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Ethel Mannin / Prima di Gaza e la memoria della Nakba
Di Ethel Mannin (1900-1984), della sua biografia e del suo straordinario e purtroppo unico romanzo gotico, Lucifero e la bambina, abbiamo già parlato a suo tempo e  a quelle pagine rimandiamo il lettore:  https://www.carmillaonline.com/2021/08/20/ethel-mannin-e-il-femminismo-luciferiano/. Il libro che Agenzia Alcatraz ha appena pubblicato e che inaugura Etheliana, una collana dedicata interamente alla prolifica e multiforme attività letteraria dell’autrice inglese – che si era proposta di scrivere almeno un romanzo e un saggio ogni anno, e così aveva fatto tra i 25 e i 75 anni – non è meno provocatorio e “scomodo” del precedente seppure orientato in tutt’altra direzione. Un testo che conferma la posizione controcorrente, sempre sincera, lucida e appassionata, ma mai prona alle osservanze canonizzate dal codice normativo della classe intellettuale britannica nei cui ranghi Ethel era riuscita così faticosamente a farsi largo, in quanto donna e soprattutto in quanto proletaria d’origine (in gioventù era stata costretta ad abbandonare gli studi e a lavorare per anni come segretaria in un’azienda senza smettere mai di scrivere). Refrattaria all’ubbidienza, fosse pure ai dettami della sinistra inglese dove aveva militato a lungo e con fervore, da principio nel Labour Party e poi nell’ Independent Labour Party, prima di rompere clamorosamente con quelle posizioni, a suo dire, troppo filosovietiche e staliniste, e passare dal comunismo alle file degli anarchici, si era guadagnata molti devoti estimatori ma soprattutto ancor più acerrimi nemici. Già negli anni ’30 aveva fatto scandalo la sua autobiografia, in cui dichiarava la propria bisessualità e rivelava le appassionate relazioni extraconiugali con il poeta W.B. Yeats e con il filosofo Bertrand Russell; aveva infastidito molti benpensanti il suo sostegno attivo alla Solidarietà Internazionale Antifascista (SIA) durante la Guerra Civile spagnola; altrettanto indigesti per l’opinione pubblica conservatrice risultavano il suo anticolonialismo, l’antirazzismo, l’agnosticismo, il femminismo e il pacifismo gandhiano del dopoguerra. Insomma, Ethel era una donna di intenso fascino, sia fisico che intellettuale, ma una gran rompiscatole. Tanto per accrescere ulteriormente l’ostilità di molti nei suoi confronti, Ethel, ormai non più giovane, si schiera di nuovo dalla parte meno conveniente. Nel 1958 il romanzo di propaganda filosionista Exodus, scritto dal giornalista ebreo-americano Leon Uris, diventa un best seller internazionale secondo solo a Via col vento e nel 1960 Otto Preminger ne trae un film di uguale successo sceneggiato da Dalton Trumbo (sceneggiatore comunista interdetto per 15 anni da Hollywood perché finito nella lista nera della Commissione per le attività antiamericane, che ricomincerà a firmare opere a suo nome proprio con questo film e con il contemporaneo Spartacus di Stanley Kubrick) e interpretato da Paul Newman nei panni di Ari Ben Canaan, personaggio ispirato alla vita e alla storia di Yitzhak Rabin, generale delle forze di difesa e in seguito primo ministro israeliano. Un’operazione di scoperto e incondizionato appoggio allo Stato di Israele proposta però in termini apparentemente progressisti e “di sinistra”. Ethel, che ha compiuto in quegli anni vari viaggi in Medio Oriente e ben conosce la questione palestinese, non ci sta, e nel 1963, raccogliendo testimonianze e notizie dirette dalle vittime della Nakba del 1948, scrive – come dichiara in esergo al testo, dopo una citazione da Giosuè, il libro più mostruoso della Bibbia – «A e per i profughi palestinesi che, in tutti i Paesi arabi ospitanti, mi hanno detto: “Perché non scrivi la nostra storia – la storia dell’altro esodo – il nostro esodo?”». E così nasce La strada per Be’er Sheva, il primo e forse l’unico testo occidentale che riferisce quanto accaduto dalla parte dei perdenti. La memoria della Nakba: fatta di stragi, persone mitragliate a freddo dagli Einsatzgruppen israeliani, violenze carnali, sputi in faccia e pisciate nei pozzi dell’acqua potabile, case bruciate, donne vecchi e bambini costretti a fuggire nel deserto senza viveri e sotto le incursioni continue dell’aviazione. A dimostrare, per chi se ne fosse accorto solo ora, che non nasce con Gaza l’accanimento colonialista e, diciamolo pure, apertamente nazista dei sionisti contro i palestinesi: tutto questa violenza Ethel già ce la racconta. Il romanzo, il cui finale, lo anticipo, ci lascia con l’amaro in bocca, ma non potrebbe essere altrimenti, qui gli eroi finiscono purtroppo non sull’altare ma nella polvere come nella realtà, è diviso in tre parti: la prima L’esodo, racconta delle centomila persone scacciate da Lidda e dai villaggi circostanti durante la guerra arabo-israeliana e l’attraversamento del deserto fino alla città di Ramallah sul lato arabo, e tra questi la famiglia di Butros Mansour, un proprietario terriero palestinese di fede cristiana, della moglie inglese e del figlio dodicenne Anton, segnato profondamente dalla terribile esperienza; la seconda L’esilio, è il bildungsroman di Anton, costretto  dopo la morte del padre di crepacuore a Gerico, a crescere in Inghilterra, presso la famiglia della madre, una dimensione affettuosa e accogliente ma alla quale non riesce a non sentirsi estraneo, poi la scoperta dell’amore e del sesso – ma anche del dolore per l’insuperabilità delle barriere etniche – e la pervicace conservazione della propria identità grazie al culto del ritorno in Palestina, tra gli amici e i compagni, per infiltrarsi sulla strada di Be’er Sheva, ormai in mani israeliane, e rivedere casa; il terzo Il ritorno, narra il controverso avverarsi dei suoi desideri e il tragico esito della vicenda. Una storia che potrebbe essere – e molto probabilmente è – autentica e per questo triste, spietata e priva di ogni consolazione. Oggi più che mai si impone di leggere un libro come questo e non possiamo non essere grati al coraggio di Agenzia Alcatraz che lo pubblica – in una splendida edizione ottimamente tradotta da Stefania Renzetti e chiosata dall’accorata postfazione di Tiffany Vecchietti – e che dedica spazio e attenzione a una donna e a una scrittrice come Ethel Mannin. Speriamo che gli si aggiunga presto anche il suo seguito ideale, il romanzo del 1966 The Night and Its Homing, ma la collana Etheliana avrà vita lunga ci auguriamo.   L'articolo Ethel Mannin / Prima di Gaza e la memoria della Nakba proviene da Pulp Magazine.
