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Mario Moroni / Corinto oggi: New York City
Mario Moroni, classe 1955, ha attraversato gran parte della scena poetica italiana mai uniformandosi al mainstream che creava diversità presuntuose e tribù a dir poco esigenti e enfatiche nel pieno delle loro prove. Mario ha viaggiato razionalmente da Tarquinia al Maine e New York, l’Oceano di mezzo ha sostenuto mutamenti dall’esordio nel 1979 dalle parti del Mulino di Bazzano dove le semine poetiche avevano i nomi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai e quelli erano davvero “altri luoghi” e “assolutamente attuali” per quel tempo e – possiamo dire – oggi, se vogliamo far leggere e intendere ai più vogliosi una storia della poesia italiana esente d’intelligenze aliene. L’esperimento poetico di Moroni ha attraversato i decenni con libri sempre più antropici, nati in luoghi adatti a lavorare in pace, che non significa stare lontani dagli eventi, anche i più terribili. Uno scrittore serio ma non severo ha saputo raccogliere le ceneri del mondo con ferma levità. Ha ricomposto resti, manufatti e carne umana: nomi precisi, una decina di raccolte poetiche, collaborazioni a riviste, insegnamenti alla Yale University, al Colby College, alla Binghamton University. Esperimenti e leggibilità, scritture che non sempre hanno avuto bisogno della cosiddetta realtà, e infine in questo ventennio impazzito Moroni fa ri-nascere il proprio linguaggio dove come poeta non deve niente al buio attuale. Ma, improvvisamente, supera il lutto trasfigurando la classicità greca e latina. Poemi e tragedie non vengono imitati ma riverberano immagini di sforzo senza distrazione: l’esistenza di uno sguardo è testimoniata da Tracce tragiche, ripresa delle grandi tragedie classiche di Antigone, Elettra e Medea. Sfida e interazione con l’originale riportano nuovamente all’anti­co gesto del narrare la ferita di queste voci e corpi lontani. Gesti eroici di donne, efficacia di tradimenti, gesti di pietà che annunciano la civilizzazione, è quanto interessa a Moroni mentre costruisce tre lunghi poemi sulle tracce di Sofocle e Euripide. Ambienti e personaggi femminili vengono strappati dal tempo del potere originale la cui struttura viene ribaltata nella metropoli contemporanea, nella per niente simbolica figura della “T-Tower”, erede negativissima delle distrutte Twin Towers”. Corinto regno del dissesto si ribalta nella New York attuale, dove i destini attraversano l’ombra, creatori essi d’ombre che atterrano chi credeva e sperava, e chi non credeva: Moroni accompagna le Medee pasoliniane e i Giasoni con sospensioni, interazioni e Cori di scena finale. Al centro del libro il “Monologo elettrico di Elettra” apre la storia vocativa, in attesa dell’Epilogo, e sembra riprendere la vocazione analitica di Moroni che consente alle strofe di recitare sia se stesse sia Elettra con la sorella Ifigenia. Queste ci sfiorano ancora, poiché i versi multiformi del poema invogliano a non essere più astemi di miti incarnati d’eroine più che di dèi migrati altrove per sempre. Con Tracce tragiche è giunto il momento in cui le acque del mito, agitate tanto da consegnarle alla torbidità da coloro che vantano modesta conoscenza, trovano nitidezza d’antica poesia a cui pochi oggi sono accordati. Laggiù, dove vive Moroni, qualcosa si muove, c’è una domanda che pretende atto di risposta. Il presente e il passato non si assimilano, oggi un poeta come Moroni prende il canone classico non come funerario assemblement e felicemente scrive: «Su scena rovesciata, / coro che tace, incapace, / tragedia da riscrivere, / da rivedere altrove». L'articolo Mario Moroni / Corinto oggi: New York City proviene da Pulp Magazine.
Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica
«Una di quelle affermazioni udite fino alla nausea è che una macchina non può essere creativa». Niente potrebbe suonare più trito di un’affermazione come questa nell’odierno dibattito sulle IA, ma per un testo filosofico apparso settanta anni fa, all’alba della rivoluzione cibernetica di Wiener, McCulloch e John Von Neumann, non riesco invece a immaginare una migliore garanzia di assoluta attualità. Rimandiamo al mittente quindi anche questa sgradevole sensazione di deja-vu. E a scanso di equivoci diciamo subito che La coscienza delle macchine non appartiene – come avverte prudentemente Alberto Giustiniano nell’introduzione – alla fiorente pubblicistica che dalle bacheche degli e-commerce e delle librerie preme per spiegarci come l’intelligenza artificiale migliorerà inevitabilmente le nostre vite e/o ci condurrà altrettanto inevitabilmente all’estinzione. Il saggio, ora tradotto da Orthotes, fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1957 e rivisto dal suo autore nel 1963. In pratica costituì l’esordio americano di Gotthard Gunther e una delle prime, audaci riflessioni filosofiche sulla cibernetica e l’intelligenza artificiale del secolo scorso. Tedesco naturalizzato  americano, di quel contesto Gunther ha rappresentato sicuramente una delle menti imprescindibili e più brillanti, benché,   anche per ragioni linguistiche, un autore per lo più sottotraccia, malgrado il sostegno ricevuto da McCulloch e dal Dipartimento di Stato.  Allievo di  Eduard Spranger, laureato con una tesi di dottorato su Hegel, emigrò all’inizio della Seconda Guerra Mondiale in Sudafrica e di lì negli  USA dove divenne amico tra gli altri di autori di fantascienza come Isaac Asimov  e John W. Campbell. Ignorato dalla filosofia continentale è oggi oggetto di riscoperta da parte di una nuova generazione di ricercatori come Yuk Hui[1] Gunther parte osservando che la logica aristotelica classica risulterebbe inservibile per la cibernetica che, a differenza di altre discipline scientifiche, deve fare i conti con i fenomeni di un’intelligenza meccanica emergente. I principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso, in particolare, non potrebbero aver ragione di quelle intricate capacità riflessive che chiamiamo coscienza e che esulano dal tradizionale binarismo soggetto/oggetto. Per supplire a questa inadeguatezza, la prima parte del saggio introduce i lineamenti di una possibile logica post-classica,  con un set di operatori transgiunzionali, prima di addentrarsi nel nucleo centrale della trattazione. Sul piano storico e metafisico l’idealismo tedesco,  verso cui La coscienza delle macchine riconosce pienamente il suo debito dalle prime pagine, avrebbe infatti introdotto un modo completamente diverso e nuovo di guardare alla riflessione e ai fenomeni dell’autocoscienza, fornendo concettualizzazioni rivelatesi cruciali per il tipo di soggettività richiesta successivamente dalla cibernetica. Gunther, in particolare,  attribuisce a Hegel la prima disamina scientificamente comunicabile dell’interiorità, attraverso un quadro concettuale formato da una pluralità di nuclei. Un modo formale e computabile per descrivere la soggettività e i suoi livelli di consapevolezza, superando i limiti della logica oggettiva bivalente (che alla fine può immaginare la coscienza soltanto nei termini di un “soffio vitale”). Un secolo e mezzo dopo Fichte e Hegel, non c’è più lo spirito del mondo a cavallo ma la bomba atomica e il computer. Nel nuovo mondo di Von Neumann e della teoria dell’informazione, il filosofo intende ora far emergere una coscienza cibernetico-trascendentale anche se non per questo, necessariamente, una coscienza assoluta, cioè “umana”. Più probabilmente, come osserva sempre Giustiniano, si tratterà di  “un’eccedenza di riflessione”, né soggetto né oggetto, la manifestazione di processi in ambienti a riflessività diffusa. Una visione che – ne La coscienza delle macchine come nel successivo Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation (1962)[2] – sembra connettere il pensiero logico-matematico di Gunther direttamente alla rivoluzione cibernetica di Norbert Wiener, saltando tutte le caselle intermedie.  Dopotutto, come osserva Valeria Pinto [3] «Al di là del tratto apparentemente rivoluzionario la cibernetica si iscrive in una metafisica assolutamente conforme al paradigma occidentale, come Gunther positivamente rivendica».  Settanta anni dopo la direzione di questo rivolgimento è ancora oggetto di un dibattito contrastato, non così la sua portata, ormai sotto gli occhi di tutti. [1] Yuk Hui, Machine and Sovereignty, University of Minnesota Press, 2024 [2] Gotthard Gunther, Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation, Self Organizing System, Spartan books, pp. 313-392, 1962 [3] Valeria Pinto, Quel genere di macchine che possono esplodere, apocalissi della tecnica e integrazione della cultura in MECHANE, Rivista di filosofia e antropologia della tecnica, 9/2025 L'articolo Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica proviene da Pulp Magazine.
