
Un secolo di umiliazione europea
Jacobin Italia - Wednesday, July 30, 2025
L’Unione europea ha raggiunto qualcosa di storico. Sono trascorsi 55 anni tra la prima e la seconda Pace di Thorn, che nel 1466 sancì la sconfitta totale dei Cavalieri Teutonici contro il Re polacco. Ci sono poi voluti 26 anni fatali e orribili dal Trattato di Versailles del 1919 all’Accordo di Potsdam del 1945 perché la Germania perdesse il suo diritto all’autodeterminazione. Sono trascorsi circa 21 anni tra la Prima e la Seconda Guerra dell’Oppio, combattute dalle potenze coloniali europee nel XIX secolo per imporre le più brutali condizioni commerciali alla loro colonia cinese. Oggi, alla Commissione europea sono bastati appena 9 mesi per dichiarare due volte la propria resa incondizionata. In questo caso, non è stato nemmeno necessario uno scontro a fuoco.
La prima dichiarazione di resa era stata pronunciata all’unisono con gli Stati Uniti. Quando gli stati capitalisti di entrambe le sponde del Nord Atlantico hanno ritenuto necessario introdurre misure protezionistiche per impedire ai concorrenti cinesi di entrare nei rispettivi mercati nazionali dei veicoli elettrici (così come dei pannelli solari e di altre tecnologie verdi), il segnale era stato evidente.
L’impero Ue aveva preso questa decisione alla fine di ottobre 2024. Con questo messaggio: dato che non siamo più in grado di espanderci nel mercato interno cinese con i nostri veicoli elettrici, e visto che le auto elettriche Made in China Build Your Dreams (Byd) a prezzi accessibili stanno per inondare i nostri mercati interni, dovremmo almeno proteggere questi da una schiacciante concorrenza.
Questa mossa protezionistica la diceva lunga su quanto si fosse indebolita la posizione dell’Europa. Nella Strategia di Lisbona, annunciata nel 2000, l’Ue aveva espresso l’ambizione di diventare la regione economica più competitiva al mondo. Con la Germania al timone, mirava a essere la maggior esportatrice dell’economia mondiale. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e il suo predecessore, l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (Gatt), erano stati fondati dai leader occidentali per creare un’economia globalizzata per conto delle multinazionali occidentali dominanti e più competitive. Il libero scambio è una forma di imperialismo, e le ex potenze colonizzatrici eccellevano in questo. Ma ora è chiaro che la situazione sta cambiando.
La Cina sta arrivando dove i l’Unione sovietica non è arrivata: a raggiungere e risalire la catena del valore e la gerarchia della divisione internazionale del lavoro. Tra i paesi del G8, la Cina è oggi l’ultimo difensore del Wto e, a quanto pare, dal punto di vista dell’imperialismo occidentale, qualcosa non ha funzionato nel quarto di secolo successivo al 2001, data dell’adesione di Pechino al Wto, sebbene ciò sia avvenuto nelle più dure condizioni immaginabili, imposte dalle potenze occidentali.
La strategia di uscita cinese dalla crisi finanziaria globale, incentrata sulla pianificazione strategica dell’elettrificazione dell’economia e sulla creazione di campioni nazionali attraverso una coraggiosa politica industriale, si era dimostrata di gran lunga superiore alla strategia «frega il tuo vicino» basata sull’austerità, adottata sia dagli Stati uniti di Barack Obama che dall’Ue durante la crisi dell’euro. La Cina è uscita dalla crisi come un rivale ipercompetitivo nel settore dell’alta tecnologia, come una forza pari o dominante in molte tecnologie future, dall’intelligenza artificiale ai Big Data alle comunicazioni mobili 5G e 6G, e in particolare alle tecnologie verdi. Anche quando l’Occidente si è reso conto di quanto fosse ipercompetitiva la Cina, la Bidenomics, il Green Deal dell’Ue e la politica economica del cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno cercato di battere Pechino al suo stesso gioco. La strategia di emulazione non ha avuto successo, soprattutto in Europa. La prima resa incondizionata ha riconosciuto questo: se non posso più derubarti, almeno posso proteggere il mio spazio.