Chimamanda Ngozi Adichie / L’inventario delle delusioni
Ho delle perplessità su questa lettura. C’è da dire, a mo’ di premessa, che coltivo da tempo una grande passione, e stima, per Chimamanda Ngozi Adichie; che ho amato moltissimo sia Metà di un sole giallo sia Americanah; e che anche senza volerlo avevo delle aspettative alte. Ci sono molte cose belle nel romanzo, e anche la scrittura, e le ambientazioni, sono belle. Ci sono anche molte riflessioni e molti pensieri che vengono in mente leggendo o dopo avere letto il libro. Ma c’è qualcosa che manca. Per cui se leggevo un po’ di pagine e poi mi dovevo interrompere, non avevo poi quel desiderio bellissimo di riprendere la lettura. E quindi non mi sono trovata, come spesso mi succede, a desiderare di raccontarlo e consigliarlo, di vedere la recensione pubblicata, o anche solo a ricordarlo con affetto. Ma vediamo di cosa parliamo, quando parliamo de L’inventario dei sogni. Innanzitutto i personaggi. Sono quattro donne, tre nigeriane e una della Guinea francese. Le tre nigeriane sono belle e ricche, forse ricchissime, e scontente per diversi motivi. Chia è scontenta perché sente che di tutti gli uomini che ha avuto, nella sua vita agiata e piena di viaggi, non ce n’è uno che l’abbia conosciuta veramente. E mentre la vita scorre veloce, pensa che ormai non le potrà succedere. Amicizie, affetti, viaggi, ricchezza, non possono nulla di fronte allo sconforto di questa prospettiva. Omalagor è scontenta perché si rende conto che non riuscirà ad avere dei figli: ha 47 anni, le piace la sua vita nella villa di Abuja in Nigeria, il suo impegno al sostegno di piccole imprese femminili e altre cause. Ma il continuo ricordarle, da parte della famiglia e soprattutto di una zia, che non è non sarà mai una madre (a meno che non adotti un’orfanella o un orfanello) finisce per farsi strada dentro di lei, costringendola a scoprire parti di sé che avrebbe preferito non conoscere. Zikora è scontenta perché sì, è diventata madre, ma il compagno con cui pensava di condividere la maternità e la vita è scomparso non appena lei gli ha detto di essere incinta. E non è più ricomparso. Neppure quando è nato il bambino, che ora ha cinque anni. E con questa fuga ingiustificata le ha lasciato un’amarezza che niente riesce a raddolcire. Infine Kadiatou, che non è ricca e non è bella, che è la tuttofare di Chia, fuggita dalla Guinea e approdata in America per dare una vita migliore alla figlia Binto, si trova ad essere oggetto di violenza sessuale da parte di un ricchissimo e importante cliente dell’albergo di lusso in cui lavora come cameriera ai piani. Kadiatou è una donna semplice che non desidera altro che pace e affetto, e veder crescere serena la figlia. Si trova quasi costretta a denunciare la violenza subita, e poi, con il suo inglese approssimativo e la sua dignità modesta, resta schiacciata dalla macchina mediatica, che subisce come se fosse un’altra violenza. Sarà solo nel momento in cui rinuncerà al processo che ritroverà la quiete e la calma che desidera sopra ogni cosa. Ora di queste quattro donne, per quanto interessanti e complesse, non ce n’è nessuna che ci arrivi al cuore, che ci coinvolga, che ci faccia stare dalla sua parte. A nessuna di loro ci sentiamo vicine. Sono donne forti e combattive, di successo eppure ancora fragili, donne che hanno fatto di tutto per superare i pregiudizi ma che poi rimangono incastrate in quel pezzetto di pregiudizio che hanno interiorizzato. Sono donne che, una volta uscite dall’Africa, si rendono conto di cosa sia il razzismo e di come sia difficile conviverci, soprattutto in America. Sono donne ricche a dispetto della nostra immagine stereotipata per cui in Africa non esiste ricchezza. E sono donne che vivono senza riserve, piene di slanci, di affetto, di rabbia, di complicazioni. Potrebbero dunque essere come me e come noi, ma qualcosa nel romanzo ce le tiene distanti, come al di là di un vetro infrangibile. E poi ci sono gli uomini. Predatori, fidanzati inaffidabili, padri in fuga. Quegli uomini qualunque, pavidi e violenti, di cui sentiamo tanto parlare nella cronaca quotidiana. Addirittura il violentatore di Kadiatou è ispirato allo scandalo Dominique Strauss-Kahn del 2011. Ma anche gli uomini non ci suscitano grandi sentimenti. Mi sono chiesta se sia la distanza culturale, o i pregiudizi che abbiamo senza saperlo. Ma se fosse questo, allora non avremmo dovuto sentire come nostre sorelle, incondizionatamente, le donne di Metà di un sole giallo o di Americanah. E quindi tendo a pensare che questo romanzo non sia uscito dal cuore dell’autrice con la stessa immediatezza e ineluttabilità degli altri. Ma magari mi sbaglio. E quindi leggetelo comunque. Sarà bello avere delle opinioni diverse.   L'articolo Chimamanda Ngozi Adichie / L’inventario delle delusioni proviene da Pulp Magazine.
