Jordan Prosser / Il futuro è già qui
Ci sono esordi letterari che lasciano il segno. È il caso di Big Time, di Jordan
Prosser, che dalla regia e produzione cinematografica è passato alla penna (o
alla tastiera di un computer) per creare una storia ambientata in un futuro
prossimo, nella sua Australia, che immagina divisa all’altezza del 129°
meridiano: nella FREA (Repubblica Federata dell’Australia Orientale), vige un
feroce regime autocratico dalla “giurisdizione remota e assurdamente paranoica”
che ha azzerato i diritti e proibito la scienza, con tanto di gulag e “Legge per
la Purificazione Culturale”. Al centro della vicenda dai vari punti di fuga
(Americhe, Russia, Europa, Giappone) si staglia Julian Ferryman, bassista di una
band pop, gli Acceptables, che, tra liti interne, da commerciale si trasforma in
centro di irradiazione del dissenso.
Tutto ha origine sul volo che dalla Colombia – dopo una vacanza e dove
accidentalmente ha commesso un omicidio – lo riporta in patria, durante il quale
scopre “F”, un potente allucinogeno sintetico che – simbolicamente – si instilla
in gocce oculari, ed è in grado di proiettare la coscienza nel futuro, per lo
più di poche ore; Julian però ha il “dono” di vedere molto più in là, facoltà
che ne determina il destino, facendo di lui un telepredicatore eteroguidato, in
una umanità sempre più alla deriva.
Scandita in quattro parti, un prologo e un epilogo che chiude come un cerchio un
(forse) incubo lisergico, la vicenda si dipana con prosa scorrevole – da
segnalare l’ottima traduzione di Sebastiano Pezzani, il testo presenta non poche
difficoltà, anche per la inventività terminologica – lungo l’arco di alcuni
decenni. Numerosi i personaggi, delineati con tocco lieve che non ne sacrifica
la profondità: le interazioni tra i membri della band e il suo pittoresco
entourage (suggestivo il personaggio di Skinner, manager e tuttofare, stagionato
fricchettone pateticamente fuori epoca), sono convincentemente articolate, in
particolare le dinamiche tra Julian e Ash, carismatico leader del gruppo,
contrastata amicizia venata di tentazioni omoerotiche, e tra i due e Oriana,
legata sentimentalmente ad entrambi nel classico triangolo amoroso, studiosa
degli effetti di F (che non assume, è l’unica che preferisce “vivere il
momento”), cospiratrice e deus ex machina della direzione ribellistica imboccata
dagli Acceptables, creatori di una “musica incendiaria e apertamente politica,
per quanto grezza”.
Nello psichedelico viaggio on the road che copre buona parte del racconto, in
uno scenario da guerra civile dall’allure cyberpunk, tra “allucinazioni
condivise”, “anomalie cronologiche”, “versioni degli eventi”, “scommesse con più
alternative”, Julian è il tipico narratore unreliable: le sue visioni
frammentate indotte dalla droga attingono ad un grado di surrealtà. Ma i livelli
del racconto sono molteplici, a partire dalla voce narrante che si rivolge
direttamente al lettore con l’uso del presente, quella di un suo amico aggregato
al tour della band, che nella quarta parte afferma metaletterariamente la
propria scomparsa, cedendo il posto alla narrazione in terza persona. Insomma,
un ibrido narrativo, pieno di flashback e punteggiato di brani di canzoni, che
se da un lato si espone al rischio di una certa confusione formale, dall’altro è
rispecchiamento stilistico di uno dei motivi indagati dall’autore: il
disorientamento esistenziale, la difficoltà di apprendere e trasmettere il reale
a causa dell’impatto invasivo della tecnologia, della manipolazione delle
coscienze, che rendono inattingibile la verità, nella lezione, ben assorbita da
Prosser, di un Philip Dick. Una presenza ben discernibile insieme a quella di
William Burroughs e James Ballard, per quel certo filone della science fiction
che predilige lo spazio interiore dell’uomo a quello esterno, ed anche di
Borges, con le sue suggestioni alephiane, la vertigine della numerologia, delle
coincidenze e delle combinazioni infinite.
