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Dora Šustić / Il demone nella mente
«La scrittura in realtà non è nient’altro che un suicidio dilatato nel tempo», scrive Dora Šustić ne I cani, potente esordio letterario dell’autrice croata, impegnata anche nel campo cinematografico come regista e sceneggiatrice. Scrivere è vergare una lettera d’addio, ritardare la fine, scrivere è frugare in un vecchio cassetto per trovare i documenti che confermino il nostro esistere, scrivere è esorcizzare le ossessioni che abitano l’anima. “È tutto nella mia testa. La mente è un demonio”, afferma la protagonista cercando di arginare il flusso di pensieri che l’assale. Sin dalle pagine iniziali capiamo che la morte è onnipresente nel libro: compare nel suicidio dell’ignoto che si getta sotto il treno per ragioni oscure, nella figura della zia Margita, lanciatasi dalla finestra a sedici anni per un amore non corrisposto, nella professione del padre di Dora, un anestesista impegnato a “intorpidire la carne” combattendo una lotta impari con la sofferenza per domare il corpo, riducendo il trauma del passaggio verso l’ignoto. I cani del titolo, i galgos, sono la materializzazione del dolore che perseguita la protagonista. Un incontro casuale con un uomo più grande di lei, segnato da un’esperienza terribile, le ha lasciato in eredità il progetto di un libro fotografico in bianco e nero, abitato da randagi votati a un destino crudele che li vede combattenti spietati o vittime sacrificabili. In un pellegrinaggio che è anche una fuga verso l’ignoto, Dora si cala nelle nebbiose atmosfere praghesi, per poi approdare nell’assolata Cadice, dove la paura della morte viene sconfitta con il flamenco. L’irruenza della giovinezza viene descritta con toccante sincerità, così come la sessualità femminile, indagata in tutti i suoi aspetti con cruda franchezza. Non a caso l’epigrafe del libro reca la firma di Virginia Woolf, autrice refrattaria alle convenzioni sociali della propria epoca, costantemente dedita alla conquista di una propria irrinunciabile autonomia. Dora percepisce il pericoloso baratro dentro sé stessa, nel quale rischia di precipitare, ma la sua forza proviene dal legame con tutte le altre donne. Un vincolo che spazza via la solitudine. Dora ama Leon perché è diverso dagli altri uomini, anche se la contagia con la sua tristezza quasi fosse una malattia venerea; Leon è anche un artista senza un’occupazione stabile, uno straniero che verrà sempre visto con sospetto nell’Europa occidentale. A questo punto la scrittrice, facendo separare gli amanti e impedendo un loro ricongiungimento, anche se probabilmente effimero, introduce nel libro la tematica delle migrazioni e dell’estraneità, particolarmente sensibile nel nostro tempo. Ci troviamo di fronte a uno scenario nel quale le barriere proliferano, scavando un solco fra gli esseri umani, consegnandoli alla solitudine più crudele della quale i galgos sono il simbolo. Il romanzo è prima di tutto una confessione, un viaggio all’interno dell’io e delle proprie ossessioni, un percorso irto di spine verso la conquista della libertà. L'articolo Dora Šustić / Il demone nella mente proviene da Pulp Magazine.
Elizabeth Gonzales James / Messico e nuvole
Le cento vite di Antonio Sonoro di Elisabeth Gonzales James è un romanzo western attraversato, come una vena d’oro, dal realismo magico, differenziandosi così dalla classica proposta di genere. La scrittrice usa come innesco narrativo, ispirandosi liberamente, la storia vera del bisnonno e da questa potenziale scintilla esplosiva struttura il libro mescolando la più crudele malvagità alla sua necessaria redenzione. Chi è Antonio Sonoro? Il romanzo in inglese porta il titolo di The Bullet Swallower, tradotto alla lettera in italiano, “Colui che ingoia proiettili” ed è questo il soprannome del primo personaggio che incontriamo in un incipit quasi cinematografico, il Mangiapallotole, El Tragabalas. Il libro si sviluppa in un preciso arco temporale, dal 1895 fino ad arrivare al 1964, e Antonio a fine 1800 è l’ultimo di una stirpe di minatori, banditos, di sfruttatori, nato con l’oro negli occhi e una pistola in mano. «Alferez Antonio Sonoro era nato con l’oro negli occhi e le pagliuzze gli bruciavano così tanto che sbatteva le palpebre in continuazione e portava sempre in tasca una fiala di soluzione salina. Dei quattro fratelli Sonoro era l’unico a recare quel segno, e i suoi genitori lo consideravano una benedizione, una prova incontestabile del favore divino.» Antonio vive rubando, non ha ricchezze né speranze, nella sua baracca con la moglie, i figli e il fratello Hugo, osserva da lontano le rovine della vecchia hacienda di famiglia, immagine spietata e vera del passato disumano dei suoi avi. Tutto cambia quando, verso Houston, durante un assalto con il fratello viene fermato e quasi ucciso dai Texas Rangers e da questo fatto il destino esige la prima rata di redenzione, ma il Mangiapallottole alterna piani di vendetta per l’uccisione del fratello a sogni di riscatto e salvezza. La seconda parte del romanzo è ambientato nel 1964: Jamie Sonoro, nipote di Antonio, è una star del cinema, vive a Città del Messico con la moglie, i figli e il padre Juan Antonio. Il figlio di Jamie viene punto da uno scorpione e si offre per aiutare la famiglia Sonoro, un personaggio arcano ed enigmatico, Remedio, una figura tutt’altro che secondaria, l’alone che lo avvolge sembrerebbe quello di chi traghetta le anime dall’aldilà. La vita di Jamie si complica ancor di più quando apprende – grazie a una donna che gli dona un libro intitolato La Storia Ignominiosa della Famiglia Sonoro dall’antichità ai giorni nostri – che Remedio ha sempre gravitato nelle generazioni, in tutti questi anni, nella sua famiglia. «Sai, la Bibbia dice che i figli pagheranno per i crimini dei genitori.» Dalla trama si evince, come evidenziato sopra, che non si può ridurre questo romanzo al solo genere western; vi sono sì tutti gli ingredienti indispensabili: sparatorie, scenografie azzeccate, tensione narrativa, ma è la parte spirituale, enfatizzata dal realismo magico nella figura di Remedio, che dona spessore a una narrazione che è sicuramente quella dell’intrattenimento, pur intensificandosi per i temi trattati. Il destino e la corsa del tempo, i bivi e i binari che realmente possono essere paralleli ma che nella parte immaginifica non li sono mai. La prosa di Gonzales James è sicura, come lo è la struttura di questa saga famigliare dalle diverse sfaccettature.     L'articolo Elizabeth Gonzales James / Messico e nuvole proviene da Pulp Magazine.