Polly Clark / La libertà nel mare
Il trauma ci getta in un mare in tempesta da cui possiamo salvarci solo se rinunciamo a chi siamo stati per abbracciare chi siamo nel presente. Lo sa bene Polly Clark, canadese ormai trapiantata a Londra, che abita in una barca sul Tamigi, già autrice di successo con raccolte di poesie e opere di narrativa; ce lo ricorda attraverso la voce di Helen in Oceano, il suo nuovo romanzo pubblicato da Edizioni di Atlantide nella traduzione di Federica Bigotti. Helen percorre gli spazi affollati, umani, della capitale inglese in una vita in apparenza perfetta: ha un marito dalla bellezza carismatica e un figlio, aspetta un altro bambino e insegna in una scuola popolata da ragazze e ragazzi da ambienti difficili, di cui si occupa con eccessivo fare materno e creatività. Fin dalle prime pagine, però, Helen confessa l’inquietudine di perdere l’amore di Frank, la sua certezza, e si definisce in primis come trofeo del suo sposo. Un malessere difficilmente confessato a sé stessa e al mondo, almeno finché l’esistenza della protagonista non viene sconvolta da un attentato nella metro londinese, il trauma che spezza il suo tempo in un prima e in un dopo. Nel tempo del dopo, Helen mal si adatta ai panni di moglie di un uomo perfetto, di madre di un bambino sempre più risucchiato dal mondo digitale, di insegnante in mezzo alla solitudine di tanti adolescenti. C’è solo spazio per l’ossessione nei confronti di James, il suo salvatore: lui che ha rischiato di morire per proteggerla, ha saputo accogliere la sua paura e farla sentire comunque al sicuro. Pensare a James, scrivergli lettere mai spedite, cercarlo – sembra l’inizio di una storia d’amore, invece è la rinascita della fame di libertà, e soprattutto di una struggente nostalgia della giovinezza passata con Frank sulla barca Innisfree, in un mare aperto e senza confini. Clark avrebbe potuto adagiarsi sul registro della malinconia, sceglie invece una direzione vertiginosa, un ritmo di continui colpi di scena, restituendo le diverse modalità di reazione ai traumi senza trascurare mai una vena surreale e ironica. Prigioniera restia a trovare un modo definitivo per liberarsi, Helen accetta la proposta di Frank di lasciarsi tutto alle spalle e ricominciare daccapo sulla Innisfree assieme al figlio Nicholas e a Sindi, un’ex-allieva della sua scuola che hanno preso in affidamento, il simbolo più viscerale di quel futuro scivolato via. Nella quotidianità condivisa tra pericoli e ambienti ristretti emerge con potenza l’impossibilità di tornare indietro: Helen non è più la ragazza spensierata che imparò con Frank ad andare in barca né la donna capace di adeguarsi alle necessità della loro relazione adulta. Helen e Frank si sono amati, la loro coppia funziona ancora negli squarci di passato riportati a galla dalla Innisfree, eppure la frattura si allarga, tra gli scheletri dei silenzi e delle omissioni che hanno accumulato in anni e anni di matrimonio. E allora rimangono rabbia, recriminazioni, promesse infrante, perché “non c’è luogo più urgente, più denso di vita, dello spazio in cui l’amore si arrende”. Clark lascia la sua protagonista gradualmente – e brutalmente – da sola, la mette di continuo alla prova per costringerla a salvarsi dalla tempesta, in senso metaforico e fisico, e abbandonare la dimensione allucinatoria in cui si è rinchiusa. Questo significa affrontare la spietatezza della natura, congedarsi dall’illusione di tanti ritorni desiderati e maturare la consapevolezza che “ci sono più vite dentro una stessa vita”. Vite vissute, autentiche, ma non fatte per durare in eterno, per esistere in un’unica realtà. L'articolo Polly Clark / La libertà nel mare proviene da Pulp Magazine.
