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Magdalena Blažević / Gli scomparsi
“Preparatevi, il tempo sta per scadere. Il silenzio e la lentezza dureranno ancora per poco”. L’eclissi del periodo estivo coincide con l’esordio dell’orrore, mentre “il cielo si dissolve nelle prime scintille e nell’odore della polvere da sparo”. In tarda estate è il potente esordio romanzesco di Magdalena Blažević, critica letteraria che già nel panorama narrativo si era imposta con alcuni racconti di rilievo. Le sue pagine si animano di impressioni sensoriali e atmosferiche. La memoria tiene insieme la fragile trama narrativa. I ricordi balenano intensi, come dettagli illuminati per un istante dal sole attraverso le foglie e poi di nuovo celati. Giochi di fanciulli dalla durata effimera, bambole rinchiuse in una scatola per non vedere più la luce. La quotidianità della vita di campagna prefigura la violenza della guerra. L’odore del sangue e del fango impregna l’aria mentre le galline vengono macellate. Suini nati morti vengono gettati in una fossa, mentre sciami di corvi e di mosconi infestano l’aria. Il fratello di Ivana, la protagonista, porta a spalla un fucile ad aria compressa che anticipa quelli reali e ben più perigliosi che a breve sconvolgeranno quelle terre. Gazze mettono in scena “uno spettacolo nero”, mentre “l’aria rimbomba e il bosco si oscura”. Come nelle fiabe, la foresta è buia e minacciosa, albergo di inconsci timori. La paura percorre gli animi come un vento furioso. Nella casa giace abbandonata una fisarmonica, che nessuno è in grado di suonare. Paesaggi impregnati di gelo e di morte, nei quali il più lieve rumore echeggia furente. Le finestre delle case in rovina appaiono come orribili occhi cavati. Blažević, come Virginia Woolf in time passes, riesce a rendere il trascorrere del tempo, le piazze un tempo vive e ora deserte, i tetti piagati dalla pioggia e dalla neve, sotto i quali non vi è più riparo, le stanze vuote percorse da topi e da insetti, le mura aggredite da muschi e umidità. Il libro è dedicato agli abitanti del villaggio croato di Kiseljak, massacrati il 16 agosto del 1993 dalle forze bosniache. Un episodio poco noto dalle nostre parti, come altri che vengono posti all’attenzione solo ora, a così grande distanza di tempo, a dimostrazione di come ogni conflitto porti con sé strascichi infiniti e devastazioni morali enormi. “Quando quella casa sarà crollata, con le mura divorate dal vento e dall’umidità, scomparirà anche l’ultima prova che il villaggio un tempo aveva un aspetto completamente diverso. Che sapeva di polline di sambuco e dell’acqua del ruscello”. Gli odori e i sapori di un tempo si estinguono, inevitabilmente. Fotografie sbiadite simboleggiano la necessità di ricordare, prima che l’oblio renda tutto illeggibile. “Come fa il mondo a essere ancora lo stesso?”, si domanda l’autrice. Dopo tanto orrore il normale corso dell’esistenza appare sfigurato, per sempre. Le scarpe da ginnastica di Ivana restano appoggiate al muro; nessuno le indosserà più. Un telefono squilla invano nel vuoto popolato solo dalla morte.   L'articolo Magdalena Blažević / Gli scomparsi proviene da Pulp Magazine.
Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi
La Valle de Los Caidos oggi è tornata a chiamarsi Valle de Cuelgamuros, il nome che aveva prima che Francisco Franco decidesse di deturpare questa parte della sierra de Guadarrama con il suo triste mausoleo. Progettato per essere il monumento a cielo aperto del fascismo spagnolo, il caso volle che Josè Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange Española, e Franco e morissero lo stesso giorno, il 20 novembre. Il primo fucilato dai repubblicani nel 1936 e il secondo nel 1975, ma di morte naturale dopo una troppo lunga vita. Entrambi furono solennemente sepolti sotto l’altare della tetra chiesa scavata nel granito sotto un’enorme croce, la più alta d’Europa. Fuori dalla porta della chiesa, in un enorme terrapieno, sono sepolti 40.000 caduti della guerra civile, più o meno a metà tra repubblicani e nazionalisti. L’opera venne costruita a partire dal 1940 per essere finita nel 1958, e fu opera dei prigionieri repubblicani costretti ai lavori forzati per quasi vent’anni. Gli storici non hanno consolidato un dato certo sui morti per la repressione che si scatenò successivamente alla fine della Guerra civile, ma alcune fonti riportano la stima di 200.000 persone. Per popolare la più grande fossa comune della storia europea, le autorità franchiste ordinarono l’esumazione dalle molte fosse comuni disseminate nella Spagna per riunire i morti repubblicani senza nome e deporli ai piedi dei corpi di Franco e de Rivera. Alcune fonti affermano che furono sepolti lì anche i numerosi morti sul lavoro e alcuni fucilati quando non erano più necessari alla costruzione. Nemico giurato di questa macabra e falsa opera di riconciliazione – almeno così era stata fatta passare con ipocrisia dalla propaganda dell’epoca – il Primo Ministro Pedro Sanchez ha ordinato il trasloco delle salme del dittatore e del suo compare, e ha ordinato lo smantellamento di ogni riferimento a quello che era di fatto un luogo di incontro di fascisti e nostalgici del regime. Salgo a piedi i sei chilometri che conducono al mausoleo fascista dalla strada della Guadarrama, tra pini e pareti di granito solcate dai torrenti, e mi avvicino alla croce alta 150 metri, sempre più grande e impressionante. Poche automobili mi passano a fianco e forse pensano a quanto sia risoluto quel camerata che procede a piedi verso il più ingombrante e brutto residuo del fascismo spagnolo. Mentre percorro la valle bellissima del Cuelgamuros, mi tornano in mente le pagine più toccanti de I girasoli ciechi, l’unico romanzo lasciatoci da Alberto Méndez, e pubblicato in Spagna nel 2004. Mendéz, nato nel 1941, aveva vissuto sotto il tallone della dittatura e il suo romanzo affronta i problemi centrali in cui ancora oggi l’intera Spagna si dibatte, quello delle memorie personali, della realtà del conflitto, della lunga e frustrante repressione in un’Europa che avrebbe dovuto debellare anche il loro fascismo dal 1945 e non lo fece, e della difficoltà a costruire una storia pubblica. Se oggi solo qualche coglione sventola sul piazzale la bandiera spagnola o si rizza nel saluto a mano tesa, le polemiche che hanno coinvolto per decenni la Valle de los Caidos sono state momentaneamente risolte spogliandola di ogni riferimento esplicito al fascismo, ma non si è ancora affrontata l’idea di farne un museo a cielo aperto della repressione falangista, cercando di collegare le memorie degli sconfitti con la storia ufficiale e riscrivere radicalmente il significato di quei luoghi ridotti a lager e a campo di lavoro forzato. Mentre cammino nella solitudine di un cielo terso e settembrino, le vicende e i personaggi de I girasoli ciechi non mi danno tregua e assumono in questo luogo un significato più concreto. Sono quattro storie interdipendenti che raccontano una sconfitta che non è solo dei repubblicani