Akira Higashiyama / Il giovane Qiu Sheng
Se l’uomo, come sostiene il filosofo e antropologo René Girard, non può rinunciare completamente alla violenza, allora “da questo mondo non scomparirà mai la guerra, né si spezzerà la catena delle vendette”. Pensieri e riflessioni che solcano l’anima di Ye Qiu Sheng, protagonista di Ryu di Akira Higashiyama, un romanzo di formazione ma anche un’opera complessa che cerca di districarsi negli abissi della storia. Lo scenario è quello di Taiwan, oggi tornata alla ribalta delle cronache per l’acuirsi delle tensioni con la Cina, un territorio popolato dai cosiddetti waishengren, ovvero gli immigrati giunti dal continente a partire dal 1945, e i benshengren, nativi taiwanesi di etnia han che hanno vissuto la colonizzazione giapponese. Il dominio nipponico, iniziato nel 1895 e concluso solo con la fine del Secondo conflitto mondiale, segna un’intera generazione, in seguito disorientata dall’improvviso mutamento degli scenari. L’isola, da questo punto di vista, è un microcosmo percorso da tensioni etniche e problematiche identitarie, un terreno di scontro, un luogo dove dominano le armi e la violenza. In tale ambito si muove il protagonista, espulso dalla scuola, refrattario alla disciplina militare, il cui coinvolgimento in sparatorie e rivalità fra bande locali ne simboleggia il carattere ondivago, esposto ai capricci della storia. La sua alterità è segnata da un dato linguistico: non parla bene come gli altri studenti il taiwanese, ma la sua lingua madre è il cinese standard. Qiu Sheng vive freneticamente gli anni dell’adolescenza, tra i rimproveri e le botte dei genitori, che non condividono le sue scelte, e le esperienze estreme alle quali viene sottoposto. Motore del romanzo è il ritrovamento del corpo del nonno, assassinato da mani misteriose all’interno del suo negozio. Un uomo con un passato oscuro, responsabile di massacri e uccisioni, che amava dilettare il nipote con i propri racconti guerreschi. “Il partito Comunista e quello Nazionalista facevano entrambi le stesse cose. Ogni volta che mettevano piede in un villaggio altrui, rubavano soldi e cibo. … Così è la guerra”, parole che denunciano l’insensatezza di ogni conflitto. La pistola Mauser costudita gelosamente materializza quella brutalità che, una volta incontrata, non si può più sfuggire. Il nonno vanta la protezione della Dea volpe, sorta di creatura folklorica e fiabesca che sembra estendere il proprio influsso benefico anche sul nipote. Dal punto di vista stilistico, la narrazione si avvale di un registro a metà strada fra il magico e il reale, senza rinunciare a notazioni colme di ironia. Ne risulta un quadro variegato, dagli accesi cromatismi orientali, non esente da influssi filmici, evidenti nel ritmo sostenuto di alcune scene e nella minaccia onnipresente della violenza. Mettendosi ossessivamente sulle tracce degli assassini di suo nonno, Qiu Sheng è alla ricerca di sé stesso, della propria incerta identità, delle origini dell’inquietudine che lo tormenta, perché “i nostri cuori restano sempre impigliati in qualcosa del passato”, con imprevedibili conseguenze.   L'articolo Akira Higashiyama / Il giovane Qiu Sheng proviene da Pulp Magazine.
Amity Gaige / L’entroterra materno
Amity Gaige – scrittrice americana conosciuta dal pubblico italiano attraverso la pubblicazione dei suoi romanzi a cura di NNE – costruisce un romanzo a tre piani, dove ogni porta conduce a una donna diversa, a una madre differente e a un dolore nuovo. A metà tra un romanzo e un giallo, Il cuore della foresta, con la traduzione di Valentina Daniele, è una ricerca nel mondo esterno che segue la mappa profonda di un’insperata guarigione interiore. Valerie Gillis è un’infermiera di quarantadue anni e sta affrontando il Sentiero degli Appalachi, la catena montuosa che corre lungo la costa orientale degli Stati Uniti per tremila chilometri, quando scompare nel Maine. Il Corpo Forestale, capeggiato da Beverly Miller, inizia subito una ricerca su vasta scala, coprendo ogni giorno un’area sempre più vasta di quel fitto bosco. Nel frattempo Lena Kucharski, una donna di settant’anni che vive le sue giornate in un istituto con altri anziani, apprende da un ragazzo con cui ha avviato un’amicizia online della scomparsa di un’escursionista, così simile a quell’unica figlia dimenticata nei meandri della memoria. Valerie ha un lavoro che richiede l’intero ecosistema di emozioni e pensieri del corpo umano, lasciando il suo sé più intimo agonizzante, annaspando per trovare un salvagente di sollievo. Un giorno prende uno zaino con l’essenziale per affrontare quel cammino lungo mesi di sudore e fatica, e un passo dopo l’altro il peso dello zaino si sdoppia. Ora a Valerie sembra che tutti i compagni di quel sentiero impossibile stiano portando un dolore, un senso di colpa, una ricerca come un secondo zaino. Incredibilmente, però, quel peso al petto si allenta e quel cuore opaco sembra sulla strada dell’integrità, della leggerezza. Lungo il corso del romanzo la voce di Valerie non sarà mai ovattata, ma sempre presente attraverso il suo diario: un dialogo epistolare unilaterale con la madre. L’affetto di Valerie per la donna che l’ha messa al mondo e cresciuta, protetta dalle insicurezze della vita e dal buio di cui ha sempre avuto così tanta paura, è un sentimento commovente nella sua purezza. Niente sembra scalfirlo, nemmeno la vicinanza con la morte; acquisisce vigore e rimembra la serenità dell’abbraccio materno nel mezzo di quel bosco così buio. Beverly ha delle spalle irrobustite da una vita vissuta appieno nella familiarità dei boschi: una vita di coraggio, per essere riuscita ad entrare in un mondo esclusivamente maschile quale il Corpo Forestale, ma anche una vita di responsabilità. Figlia maggiore di una madre troppo fragile che mira a vivere giorni sempre uguali nella loro semplicità, Beverly sente la libertà della foresta, il richiamo a uno scopo più grande: così, un passo dopo l’altro, lascia il nido materno, cercando di guardare attraverso il fitto dei boschi il significato di ogni cosa. Lena è una donna che cerca di vivere i propri anni fragili quanto più a contatto con la natura possibile: nel giardino dell’istituto in cui vive ha abbastanza tempo per informarsi e cercare erbe sempre diverse. Non nutre un particolare affetto per gli altri compagni dell’istituto, focalizzando il suo interesse verso vacue presenze online. Nutre, però, un dolore sordo ma persistente, un pensiero fisso relegato in un angolo remoto della sua mente, risvegliato con la scomparsa di Valerie Gillis: l’allontanamento della figlia Christine. Le vite di Valerie, Beverly e Lena non hanno nulla in comune, o quasi: forse il nucleo delle loro vite, sia da madri che da figlie, è il medesimo. Gaige soppesa la parola maternità, risaltando le varie ramificazioni che puntano verso quel vasto cielo dell’essere madre e dell’essere figlie, un cielo che prende sfumature diverse: sereno e limpido, come per Valerie; grigio e torbido, come per Beverly; tempestoso, come per Lena. Qualunque sia il colore che riempie il disegno dell’albero familiare, quel legame viscerale da cui tutti noi proveniamo è resiliente, talvolta silenzioso, talvolta arriva come un boato inaspettato. Ma “l’amore, non il dolore, è la madre. L’amore è la radice”. Il cuore della foresta è un romanzo di ricerca attraverso l’amore e il dolore, di ritrovamenti, di riconciliazioni, di esplorazioni nel passato per trovare un luogo di quiete nel presente. L'articolo Amity Gaige / L’entroterra materno proviene da Pulp Magazine.