Sebastián Ávila / Ovunque guerra
Ovejas è un romanzo dello scrittore argentino Sebastián Ávila, edito in patria nel 2021. Viene pubblicato dalla giovane casa editrice nata nel quartiere genovese della Maddalena, luogo di forti contrasti e di incontri e scontri. In questo libro c’è davvero qualcosa che non vorremmo vedere, gli orrori della guerra e i giochi di potere. La storia ruota attorno al piccolo gruppo di soldati destinati a presidiare un faro considerato strategico da un punto di vista militare e quindi da difendere a ogni costo, respingendo ogni eventuale attacco e continuando a pattugliare la zona – anche se, nei fatti, è praticamente ignorato dalle ostilità. Siamo in un lembo sperduto delle isole Malvinas, Falkland Islands per gli inglesi che le amministrano, teatro di una guerra brevissima e catastrofica, scatenata da una dittatura, quella argentina, che voleva recuperare consenso e che, invece, si ritrovò a fare i conti con quasi settecento vittime, un centinaio di suicidi e perdite economiche considerevoli. Con la sua struttura a episodi brevi, spesso non collegati tra loro, il romanzo si snoda descrivendo le poche attività quotidiane del manipolo di soldati che è più occupato a combattere fame e freddo che non nemici in carne e ossa, raccontando soprattutto la battaglia per la sopravvivenza condotta da uomini sprovvisti di tutto in un’isola ai confini del mondo e la quotidiana lotta con loro stessi e la solitudine che devono affrontare, costretti a una permanenza lontano da casa, che diventa sempre più assurda col trascorrere dei giorni. Il realismo di certe descrizioni si mescola e si confonde con il delirio dei soldati e con i loro sogni che, per ammazzare il tempo, si ritrovano a raccontarsi, ma la condivisione riguarda solo quelli ritenuti poco interessanti perché gli altri, quelli più profondi, che parlano del gruppo, delle tensioni interne, dei dubbi che li tormentano, decidono di tenerli per sé; questa dimensione onirica ci immerge nell’incertezza con cui i soldati affrontano le loro giornate di missione e ben rappresenta la sospensione del raziocinio in cui si piomba quando il tuo compito è quello di uccidere un tuo simile solo perché indossa “una divisa di un altro colore”. La prosa asciutta e senza orpelli è molto efficace nelle descrizioni dei cadaveri mutilati, delle relazioni sospettose tra gli uomini, dei sentieri che sembrano rivestiti di pietre ma sono di ossa umane, della paura con cui convive la piccola pattuglia persa e dimenticata, dell’incessante soffiare del vento gelido che costringe gli uomini a chiudersi nel faro senza neanche poter uscire per i più elementari bisogni corporali, ridotti ormai a un’attesa infinita senza neanche sapere cosa precisamente aspettare. La scrittura così essenziale di Ávila ben si sposa anche con l’ironia delle descrizioni della mascotte dei soldati, battezzata Valdano: un pinguino così chiamato per l’abilità con cui riesce a schivare le mine posizionate sulla spiaggia grazie a movimenti che ricordano i dribbling del calciatore argentino Jorge Valdano, riportandomi alla mente un altro giocatore argentino decisamente più famoso, Diego Armando Maradona, e il suo famosissimo goal di mano realizzato contro l’Inghilterra (imperialista), ribattezzato “la mano de Dios”, durante i quarti di finale del Mondiale di calcio giocato in Messico nel 1986, quando ancora non era scomparsa la tensione della guerra delle Falkland terminata quattro anni prima. Ovejas – pecora in spagnolo, la cui carne è ormai l’alimentazione primaria dei soldati ridotti a un gregge spaurito e demotivato –, parlandoci di una guerra ormai quasi dimenticata, porta a riflettere sull’ubiquità, l’assurdità e l’inutilità della guerra dei nostri giorni, sulla nostra impotenza di fronte al continuo dilagare e perdurare dei conflitti e sul fatto che speranza e pace rischiano di diventare parole che descrivono qualcosa che si teme aver perso per sempre. «Mi stanno caricando su una barella. Ho la bocca intorpidita, come se mi avessero cotto le labbra. Il corpo di Basualdo non è più dov’era. Per lui non c’è neanche la barella. Sto piangendo».   L'articolo Sebastián Ávila / Ovunque guerra proviene da Pulp Magazine.
Paco Cerdà / Nel cuore delle tenebre
Il fenomeno del fascismo, sia nella sua forma latente che manifesta, si è infiltrato progressivamente nella società: i notiziari televisivi, la stampa e numerosi episodi di cronaca ne sono una prova tangibile. Un’ideologia che opera in modo subdolo, facendo leva su contrapposizioni sociali e indirizzando l’attenzione della collettività verso presunti nemici, distogliendola così dai tentativi di egemonia sociale. Questo è il tema principale dell’opera di Paolo Cerdà, scrittore spagnolo nato a Genovés nel 1985. Come l’Italia, anche la Spagna ha vissuto l’esperienza della dittatura fascista con Franco, iniziata prima della Seconda Guerra Mondiale e protrattasi ben oltre di essa. Nel 1939, in seguito all’ascesa al potere dei falangisti, un gruppo di sostenitori decide di riesumare il corpo di José Antonio Primo de Rivera, fondatore del loro partito, giustiziato dalle forze repubblicane nel 1936 e successivamente elevato a simbolo nazionale. La processione funebre attraversò la Spagna per 467 chilometri, accompagnata da manifestazioni di consenso nelle varie tappe, spesso caratterizzate dal saluto fascista, sebbene non sia possibile distinguere tra una sincera adesione e una mera paura. Questa ostentazione di forza fu una dimostrazione per far vedere chi comandasse in Spagna. Il romanzo di Cerdà ha una struttura corale, dando voce tanto ai seguaci del regime quanto ai prigionieri dei campi di concentramento, ai persecutori, alle vittime e ai cittadini comuni, divisi tra resistenza e accettazione passiva. I racconti dei resistenti permettono di ricostruire le atrocità perpetrate dai regimi autoritari, analoghe a quelle documentate in Italia, Cile o Argentina – i primi esempi che mi vengono in mente –, a testimonianza della costante ricorrenza storica di questi eventi. Mentre i sostenitori del regime rispondevano “presente” durante le commemorazioni, l’autore sembra chiedersi e chiederci se saremmo capaci di rispondere anche noi “presente” in caso di bisogno, se siamo pronti a contrastare revisionismo e negazionismo tanto caro alle destre, sottolineando l’importanza di vigilare sulla democrazia e intervenire tempestivamente contro ogni minaccia ad essa. Uno stile pulito ed essenziale immerge in una lettura scorrevole, la struttura della scrittura non conosce pause o flessioni, personaggi delineati in modo profondo con pochi tratti di penna. Un romanzo per certi versi, storico e sociale, che non andrebbe perso, un documento che dovrebbe entrare nella memoria collettiva e rimanerci per sempre.   L'articolo Paco Cerdà / Nel cuore delle tenebre proviene da Pulp Magazine.