ma dell’intera Spagna, costretta a vivere per decenni in una società malsana animata da odio, vendetta e sospetto. I protagonisti dei racconti sono accumunati dall’essersi trovati a causa della guerra civile in condizioni esistenziali tali da spingerli a rifiutare la vita. Sono un nazionalista che si arrende al nemico nel giorno della resa di Madrid, un giovane padre nascosto nella sierra che si affaccia all’inverno con la moglie morta e un neonato da tenere in vita, un prigioniero in attesa della fucilazione, un intellettuale nascosto in un piccolo vano del suo appartamento. Sono quattro vicende personali in cui sono presenti gli spunti paradossali e surreali cari alla letteratura di lingua spagnola, ma immediatamente calati nel realismo della vicenda storica che il lettore conosce come tragica. Se i protagonisti del romanzo o sono d’invenzione o ripropongono vicende personali realmente accadute, i personaggi che completano la narrazione provengono dalla storia dell’assedio di Madrid, come il colonnello Miguel Eymar, responsabile della fucilazione di migliaia di militari repubblicani e dei loro parenti, e di semplici simpatizzanti, o come Edoardo López, il militante e poi dirigente del Partido Comunista di España, chiuso nella prigione in cui Eymar compie con zelo il suo compito di eliminare fisicamente i nemici della Patria, che nella realtà storica riuscirà a raggiungere l’Unione Sovietica e salvarsi. Il cimitero dell’Almudena di Madrid è intimamente legato alle vicende della terza storia, intitolata “La lingua dei morti” e ambientata nel 1941, ed è la logica prosecuzione spaziale della narrazione di Mendéz. Oggi all’Almudena, poco lontano dalle tombe di Dolores Ibárruri e Francisco Largo Caballero, è sepolto proprio Edoardo López, sulla cui lapide spiccano la falce e il martello che ricorda a tutti i visitatori la sua appartenenza e gli ideali per cui ha combattuto. Ma intorno a lui i colori della repubblica (rosso, giallo e viola), le scritte che richiamano ai partiti operai, i simboli della lotta al fascismo maculano il cimitero fino al muro di mattoni rossi che fu uno dei luoghi delle fucilazioni. Nei cimiteri, dopo un’estrema unzione, i repubblicani veniva uccisi e sotterrati, come raccontano Paco Roca e Rodrigo Terrasa nell’eccezionale storia fumetti intitolata L’abisso dell’oblio (Tunué, 2023). Qualche fiore e la bandiera segnano, spesso senza nessun’altra spiegazione, i luoghi della memoria spagnola. Ma il muro dove avvennero le oltre 3000 fucilazioni a cui si riferisce “La lingua dei morti” è dall’altra parte del cimitero, a fianco dell’entrata principale, dove trovarono la morte anche las trece rosas, le tredici giovanissime donne uccise per un attentato a cui non presero parte. Quando I girasoli ciechi viene pubblicato nel 2004, la Spagna era già dilaniata in uno scontro politico e culturale sulla dittatura che non si è risolto neppure oggi e vede un partito dell’oblio opporsi con violenza a un partito della memoria. In tutta la nazione sono evidenti i segni delle contraddizioni e delle lotte che sono state portate avanti anche dai partiti istituzionali e durante i governi diretti da José Luis Rodríguez Zapatero e Pedro Sánchez. Tutta la narrativa spagnola, compreso autori del fumetto tra cui spiccano Paco Roca ed Eduard Altarriba, è impegnata nel progetto di tradurre in novel le storie familiari come paradigmi di una lotta che ha coinvolto tutta la popolazione spagnola, dalle famiglie più della classe operaia e contadina fino agli intellettuali, e che per la parte repubblicana hanno rappresentato una sconfitta personale e collettiva, un’umiliazione che si è protratta per anni senza mai una reale riconciliazione. Contrapposizioni aspre che la sinistra italiana, pur nella diversità delle due esperienze, invece, per quanto riguarda il fascismo mussoliniano, ha progressivamente attenuato nel tempo fino a farle scomparire cedendo a un patetico revisionismo storico. È bene leggere il capitolo di Contro l’identità italiana di Christian Raimo (Einaudi, 2019) dedicato al commento sul triste appello di Luciano Violante a favore dei “ragazzi di Salò” per capire come in Spagna, a partire da romanzi come I girasoli ciechi, non si chieda riconciliazione ma giustizia, se non vendetta. Sarebbe un errore, ci ammonisce Mendéz con le sue pagine, considerare la Guerra civile spagnola conclusa nel 1939, anzi il romanzo inizia proprio con la fine del conflitto militare, perché la guerra è proseguita fino alla fine del 1975. Quello che si è modificato nel 1939 è la struttura dei contendenti, per tre anni i nazionalisti avevano combattuto contro l’esercito repubblicano e una parte della popolazione civile, poi il conflitto era continuato contro una parte della popolazione disarmata senza un esercito che la difendesse. Nell’esordio del romanzo, intitolato “Prima sconfitta: 1939”, Mendéz descrive l’incredibile resa del capitano Alegría all’armata repubblicana. Un’azione inspiegabile, visto che è l’ultimo giorno di guerra, Madrid è caduta e lo stremato esercito repubblicano si sta consegnando ai suoi aguzzini, ma che è diretta conseguenza di un imperativo morale che lo obbliga a “non voler far parte della vittoria”. Mendéz costruisce il personaggio di Alegría affidandogli la razionalità della narrazione, una razionalità che viene mostrata progressivamente e a partire da quella che nella realtà della vicenda come in quella del lettore sembra la scelta di un pazzo. Eppure, pensiero dopo pensiero, Alegría si pone al di sopra dell’ideologia e della propaganda, spiegando al tribunale militare nazionalista che lo sta giudicando per diserzione, che non voleva vincere quella guerra perché non c’erano stati veramente ideali da difendere o valori da proteggere, ma solo la volontà di ammazzare tutti gli avversari. E storicamente è stato così, perché dopo la caduta di Madrid e Barcellona, la guerra è continuata. La vittoria nazionalista non è consistita solo nella conquista del potere, ma nell’eliminazione fisica, psichica e sociale di coloro che si erano riconosciuti nella Seconda Repubblica. Mendéz parla ai lettori con le parole dirette e coraggiose affidate all’eloquio di Alegría dei “soldati vittoriosi come di persone estranee alla vita, assenti da se stessi che si trasformeranno in carne di sconfitti”. Annientati da un vincitore reale che ha sconfitto l’esercito repubblicano e il proprio. La seconda sconfitta è datata nell’anno terribile della fuga: il 1940. La retirada republicana inizia nel gennaio del 1939 con la caduta di Barcellona, con i profughi diretti verso le città andaluse nella speranza di un imbarco, dove vennero trucidati a migliaia, o verso la Francia, dove oltre 500.000 persone affrontarono il valico dei Pirenei d’inverno. Con la caduta di Madrid, molti si allontanano dalla città diretti verso la sierra a nord, senza una vera speranza di raggiungere il confine ma solo di sfuggire alla repressione. Per coloro che saranno catturati si apre una realtà di fucilazioni, carcere indefinito e torture, per