Jordan Prosser / Il futuro è già qui
Ci sono esordi letterari che lasciano il segno. È il caso di Big Time, di Jordan Prosser, che dalla regia e produzione cinematografica è passato alla penna (o alla tastiera di un computer) per creare una storia ambientata in un futuro prossimo, nella sua Australia, che immagina divisa all’altezza del 129° meridiano: nella FREA (Repubblica Federata dell’Australia Orientale), vige un feroce regime autocratico dalla “giurisdizione remota e assurdamente paranoica” che ha azzerato i diritti e proibito la scienza, con tanto di gulag e “Legge per la Purificazione Culturale”. Al centro della vicenda dai vari punti di fuga (Americhe, Russia, Europa, Giappone) si staglia Julian Ferryman, bassista di una band pop, gli Acceptables, che, tra liti interne, da commerciale si trasforma in centro di irradiazione del dissenso. Tutto ha origine sul volo che dalla Colombia ­­– dopo una vacanza e dove accidentalmente ha commesso un omicidio – lo riporta in patria, durante il quale scopre “F”, un potente allucinogeno sintetico che – simbolicamente – si instilla in gocce oculari, ed è in grado di proiettare la coscienza nel futuro, per lo più di poche ore; Julian però ha il “dono” di vedere molto più in là, facoltà che ne determina il destino, facendo di lui un telepredicatore eteroguidato, in una umanità sempre più alla deriva. Scandita in quattro parti, un prologo e un epilogo che chiude come un cerchio un (forse) incubo lisergico, la vicenda si dipana con prosa scorrevole – da segnalare l’ottima traduzione di Sebastiano Pezzani, il testo presenta non poche difficoltà, anche per la inventività terminologica – lungo l’arco di alcuni decenni. Numerosi i personaggi, delineati con tocco lieve ­che non ne sacrifica la profondità: le interazioni tra i membri della band e il suo pittoresco entourage (suggestivo il personaggio di Skinner, manager e tuttofare, stagionato fricchettone pateticamente fuori epoca), sono convincentemente articolate, in particolare le dinamiche tra Julian e Ash, carismatico leader del gruppo, contrastata amicizia venata di tentazioni omoerotiche, e tra i due e Oriana, legata sentimentalmente ad entrambi nel classico triangolo amoroso, studiosa degli effetti di F (che non assume, è l’unica che preferisce “vivere il momento”), cospiratrice e deus ex machina della direzione ribellistica imboccata dagli Acceptables, creatori di una “musica incendiaria e apertamente politica, per quanto grezza”. Nello psichedelico viaggio on the road che copre buona parte del racconto, in uno scenario da guerra civile dall’allure cyberpunk, tra “allucinazioni condivise”, “anomalie cronologiche”, “versioni degli eventi”, “scommesse con più alternative”, Julian è il tipico narratore unreliable: le sue visioni frammentate indotte dalla droga attingono ad un grado di surrealtà. Ma i livelli del racconto sono molteplici, a partire dalla voce narrante che si rivolge direttamente al lettore con l’uso del presente, quella di un suo amico aggregato al tour della band, che nella quarta parte afferma metaletterariamente la propria scomparsa, cedendo il posto alla narrazione in terza persona. Insomma, un ibrido narrativo, pieno di flashback e punteggiato di brani di canzoni, che se da un lato si espone al rischio di una certa confusione formale, dall’altro è rispecchiamento stilistico di uno dei motivi indagati dall’autore: il disorientamento esistenziale, la difficoltà di apprendere e trasmettere il reale a causa dell’impatto invasivo della tecnologia, della manipolazione delle coscienze, che rendono inattingibile la verità, nella lezione, ben assorbita da Prosser, di un Philip Dick. Una presenza ben discernibile insieme a quella di William Burroughs e James Ballard, per quel certo filone della science fiction che predilige lo spazio interiore dell’uomo a quello esterno, ed anche di Borges, con le sue suggestioni alephiane, la vertigine della numerologia, delle coincidenze e delle combinazioni infinite. Di viaggi nel tempo la letteratura abbonda, ma Prosser trova il modo di attualizzare questo espediente letterario e metterlo al servizio del romanzo sociale. La possibilità di vedere ciò che accadrà genera un effetto dirompente: non più spazio della possibilità, il futuro si restringe in una trappola che riduce i margini di libertà, svuota di senso il momento presente privando di significato le decisioni, le scelte. Una dinamica che genera un senso di fatalismo e impotenza, un blocco emotivo e relazionale: “Stupefacente” riflette Julian “quanto, nonostante il dono delle preveggenze, tu possa sentirti paralizzato dall’indecisione”. Tramite F, quindi, si invita il lettore a riflettere sul modo in cui le nostre aspettative plasmano la realtà, sulla consapevolezza che si ha o meno del reale, sulla libertà di scelta; e sulla natura del tempo, “big” in ogni senso, considerato “come un essere vivente”, lui sì consapevole “di essere osservato, manomesso e modificato. Esplorato, abusato e dissacrato”, dunque “sempre meno affidabile”. In balia della “tirannide della temporalità”, l’umanità qui rappresentata opera “una violazione senza precedenti dell’ordine naturale dell’universo”, con conseguenze esiziali: “abbiamo manomesso i confini naturali della nostra esistenza e delle nostre conoscenze, confini presidiati dal tempo”. L’esplorazione ­– narrativa e filosofica­ – della percezione temporale in un contesto distopico si rivela vincente: vedere nel futuro trasforma il flusso temporale in uno spazio narratologicamente sempre riscrivibile, in una critica al vetriolo: Big Time è una pungente metafora della condizione umana contemporanea – in ciò ravvisiamo il suo più autentico significato. La rappresentazione della FREA come stato retro-fascista, i temi della sorveglianza di massa, della manipolazione dell’informazione, della mercificazione dell’esperienza umana, offrono una chiara visione di una realtà in cui siamo già immersi, motivi afferenti appunto alla tradizione del romanzo sociale, qui arricchito da humor nero, dal grottesco e dal surreale, che conferiscono un distintivo sapore a queste pagine, come nel caso delle visioni collettive di un presunto paradiso post mortem, che lasciamo alla scoperta del lettore. Ma che il romanzo sia una “ode antifascista al potere della musica pop”, come si legge sul sito dell’editore italiano, è dubbio e fuorviante. La critica proposta dal suo autore è ben più smaliziata; la lotta al sistema degli Acceptables (nome, ormai sarà chiaro, ironico) fallisce miseramente: i fan a cui il messaggio sovversivo dei loro testi è rivolto appaiono zombizzati, avvolti in una catatonia percettiva: “Quand’è stata l’ultima volta in cui avete pensato con la vostra testa?” è solito chiedere provocatoriamente il frontman, Ash, al suo pubblico. La rivolta, in un mondo che è “una simulazione in 3D della vita”, in cui “le celebrità sono diventate criminali, i banchieri sono diventati celebrità e i criminali l’hanno fatta tutti franca”, avviene infine con distruttiva virulenza ma non passa dalla musica o dall’arte: il concetto della loro intrinseca rivoluzionarietà, romantico retaggio della temperie culturale dei gloriosi Sixties, è solo un nebuloso ricordo nella società postmoderna e tardo-capitalista qui tratteggiata, e ciò conferisce una spietata lucidità al romanzo. In definitiva, Big Time ci pare un’opera ambiziosa, che fa tesoro della tradizione fantascientifica distopica cercando per certi versi di superarla, radicandosi nell’esperienza, politica ed economica, della contemporaneità. Il risultato è una sorta di “incubo” che, alla luce della devastante esperienza del Covid (nel testo il riferimento è diretto), dei pestiferi venti di guerra che gelano il mondo, dei rischi suscitati dal proliferare di tecnologie distruttive della privacy e minacciose per le nostre stesse intelligenze, del tramonto dei principi e dei valori democratici che hanno segnato una lunga stagione dell’Europa e del mondo occidentale, assume una concretezza allarmante. Questo parto della fantasia appare più reale di quanto osiamo immaginare, e la sua conclusione, che magari non soddisferà alcuni lettori per la sua visionarietà pessimistica, ci sembra la degna, coerente chiusa di pagine spaventose e avvincenti. In fondo, “in queste cose ci siamo tutti”, tutti siamo “una forma su una sfera in orbita nel tempo”. L'articolo Jordan Prosser / Il futuro è già qui proviene da Pulp Magazine.