Elisabeth Åsbrink / Storia di una donna che voleva essere uomo
Non un romanzo ma una storia. Non una biografia ma una vita. Queste oltre quattrocento pagine ci raccontano di un’anima tormentata in una Svezia di fine Ottocento, quella di Victoria Maria Bruzelius, grazie all’accurata ricerca della scrittrice e giornalista svedese Elisabeth Åsbrink, molto apprezzata per i suoi reportage letterari di stampo storico e sociale nonché per la sensibilità con cui affronta ogni riga. Åsbrink è una capace Virgilio che ci accompagna in un viaggio tortuoso fatto di trascrizioni prese da diari privati, scambi epistolari e articoli apparsi su riviste, il resto è una cronaca precisa di quello che contorna e contestualizza la storia, il tutto con uno stile asciutto, neutrale ma molto affascinante. Il prologo accattivante conquista e rapisce il lettore trasportandolo nel complesso mondo di questa donna, ultima nata (6 marzo 1850) nella famiglia Bruzelius dopo Charlotta Margaretha, Helena Sofia e il fratello Johannes che muore quando Victoria ha un anno. La bambina arriva tardi, quando sua madre ha quarantatré anni mentre il padre quarantanove, e il dolore per la perdita dell’unico figlio maschio spinge i genitori in un lutto inconsolabile. Non sappiamo se Victoria conservi dentro di sé un senso di colpa inconscio per la morte di Johannes, fatto sta che durante la sua infanzia il padre la tratta come se fosse un maschio abituandola al gioco della lotta e all’uso delle armi. Per tutta la sua vita desidererà essere un uomo, di essere riconosciuta e considerata come un uomo, uno scrittore per giunta, ed è per questo che sceglierà di pubblicare con lo pseudonimo di Ernst Ahlgren. In quegli anni il contesto sociale e politico in tutta la Scandinavia è in subbuglio, c’è una fortissima volontà di cambiare le cose e tutto questo influenzerà di facto le opere di Victoria, che da autodidatta parteciperà con il suo lavoro al dibattito e prenderà una posizione netta a favore della libertà delle donne dal dominio maschile. Al centro di tutto c’è la morale femminile, ossia si discute se le donne debbano avere libertà sessuale prima del matrimonio, alcuni vi allacceranno anche la questione del diritto di voto e di lavoro per il genere femminile che risulta inevitabilmente connessa. Sul ring culturale si sfidano Henrik Ibsen che con la sua pièce Casa di bambola crea scompiglio per la determinata indipendenza di Nora, August Strindberg che con i suoi racconti scandalosi raccolti in Sposarsi dichiara apertamente di auspicare che le donne facciano quante più esperienze sessuali possibili, Bjornstjerne Bjornson – autore di alcuni versi dell’inno nazionale norvegese e Premio Nobel per la letteratura nel 1903 – che con Un guanto sottolinea invece l’importanza della castità prematrimoniale dei maschi in conformità con il suo ideale di parità tra i sessi. A queste autorità si aggiunge Georg Brandes, traduttore danese di L’asservimento delle donne di Taylor e John Stuart Mill, che nella prefazione scrive «Trattiamo l’anima delle nostre donne come i cinesi trattano i loro piedi, e come i cinesi lo facciamo nel nome della bellezza e della femminilità. Una donna con i piedi cresciuti sani e liberi è considerata dagli uomini cinesi brutta e poco femminile. Una donna libera, nella nostra Cina piccolo-borghese, è considerata una mostruosità orribile e antifemminile, e la ristrettezza di vedute dei nostri migliori poeti e letterati ha difeso e approvato il giudizio della farisaica maggioranza. Ma solo la libertà costituisce la vera bellezza». Il libro e la sua diffusione nel Nordeuropa portano alla nascita di movimenti per i diritti delle donne, trasformando Brandes in un punto di riferimento per le attiviste scandinave. In tutto questo Victoria trova spazio con la sua personale esperienza di donna che non avrebbe mai scelto di sposarsi assoggettandosi a un uomo né tantomeno di diventare madre ma nel contesto storico in cui vive questi passaggi sono ancora inevitabili quindi diventa la signora Benedictsson sposando il funzionario postale Christian, vedovo quarantanovenne con cinque figli della sperduta Horby. Nel 1873 la coppia dà alla luce Hilma ma la bambina non sarà mai amata come ci si aspetta da una madre che invece ha la sua priorità assoluta nei suoi scritti, nel pubblicarli e nell’allontanarsi da un villaggio di ignoranti e zoticoni incapaci di intrattenere una conversazione stimolante. Quando finalmente Soldi le porterà il successo meritato verrà in contatto con Georg Brandes che nel frattempo si è guadagnato un ruolo di prim’ordine nel panorama culturale scandinavo. Una sua recensione può determinare la fine di una carriera e Victoria – che a quel punto è una donna separata con una certa indipendenza economica – ha bisogno del suo parere favorevole ma mai si sarebbe aspettata di innamorarsene. Senza rovinare lo splendido lavoro di indagine di Åsbrink, giungiamo velocemente al triste epilogo peraltro anticipato già nelle prime pagine del libro e lasciamo ai lettori il dibattito sulle motivazioni di un gesto definitivo come quello del suicidio, un atto rimasto in attesa fin dai primi anni del matrimonio con Christian. I pareri ovviamente sono svariati e opposti, la sua eredità letteraria è stata lasciata nelle mani del fedele amico Axel Lundegard, le sue