gli altri l’alternativa al suicidio è nascondersi. La sconfitta del 1940 che racconta le vicende di Eulalio Caballos Suárez si svolge sulle montagne delle Asturie. Bloccato in una baita con la moglie e il figlio neonato, attende l’inverno e la morte inevitabile. Lontano dal confine, questo giovanissimo poeta scrive un breve diario in attesa del freddo insopportabile, della fame, dei lupi e dell’inedia. L’espediente del manoscritto ritrovato ha una corrispondenza nel racconto “Diario del partigiano anonimo” di Angelo Del Boca (in Storie della Resistenza, Sellerio, 2013), ambientato in Val Trebbia nell’inverno del 1944, in cui al disgelo primaverile le pagine scritte in attesa della morte nella bufera sono tutto ciò che rimane di un combattente senza nome. Nel racconto di Mendéz la parola “sconfitta” è ripetuta più volte. Suárez afferma che è contagiosa e se mai riuscirà ad abbandonare la baita, ovunque il suo odore lo perseguiterà. Lui che si è gettato nel campo di battaglia con un foglio di carta e una matita è incaricato da Mendéz di rappresentare quello che lui stesso ha vissuto durante la dittatura, la condanna infinita a una vita di emarginazione. La terza sconfitta è del 1941 ed è la storia di un inganno. Juan Senra, un giornalista comunista ridotto a “cicatrice d’uomo” dal carcere e dall’attesa di un processo la cui sentenza è scontata, riesce a manipolare i propri accusatori e rimandare la sua condanna a morte, mentre i suoi compagni di prigionia vengono rapidamente condotti al muro delle fucilazioni dell’Almudeva. Ma la consapevolezza della precarietà della sua salvezza e il dolore continuo di vedere i suoi compagni abbandonare il carcere per salire sui camion che li conducono alla morte lo inducono a una ribellione solo morale e ad accettare la sconfitta totale che si concluderà con la sua fucilazione e la sepoltura nella fossa comune. Il romanzo si conclude con la quarta sconfitta ambientata nel 1942, in una casa borghese del quartiere Salamanca a Madrid. La caccia ai repubblicani non è terminata, e un uomo dato per morto si nasconde per mesi nel suo appartamento. Come nel racconto precedente, che opponeva lo spietato giudice militare al carcerato, qui si contrappongono un intellettuale prigioniero nella propria casa e un prete squallido e fanatico in preda a un’attrazione erotica morbosa. La narrazione interseca la cronaca della famiglia che cerca di far apparire normale la drammatica esistenza reale, mentre chiusa tra le quattro mura vive un’esperienza sociale schizofrenica, la confessione del prete a un suo superiore che rivela la sua frustrazione e la schizofrenia interiore, che vive diviso tra un’incontrollabile pulsione erotica e l’armamentario ideologico e religioso entro cui è stato formato, e la rievocazione della vicenda, anni dopo, da quello che era il bambino osservatore del dramma emotivo e politico che si svolgeva nella sua famiglia chiusa nell’appartamento. L’assurdità della vicenda, surreale e tragica al contempo, cerca di dare corpo non all’eccezionalità ma di quella che è diventata la normalità del nuovo ordine imposto dal falangismo e dalla versione più criminale del cattolicesimo novecentesco. Mendéz scrive infatti che “erano i tempi dell’incomprensibilità e nessuno cercava di capire ciò che accadeva”. Il girasole cieco del titolo, evocato alla chiusura della narrazione, è la metafora di coloro che, indipendentemente dalla parte con cui sono schierati, dopo un’immensa tragedia di dolore, di violenza e morte, non potranno che vivere senza più capire dove voltarsi per seguire il sole nel suo cammino. [foto © Domenico Gallo]   L'articolo Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi proviene da Pulp Magazine.
Jeanette Winterson / Stai lontano da dèi e fantasmi (Confucio)
Credere ai fantasmi al tempo dell’essere digitali. Al netto di una difettosità intrinseca della mente umana, e dei retaggi del mondo premoderno, eccoci qui a leggere racconti di cui affascinarci, tentando una fuga neppure troppo innocente dai disastri attuali cosparsi ovunque, a latitudini e longitudini, da uomini disamorati di tutto, tranne che di denaro e morte. Credere ai fantasmi e averne paura, addirittura terrore? Non scherziamo, ben altro si rende visibile dietro l’angolo di lynchiana (nel senso del regista) memoria: i mostri evidentemente non sono i fantasmi. Jeanette Winterson è stata chiara in 12 Bytes, prendendosela col maschilismo imperante nell’artificiale (più o meno stupido, altro che “intelligente”), con i maschi digitalizzati, quelli che non sanno cosa farsene della classicità millenaria. Tutto era iniziato con la rivoluzione di Scritto sul corpo. Anni ne sono passati, e ancora la felice fantasia della scrittrice articola la sua struttura dando vita a sottili (e pellegrinanti) interpretazioni del mondo e della sua natura frammentaria. E dunque Winterson coglie una semplice e diretta discontinuità del pensiero: perché le realtà virtuali non dovrebbero accogliere l’antica idea che abbiamo dei fantasmi? Più che un’idea, a ben pensarci, avendo presente quanto sia sempre stato acceso nei vivi l’interesse per i morti, e per gli spiriti da essi derivati, più che per i santi. Vedi le radici di Halloween ben piantate nell’attuale società (dei consumi e di un po’ di tutto) rispetto a Ognissanti. Nel Sud del mondo, e in Oriente, gli spiriti inquieti spadroneggiano, e in Europa che dire, se non che i fantasmi sono spesso vendicativi, richiedono cose ai viventi e turbano eredità. Le entità hanno un debole per luoghi e desideri di chi ancora calpesta le strade del mondo, e ora che la spaziosità del mondo si perpetua nei territori dei bytes eccoli pronti a invaderli prendendosi qualche rivincita sull’Illuminismo. Winterson si prodiga ad attraversare vicende e figure, personali e non, con la consueta verve ironica, descrivendo amori e generosità amorose svariate passa un po’ di tempo con Poe ma velocemente non può fare a meno d’intendersela con Shirley Jackson e Stephen King. Persecutori e perseguitati affollano il mondo, si sa, e la scrittrice ama sperimentare quel che l’arte offre e ha offerto – sapendo che, attualmente, le macchine sembrano avere l’opzione per niente peregrina d’essere infestate. Chiedersi se per caso l’uomo non sia solo fatto di ossa e sangue risulta semplice, perfino troppo, ma il mondo tecnologico – Winterson ne è convinta e ci convince – è sempre più abitato di ombre, e diventa pronto a consentire a intelligenze alternative di venire a trovarci. Sarà sempre “una risposta parziale al mistero della morte”, ma i fantasmi appariranno ancora pronti a essere “scaricati” da supporti e dispositivi. Nuovi o vecchi, leggendari o moderni, eccoli nella zona di confine circoscritta in “Dispositivi”, “Luoghi”, “Persone”, “Visitazioni”. E in questa zona la scrittrice – strumento di osservazione e protagonista – definisce la propria prosa in lucida gioia narrativa.           L'articolo Jeanette Winterson / Stai lontano da dèi e fantasmi (Confucio) proviene da Pulp Magazine.