Fabrice Tassel / Negli ingranaggi del rapporto di coppia
Un romanzo incredibilmente feroce e attuale quello di Fabrice Tassel, una storia che trasmette una profonda angoscia fin dalle prime righe soprattutto se siete neogenitori e siete ancora in quella magica bolla che vi circonda dai primi mesi della nascita, vi consigliamo di leggerlo con fazzoletti formato famiglia a portata di mano. L’incipit è potente come un’onda d’urto che vi travolgerà, la stessa onda che colpisce Gabriel, dieci anni, che inciampa e cade dal molo per venire risucchiato dall’oceano in tempesta sotto gli occhi impietriti del padre. Ma facciamo un passo indietro. Sebbene qualche perplessità nell’etichettare questo romanzo come un thriller, non essendo la classica indagine poliziesca, possiamo tuttavia classificarlo come “polar” dati la struttura e il ritmo. Senza dubbio c’è l’aspetto psicologico che preponderante caratterizza l’intero intreccio narrativo ma ciò che scuote l’animo del lettore è il racconto del male che si cela sotto una quotidianità apparentemente normale, forse troppo. C’è poi l’elemento disturbante rappresentato dai personaggi. Tutti, nessuno escluso, siamo noi. Quello che racconta Tassel è infatti uno spaccato di società, purtroppo attualissima, che leggiamo sui giornali quando è troppo tardi e la cronaca dei fatti diventa nera, le storie che vediamo ma non abbiamo il coraggio di dire ad alta voce, perché tanto non accade mai a qualcuno di vicino a noi. Siamo in Bretagna, lontano dal caos parigino, e la giudice Dominique Bontet deve procedere alla chiusura di due casi che riguardano due famiglie come tante. Iris è una madre che subisce violenza dal marito e ha due bimbi piccoli da proteggere. Anna e Thomas hanno perso tragicamente Gabriel di dieci anni, annegato incidentalmente, o forse no. Queste due donne ancora non lo sanno ma sono legate da un filo invisibile che le porterà ad aprire gli occhi e a comprendere che quelli che vivono con loro sembrano uomini solo in apparenza. Non esiste solo la violenza fisica ma anche quella psicologica, mentale, tipica dei manipolatori. Le menzogne creano una fitta realtà dalla quale è impossibile uscire, vittime e carnefici al contempo gli uomini sono il risultato di un retaggio culturale fermo all’idea che la donna sia la parte debole, che l’uomo non si possa permettere fallimenti o momenti di incertezza, in un intricato labirinto di ragionamenti in grado di tenere il lettore in bilico. Tassel scandaglia i meccanismi psicologici della vita di coppia e crea, con questo romanzo disturbante e potente, una denuncia: suggerisce che occorre trovare il coraggio di parlare perché ci sarà sempre qualcuno disposto a credere, ad ascoltare. La figura della giudice, acuta osservatrice, è provvidenziale e non a caso, oltre a condurre la narrazione ponendo dubbi e domande, è una donna che agisce in un ambiente di uomini. Con una prosa scorrevole, elegante e tagliente si arriva agevolmente al colpo di scena finale che tutto ribalta lasciando il lettore alle sue riflessioni anche tempo dopo aver concluso il libro. Non siamo dunque passivi davanti a una società sempre più marcia e corrotta ma abbiamo il coraggio di cambiare le regole del gioco. L'articolo Fabrice Tassel / Negli ingranaggi del rapporto di coppia proviene da Pulp Magazine.
Valerio Aiolli / Blues mediterraneo
Forse non sono molte le persone che ricordano quei giorni di inizio gennaio 2001, in Italia, annegati nella retorica del nuovo millennio e ancora tutti storditi dal finto benessere degli anni Ottanta e Novanta. Ma proprio in quei giorni le cronache riportavano la triste notizia di una “morte eccellente”: il corpo della contessa Francesca Vacca Augusta riverso senza vita sulle spiagge della costa azzurra dopo essere caduto dagli scogli della sua villa a Portofino. Omicidio? Come qualcuno pensò di sussurrare. O più probabilmente suicidio. come poi appurarono le indagini. Il profilo della donna, quando si tolse la vita non ancora sessantenne, sembrava disegnato apposta per rappresentare i miti effimeri e roboanti dell’epoca. Ex commessa, aveva sposato il conte Augusta, proprietario dell’omonima notissima fabbrica. Alla morte del marito aveva ereditato la sua principesca Villa Altachiara a Portofino, che vide poi il suo suicidio. Frequentava la cosiddetta “alta società” in Italia e a livello internazionale. Era molto vicina a Craxi e, di conseguenza, ai traffici che intorno a quel sistema di potere si sviluppavano. Conduceva una vita intensissima di relazioni amicali, erotiche, commerciali e politiche. È stata oggetto di condanne e mandati di cattura, scontati ai domiciliari. Ricchissima, ai processi se l’è sempre cavata pagando cauzioni. Ma era tutt’altro che un’avventuriera. Molto probabilmente però aveva un carattere debole, era una grande individualista affetta da narcisismo pernicioso, la stessa malattia che imperversava in Italia tra politici, imprenditori, personaggi pubblici e non solo, di cui oggi subiamo ancora le conseguenze. Risulta allora evidente come tutta la vicenda della contessa Augusta vada ancora raccontata, per essere capita sul piano umano, sul piano simbolico e su quello culturale. Ci ha pensato brillantemente Valerio Aiolli in Portofino blues, libro che certamente assume in diversi momenti l’aspetto del racconto noir, dell’indagine poliziesca e della spy story, come la vicenda richiede. Ma che ha il suo punto di forza nell’individuare in alcuni particolari degli elementi universali che fanno della contessa Augusta un’eroina (un’antieroina?) della sua epoca diventando quasi un simbolo dei nostri tempi. La contessa Augusta è sopraffatta da sé stessa, dalle sue debolezze dai suoi falsi miti. Perde una battaglia che non aveva neanche pensato di dover combattere, perché tutto il bene, tutta la ricchezza e tutta la fortuna le erano cadute tra le mani. Non aveva dovuto conquistare nulla, apparteneva a quella specie di “unti del signore” di berlusconiana memoria. Tutto intorno c’è la dura e cupa realtà dell’Italia delle trame, dei traffici illeciti, del potere che si gonfia e si rafforza senza mai pagare per le responsabilità illegittime. Ci sono le ricche regioni del nord del nostro paese che confinano troppo da vicino con la Svizzera in linea geografica e con la politica sul piano degli affari che prevedono sostegni pubblici. Aiolli si muove secondo i criteri dell’indagine sul campo e, in parallelo dell’indagine psicologica del suo personaggio principale. Non si sbilancia in modo evidente in giudizi men che mai affrettati. Si muove seguendo il senso di un interrogativo che un cronista o un investigatore di solito tengono sotto controllo. L’interrogativo, semplicemente è: perché? Cosa è passato nella testa e nel cuore di quella donna ancora giovane, bella e ricca? Qualcosa continua a sfuggire, ma le note salienti e forse inspiegabili di quel blues risuonano ancora.       L'articolo Valerio Aiolli / Blues mediterraneo proviene da Pulp Magazine.