bozze, i racconti incompiuti, gli appunti e tutti i suoi diari, custodi di pensieri inconfessabili. Il 22 luglio 1888 Victoria Benedictsson si uccide, lo stesso giorno in cui è nata la sua secondogenita Ellen, morta poi il 12 agosto. Un caso? August Strindberg si sente ispirato, idea una pièce su una donna che si toglie la vita e nella prefazione scrive: «Facciamo l’ipotesi di un suicidio. Cattivi affari! dice il borghese. – Amore infelice! dicono le donne. – Malattia! il malato. – Speranze vane! Chi è andato in rovina. Ma ora può anche essere che il motivo sia dappertutto o in nessun posto, e che il defunto abbia occultato il motivo principale, indicandone un altro assai diverso, che però gettasse la luce migliore sulla sua memoria». Non sapremo mai cosa sia successo realmente, non saremo mai in grado di comprendere la complessa psicologia di Victoria Benedictsson, ciò che ci resta è la testimonianza della sua vita, i suoi scritti e i suoi diari conservati ancora oggi. Un’anima fragile, orgogliosa, incastrata in una società che preferiva mettere a tacere la voce delle donne – forse per paura – che ha vissuto solamente trentotto anni con passione, nel bene e nel male.       L'articolo Elisabeth Åsbrink / Storia di una donna che voleva essere uomo proviene da Pulp Magazine.
Anne Tyler / Ti ricordi quando le persone picchiettavano sull’orologio?
Anne Tyler, scrittrice statunitense vincitrice del premio Pulitzer, è ormai una penna consolidata in casa Guanda, che quest’anno allarga il proprio carosello di storie pubblicandone l’ultimo romanzo, Tre giorni di giugno, che arriva in Italia con una traduzione di Elisa Banfi. Anne Tyler scrive una storia dolce e delicata, che trattiene il profumo di una vita coniugale interrotta, sospesa nell’aria come la calda luce del tardo pomeriggio estivo, a metà tra la fine del giorno e l’inizio della sera. Gail e Max sono i genitori della sposa, Debbie, in quello che si preannuncia un matrimonio semplice, senza troppi fronzoli, ma in realtà molto più complicato di quanto non sembri dall’esterno. Tre giorni di giugno si svolge nell’arco di tre, lunghe, giornate: la giornata del matrimonio come evento centrale, assieme al giorno prima e a quello successivo. Gail e Max sono divorzianti da diversi anni e hanno un buon rapporto, senza l’odio e l’astio che caratterizza tante separazioni; hanno, anzi, un legame bilanciato che ha messo le fondamenta nell’affetto che provano l’uno per l’altra. I loro scambi di opinioni sono attraversati da una vena piuttosto umoristica, che rende l’intero romanzo non solo davvero piacevole e leggero – lo potete leggere in un sol boccone, come la sottoscritta – ma molto verosimile, se non quasi realistico. Vi sembrerà di leggere il ritratto di una coppia sessantenne che ha una vita condivisa alle spalle, che conosce bene le abitudini l’uno dell’altra, che si sente a proprio agio in compagnia della persona che hanno conosciuto ormai molto tempo addietro – quasi come se questa coppia la conosceste davvero. I tre giorni che coprono il matrimonio della figlia sono attraversati, come una scossa, da un presunto tradimento del futuro genero. Un piccolo errore di comprensione, sembra, o un inciampo prima del matrimonio, forse: questo piccolo evento scuote la famiglia della sposa, anche se in modi diversi. Mentre Max si mostra paziente, comprensivo e razionale nei confronti dei confusi sentimenti della figlia, Gail piomba in uno stato di agitazione e di perentorietà. Il tradimento non può essere perdonato. O forse le cose possono andare in molti altri modi, le situazioni avere diverse sfaccettature, le persone reagire diversamente? Gail e Max sanno bene cosa significa vedere un tradimento intrufolarsi in una vita coniugale: per loro, questo ha portato verso la strada del divorzio. Tuttavia, la vita a volte compie giri immensi, prende diverse svolte, solo per condurre dritti al punto di partenza: invecchiati, con diversi anni vissuti alle spalle, ma a quel punto di partenza che ha dato il via a qualcosa che in quei tre giorni Gail e Max si trovano a rivivere, seppur in modo diverso dall’inizio della loro storia. I legami sanno essere testardi ma non tutti si arrugginiscono, al massimo allentano la presa. “Ti ricordi quando le persone picchiettavano sull’orologio, una volta?” chiede Gail a Max, seduti al tavolo di un ristorante, il giorno dopo del matrimonio, in quello che doveva essere l’ultimo pasto assieme prima di tornare alle loro vite separate. Inizia, così, una conversazione sul tempo: picchiettare sull’orologio per mostrare il ritardo; oppure per vedere se davvero funziona ancora, perché il tempo sembra non passare mai; oppure, come per magia, picchiettare sull’orologio per far fermare il tempo, cristallizzato in un momento. Oppure per tornare indietro nel tempo, come sembra essere successo in quei giorni a Gail e Max, solo con più consapevolezza di sé. Tre giorni di giugno è scritto con dolcezza e delicatezza, accompagnato da una scrittura fluida che empatizza con i personaggi di una storia fatta di semplicità, come sa essere semplice e tranquilla la quotidianità di due vite, che forse si sono appena ritrovate dopo le molteplici svolte dell’esistenza. L'articolo Anne Tyler / Ti ricordi quando le persone picchiettavano sull’orologio? proviene da Pulp Magazine.