Ora arriva la seconda resa incondizionata. Gli occidentali, e soprattutto gli europei, non sono più i migliori in brevetti, macchinari, efficienza economica, infrastrutture pubbliche funzionanti, medaglie olimpiche o soddisfazione popolare. Ma almeno le ex potenze colonizzatrici trionfano moralmente sul resto del mondo (anche se sostengono una guerra genocida, pensando che il resto del mondo non se ne accorgerà). Con la stessa superiorità morale, le élite europee si sono comportate con alterigia dopo il trionfo di Donald Trump nel novembre 2024. La stampa europea lo ha ridicolizzato. “Sta distruggendo gli Stati Uniti, sta distruggendo l’economia mondiale”, si diceva. Ma ora chi ride per ultimo?
Se Trump dice di saltare, l’Ue chiede quanto in alto
La resa incondizionata è stata accompagnata da un avvertimento. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, i paesi europei della Nato hanno annunciato la loro disponibilità a investire il 2% del Pil in futuri armamenti. Tre anni dopo, improvvisamente è stato applicato un obiettivo del 5%. D’ora in poi, la Germania investirà un euro su due del bilancio federale nell’acquisto di armi e infrastrutture pronte per la guerra, nel tentativo di costruire – come ha affermato il cancelliere Friedrich Merz – «l’esercito convenzionale più forte d’Europa». Dietro questa decisione c’erano forse nuove valutazioni del rischio? La Russia è improvvisamente 2,5 volte più minacciosa di quanto non fosse dopo l’invasione dell’Ucraina? Certo che no. La logica è tanto banale quanto eloquente: Trump ha chiesto il 5%, quindi gli europei stanno pagando il 5%. Ciò che serve è una divisione transatlantica del lavoro contro la Cina.
Considerando che ampie fasce della spesa per gli armamenti andranno a riempire le casse dei maggiori produttori di armi, che peraltro sono americani, questo equivale a un importante pacchetto di stimolo militare-keynesiano per gli Stati Uniti. Inoltre, gli europei in questo modo hanno dato a Trump la possibilità di estendere la sua politica degli «accordi» a Giappone, Filippine, Australia e Nuova Zelanda, chiedendo loro di spendere altrettanto e di rafforzare ulteriormente il complesso militare-industriale americano.
Si potrebbe supporre che, con tanta buona volontà e lealtà all’alleanza atlantica, gli europei si sono messi nelle condizioni di raggiungere un «accordo» positivo con Trump. Lui fa «accordi», quid pro quo. Di conseguenza, il governo tedesco ha affermato che un massiccio riarmo avrebbe avuto lo scopo di placare Trump nella disputa commerciale e dissuaderlo dall’imporre dazi doganali elevati all’Ue, come ha annunciato il ministro degli Esteri Johann Wadephul.
Il super-atlantista Merz si è recato negli Stati uniti all’inizio di giugno ingraziandosi il presidente Usa, che intanto minacciava guerra a Panama e in Groenlandia, voleva annettere il Canada e dichiarava guerra all’Iran. Merz gli ha regalato una mazza da golf speciale e un certificato di nascita del nonno tedesco di Trump, parlando di «buoni rapporti» tra i due.
Anche l’ex premier olandese Mark Rutte, oggi Segretario generale della Nato, si è distinto per la sua particolare ossequiosità in un messaggio personale fatto trapelare dallo stesso Trump. Tuttavia, se gli europei speravano che le loro dimostrazioni d’affetto sarebbero state ricambiate dagli Stati uniti, questa convinzione è stata presto delusa. In sostanza, l’«accordo» Nato è stato semplicemente il presagio della seconda resa incondizionata, avvenuta il 27 luglio..
A metà luglio, Trump aveva annunciato per la prima volta un dazio generale del 30% sulle importazioni dall’Ue, in aggiunta ai dazi già in vigore per l’intero settore. I dazi sarebbero entrati in vigore due settimane dopo, il primo agosto.