Arnold Zweig / Alle origini dell’odio
Un rompicapo di labirintiche stradine, un tessuto urbano composto da città incastrate l’una nell’altra, così viene descritta Gerusalemme in Il ritorno di Isaak de Vriendt di Arnold Zweig, a simboleggiare l’inestricabile rovello che avvolge le vicende degli ebrei e dei palestinesi, ancora oggi fonte di odio e di sanguinosi conflitti. Quando due popoli hanno paura l’uno dell’altro, basta una minima scintilla per far precipitare gli eventi. «La rabbia esplode e poi scompare, ma le azioni dettate dalla rabbia, quelle non possono essere cancellate e quando un rapporto di buon vicinato si deteriora, ci vogliono anni prima che torni a essere un’autentica amicizia». Il caos si manifesta in tutta la sua imprevedibilità. Motore dell’azione una conversazione ascoltata per caso: due sconosciuti progettano l’omicidio di un ebreo. Isaak de Vriendt è un uomo solitario, in bilico fra oriente e occidente, dedito alle conversazioni a fior di labbra con sé stesso, animato da una passione antiquaria che evoca antiche battaglie e da una irrefrenabile vocazione poetica. Immagina di aver vissuto migliaia di anni, e di essere passato attraverso innumerevoli incarnazioni. La sua sagoma è modellata attraverso le suggestioni offerte dalla figura del poeta e uomo politico J.I. de Haan, assassinato a Gerusalemme nel 1924; un ebreo ortodosso lontano dai precetti della moralità borghese, ispirato da peculiari dettami di reciproca tolleranza. Lungi dall’essere legate alla sua personalità scabrosa, le motivazioni dell’omicidio erano ben più complesse, e comprendevano la sua opposizione al progetto sionista. Gerusalemme è una città che ti consuma il cuore, nella quale è arduo restare tranquilli; chi resta impigliato nelle sue spire non riesce più a venire via. Mediante meticolose descrizioni, Zweig riesce a veicolare l’atmosfera fascinosa e indolente, esaltante e pericolosa del luogo. Nell’aria risuonano i monotoni canti degli arabi, uomini che possono amare oppure odiare, nella medesima semplice maniera. Una varia umanità abita quelle terre, sacerdoti armeni, pope russi, preti abissini, venditori di bibite e mercanti di ghiaccio, e ancora macchine, asini e cammelli. L’utopia della convivenza pacifica fra gli uomini è destinata ad essere spazzata via dalla violenza. La storia è ambientata in tempi definiti “di comune idiozia”. Siamo nel 1929, un anno di particolare inquietudine. L’antisemitismo cresce e si diffonde, anche presso popoli ritenuti colti come quello tedesco. Macerie vengono rapidamente nascoste, perché si eviti di ricordare i conflitti trascorsi. Parole che fanno pensare agli scenari odierni, costellati di dolore e di rovine. Il mondo, allora come oggi, è sull’orlo di un abisso. Nulla è cambiato. Il dissidio fra giudaismo e sionismo anima le pagine del libro, proponendo dibattiti tornati di prepotente attualità. La passione proibita fra il protagonista e un ragazzo arabo materializza arcane rivalità e oscure pulsioni dell’anima. La dicotomia fra la devozione e il desiderio, la tensione fra benedizione e maledizione lacera la coscienza. L’assassinio di de Vriendt mette in moto un meccanismo inarrestabile. Irmin, agente dei servizi segreti britannici, è incaricato di fare luce sul caso, di ricostruire la fitta trama di intrighi celata dietro l’omicidio. Nel corso dell’indagine scoprirà la vocazione umana all’odio e alla distruzione. «Sembrava che fra arabi ed ebrei si fosse aperto un conto che non si sarebbe più potuto pareggiare», scrive Zweig prefigurando scenari apocalittici. La pace riconquistata dopo un conflitto, infatti, è sempre precaria, in quanto ogni guerra erode il patrimonio etico di chi vi prende parte. Un libro di somma imparzialità, come notò Freud nella sua corrispondenza con l’autore, del quale era amico. Pubblicato in tedesco nel 1932, prelude ai grandi e violenti sconvolgimenti provocati dai nazionalismi e dalla follia militarista. Segnali che Zweig coglie in pieno con lucide capacità profetiche, indizi che dovrebbero spingerci a non ripetere oggi gli errori fatali di ieri. L'articolo Arnold Zweig / Alle origini dell’odio proviene da Pulp Magazine.