Tonio Schachinger / Videogiochi e sentimento
Se provassimo a immaginare la letteratura del futuro questo romanzo dell’austriaco Tonio Schachinger potrebbe darci un’idea. Pubblicato nel 2023 e tradotto in Italia da Sellerio, In tempo reale coniuga attualità e modernità rimanendo ancorato al tradizionale romanzo di formazione. Till, il protagonista, è un adolescente che vive a Vienna che vede la città sonnacchiosa e poco attiva rispetto – immagina – alle altre capitali europee. Iscritto dalla madre in un prestigioso collegio – più di fama che di fatto – non appena esce da scuola si fionda a casa ad accendere il pc. Non gli interessa frequentare i suoi compagni al di fuori del collegio. Il videogioco che ama di più è Age of Empires 2, che gli permette di entrare in contatto con giocatori di tutto il mondo. Ed è questa la realtà che lo gratifica e gli permette di sfuggire dalla quotidianità. La pratica lo fa diventare uno dei migliori giocatori del mondo e proprio grazie a questo viene invitato a un torneo a Tokyo. I rapporti con la madre sono conflittuali ma Till cerca di tenere sempre un profilo basso per evitare lo scontro aperto. I rapporti col padre, i genitori sono separati, sono quasi inesistenti. Dopo aver frequentato praticamente solo un amico con cui condivideva la passione per i giochi, arrivano le prime amicizie femminili, passa molto del suo tempo con Fina e Feli, che non amano i videogiochi ma con cui si trova bene. Arriva l’amore, episodi luttuosi e un coinvolgimento meno superficiale verso la vita reale, e le esperienze forgiano un nuovo carattere dell’adolescente che si avvia verso l’adultità. Scritto con stile scorrevole, le pagine si susseguono senza pause o cali di ritmo, il romanzo apre squarci sulla contemporaneità di un mondo apparentemente lineare e sarà un evento inaspettato che porterà il protagonista a riconsiderare molte cose da un punto di vista diverso. Uno spaccato interessante di una società banale e tradizionalista in cui Till vivrà una vita come tante. Ma questa sarebbe un’altra storia, lo scrittore austriaco ce la accenna appena a fine romanzo.   L'articolo Tonio Schachinger / Videogiochi e sentimento proviene da Pulp Magazine.
Anne-Laure Bondoux / Di padre in figlio
 Anne-Laure Bondoux è una scrittrice francese. Con il romanzo Attraverseremo le bufere la scrittrice traccia una duplice discendenza: la genealogia familiare dei Balaguère e il moto della violenza, che per un secolo sembra intrinsecare nella costellazione di persone che la fattoria di Les Chaumes, a chilometri a Parigi, accoglie e lascia andare. La violenza è testarda e gli esseri umani hanno la memoria tragicamente breve, così il mondo sembra affrontare bufere cicliche, lasciando i posteri sgomenti di fronte a tanto dolore. Da qui parte la ricerca di Olivier, l’ultimo dei Balaguère: “da dove ci viene la violenza?”. Per mappare la sua esistenza, Olivier sa di dover parlare anche di suo padre, Aloe: così inizia una mappatura più ampia, che risale le generazioni e i decenni del Novecento, fino all’inizio del ventesimo secolo e alla scintilla che ha dato vita al fuoco che, propagandosi, è arrivato a lui. Da tempo immemore nella famiglia Balaguère si tende a dubitare di tutto ciò che viene dal cielo, preferendo le solide radici della terra; ad ogni nascituro, pertanto, viene affibbiato il nome di una pianta. La ricerca di Olivier arranca fino a inizio Novecento, trovando i due fratelli Anzême e Marty, investiti dall’arrivo della Prima Guerra Mondiale, e Clairette, madre di Charme. Un atto violento porta la morte anche in questo angolino di mondo, così lontano dalle trincee in cui si trova Anzême, il quale però ritrova, al suo ritorno a Les Chaumes, la stessa aria di piombo. Ne viene investito anche il piccolo Charme, che si ritrova inglobato in una concatenazione di scelte indubbie. Ma non c’è tempo per la stabilità, perché un altro conflitto mondiale irrompe nella quotidianità: una lunga guerra che porta alla fattoria dei Balaguère solo decisioni sbagliate. Nel cuore della resistenza francese, Charme sente il sangue ribollire nelle vene per la prospettiva di togliere dalle mani dei nazisti la sua Francia, ma dovrà tirarsene indietro ad un passo dalla vittoria. Dopo il ritorno a Parigi della madre Gaby, lasciando il marito Charme ad occuparsi della fattoria, il piccolo Aloe cresce tra amori segreti e un nuovo conflitto che irrompe nella sua giovane esistenza: l’arruolamento nella guerra in Algeria e la lotta per l’indipendenza. I ricordi della violenza di quel conflitto rimarranno sempre con Aloe, racchiusi in un luogo dentro sé stesso, dove troverà rifugio anche un altro segreto. Qui nasce Olivier, il narratore di Attraverseremo le bufere: da un matrimonio senza amore, per convenienza, per celare altro – ma soprattutto per tentare di dare un senso ad una perdita. Olivier è silenzioso, diligente, ascolta, non fa troppo rumore. Ottiene il massimo dei voti e riesce ad evadere da Les Chaumes