Garibaldi M. Lapolla / Un romanzo inciso a fuoco
Imbattersi in un libro inatteso costituisce un’avventura emotiva. Tale convinzione esce rafforzata dalla lettura del romanzo di uno scrittore dal nome roboante, Garibaldi Mario Lapolla, pubblicato negli Stati Uniti nel 1931 e meritoriamente presentato da noi con il titolo Il fuoco nella carne da Edizioni readerforblind, piccola realtà che nel 2021 ha azzardato il passo da rivista online a casa editrice, “esclusivamente dedicata alla narrativa d’autore, tra riscoperte di classici dimenticati della letteratura italiana e nuovi voci contemporanee, italiane e straniere”, come si legge sul sito. Un inedito che lascia il segno, opera di un italoamericano di limpido talento e variegata cultura, che ben s’innesta nel dibattito contemporaneo su migrazione e identità culturale. Quella degli autori di origine italiana in lingua inglese è storia complessa e stratificata, le cui radici affondano nell’Ottocento con la pionieristica figura di Joseph Rocchietti, ma che ha trovato nel Novecento la sua fase più definita e qualitativamente valida, in seguito ai fenomeni migratori di massa a cavallo dei due secoli. Hanno visto così la luce scrittori come Pietro Di Donato, Pascal D’Angelo, John Fante, in seguito Gay Talese. A parte Fante, la cui ricezione in Italia fu mediata da figure come Emilio Cecchi, molto pompato nell’ultimo ventennio del secolo passato, e il successo globale ottenuto da Mario Puzo con la saga del Padrino, i citati ed altri interessanti autori hanno dovuto aspettare parecchio prima di essere scoperti dalla critica e dall’editoria italiana. Esempio ne è proprio Lapolla, autore di tre romanzi, tra cui l’esordio, The Fire in the Flesh. Vi troviamo i motivi cardine di quel filone letterario: l’autobiografismo sociale e la rappresentazione di enclave come Little Italy, i conflitti identitari, il contrasto tra assimilazione e tradizione, il ruolo centrale della famiglia e della comunità come fonti di sostegno ma anche di conflitto, le durissime condizioni di vita degli immigrati e la mobilità sociale, la critica al materialismo americano, il realismo e il simbolismo religioso. Ma vi si ravvisa anche ciò che lo differenzia da quella tradizione: l’assenza di accenti didascalici, dell’esotismo folkloristico e del riduzionismo sociologico, che non di rado indeboliscono questo tipo di narrativa. Soprattutto, si nota la centralità strutturale e tematica della sessualità, e una peculiare rappresentazione di genere: diversamente dagli autori a lui contemporanei, i personaggi femminili in Lapolla non appaiono stereotipati. La protagonista, Agnese, ha uno statuto ontologico compiuto, non è rinchiusa in ruoli tradizionali. Certo, gli italiani ritratti in questo romanzo sono riconoscibilissimi in quanto tali, ma la forza narrativa del loro creatore, la capacità di trasfigurazione li pongono a un livello superiore a tanti loro omologhi. Ma procediamo con ordine. La trama ricorda alla lontana quella della Lettera Scarlatta di Hawthorne: una sedicenne, Agnese Filoppina, rimane incinta di un parroco d’un paese dell’Italia meridionale, Villetto. Siamo, presumibilmente, agli albori del Novecento o giù di lì, e lo scandalo è grande. La puerpera si ritira in una grotta per mettere al mondo il figlio, in completa solitudine: è l’antefatto, che avviene fuori scena, i cui particolari veniamo ad apprendere nel corso della narrazione, con accorto montaggio per flashback. Qui finisce il parallelo con il precedente hawthorniano, dove Esther Prynne si ritrae nella foresta, per poi accettare il marchio d’infamia sociale e scontare il suo “peccato” indossando l’infamante “A” di adultera. Agnese è personaggio di tutt’altra fatta: assertrice della propria individualità a contrasto con il ruolo in cui la confina la comunità, si ripresenta davanti ad essa, in chiesa durante la funzione di una festa comandata, e accusa apertamente il suo amante, che sta celebrando il rito, di aver approfittato del suo candore e del suo amore e di averla abbandonata a se stessa. È la scena iniziale, un incipit magistrale che disorienta il lettore per la sua potenza narrativa. V’è in nuce tutto quel che seguirà: il dominio delle passioni che tiranneggiano e consumano la carne e lo spirito dei personaggi (emblematico il titolo), la struttura ibrida che fonde la letteratura verista italiana con il realismo urbano americano (evidente l’influenza di Dreiser), le figurazioni espressionistiche delle novelle pirandelliane con il simbolismo della tradizione puritana americana, l’impianto drammaturgico e le immagini shakespeariane con il melodramma italiano. Nativo di un paese lucano (Rapolla), Lapolla giunse in America a due anni nel 1890, si laureò alla Columbia University ed insegnò letteratura inglese alla DeWitt Clinton High School e in altre scuole newyorkesi, di cui divenne anche preside, e fu autore di testi scolastici (oltre che di drammi, racconti, poesie e libri di cucina): ne aveva dunque profonda conoscenza, ma era anche impregnato della tradizione letteraria italiana, e la capacità di amalgamare culture e costumi diversi lo pongono fuori da quella “nicchia etnica” in cui è stata a lungo relegata la narrativa italoamericana, situandola piuttosto in una dimensione di transnazionalità che lascia balenare gli sviluppi futuri percorsi dalle voci contemporanee, che affronteranno in modi nuovi e sfaccettati temi quali la memoria, l’alienazione, la sessualità e il rapporto con l’Italia. Se v’è un limite nel suo stile, lo si rintraccia nell’eccesso melodrammatico di talune scene, un barocchismo che rimanda a certa tradizione siciliana, una sovrabbondanza di tensione che finisce per sfumare il contenuto emotivo. Una prosa comunque scintillante ed incisiva, pregevolmente