Tillie Olsen / Lamento per una perdita
In un periodo storico e sociale buio come il nostro, in cui le destre e la restaurazione si stanno impossessando del potere in Europa e in tutto il resto del mondo, la letteratura dovrebbe avere il compito di denunciare le ingiustizie e gli abusi. Le prevaricazioni ci sono sempre state, è la storia che ce lo insegna, e si sono trasformate nel tempo con l’evolversi della tecnologia e con i cambiamenti sociali. Tillie Olsen, figlia di ebrei russi socialisti emigrati negli States agli inizi del Novecento, ci porta a cavallo degli anni Venti e Trenta del secolo scorso, in un’America in crisi durante la Grande Depressione, dove le possibilità date alla classe operai e ai proletari erano il lavoro precario e l’immigrazione che bastavano a malapena per sopravvivere. La storia degli Holbrook, una famiglia costretta a vivere in condizioni disperate, comincia nel Wyoming, dove il capofamiglia lavora in una miniera di carbone funestata da gravi incidenti sul lavoro quotidiani: decidono quindi di spostarsi in Nebraska e prendere in affitto una fattoria che però dovranno abbandonare per le richieste sempre più esose delle banche, per finire nei mattatoi di una grande città. Le voci narranti sono di due donne, il cui ruolo nella società era di mere esecutrici degli ordini dei mariti e destinate ai lavori domestici. La piccola Marzie e la madre Anna subiscono più degli altri il peso della povertà e della mancanza di prospettiva e aspettative, in una società che le relega a figure si secondo ordine. Olsen a vent’anni faceva parte della Lega dei giovani comunisti, diventa una giovane madre abbandonata dal padre della figlia che chiama Karla in onore di Karl Marx, e tra lavori umili e malpagati partecipa al movimento sindacale che nasce a San Francisco. Pubblicato nel 1974 ma cominciato decenni prima, Yonnondio è uno sguardo impietoso verso il mondo del lavoro, la condizione delle donne e una società maschilista e arretrata. Uno sguardo fortemente politico verso condizioni che sembrano reiterarsi nel tempo facendo presagire un avvenire pieno di battaglie da combattere. Lo stile è essenziale e cristallino, con un punto di vista autorevole e di parte che apre a riflessioni e conseguenti azioni che non dovrebbero più essere rimandate. Il titolo, Yonnondio, è una parola che nella lingua delle tribù irochesi significa “lamento per una perdita”, ed è la vita stessa che sembrano aver perduto i personaggi del romanzo. Completa il libro un lungo estratto di un interessante saggio di Cinzia Biagiotti sulla vita e le opere della scrittrice. Da sottolineare la traduzione di Giovanna Scocchera che con la sua professionalità e competenza rende la lettura scorrevole e piacevole.   L'articolo Tillie Olsen / Lamento per una perdita proviene da Pulp Magazine.
Percival Everett / Un James Bond surreale
Appena lette le prime righe e poi le prime pagine di questo volume, si può pensare di essersi sbagliati e di stare leggendo non un romanzo, ma un saggio scientifico-filosofico, e ci si sente impreparati e inadeguati. Ma, come spesso succede, bisogna resistere e andare avanti. E rapidamente la qualità surreale, paradossale, grottesca e immaginifica del nuovo romanzo di Percival Everett, Dottor No, ci conquista e ci cattura. E ci accorgiamo che l’autore ha deliberatamente deciso di portarci fuori strada, per farci capire, in caso ancora non ce ne fossimo accorti, che lui non è uno di quelli che scrive sempre lo stesso libro. Dunque il dottor No è un esperto del nulla. Si chiama in realtà Ralph Towsend, ma si fa chiamare Wala Kitu, perché Wala vuol dire nulla nella lingua tagalog e Kitu indica il nulla in swahili. Che cosa sia il nulla non lo sa bene nemmeno lui, ma lo sta cercando ed è molto possibile che lo trovi. Del resto, è un professore universitario, anzi un professore emerito, di matematica, alla Brown University, e i suoi studi si apparentano alla fisica e alla matematica, per quanto il nulla possa afferire a una disciplina. Se nelle prime pagine siamo appunto disorientati, dopo poco siamo immersi in una spy story surreale, un cui il cattivo è cattivo solo perché pensa che sia più divertente giocare nella squadra dei cattivi anziché in quella dei buoni, e il professor Wala Kitu, l’esperto del nulla, lo specialista del nulla, è il buono, che potrebbe aiutare il cattivo in un modo determinante. E se vi sembra di essere dentro la sceneggiatura di Licenza di uccidere (Doctor No nella versione originale), avete ragione. Perché in un certo senso, in molti sensi, questo romanzo spiazzante, particolarmente spiazzante dopo James (in cui aveva “riscritto” Le avventure di Huckleberry Finn dal punto di vista dello schiavo, James appunto), è una parodia, un gioco, un divertissement sulle orme di Ian Fleming e di James Bond. Ma torniamo al nulla. Trovare il nulla vorrebbe dire non solo cancellare luoghi e persone nell’oggi, ma cancellarne anche il passato, il ricordo, la memoria: se invece di un posto o di una persona ci mettiamo il nulla, quel luogo o quella persona non sono mai esistiti. Annullare è qualcosa di più di cancellare, anche se spesso noi usiamo i due termini come sinonimi. Il miliardario John Sill, che sogna di diventare un cattivo proprio come quelli di James Bond, e vuole vendicare la morte dei genitori di cui ritiene siano responsabili gli Stati Uniti, non bada a spese, ha dei mezzi molto seduttivi per convincere sia Wala che la sua collega di università Eigen Vector ad aiutarlo, ma è disposto a servirsi anche delle maniere forti. Il progetto di Sill è di usare il nulla contro gli Stati Uniti e non c’è nulla che lo possa fermare nel suo intento: che alla fine consisterà attaccare Fort Knox, dove è convinto che venga conservato il nulla. Ci divertono e stuzzicano gli archetipi del genere, il maggiordomo DeMarcus ovviamente impeccabile, il generale Takitall giustamente brutale e privo di scrupoli, un agente governativo chiamato improbabilmente Bill Clinton e l’immancabile femme fatale, Gloria, che pilota con disinvoltura aerei e sottomarini e cerca di convincere al sesso il professore, che resta riluttante e disinteressato. Con un registro molto più inquietante, compaiono comportamenti totalmente illogici e violenti che sono modellati sui format della tv e delle serie, su certi cliché del cinema e altrettanti topoi letterari. Ed è soprattutto la logica a condurre la lotta. Nel suo tentativo di sventare il diabolico piano di Sill, il professor Wala Kitu, incapace di qualsiasi gesto quotidiano come cucinare, baciare e guidare l’auto, cerca di usare la logica. Lo fa anche con l’aiuto del cane Trigo, che ha una sola zampa ma una grande chiarezza mentale, e che di notte, in sogno, sostiene il professore nei suoi ragionamenti, lo incalza e lo sprona. Tuttavia, è chiaro a Wala Kitu quanto al lettore che le regole della logica “sono sempre chiare, rigorose, ma hanno poco a che fare con la realtà”. Alla fine, come in ogni James Bond che si rispetti, il male viene sconfitto. E il professore si ritrova innamorato e forse anche felice. E il nulla ritorna a essere il nulla, qualcosa che sentiamo e non riusciamo ad afferrare, qualcosa che non siamo ancora riusciti a monetizzare e sfruttare. Qualcosa, dunque, degno di essere raccontato. Da qualcuno che ha il coraggio di provarci, come Everett.   L'articolo Percival Everett / Un James Bond surreale proviene da Pulp Magazine.