Trattato diseguale
Quando Trump è arrivato a Turnberry, in Scozia, dove avrebbe dovuto incontrare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha annunciato che l’incontro sarebbe durato al massimo un’ora. Aveva altri impegni importanti, come qualche partita a golf. L’incontro è durato in effetti così poco, prima che Trump e von der Leyen comunicassero il loro accordo. La Commissione europea si era impegnata a spendere circa mille miliardi di dollari in armi, per aiutare gli americani nel loro tentativo di contenere la Cina. Alcune di queste armi saranno donate al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nella sua ormai impossibile guerra di autodifesa – e sempre più di reclutamento forzato – che presumibilmente si concluderà con il presidente russo a dettare le condizioni di pace.
La leadership dell’Ue ha inoltre voluto ringraziare gli Stati uniti per aver presumibilmente affossato l’infrastruttura energetica strategica Nord Stream II, ostacolando così gli acquisti di gas dalla Russia da parte dell’Europa. Si è ora impegnata ad acquistare gas da tecnologia fracking statunitense per un valore di 750 miliardi di dollari, ripartiti nei prossimi tre anni. Infine, l’Ue si è impegnata a investire ingenti capitali esteri diretti negli Stati uniti, per un volume di 600 miliardi di dollari.
Non è chiaro come la Commissione dovrebbe costringere le aziende private a scopo di lucro a impegnarsi a delocalizzare la produzione negli Stati uniti. Allo stesso tempo, data l’enorme differenza nei prezzi dell’energia industriale su entrambe le sponde dell’Atlantico – i prezzi dell’energia in Germania, ad esempio, sono circa il triplo di quelli statunitensi e sette volte superiori a quelli cinesi – non sono necessari ulteriori incentivi per la delocalizzazione dei capitali.
L’Inflation Reduction Act di Joe Biden, con i suoi requisiti a base locale, gli ingenti tagli fiscali per l’1% più ricco rappresentati dal Big Beautiful Bill di Trump e la deregolamentazione ambientale per un’energia ancora più economica sono incentivi sufficienti per una fuga di capitali ancora più massiccia dalle capitali europee a più alto consumo energetico, soprattutto nei settori manifatturiero industriale e farmaceutico. Due anni consecutivi di crescita negativa in Germania la dicono lunga.
In cambio di questi generosi doni offerti a Trump dai funzionari dell’Ue, i capitali statunitensi possono esportare gratuitamente nel Mercato comune europeo – l’Ue ha «aperto i suoi paesi a dazi zero», si è vantato Trump – mentre le aziende con sede nell’Ue che cercano di accedere al mercato interno degli Stati uniti devono pagare tasse di importazione del 15%. Questa è solo l’aliquota base; vari settori, come l’industria siderurgica e dell’alluminio, si trovano ad affrontare dazi devastanti del 50%.
Ecco dunque «the deal». Dopo aver sbaragliato von der Leyen, Trump ha così condiviso la scena con lei per annunciarlo, e i leader dell’Ue si sono presentati per una foto ricordo con ampi sorrisi e i pollici alzati. In realtà, non si tratta affatto di un accordo, ma della formale «Dichiarazione di dipendenza» dell’Europa. Trump, che non si tira mai indietro di fronte ai superlativi, ha potuto, a ragione, definirla «la più grande di tutte». Ha imposto all’Europa lo stesso tipo di «trattato» che le potenze europee avevano costretto la Cina a ingoiare dopo le Guerre dell’oppio.
Von der Leyen ha parlato di un «buon affare», avendo evitato la richiesta massimalista di Trump dei dazi al 30%; il cancelliere tedesco Merz lo ha elogiato come migliore del previsto, elogiandone la straordinaria capacità negoziale nel proteggere le case automobilistiche e farmaceutiche tedesche da danni ancora maggiori. È vero, gli interessi tedeschi sono stati considerati – ed è per questo che i rappresentanti di altri Stati membri dell’Ue ora si lamentano giustamente di essersi cacciati in questo pasticcio solo a causa del surplus delle partite correnti della Germania nei confronti degli Stati uniti. Tuttavia, non è un buon affare nemmeno per il capitale tedesco. I dazi originariamente pagati dalle case automobilistiche tedesche erano di circa il 2%. Un aumento di 13 punti percentuali non promette certo prospettive per un settore già in difficoltà.
Dipendenza europea, moltiplicata per quattro
Le due rese incondizionate dell’Europa rivelano i reali rapporti di forza nell’economia mondiale. La domanda fondamentale è: perché Trump ha avuto successo nei confronti dell’Europa con la stessa strategia che ha fallito così miseramente nei confronti della Cina?