resa nella traduzione di Erika Silvestri, a cui va anche il merito della fedeltà al testo, con la scelta di mantenerne “il più possibile intatta l’atmosfera originaria”, di preservare “non solo il significato ma anche le sfumature culturali che lo caratterizzano”, come ella scrive nella nota introduttiva. Ed anche quello di non aver ceduto al politicamente corretto, mantenendo espressioni idiomatiche e imprecazioni che costituiscono il tessuto connettivo della struttura linguistica, serbando così “la voce autentica dei personaggi e dell’autore”. La caratterizzazione dei personaggi conferma l’apertura cosmopolita. Agnese ha la statura letteraria di una Moll Flanders, di una Anna Karenina, di una Madame Bovary. La capacità di sopportazione, di risposta alle avversità e la forza con cui si strappa al ruolo in cui la si vuole intrappolata, la straordinaria resilienza – diremmo oggi – e propensione all’adattamento nel Nuovo Mondo, dove emigra insieme ad un marito inetto ma devoto che si fa carico del suo fardello, dove rincorre e realizza, con intelligenza istintiva e una volontà di potenza schopenhaueriana, quella “fortuna” tanto agognata dagli emigranti – tutto ciò la pone in uno status superiore a quello di “eroina”: è figura larger than life, sorta di controparte femminile del superuomo nietzschiano, ma, al contempo, donna umanissima, che dietro l’imperturbabile maschera di ghiaccio serba in sé un dolore ed una fragilità strazianti. Accanto a lei, nella ricca galleria umana ritratta con acutezza psicologica dall’autore, altre figure si fanno ricordare: Michele Dantone, il vulnerabile marito roso da un’implacabile gelosia, perdente nato la cui balbuzie è relato metaforico del dubbio e dell’inazione, quasi una contadinesca figura amletica; Antonio, il focoso spasimante, indefesso costruttore di case e controparte maschile di Agnese; Gesualdo, di lei padre, figura manzoniana sempre protesa al rattoppo e alla conciliazione, simbolo del trapiantato che per età non riesce nella trasformazione identitaria propedeutica all’assimilazione; l’altro suo figlio, Luigi, come tutti schiavo della magnetica volontà della sorella; Giovanni, il figlio del peccato, adolescente sensibile che lotta per scoprire un segreto celato, figura d’artista in nuce; Gelsomino, suo padre, trasfigurazione del reverendo Dimmesdale di hawthorniana memoria, scisso tra l’amore mai sopito verso Agnese e la ricerca del figlio negletto, e ulceranti desideri di redenzione e di ritiro spirituale dal mondo; la domestica Concetta, sorta di personaggio faulkneriano, che con il suo cinico pragmatismo tiene in piedi una baracca che rischia continuamente di sfasciarsi, ed altri ancora: donne ed uomini resi nella loro materialità “di carne”, in balia di oscure pulsioni, di un’energia irrefrenabile che li divora come una fiamma interiore, accendendone e sconvolgendo le esistenze, spingendoli verso il cambiamento ma anche verso la distruzione, composti di un melting pot le cui identità etniche non si lasciano sciogliere, contravvenendo ad uno dei miti fondativi dell’identità americana. Coprotagonista della vicenda è New York, in particolare East Harlem, percorsa da pericolose bande di ragazzi perduti, da torme di sventurati che mendicano pane e lavoro, con l’East River a lenire ferite mai sanate, i carghi e i traghetti che lo solcano incessanti, il martellante rumore delle sopraelevate e dei cantieri edili, frastuoni di una città in frenetico, feroce sviluppo, così drammaticamente altra dal tranquillo e silenzioso borgo natio. Con i Dantone, però, Lapolla tratteggia una famiglia che con abnegazione e faustiana forza di volontà “ce l’ha fatta”, poiché ha introiettato l’etica materialistica del Paese che li ha accolti, dunque in apparenza ha realizzato il “sogno americano”, sua caratteristica fondante, anche se filtrato dalla specificità italiana. La riuscita fusione di tradizioni culturali diverse, la rappresentazione di identità ibride, non avviene quindi solo a livello linguistico: il romanzo appare come un laboratorio culturale, specchio delle contraddizioni dell’americanizzazione e delle diaspore moderne, diremmo oggi, in cangiante equilibrio tra nostalgia, critica sociale e, appunto, ridefinizione dell’American dream. Ma il finale ambiguo, né tragico né redentivo, quasi un anticlimax dopo una potente scena di resa dei conti di impianto drammaturgico, una conclusione intrisa di un’ineludibile amarezza esistenziale, enfatizza la natura irrisolta dell’identità biculturale, della tensione morale che smotta interiormente i personaggi, lacerati da bisogno di appartenenza, riscatto, amore e vendetta. Con questo romanzo, arrivato a maturazione dopo aver oltrepassato i quarant’anni, nel pieno della maturità umana, Lapolla è dunque tra i primi autori a esplorare la complessità di un’identità italo-americana ottenendo un certo successo (era edito da Vanguard Press), e aprendo la strada a scrittori come Fante e Di Donato. Questo folgorante esordio, materia poi sviluppata in quel che è considerato il suo capolavoro, The Grand Gennaro (1935), di cui attendiamo la traduzione, riflette un’intuizione letteraria portata avanti collaborando con Leonard Covello, sociologo e pedagogista esperto nella didattica interculturale suo collega alla DeWitt, che sembra anticipare concetti quali la Bicultural Identity Integration, il “terzo spazio” di Homi K. Bhabha, e che troverà conferma nella teorizzazione della fluidità culturale di Benet-Martínez. Ma al di là di questo e di altro che si potrebbe dire, Il fuoco nella carne si staglia come un romanzo dalla gradevolissima lettura, che rimane inciso a fuoco nella mente del lettore. L'articolo Garibaldi M. Lapolla / Un romanzo inciso a fuoco proviene da Pulp Magazine.