Tshidiso Moletsane / Strade e sogni bruciati
Un narratore anonimo descrive una notte a Johannesburg tra povertà, violenza, post-apartheid e prostituzione, dove droga e alcol sembrano l’unica via di fuga. Il protagonista vive tra ragazze bellissime, di cui si innamora inevitabilmente, che frequentano ogni tipo di locale, con amici con cui condivide la droga e le esperienze: i suoi sogni, però, si infrangono fatalmente contro la realtà e si tramutano invariabilmente in incubi. Ha un amico immaginario, con le ali e la pelliccia, che lo segue ovunque e con cui parla e si confronta costantemente: Ali, questo il nome dello strano essere, sembra sempre sapere cosa accadrà di lì a poco e non lesina pillole di saggezza. Una vita surreale raccontata con uno stile estremo che non risparmia alcuna brutalità al lettore, in una città che più che in sottofondo è sempre in primo piano. Un luogo che sembra doversi incendiare e sprofondare da un momento all’altro, come la vita di tutti i personaggi della storia. Non c’è possibilità di redenzione, sembra voler dire Tshidiso Moletsane, e neanche di riscatto. La vita, più che dalle nostre scelte, è condizionata dal posto in cui nasciamo e viviamo, dalle condizioni della nostra provenienza familiare, dall’ambiente che frequentiamo. Cambiare, il più delle volte, è impossibile. Crudo e volutamente eccessivo, Junx è un romanzo che si legge tutto d’un fiato, senza pause né compromessi, forte di un realismo che definire pessimista è un eufemismo e di una critica sociale pungente e senza sconti. Pubblicato nel 2021, il romanzo ha vinto il premio Sunday Literary Award nel 2022. L’autore è venuto a mancare nel 2024.   L'articolo Tshidiso Moletsane / Strade e sogni bruciati proviene da Pulp Magazine.
Ocean Vuong / Vivere una volta sola
Ocean Vuong è un giovane scrittore e poeta vietnamita residente negli Stati Uniti, dove si è trasferito all’età di due anni. È uscito quest’anno per Guanda il suo secondo romanzo, L’imperatore della gioia, tradotto da Norman Gobetti, a due anni dalla sua ultima raccolta di poesie Il tempo è una madre (Guanda, 2023). Più che temi ricorrenti, nei lavori di Vuong sembrano esserci dei veri e propri punti cardinali che orientano tutta la sua produzione narrativa e poetica. Il legame con la madre rimane la sua stella polare, attorno alla quale l’America contemporanea in cui Vuong è cresciuto irrompe nel suo cosmo letterario, regalandoci un alto livello di empatia e compassione. L’imperatore della gioia si svolge in una cittadina immaginaria del Connecticut, chiamata East Gladness, la quale mette in moto un gioco di significati proveniente dal titolo originale inglese, The Emperor of Gladness, dove “gladness” è sia il nome del paese dove vive Hai, sia la “gioia” tradotta in italiano. Hai è un ragazzo di vent’anni con molte speranze e altrettante fragilità. Proviene da una famiglia vietnamita completamente al femminile: cresciuto dalla madre con la nonna, la zia e il cugino autistico Sony, Hai sente un forte legame familiare. La sensibilità che gli permette di vedere e sentire le fragilità del mondo circostante presto lo porta lontano da casa, dopo un accumulo di bugie e mezze verità in cui si sente sepolto. In procinto di buttarsi da un ponte, Hai conosce un’anziana donna lituana, Grazina, che gli offre un posto dove stare: Hai deve solo assicurarsi che lei prenda le medicine che le servono per ancorarla al mondo presente. Spesso, infatti, Grazina scivola in un passato lontano e in un altro tempo, dove si trova in procinto di lasciare la Lituania per fuggire da Hitler e Stalin. Nei momenti in cui Grazina non trova nessun appiglio in un presente scivoloso e annacquato da una memoria che sta sbiadendo, Hai si inventa il ruolo del sergente Pepper, che sta conducendo la piccola Grazina in salvo verso l’America. Hai diventa, quindi, l’àncora di Grazina nel presente di fine primo decennio del ventunesimo secolo, nello stesso modo in cui anche Grazina riesce ad ancorare un giovane in balìa di sé stesso e di un mondo complesso in cui non capisce che strada sia giusto percorrere. Una via giusta, però, riesce a trovarla: la via che lo conduce all’HomeMarket, una catena di fast food dove trova lavoro assieme al cugino Sony. L’HomeMarket è, però, anche un luogo di calore, di comprensione e di accoglienza: tutti i dipendenti sono persone che la vita ha, in qualche modo, ferito. C’è Russia, che lavora per mantenere la sorella in un centro di disintossicazione; c’è Maureen, che ha perso il figlio piccolo a causa di una malattia; e c’è Sony, che vive in una casa-famiglia perché la madre è finita in carcere e spera di risparmiare abbastanza per farla uscire. Tra tutti loro si crea un rapporto di fiducia e di solidarietà: tutti hanno perso qualcosa e tutti hanno qualcosa da riscattare, nonostante si senta il peso della recessione economica di quegli anni che non lascerà l’HomeMarket fuori dal suo tocco. È una gioia fugace, quella che tocca Hai e tutte le vite che entrano nella sua orbita: un breve sorriso con i colleghi, una calda serata con Sony, un pomeriggio passato a impersonarsi un sergente americano in Lituania, una chiamata alla madre, un ricordo felice con la sua famiglia. Ocean Vuong scrive un inno alle piccole cose, orientandosi con i punti cardinali della sua scrittura e seguendo la stella polare dell’amore per la madre: trovare la propria strada; modellarsi per incastrarsi al paese che ci ha accolto, senza dimenticare da dove veniamo; seguire la luce del calore familiare che ci ha creato; perdonarci. Vuong ha una scrittura delicata che non è mai sprezzante né fredda, ma sempre compassionevole ed empatica. Un invito alla sensibilità, perché “la cosa più difficile al mondo è vivere una volta sola”. L'articolo Ocean Vuong / Vivere una volta sola proviene da Pulp Magazine.