Trump è noto per il suo approccio transazionale alla politica, che gli permette di concludere accordi basandosi sulle sue carte da poker. Quando si è scontrato con la Cina, Trump non aveva carte vincenti da giocare. Pechino aveva tutti gli assi nella manica: dazi di ritorsione del 125%, restrizioni all’esportazione di terre rare – da cui dipendono le aziende automobilistiche e della difesa statunitensi – restrizioni all’importazione di film di Hollywood, divieti di importazione di aerei Boeing e sanzioni speciali contro le aziende statunitensi. Chiunque si aspettasse che la Cina facesse marcia indietro nella guerra commerciale con gli Stati Uniti si è sbagliato.
Invece, ha dimostrato la sua forza. Trump è stato costretto a ritirarsi. Dopo il Trump 1.0 e le misure protezionistiche di Biden contro Pechino, ciò ha dimostrato la sovranità economica appena acquisita dalla Cina e il massiccio spostamento dell’equilibrio di forze dell’economia mondiale, dal Nord e dall’Ovest verso l’Est e il Sud. Ha mostrato i limiti del tentativo degli Stati Uniti di separare la Cina – il principale partner commerciale di oltre 120 paesi – dal resto del mondo.
La seconda resa incondizionata dell’Europa mostra il profondo cambiamento nell’equilibrio di forze transatlantico. Ovviamente, quando gli Stati Uniti hanno annunciato una «partnership nella leadership» per la Germania e gli europei dopo la fine della vecchia Guerra Fredda, permaneva un divario nella loro forza relativa. Eppure, gli Stati uniti hanno preso sul serio l’impero Ue. Il tentativo di George W. Bush di controllare il rubinetto mondiale del petrolio contro tutti i potenziali rivali, era diretto anche contro l’Ue. All’epoca, attraverso l’allargamento a Est, l’Ue stava diventando il più grande mercato comune del mondo, brandendo la nuova moneta comune, l’euro, come potenziale alternativa al dollaro. Pertanto, l’impero americano riuscì a impedire che un allargamento dell’Europa orientale avvenisse al di fuori della struttura di potere Nato degli Stati uniti sull’Europa.
La guerra in Ucraina ha intensificato lo squilibrio nei rapporti di potere nord-atlantici. Da ciò è emerso un nuovo atlantismo asimmetrico e una quadruplice dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti.
In primo luogo, l’annullamento della simbiosi energetica tra Europa e Russia ha reso l’Europa dipendente dal gas da fracking statunitense e dalle infrastrutture dei terminali di gas naturale liquefatto controllati dagli Stati uniti.
In secondo luogo, l’Ue è stata indebolita economicamente e resa dipendente dal mercato interno statunitense, che Trump ora sfrutta con tanto successo per ricattare gli europei. Non si tratta di un’idea nuova: è esattamente il modo in cui Ronald Reagan costrinse il rivale giapponese alla resa totale negli anni Ottanta, innescando decenni di lenta crescita. L’economia Ue, e in particolare l’economia di esportazione della Germania, è oggi in rovina, con scarse aspettative di crescita nonostante il massiccio keynesismo militare. La nuova dipendenza dell’Europa dal gas da fracking statunitense non è solo un disastro climatico rispetto persino al gas e al petrolio russi, ma anche molto più costosa. Inoltre, le élite dell’Ue hanno indebolito l’economia europea con diciotto cicli di sanzioni anti-Russia che si sono solo ritorte contro di loro, avendo sopravvalutato la forza europea.
La guerra economica degli Stati uniti, che mira a separare l’Europa dall’enorme mercato interno cinese attraverso la politicizzazione delle catene di approvvigionamento – anche sanzionando le aziende private europee quando commerciano con la Cina utilizzando componenti americani – ha reso ancora più potente la leva dell’accesso all’altrettanto enorme mercato interno statunitense. Di fatto, nel 2024 gli Stati uniti hanno addirittura sostituito la Cina come principale mercato di esportazione per la Germania, per la prima volta dal 2015.