L’insostenibile leggerezza del Salone del libro
Le parole tra noi leggere era il titolo e il tema del Salone del libro di quest’anno. Ma ovviamente la leggerezza non era sempre sostenibile, e non solo in termini ambientali. Seppure forse per la prima volta ci fosse uno stand, peraltro meraviglioso, dove si sono concentrati gli incontri a tema ambientale. Lo stand era “Il bosco degli scrittori”, di Aboca, pieno di verde e profumi, che solo ad entrarci ti sentivi meglio, a dimostrazione di quanto abbiamo bisogno, del verde e della natura. Gli eventi, che fossero presentazioni, dialoghi, panel, tavole rotonde o altro, erano come sempre tantissimi, e per la nota legge di Murphy ce n’erano almeno tre che mi interessavano tantissimo alla stessa ora. Quindi al Salone bisogna scegliere. Alle volte è il Salone stesso che ti fa scegliere, quando per esempio non hai prenotato e stai in coda per ascoltare Paul Murray dalla sua viva voce irlandese e poi ti mandano via perché tutti i prenotati si sono presentati. Of course. Alle volte si sceglie in base a dove si è, a dove c’è meno gente, a dove regna il silenzio. Al Salone, si sa, il silenzio è d’oro o meglio del tutto assente. Così come sono assenti dei punti dove ricaricare i telefoni o gli iPad, onestamente una cosa un po’ disdicevole. Di tutti i disagi del Salone, ovvero le code ai bagni, il guardaroba che alle 11 è già pieno, il caffè che costa 2 euro (come neppure al più caro degli autogrill), l’aria viziata, questo del non poter caricare i device lo trovo il più fastidioso e il più ovviabile. Ma basta lamenti. Vi racconto chi ho visto e sentito. JAN BROKKEN L’Olanda era il paese ospite di questa edizione. E Jan Brokken era l’ospite degli ospiti. Ha fatto diversi eventi, alcuni affollati come non mai, altri più di nicchia. Io sono andata a quello della serie “Lo scrittore invisibile”, in cui gli scrittori affrontano il tema della traduzione. Era quindi presente anche la traduttrice Claudia Cozzi, che con il suo lavoro prezioso e – per l’appunto – invisibile ha permesso a tutti i lettori italiani di godere delle opere di Brokken. Il quale sembra uscito da un quadro fiammingo, e in un francese molto pulito e vagamente esitante racconta che ha cominciato a scrivere a sette anni in un pomeriggio piovoso in cui, non sapendo cosa fare, suo padre gli ha dato un quadernetto blu; che usa sempre dei quaderni per appunti con la copertina blu; che deve la sua abilità di scrittore a un incontro fortuito con Gabriel Garcìa Marquez, da cui ha appreso tutti i segreti dei romanzi; e che da quando abita vicino alla casa in cui ha vissuto Anna Frank è ancora più consapevole di quanto le assenze, le persone che sono state sottratte alla vita con violenza e ingiustizia e perversione, le assenze sono tanto vive e percepibili quanto le presenze. Diventato famoso, almeno in Italia, per Anime baltiche, Brokken conosce molto bene i luoghi dello sterminio, non li dimentica e non ce li fa dimenticare. La scoperta dell’Olanda, sempre pubblicato da Iperborea, era nella cinquina dei finalisti al Premio Strega Europeo (che poi ha vinto Paul Murray con Il giorno dell’ape). IIDA TURPEINEN A proposito di finalisti allo Strega Europeo, a Torino c’erano tutti. Tra questi sono andata a sentire Iida Turpeinen, che insieme a Dente ci svela il triste destino de L’ultima sirena, (romanzo pubblicato da Neri Pozza) ovvero la ritina di Steller, animale marino dichiarato estinto solo 27 anni dopo la sua scoperta, oggetto delle attenzioni di collezionisti senza scrupoli e proto-ambientalisti, in qualche modo simbolo del nostro rapporto con la natura. Quando la domanda delle domande, posta da Dente, è se sia possibile scoprire qualcosa senza fare danni. Iida Turpeinen, con il suo inglese vibrante e solo leggermente straniero, risponde che pensa sia possibile. Anche perché a relazione tra uomo e natura nel corso del tempo è cambiata, e quindi è un fatto culturale, non scientifico o storico; come è cambiata nel passato, così può cambiare di nuovo. Può darsi che tra cento o mille anni qualcuno dirà di noi, che cretini, sapevano tutto del cambiamento climatico e non hanno fatto nulla; però intanto noi possiamo cambiare il nostro modo di essere con la natura. MARCO ALBINO FERRARI CON GIOVANNI COSTANTINI Marco Albino Ferrari e Giovanni Costantini La prima volta, al “Bosco degli scrittori” ci capito quasi per caso e ci trovo anche degli amici. C’è Marco Albino Ferrari (Il canto del Principe, Ponte alle Grazie) con il direttore d’orchestra e violoncellista Giovanni Costantini, e la storia che raccontano insieme è davvero meravigliosa. Un anno prima della tempesta Vaja, un’altra tempesta di vento abbatté l’Avez del Prinzep, l’abete del principe, un abete bianco secolare dell’altopiano di Lavarone. Una volta passato lo stupore e il dolore, una volta accertato che non c’erano morti e feriti, restava cosa fare con il legno. Ci voleva qualcosa che onorasse la vita ultracentenaria di questo abete che spiccava metri sopra gli altri e che richiamava i turisti ad ammirarlo in silenzio. In un’assemblea che raccoglieva tutti gli abitanti dei paesi sparsi per l’altopiano, qualcuno propose di fare degli strumenti ad arco. Era l’idea di Giovanni Costantini: di solito questi strumenti si fanno con l’abete rosso, ma si possono fare anche con quello bianco. E gli strumenti musicali vivono e suonano e regalano gioia per centinaia di anni. Il violoncello di abete bianco, nato dal Prinzep, risuona tra le panche di legno grezzo. E ovviamente nei cuori. CARLA MADEIRA Ed ecco un’altra finalista dello Strega Europeo (ve l’avevo detto che c’erano tutti), l’autrice brasiliana più amata nel suo paese, ma anche in Europa e qui da noi. Al Salone la presenta Chiara Valerio. Ed è una conversazione densa, solida, senza preliminari e senza giri di parole. Del resto in Preludio (Fazi editore) ci sono due figli, due gemelli, che vengono chiamati Caim e Abel dal padre, per fare dispetto alla madre. C’è Vedina che, in quella che sembra una giornata come le altre, fa qualcosa che non pensava di poter fare. C’è l’ambiguità della famiglia e dell’amore, quello che viene tolto e quello che viene dato. E a differenza che nella vita, in cui non riusciamo a trovare il tempo e l’energia per chiederci che cosa ci sia dietro la cattiveria o dietro la disperazione, nei romanzi il tempo per quel che viene prima dell’atto, il tempo per il preludio esiste. Sia Carla Madeira che Chiara Valerio hanno studiato matematica, e concludono sottolineando come tanto i simboli quanto le parole sono modi per esprimere la nostra soggettività, e diventano soggettivi nel momento in cui li si usano. Una bella riflessione da portarsi a casa. JACQUES ATTALI L’avevo cominciato prima del Salone, il saggio Conoscenza o barbarie, Storia e futuro dell’educazione (Fazi editore). Jacques Attali era insieme a Enrico Galiano, e chi meglio di loro due poteva conversare sull’educazione. A partire da quello che serve e servirà davvero, cioè “imparare a imparare”. È probabile che nel futuro non si vivrà facendo un solo mestiere, ma se ne cambieranno molti; anche ora ci sono persone che cambiano mestiere più volte nella vita, ma tra non molto lo dovranno fare tutti. E imparare a imparare presuppone la pazienza, la tenacia. Bisogna resistere al fallimento, che è un inevitabile passaggio