Leila Slimani / Gelsomini notturni a Punta della Dogana
A Rabat il profumo dei fiori la notte apre i pensieri alle storie – vissute e narrate, che trasportano chi decide di raccontare oltre i suoi passi, sul mare e sotto il cielo, nel cuore del Mediterraneo, dagli spazi eterni delle sabbie alle quinte cremisi e saline di Venezia. Leila Slimani, scrittrice marocchina emigrata in Francia, accoglie l’invito di passare una notte a Punta della Dogana, dove i seicenteschi magazzini progettati da Giuseppe Benoni, capaci di accogliere merci provenienti da ogni dove, sono stati riqualificati nel 2008 dall’architetto Tadao Andō. E trasformati in un centro d’arte contemporanea. Il luogo dov’era il commercio della Repubblica di Venezia, al centro fra il bacino di San Marco, il Canal Grande e la Giudecca, in un continuo via vai di navi e controlli doganali di casse e sacchi, ora accoglie fra le sue mura ricoperte di salnitro una quantità di opere d’arte moderne. Slimani vi giunge da lontano e nota subito come lì si fondano il passato e il presente, l’antico e il moderno, cicatrici e giovinezza. Suona alla porta del museo, è sera. Ma prima di essere accolta la scrittrice per una trentina di pagine ci spiega come sia arrivata fin lì. A Parigi Slimani fa emergere per iscritto quel muro che devono faticosamente erigere coloro che scrivono romanzi (ma non solo, occorre precisare) se intendono portare a buon fine l’intrapresa. La disciplina prende il sopravvento fra le mura di casa, nello specifico il suo studio di pochi metri quadrati. Occorre farsi in quattro perché i protagonisti di un romanzo “non se ne vadano”. Ecco perché una buona dose di disciplina sia necessaria per saper dire di no a molte persone e affrontare le inevitabili perdite. È a questo punto che iniziano ad apparire ricordi, sogni e allucinazioni mentre l’aria fredda parigina attornia autrice e editrice sedute ai tavolini all’aperto mentre discutono intorno al progetto di una collana dal titolo Una notte al museo. Fra un bicchiere e l’altro di vino la proposta è ben decisa: per Leila si tratta di dormire dentro Punta della Dogana a Venezia, in una clausura circondata da opere d’arte contemporanea, una “chiusura” che fa venire in mente le reclusioni eccellenti di Hölderlin, Emily Brontë, Petrarca, Flaubert, Kafka, Rilke. Miti che offrono a Slimani le loro modalità, venendo incontro al suo desiderio di ritiro dal mondo. Fra rimpianto della decisione, dubbi, il senso opposto di quiete e caos, entrambi ricercati come se si potesse scegliere fra mondanità ed eremitaggio, arriva l’aprile del 2019 e la scrittrice atterra a Venezia. E a piedi, nel silenzio notturno mai pago del continuo sciabordio, appesantita dalla cena e dal vino rosso, si ritrova davanti alla porta del museo: “Sono Leila. La scrittrice che deve dormire qui”. Fuori è notte, nel segreto chiuso delle grandi sale Slimani “farà nottata” chiedendosi se potrà fumare, se sarà osservata dal guardiano, se riuscirà a comprendere le installazioni che la circondano, lei a cui l’arte attuale non l’ha mai troppo interessata. I pensieri corrono, vanno a certe rimembranze parigine, alle letterature dei flâneur, alle paure inflitte dai maschi, alle sciabolate di Virginie Despentes e, soprattutto, agli anni di Rabat, dove non c’erano musei. Alla Leila ragazzina, che leggeva i romanzi acquistati alle bancarelle, l’arte era vista soltanto attraverso la lente occidentale, mondo lontano e inaccessibile. In letteratura e cinema cercava una sconfinata libertà. In quell’enorme spazio ora, da adulta, si ritrova davanti alla “regina reclusa” Emily Dickinson. Questo volevano dalla poetessa, di stare tranquilla e prevedibile. E di voler essere risolutamente libera, si è sempre imposta Slimani. Siamo al centro della notte, al suo centro appare l’installazione di Hicham Barrada: in una serie di terrari dimorano le piante del gelsomino notturno, che Leila conosce bene. In Marocco il “mesk el arabi” è comune, sprigiona il più intenso profumo solo di notte quando i fiori si schiudono. Il mistero delle ore notturne incanta la scrittrice da sempre: l’odore dell’infanzia in quel profumo inebriante che si spandeva vicino alla porta d’ingresso della casa di Rabat. Leila in arabo significa proprio notte. E la libertà per lei adolescente era oltre la porta di ferro. Nelle sale del museo di Punta della Dogana il giardino segreto e orientale, proprio a Venezia, torna prepotente nei pensieri dell’ospite che a piedi scalzi si ritrova a fantasticare sugli anni marocchini. E Virginia Woolf la soccorre perché possa comprendere la costrizione delle donne tra “dentro” e “fuori”. “La questione femminile è una questione di spazi”, pensa. E pensa che occorra studiare la geografia della dominazione esercitata sulle donne per misurarsi col mondo. La notte scorre così, priva di sonno ma colma di trasformazioni giunte da molte parti di mondo, dalle opere artistiche la spinta riporta ai richiami di Rabat, alla voce del muezzin, alla distruzione di intere città, come Beirut per la guerra, come Parigi e i fuochi della modernità, il fuoco devastante di Notre-Dame. La bellezza rasa al suolo dal denaro. Le città esauste, compresa Venezia. Tutti pensieri, si dice Slimani, indotti dal sentirsi un po’ sbalestrati da tutte quelle ore notturne passate insonne. Il tempo viene invertito e stirato dal luogo, dalle opere esposte, e le tracce lasciate si accavallano, addirittura rendono visibili i fantasmi che riempiono l’edificio. Il profumo che i fiori hanno di notte è un libro d’intensa concentrazione, breve e diretto, dove l’immagine anche tragica della vita, dell’impegno dovuto per intenderne pieghe e oscurità, abbagli e poesia, deve restare moralmente sveglio. Slimani, a poche pagine dal termine della sua sosta veneziana, fa emergere il padre dalle nebbie della censura subita in Marocco a causa di uno scandalo politico-finanziario, imprigionato e poi interamente prosciolto. Una ferita causa di morte. Il padre è morto, Leila scrive. Ma il padre avrebbe riso delle “fantasie di reclusione” della figlia. Slimani lo confessa, troppe le lacune per poter rievocare ricordi precisi, e neppure sa se potrebbe scambiare la propria scrittura con la vita del padre. Se riuscirebbe a dirlo. La notte sta finendo sulla Punta della Dogana, la porta d’ingresso e d’uscita di Venezia è ancora lì: luogo di passaggio e frontiera per merci e viaggiatori, per menti di diverse civiltà. Le contraddizioni personali si raccolgono, diventano le nostre di lettori, un concentrato di oriente e occidente a cui va di traverso la condizione di meticcio. Salman Rushdie ha insegnato a Slimani, e a tutti noi, che abbiamo “un’identità allo stesso tempo plurale e parziale”. Nell’ora blu poco prima dell’alba, Slimani esce all’aperto e passa davanti alla chiesa della Salute. Neanche un rumore, caffè e sigaretta al tavolino di un bar appena aperto, e un unico inequivocabile primo pensiero: “la letteratura, come l’arte, se ne infischia delle frontiere tra passato e presente”. E ancora: “Scrivere è stato per me un atto riparatore. Un atto riparatore profondo, legato all’ingiustizia di cui è stato vittima mio padre”. E il profumo del gelsomino notturno è ancora lì, tutt’intorno.   L'articolo Leila Slimani / Gelsomini notturni a Punta della Dogana proviene da Pulp Magazine.
