il mondo del 2025 si dibatte tra polarizzazioni crescenti, guerre che sembrano non avere fine e la tentazione sempre più forte di rispondere alla violenza con altra violenza, la lezione zapatista risuona con particolare urgenza. Come scriveva ancora Marcos: “Il nostro compito non è quello di vincere, ma di costruire. Non è quello di distruggere l’altro, ma di costruire noi stessi”. In un’epoca che chiede scelte radicali, forse la vera radicalità sta proprio qui: scegliere di essere semi invece che macerie, di professare speranza invece che seminare disperazione. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI RAUL ZIBECHI: > Ascoltare i morti -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Dai nostri corpi esausti e spezzati… proviene da Comune-info.
CHIAPAS, MESSICO: AL VIA “ALGUNAS PARTES DEL TODO”, UN MIGLIAIO DI COMPAGNE-I DA TUTTO IL MONDO A CONFRONTO CON IL MOVIMENTO ZAPATISTA
Al via il 2 agosto 2025 in Chiapas, Sud Est del Messico, l’incontro “Algunas partes del todo”, ossia “Alcune parti del tutto”; per due settimane, un migliaio di compagne-i, in arrivo da 38 Paesi del mondo (Italia compresa), parteciperanno alla “convocatoria” de La Morelia, un incontro internazionale di resistenze e ribellioni: “Questo – scrivono le realtà organizzatrici, ossia “le comunità zapatiste di origine Maya, attraverso il loro Governo Locale Autonomo, il Collettivo dei Governi Autonomi, Assemblee dei Collettivi di Governo Autonomo, INTERZONA e l’EZLN” – non vuole essere “un incontro di analisi o di approcci teorici, ma piuttosto un incontro di esperienze pratiche di resistenza. Chi di noi sarà presente sa già cos’è questo maledetto sistema e cosa fa contro tutti, così come contro la natura, la conoscenza, le arti, l’informazione, la dignità umana e l’intero pianeta. Non si tratta di esporre teoricamente i mali del sistema capitalista, ma piuttosto di ciò che si sta facendo per resistere e ribellarsi, ovvero per combatterlo. Non vi invitiamo a insegnare. Non siamo i vostri studenti o i vostri apprendisti; né siamo insegnanti o tutor. Siamo, insieme a voi, parti di un tutto che si oppone a un sistema. Dare e dare. Voi ci raccontate le vostre esperienze e noi, il popolo zapatista, raccontiamo le nostre”. Su Radio Onda d’Urto dal Messico l’intervista, effettuata poche ore prima del via di “Alcune parti del tutto” (clicca qui per il video della cerimonia inaugurale) Andrea Cegna, nostro collaboratore, di 20zln.org e curatore de “Il Finestrino”, newsletter dedicata in particolare al SudAmerica. Ascolta o scarica
CHIAPAS: IL MOVIMENTO ZAPATISTA LANCIA “ALGUNAS PARTES DEL TODO”. AD AGOSTO INCONTRO INTERNAZIONALE DI “RESISTENZE E RIBELLIONI”
“In Messico le forze in campo si scontrano a un livello inedito e Città del Messico, da santuario sicuro, torna a essere luogo di conflitto aperto. Cosa sta accadendo, quali sono i contendenti, come si stanno posizionando i diversi gruppi criminali – e tra loro pure l’esercito – paiono le grandi incognite del momento. In questo, però, i movimenti sociali – in primis l’EZLN – portano avanti le loro lotte. Zapatiste e zapatisti lanciano un nuovo appuntamento pubblico internazionale, dal 2 al 17 agosto 2025, nel caracol di Morelia“. Così dal Messico, su Radio Onda d’Urto, il nostro corrispondente e collaboratore, Andrea Cegna,  commentando le ultime notizie di cronaca dal Messico; a poche settimana dall’uccisione di due importanti esponenti del governo della Capitale, si è comunque tenuta la giornata di voto nazionale, la prima di questo genere, per eleggere centinaia di giudici in tutto il Paese è stato un flop, con una partecipazione nelle urne attorno al 13%. A urne aperte, scontro a fuoco tra poliziotti e uomini armati non identificati proprio nello Stato meridionale del Chiapas, a Frontera Comalapa: 5 agenti uccisi e il loro veicolo dato completamente alle fiamme. La replica dei poteri statali è la stessa di sempre, ossia più militarizzazione; schierati altri mille agenti in un’altra operazione “anti-narcos”. Altri scontri e morti pure a nord, nel Tamaulipas, dove sono stati uccisi 5 membri della band musicale Grupo Fugitivo, ritrovati cadavere in un terreno a Reynosa, città messicana di 700mila abitanti che confina con la contea di Hidalgo, negli Usa. In questo scenario, viene dai movimenti sociali messicani l’unica risposta reale e dal basso. A muoversi, ancora una volta, è il movimento zapatista che lancia, dal 2 al 17 agosto 2025 a La Morelia, un incontro internazionale di resistenze e ribellioni, chiamata “Alcune parti del tutto”. “Questo – scrivono le realtà organizzatrici, ossia “le comunità zapatiste di origine Maya, attraverso il loro Governo Locale Autonomo (GAL), il Collettivo dei Governi Autonomi (CGAZ), le Assemblee dei Collettivi di Governo Autonomo (ACGAZ), INTERZONA e l’EZLN” – non è un incontro di analisi o di approcci teorici, ma piuttosto un incontro di esperienze pratiche di resistenza. Chi di noi sarà presente sa già cos’è questo maledetto sistema e cosa fa contro tutti, così come contro la natura, la conoscenza, le arti, l’informazione, la dignità umana e l’intero pianeta. Non si tratta di esporre teoricamente i mali del sistema capitalista, ma piuttosto di ciò che si sta facendo per resistere e ribellarsi, ovvero per combatterlo.  Non vi invitiamo a insegnare. Non siamo i vostri studenti o i vostri apprendisti; né siamo insegnanti o tutor. Siamo, insieme a voi, parti di un tutto che si oppone a un sistema. Dare e dare. Voi ci raccontate le vostre esperienze e noi, il popolo zapatista, raccontiamo le nostre”. Clicca qui per il comunicato completo di lancio dell’incontro in Chiapas dell’agosto 2025. Sulla situazione in Messico e la risposta delle comunità zapatiste, su Radio Onda d’Urto il nostro collaboratore e corrispondente, Andrea Cegna. Ascolta o scarica