e studiare a Parigi. Da qui la strada di Olivier diviene nuovamente sterrata, difficile da percorrere, con ostacoli ad ogni svolta. Sono tanti i fantasmi che Olivier si porta appresso: il fantasma del padre e della persona che era davvero; il fantasma della madre Christiane, lasciata a Les Chaumes; il fantasma della pugnalata al cuore dei suoi più cari amici, che lo devia irrimediabilmente dalla strada che si era scelto; infine, il fantasma di sé stesso e delle sue ambizioni. Disilluso, Olivier arranca nella sua solitudine, fino al momento in cui il ricongiungimento tanto agognato non sarà più possibile. E la violenza esploderà di nuovo. Per “riprendere il sopravvento sull’assurda violenza del mondo”, Olivier comincia a scrivere la sua storia e la storia di chi lo ha preceduto, di padre in figlio, in un racconto di una progenie tutta al maschile. Scova negli angoli più adombrati della sua famiglia atti di brutalità e violenza, nascosti ai margini della verità. Bondoux nutre di parole una storia di una famiglia ordinaria che attraversa tutte le guerre, i conflitti, le risoluzioni di pace, gli atti politici e gli atti di terrore del ventesimo secolo. Il ritratto più umano che offre Attraverseremo le bufere è un affresco di uomini e donne che, nella loro quotidianità e nella loro normalità, hanno cuori che battono, emozioni che palpitano e desideri inespressi. Attraverso le lotte e i sensi di colpa, Olivier comprende che la violenza è “presente in ogni generazione”, usata come un mezzo per esprimere il proprio diritto di esistere. Al contempo, capisce di essere ormai giunto al capolinea nella lunga storia di violenza nella sua famiglia: non sarà così per la storia mondiale ma, forse, tutto inizia dalla scelta di un singolo uomo.   L'articolo Anne-Laure Bondoux / Di padre in figlio proviene da Pulp Magazine.
Dora Šustić / Il demone nella mente
«La scrittura in realtà non è nient’altro che un suicidio dilatato nel tempo», scrive Dora Šustić ne I cani, potente esordio letterario dell’autrice croata, impegnata anche nel campo cinematografico come regista e sceneggiatrice. Scrivere è vergare una lettera d’addio, ritardare la fine, scrivere è frugare in un vecchio cassetto per trovare i documenti che confermino il nostro esistere, scrivere è esorcizzare le ossessioni che abitano l’anima. “È tutto nella mia testa. La mente è un demonio”, afferma la protagonista cercando di arginare il flusso di pensieri che l’assale. Sin dalle pagine iniziali capiamo che la morte è onnipresente nel libro: compare nel suicidio dell’ignoto che si getta sotto il treno per ragioni oscure, nella figura della zia Margita, lanciatasi dalla finestra a sedici anni per un amore non corrisposto, nella professione del padre di Dora, un anestesista impegnato a “intorpidire la carne” combattendo una lotta impari con la sofferenza per domare il corpo, riducendo il trauma del passaggio verso l’ignoto. I cani del titolo, i galgos, sono la materializzazione del dolore che perseguita la protagonista. Un incontro casuale con un uomo più grande di lei, segnato da un’esperienza terribile, le ha lasciato in eredità il progetto di un libro fotografico in bianco e nero, abitato da randagi votati a un destino crudele che li vede combattenti spietati o vittime sacrificabili. In un pellegrinaggio che è anche una fuga verso l’ignoto, Dora si cala nelle nebbiose atmosfere praghesi, per poi approdare nell’assolata Cadice, dove la paura della morte viene sconfitta con il flamenco. L’irruenza della giovinezza viene descritta con toccante sincerità, così come la sessualità femminile, indagata in tutti i suoi aspetti con cruda franchezza. Non a caso l’epigrafe del libro reca la firma di Virginia Woolf, autrice refrattaria alle convenzioni sociali della propria epoca, costantemente dedita alla conquista di una propria irrinunciabile autonomia. Dora percepisce il pericoloso baratro dentro sé stessa, nel quale rischia di precipitare, ma la sua forza proviene dal legame con tutte le altre donne. Un vincolo che spazza via la solitudine. Dora ama Leon perché è diverso dagli altri uomini, anche se la contagia con la sua tristezza quasi fosse una malattia venerea; Leon è anche un artista senza un’occupazione stabile, uno straniero che verrà sempre visto con sospetto nell’Europa occidentale. A questo punto la scrittrice, facendo separare gli amanti e impedendo un loro ricongiungimento, anche se probabilmente effimero, introduce nel libro la tematica delle migrazioni e dell’estraneità, particolarmente sensibile nel nostro tempo. Ci troviamo di fronte a uno scenario nel quale le barriere proliferano, scavando un solco fra gli esseri umani, consegnandoli alla solitudine più crudele della quale i galgos sono il simbolo. Il romanzo è prima di tutto una confessione, un viaggio all’interno dell’io e delle proprie ossessioni, un percorso irto di spine verso la conquista della libertà. L'articolo Dora Šustić / Il demone nella mente proviene da Pulp Magazine.