La destra all’assalto di Milano

Jacobin Italia - Friday, August 22, 2025
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Tuona il cielo di Milano per uno dei tanti temporali d’agosto prima dell’assemblea dei movimenti della città fuori dalle mura del Centro sociale più famoso d’Italia, sgomberato all’alba del 21 agosto. Mentre scriviamo non sappiamo cosa deciderà l’assemblea – anche perché diluvia – ma lo sgombero attuato dalla Questura e ordinato dal Viminale, con rivendicazione del Ministro Piantedosi in persona, meriterebbe un funerale a un’epoca e a un pezzo della storia di questa «città civile». Magari un funerale festante, rigenerativo, come un atto propiziatorio per una nuova generazione di lotte e conflitto. 

Qualcosa in realtà esiste ancora sotto questi cieli visto che sono proprio in maggioranza militanti di altre realtà più «giovani» come Lambretta, Kasciavit, Cantiere, Socs e Collettivi universitari a essere arrivati per primi in solidarietà davanti alle camionette di polizia e carabinieri, insieme ovviamente alla vecchia guardia «sempre presente». In tutto circa duecento persone. Qualche coro: «Leoncavallo vive», «tout le monde deteste la police», «la disoccupazione…», un Bella Ciao, ma nessuno che volesse parlare o decidere il da farsi in mancanza dei rappresentanti del Centro sociale. 

C’erano «le mamme del Leoncavallo» che ovviamente si sono prestate ai media, ma per l’arrivo dello stesso storico portavoce Daniele Farina si sono attese le 13 inoltrate perché era fuori Milano. Nessuno si aspettava lo sgombero evidentemente. Nessuna presenza degli occupanti all’interno del Centro sociale. Nessuna resistenza sui tetti come fu invece per il primo sgombero estivo della storica sede di Via Leoncavallo il 16 agosto 1989 (con 26 arresti, 55 denunce, decine di feriti e la distruzione di tutti i materiali del Centro sociale da parte di carabinieri e polizia).

Nessuno si aspettava lo sgombero, ma la destra, o meglio Fratelli d’Italia, continuava a chiederlo. Ed è una delle chiavi di lettura di questo evento, forse la più determinante in questo momento. La destra vuole Milano, sta provando in tutti i modi a minarne il governo, la rappresentatività, sia tagliandole risorse e progetti, sia con una pressione costante sul tema sicurezza, in concreto con le nomine di prefetto e Questore più sensibili all’agenda della destra e poi con le quotidiane campagne dei suoi media e influencer sulla «città del far west» (su cui c’è poco da strillare visto i dati in realtà in calo dei reati in città prodotti della stessa Questura). 

La destra vuole colpire il sindaco Giuseppe Sala e «la sinistra» che stavano cercando una soluzione «che portasse alla piena legalità tutta l’iniziativa del Centro sociale» come scrive il sindaco in una nota imbarazzata denunciando di non essere stato informato dello sgombero nonostante, appunto, il tavolo aperto dal Comune, l’identificazione di aree per un trasloco e una prossima data fissata dall’ufficiale giudiziario per lo sgombero dell’area (il 9 settembre).

La destra quindi si prende la scena e la sua vendetta sull’odiato Leoncavallo, che già la sbeffeggiava tra rap e antiproibizionismo nel 1994 con l’elezione del primo sindaco leghista di una grande città («da stasera Milano è più nera») e che da allora ne ha fatte davvero tante. Almeno fino a dieci anni fa. Una vendetta sul passato, insomma, che sembra più un atto di debolezza per questa destra che litiga su tutto mentre la città le si offre come un boccone pronto per le prossime elezioni, che però non sa cogliere tra caporali litigiosi e confusi (Salvini e la Russa in primis) e nessun comandante all’orizzonte. 

Lo sgombero diventa allora una bandiera strappata, un conto regolato. Non tanto con i movimenti sociali ma con la politica: col sindaco Sala e gli esponenti del Pd milanese come Pierfrancesco Majorino, definiti «amici» del Leoncavallo. E forse in realtà toglie più castagne dal fuoco del sindaco che può continuare a ribadire «la volontà di mantenere aperta l’interlocuzione con i responsabili delle attività del Centro sociale». E poi decidere se giocarsela o meno anche rispetto ai rapporti di forza col Pd e altri alleati già complicati come mai.

Perché debole è anche il governo della città e i suoi partiti tramortiti da un’inchiesta giudiziaria sull’urbanistica che per anni è stata dibattuta e annunciata in sede politica da chi metteva in guardia partiti e giunta e denunciava la distorsione compiuta della definizione di interesse pubblico nel rapporto con palazzine, volumetrie e tema casa. Adesso lo dice la magistratura con le inchieste e i provvedimenti che evocano la turbativa, l’abuso e il malaffare. D’altronde questa è una città la cui procura sequestra decine di aziende per salari da fame tra logistica, moda, sicurezza e nessuno apre una questione politica sui salari «legali» a 5-6 euro l’ora. Forse non si sono accorti?

A essere onesti, però, anche il Leoncavallo era debole, finito in questo limbo da tempo, diciamo suo malgrado. Da Centro sociale autogestito a spazio pubblico, da bene occupato a bene comune, che pur riconoscendone il percorso politico, sociale, culturale ne cambia la natura e la conflittualità. Il segno dei tempi, ma anche della fine di una conflittualità gestita su spazi, moltitudini e volumi così grandi. Perché uno spazio pubblico così grande costa gestirlo (banalmente riscaldarlo), costa non poco anche legalizzarsi, costa fondare cooperative e continuare a stare sulla cresta dell’offerta culturale in un panorama a dir poco cambiato dagli anni Novanta (per non dire dei Settanta).

Da verbale ci sono 30 giorni per il Leoncavallo per sgomberare tutta la gigantesca area di via Watteau con centinaia di migliaia di euro di arredi, cucine, bar, impianti oltre agli archivi e ai murales definiti di interesse storico e artistico dalle belle arti. Chi lo farà? E a che costo? Ci sono ancora cooperative, artigiani, lavoratrici dentro il Leo. Ci sono professionalità, intelligenze e così via. Cosa decideranno?

In questi ultimi quindici anni, dalla giunta Pisapia, è il Centrosinistra ad aver cambiato il senso del pubblico in questa città, portandolo sempre più vicino a un’intrapresa dal carattere sociale: l’evento, la start-up, la vetrina di quartiere, il bando per lo spazio e tutta la dimensione della partecipazione sono stati declinati nello schema della partecipazione al mercato, nel funzionamento del bilancio e nel costo da remunerare. Più che aggregazione, insomma, assunzione di un rischio economico; più che spazio, impresa. In questo modo sono state ristrutturate cascine, lanciati progetti di quartieri e nuovi luoghi di aggregazione diventati in breve tempo aziende, sempre più competitive nell’offerta di drink ed eventi. E nel frattempo si sono chiusi spazi e luoghi che non stavano al passo (l’ultimo il Museo del Fumetto WoW, moroso col Comune).

Da questo sgombero della destra che si vendica del passato, e del ruolo simbolico, del Leoncavallo, può però nascere una mobilitazione che ne salvi la storia e la memoria, e che apra un’altra fase, un’altra ripartenza, un’altra storia.

*Claudio Jampaglia giornalista, ha lavorato in diversi giornali, riviste e radio e attualmente conduce il mattino di Radio Popolare. Come autore ha scritto libri e realizzato documentari, webdocumentari e podcast. Come comunicatore ha partecipato ai movimenti sociali altermondialisti, per l’acqua pubblica e per la pace, e attualmente collabora con Emergency.

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