nel processo di apprendimento, e bisogna avere la pazienza e la tenacia di continuare, di insistere. Le tecnologie che usiamo non contemplano la pazienza, per questo va insegnata… con pazienza. E poi bisogna avere amore per se stessi, e fiducia nelle proprie possibilità. Perché secondo Attali non ci sono limiti a quello che possiamo studiare. Il nostro mondo è fatto di contraddizioni estreme, l’oscurantismo tecnologico e una enorme massa di conoscenze condivise. Non sarà facile trovare un equilibrio tra queste contraddizioni, ma non è neppure impossibile. Saranno lo spirito critico, che si coltiva soprattutto con la lettura, e la grinta, la forza di voler superare i nostri limiti, a traghettarci nel futuro. GUIDO SARACCO E CLAUDIA PASQUERO Ritorno al “Bosco degli scrittori”, a rinfrescarmi e respirare un’aria che non sia quella viziata del Lingotto. Ora ci sono due professori, e il tema è “Sopravvivere al clima”. Claudia Pasquero (suo un contributo del volume Come sta la terra? Il Castoro) parte da un esempio: nessuno si è preoccupato dei danni della caccia alle balene quando non c’era più bisogno dell’olio di balena, finché un ricercatore aveva quasi per caso intercettato il suono che questi cetacei emettevano sott’acqua, un suono che era un canto e un linguaggio; improvvisamente le balene ci sono diventate vicine, amiche, abbiamo sentito il bisogno di proteggerle. La stessa narrazione deve essere trovata per tutti i problemi legati al cambiamento climatico, commenta Guido Saracco (autore con Maurizio Ferraris di Tecnosofia, Laterza). Se ci mettiamo in relazione con il mondo naturale in un modo diverso da come abbiamo fatto finora, certamente potremo trovare delle soluzioni che neppure immaginavamo. JEAN GIONO Per qualche ragione ignota, Il canto del mondo di Jean Giono non era mai stato pubblicato in Italia. Ci ha pensato ora l’editore Settecolori, che non potendo ovviamente invitare l’autore ha chiamato il traduttore Leopoldo Carra e il giornalista Carlo Grande, che conosce molto bene non solo l’opera di Giono ma anche quella Provenza aspra, montuosa e per niente turistica che il grande scrittore francese racconta. Carlo Grande ha anche incontrato, tempo fa, a Manosque, la moglie e la figlia di Giono. Il canto del mondo è un manifesto ecologista ante litteram, un romanzo sinestesico, un racconto che celebra il sacro presente nella natura. Molti di noi conoscono Jean Giono come l’autore di L’uomo che piantava gli alberi, spesso considerato un libro per ragazzi e utilizzato nelle scuole per comunicare la forza della natura, la tenacia dell’uomo e la possibilità della rinascita. Il canto del mondo è anch’esso un romanzo che ci indica la strada: ci si può salvare solo vivendo in armonia con la natura, obbedendo e rispettando le sue leggi. Il libro uscirà presto in edizione numerata. Posso concludere con la stessa frase che avevo scritto dopo un altro Salone del libro: la cultura, la lettura, i libri sono molto di più e molto di meno di quello che si pensa. Sono esattamente il valore che gli diamo noi. L'articolo L’insostenibile leggerezza del Salone del libro proviene da Pulp Magazine.
Andrea Pomella / Anni ’50, i pittori romani sfidano Warhol & Co.
Se esistono scritture fatte per restituire l’esperienza umana in tutte le sue forme, quella di Andrea Pomella è una di queste. Già in Anni luce (Add Editore), L’uomo che trema e I colpevoli (Einaudi) ci aveva abituato a un tipo di narrativa ibrida, in cui il rapporto tra fiction e non-fiction si fa complesso e dai contorni incerti; nelle uscite recenti ha rivendicato un vero e proprio spazio per l’invenzione, nel racconto di figure storico-politiche come Aldo Moro ne Il dio disarmato e di personalità artistico-culturali ne Vite nell’oro e nel blu, definito un romanzo biografico. In quest’ultimo caso, l’autore non si rende protagonista o punto di vista, eppure la sua presenza vibra tra le righe nella sapiente capacità di intrecciare eventi, figure, emozioni. Pomella sceglie una diegesi composta da luoghi e date disposti in un ordine non cronologico e la porta avanti senza una sbavatura, con ritmo ed equilibrio. Non si ha mai la sensazione di perdere il filo, mentre vengono intessuti i caratteri travolgenti di Mario Schifano, Franco Angeli e i fratelli Tano Festa e Francesco Lo Savio. «Per anni li hanno citati insieme, come una cantilena. Erano quelli di Rosati, i pittori popolari, nella duplice accezione: famosi e al contempo figli del popolo». Vengono considerati un movimento, sebbene non siano mai stati un gruppo coeso nelle intenzioni e nei mezzi al pari delle avanguardie; la pittura ha impregnato e guidato la loro vita, pur essendosi dedicati anche a cinema e poesia. Sono stati ironicamente chiamati maestri del dolore, ad averli davvero legati però è un’amicizia intrisa di rispetto e lealtà quanto di gelosia e profondo risentimento – d’altronde, sono molto diversi l’uno dall’altro: Schifano è l’istinto, Angeli la lotta, Festa la contemplazione e Lo Savio il pensiero. Hanno conosciuto una fase ascendente, l’ora d’oro, e una successiva discesa, l’ora blu. C’è un senso di rottura a percorrere dal principio alla fine la loro avventura. Una forza, all’inizio, nella fame di rivalsa dalle origini umili e nel desiderio di varcare la soglia della modernità; via via è sempre più radicata nel loro stesso stare al mondo, sintomo di una contraddizione insita dentro ognuno di loro. Schifano è il più celebre, il più carismatico, non trova il modo di conciliare lo sprezzo per ricchezza e borghesia con la fascinazione per fama e consumismo, la volontà di proseguire per la sua strada a dispetto di tutto e tutti con il bisogno di essere amato. Angeli è divorato da rabbia e inadeguatezza per essere nato e cresciuto nella povertà, condizionano la sua relazione d’amore e odio sia con le sue creazioni sia con Marina Lante della Rovere. Festa matura la consapevolezza di un’infelicità generale, all’interno e all’esterno di sé, mentre Lo Savio – figlio illegittimo quanto Festa – non riesce a sentirsi al posto giusto neanche in quella Roma dove gli altri, presto o tardi, finiscono per tornare. Rottura è il suicidio di Lo Savio nel 1963, segna un prima e un dopo per il fratello e i compagni. Rottura è come Schifano, Angeli e Festa tentino di gestire un’ansia asfissiante, la necessità di annullare il tempo dipingendo, viaggiando, drogandosi, amando smodatamente. «Bruciare. Per un grande artista non può esserci altro che questo», pensa Schifano. «Chi appicca un fuoco sa che le fiamme si dimeneranno seguendo una loro volontà. Ma l’artista, a differenza del piromane, mette in conto che lui stesso potrebbe finire arso». Rottura, ancora, è il graduale allontanamento tra loro, per non dover guardare dentro la propria oscurità. Dal periodo della Seconda Guerra Mondiale in poi, passando per i trionfi degli anni Sessanta; intorno ai quattro, Guttuso, Pasolini, Penna, Ungaretti, la Beat Generation e i Rolling Stones. Sullo sfondo, più protagonista che mai, Roma: quella del Tridente e del bar Rosati, quella degli ultimi nobili e dello sfarzo, quella dei quartieri popolari e dei bombardamenti. Roma nella frattura tra antico e nuovo.                                                   L'articolo Andrea Pomella / Anni ’50, i pittori romani sfidano Warhol & Co. proviene da Pulp Magazine.