In terzo luogo, l’Ue è diventata anche geopoliticamente dipendente dagli Stati Uniti. Nel nuovo scontro tra blocchi che gli Stati uniti stanno cercando di imporre al mondo, il pesce più grosso è quello che possiede settecento basi militari in tutto il pianeta e controlla la Nato come la più grande alleanza militare mondiale. Su questa base, gli Stati uniti stanno cercando aggressivamente di salvaguardare il predominio occidentale in un’economia mondiale radicalmente cambiata.
In quarto luogo, il tentativo di usare la potenza militare come ultima risorsa di supremazia significa che il paese che ne trae vantaggio è quello che ospita i cinque maggiori produttori di armi al mondo, e non l’Ue. In altre parole, alla dipendenza energetica, economica e geopolitica dell’Europa si aggiunge anche una dipendenza militare-tecnopolitica. L’«accordo» dettato dagli Stati uniti ai suoi vassalli europei non fa che mettere a nudo questo atlantismo asimmetrico.
Un altro modo
Quindi, non c’erano alternative? Nel breve termine, le élite dell’Ue avrebbero potuto pensare alle carte vincenti che avevano in mano. Eppure, le tasse sui monopoli americani dell’IT e del capitalismo di piattaforma sono state abolite ancor prima dell’inizio dei negoziati. I leader dell’Ue hanno giocato correttamente, sperando nella clemenza.
A lungo termine, quelle stesse élite avrebbero potuto opporsi alla nuova spartizione del mondo da parte degli Stati uniti. Avrebbero potuto cercare autonomamente di attenuare la tensione nella guerra in Ucraina. Le opportunità si sono presentate numerose. Proprio per perseguire i propri interessi, l’Ue avrebbe potuto ricercare un nuovo accordo di pace e sicurezza per l’Europa e l’Asia, comprese Russia e Cina. Invece, le sue élite si sono immerse in un mondo fantastico di imminenti invasioni russe e di una nuova corsa agli armamenti, che sconvolgerà l’Europa economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente.
Sì, la dipendenza dell’Europa dagli Stati uniti è indubbiamente significativa; le risorse di Washington per punire una dichiarazione d’indipendenza europea non sono da sottovalutare. Ma è anche vero che il potere degli Stati uniti nel mondo sta diminuendo.
L’Ue non è stata ben consigliata a lasciarsi spingere dagli Usa a uno scontro economico e militare con la Cina. In realtà sembra che gli europei condividano maggiori interessi con la Cina e persino con il Sud del mondo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto accettare il nuovo multipolarismo come un dato di fatto e prendere l’iniziativa di contribuire a creare un nuovo ordine mondiale multilaterale che prevenga i suoi molteplici rischi in termini di guerre economiche e di altro tipo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto vedere l’ascesa dei Brics come un’opportunità. Invece, l’adesione degli Stati europei ai Brics è fuori questione.
Entrare in una «rivalità sistemica» con Pechino nel 2019, e perseguire questa linea da allora, ha significato schierarsi dalla parte del Grande Fratello americano. Ha anche significato sostenere e soccombere al tentativo degli Stati uniti di bloccare l’ascesa della Cina e del Sud del mondo. Isolati nel mondo, i leader europei si sono ridotti alla mercé di Washington.
Eppure gli Stati uniti hanno dimostrato di non essere un fratello maggiore protettivo. Hanno mostrato agli europei il volto prepotente che mostrano in tutto il mondo da almeno un secolo. Con il nuovo atlantismo asimmetrico, l’Europa viene trattata come un vassallo. Per completare la loro umiliazione, i leader europei continuano a sorridere perché pensano che chi dice «a» debba dire anche «b». Tuttavia, come ha insegnato Bertolt Brecht, questo non è vero: possiamo anche riconoscere che la prima ipotesi, «a», era sbagliata. Ma per riconoscerlo, ci vorranno altri leader, provenienti da un equilibrio politico completamente diverso all’interno dell’Europa stessa.
*Ingar Solty è ricercatore senior in politica estera, di pace e di sicurezza presso l’Istituto per l’analisi sociale critica della Fondazione Rosa Luxemburg a Berlino. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione.
L'articolo Un secolo di umiliazione europea proviene da Jacobin Italia.