Pierre Lemaitre, Lacune
Mi ricordo ancora di quando è uscito Ci rivediamo lassù. Nel aveva vinto il premio Goncourt e rivelato uno scrittore che fino a quel momento era stato, in Francia ma anche altrove, un autore di polar, thriller, noir. C’erano anche state svariate polemiche sulla scrittura alta e bassa, letteraria o di genere, e sugli scrittori che stavano da una parte o dall’altra, o magicamente da tutte e due. Chi l’avrebbe mai detto che da quel romanzo sarebbe nata una sorta di saga, un’epopea capace di seguire il protagonista attraverso la storia della Francia dai primi del Novecento alla fine del secolo, e di tenere insieme le vicende personali di una famiglia e quelle di un paese intero. Anche Il sol dell’avvenire conserva questa straordinaria capacità. Siamo alla sesta puntata (dopo una trilogia dedicata al periodo tra le due guerre e i primi due volumi della quadrilogia dedicata al secondo dopoguerra), e uso il termine “puntata” deliberatamente, perché a un primo e immediato livello i romanzi di Lemaitre si leggono come si guardano le serie TV: non vedendo l’ora di scoprire come va a finire, trascinati da un accadimento all’altro in una trama tanto complessa e articolata quanto impeccabilmente costruita, senza una sbavatura. Piena di colpi di scena e cambi di direzione. I personaggi sono gli stessi che abbiamo incontrato nei romanzi precedenti. Non ci sono eroi e non ci sono eroine. Il successo e il denaro sono arrivati nonostante la pochezza e lo squallore dei caratteri, sono frutto di fortuna e caso piuttosto che di abilità, tenacia, convinzione. E per quasi tutti la mancanza di un codice morale, di un’etica personale, sono un ulteriore aggravante. Se ci affezioniamo a qualcuna di queste tristi figure, lo facciamo perché ne riconosciamo l’umanità: un’umanità che non ci piace e che non vorremmo vedere ma che sappiamo esserci e che chiede la nostra comprensione. Prevalgono tuttavia l’antipatia, l’avversione, il fastidio. Che non ci impediscono naturalmente di aver voglia di leggere, anzi. Trovo che sia una straordinaria qualità, di cui è difficile trovare l’eguale, questa di Lemaitre: costruire personaggi al limite dell’insopportabile di cui però non puoi fare a meno di voler sapere tutto. Ne Il sol dell’avvenire siamo nel 1959 e la famiglia Pelletier è ora tutta in Francia. I figli erano già arrivati a Parigi per conto loro, seguendo ciascuno le proprie inclinazioni (o la loro assenza). François è un giornalista di successo, lavora per un grande quotidiano nazionale e conduce una delle prime trasmissioni televisive di news. Jean, privo di talento e pure di senso degli affari, vittima complice dell’orrenda moglie Geneviève, ha aperto dei negozi di biancheria, ha avuto successo ed è diventato ricco. Hélène lavora alla radio, si sta inventando una trasmissione che funziona alla grande. Sono tutti sposati e hanno dei figli. I vecchi genitori, Louis e Angèle, hanno deciso di lasciare Beirut e prendere una casa di campagna appena fuori da Parigi. La guerra è finita da tempo, la ricostruzione è in corso, il benessere sembra finalmente conquistato e tutti potrebbero vivere felici e tranquilli. Ma la felicità è noiosa da raccontare e non dura mai più di qualche attimo. La pace degli anni Cinquanta, d’altro canto, è funestata dalla guerra fredda e poi dalle minacce nucleari. E quando Jean, il businessman improvvisato e sempre in imbarazzo, viene invitato a far parte di una delegazione di industriali che andrà in visita a Praga, entra in scena un agente segreto che mette a soqquadro i piani dell’intera famiglia Pelletier. Infatti, quello stesso viaggio sarà utilizzato per far uscire dalla Cecoslovacchia un agente segreto troppo esposto. Di certo Jean non è disinvolto abbastanza, e sarà quindi suo fratello François a partire per Praga: nel piano elaborato dai servizi segreti, François passerà una notte di gozzoviglie tra alcool e squillo d’alto bordo, e al suo posto, la mattina del rientro in Francia, si presenterà la spia in pericolo. François riparerà all’ambasciata francese e rientrerà il giorno successivo. Lo spirito di avventura e la curiosità lo spingono ad accettare, mentre Jean resta all’oscuro di tutto e pensa che ancora una volta il destino gli sia avverso: non appena c’è un’occasione per mettersi in mostra e farsi valere, succede qualcosa che manda tutto all’aria. E poi naturalmente quella che doveva essere la missione perfetta si trasforma in un caos in cui nessuno ha più il controllo di niente. Rocambolescamente e grazie all’ostinazione della giovane moglie, intelligente e capace nonostante la sordità e l’aspetto timido, François riesce comunque a ritornare a casa, e con tantissimo materiale per i suoi reportage. Il vecchio Louis invece, gravemente malato di cuore, sente avvicinarsi la fine. Che è anche la fine di un’era, perché nessuno dei figli sembra essere in grado di prendere le redini della famiglia, delle tre famiglie che ora compongono il clan Pelletier. Si sta affacciando però la nuova generazione, i figli dei figli, a partire da Colette. Colette è la più grande dei nipoti, è cresciuta con i nonni a Beirut e poi nella casa di campagna vicino a Parigi, e lì un trauma l’ha fatta crescere in fretta. E sì, potrebbe essere proprio lei la protagonista della prossima puntata. Pierre Lemaitre su “PulpMagazine”   L'articolo Pierre Lemaitre, Lacune proviene da Pulp Magazine.