Di viaggi nel tempo la letteratura abbonda, ma Prosser trova il modo di
attualizzare questo espediente letterario e metterlo al servizio del romanzo
sociale. La possibilità di vedere ciò che accadrà genera un effetto dirompente:
non più spazio della possibilità, il futuro si restringe in una trappola che
riduce i margini di libertà, svuota di senso il momento presente privando di
significato le decisioni, le scelte. Una dinamica che genera un senso di
fatalismo e impotenza, un blocco emotivo e relazionale: “Stupefacente” riflette
Julian “quanto, nonostante il dono delle preveggenze, tu possa sentirti
paralizzato dall’indecisione”.
Tramite F, quindi, si invita il lettore a riflettere sul modo in cui le nostre
aspettative plasmano la realtà, sulla consapevolezza che si ha o meno del reale,
sulla libertà di scelta; e sulla natura del tempo, “big” in ogni senso,
considerato “come un essere vivente”, lui sì consapevole “di essere osservato,
manomesso e modificato. Esplorato, abusato e dissacrato”, dunque “sempre meno
affidabile”. In balia della “tirannide della temporalità”, l’umanità qui
rappresentata opera “una violazione senza precedenti dell’ordine naturale
dell’universo”, con conseguenze esiziali: “abbiamo manomesso i confini naturali
della nostra esistenza e delle nostre conoscenze, confini presidiati dal tempo”.
L’esplorazione – narrativa e filosofica – della percezione temporale in un
contesto distopico si rivela vincente: vedere nel futuro trasforma il flusso
temporale in uno spazio narratologicamente sempre riscrivibile, in una critica
al vetriolo: Big Time è una pungente metafora della condizione umana
contemporanea – in ciò ravvisiamo il suo più autentico significato. La
rappresentazione della FREA come stato retro-fascista, i temi della sorveglianza
di massa, della manipolazione dell’informazione, della mercificazione
dell’esperienza umana, offrono una chiara visione di una realtà in cui siamo già
immersi, motivi afferenti appunto alla tradizione del romanzo sociale, qui
arricchito da humor nero, dal grottesco e dal surreale, che conferiscono un
distintivo sapore a queste pagine, come nel caso delle visioni collettive di un
presunto paradiso post mortem, che lasciamo alla scoperta del lettore.
Ma che il romanzo sia una “ode antifascista al potere della musica pop”, come si
legge sul sito dell’editore italiano, è dubbio e fuorviante. La critica proposta
dal suo autore è ben più smaliziata; la lotta al sistema degli Acceptables
(nome, ormai sarà chiaro, ironico) fallisce miseramente: i fan a cui il
messaggio sovversivo dei loro testi è rivolto appaiono zombizzati, avvolti in
una catatonia percettiva: “Quand’è stata l’ultima volta in cui avete pensato con
la vostra testa?” è solito chiedere provocatoriamente il frontman, Ash, al suo
pubblico. La rivolta, in un mondo che è “una simulazione in 3D della vita”, in
cui “le celebrità sono diventate criminali, i banchieri sono diventati celebrità
e i criminali l’hanno fatta tutti franca”, avviene infine con distruttiva
virulenza ma non passa dalla musica o dall’arte: il concetto della loro
intrinseca rivoluzionarietà, romantico retaggio della temperie culturale dei
gloriosi Sixties, è solo un nebuloso ricordo nella società postmoderna e
tardo-capitalista qui tratteggiata, e ciò conferisce una spietata lucidità al
romanzo.
In definitiva, Big Time ci pare un’opera ambiziosa, che fa tesoro della
tradizione fantascientifica distopica cercando per certi versi di superarla,
radicandosi nell’esperienza, politica ed economica, della contemporaneità. Il
risultato è una sorta di “incubo” che, alla luce della devastante esperienza del
Covid (nel testo il riferimento è diretto), dei pestiferi venti di guerra che
gelano il mondo, dei rischi suscitati dal proliferare di tecnologie distruttive
della privacy e minacciose per le nostre stesse intelligenze, del tramonto dei
principi e dei valori democratici che hanno segnato una lunga stagione
dell’Europa e del mondo occidentale, assume una concretezza allarmante. Questo
parto della fantasia appare più reale di quanto osiamo immaginare, e la sua
conclusione, che magari non soddisferà alcuni lettori per la sua visionarietà
pessimistica, ci sembra la degna, coerente chiusa di pagine spaventose e
avvincenti. In fondo, “in queste cose ci siamo tutti”, tutti siamo “una forma su
una sfera in orbita nel tempo”.
L'articolo Jordan Prosser / Il futuro è già qui proviene da Pulp Magazine.