Dora Šustić / Il demone nella mente
«La scrittura in realtà non è nient’altro che un suicidio dilatato nel tempo», scrive Dora Šustić ne I cani, potente esordio letterario dell’autrice croata, impegnata anche nel campo cinematografico come regista e sceneggiatrice. Scrivere è vergare una lettera d’addio, ritardare la fine, scrivere è frugare in un vecchio cassetto per trovare i documenti che confermino il nostro esistere, scrivere è esorcizzare le ossessioni che abitano l’anima. “È tutto nella mia testa. La mente è un demonio”, afferma la protagonista cercando di arginare il flusso di pensieri che l’assale. Sin dalle pagine iniziali capiamo che la morte è onnipresente nel libro: compare nel suicidio dell’ignoto che si getta sotto il treno per ragioni oscure, nella figura della zia Margita, lanciatasi dalla finestra a sedici anni per un amore non corrisposto, nella professione del padre di Dora, un anestesista impegnato a “intorpidire la carne” combattendo una lotta impari con la sofferenza per domare il corpo, riducendo il trauma del passaggio verso l’ignoto. I cani del titolo, i galgos, sono la materializzazione del dolore che perseguita la protagonista. Un incontro casuale con un uomo più grande di lei, segnato da un’esperienza terribile, le ha lasciato in eredità il progetto di un libro fotografico in bianco e nero, abitato da randagi votati a un destino crudele che li vede combattenti spietati o vittime sacrificabili. In un pellegrinaggio che è anche una fuga verso l’ignoto, Dora si cala nelle nebbiose atmosfere praghesi, per poi approdare nell’assolata Cadice, dove la paura della morte viene sconfitta con il flamenco. L’irruenza della giovinezza viene descritta con toccante sincerità, così come la sessualità femminile, indagata in tutti i suoi aspetti con cruda franchezza. Non a caso l’epigrafe del libro reca la firma di Virginia Woolf, autrice refrattaria alle convenzioni sociali della propria epoca, costantemente dedita alla conquista di una propria irrinunciabile autonomia. Dora percepisce il pericoloso baratro dentro sé stessa, nel quale rischia di precipitare, ma la sua forza proviene dal legame con tutte le altre donne. Un vincolo che spazza via la solitudine. Dora ama Leon perché è diverso dagli altri uomini, anche se la contagia con la sua tristezza quasi fosse una malattia venerea; Leon è anche un artista senza un’occupazione stabile, uno straniero che verrà sempre visto con sospetto nell’Europa occidentale. A questo punto la scrittrice, facendo separare gli amanti e impedendo un loro ricongiungimento, anche se probabilmente effimero, introduce nel libro la tematica delle migrazioni e dell’estraneità, particolarmente sensibile nel nostro tempo. Ci troviamo di fronte a uno scenario nel quale le barriere proliferano, scavando un solco fra gli esseri umani, consegnandoli alla solitudine più crudele della quale i galgos sono il simbolo. Il romanzo è prima di tutto una confessione, un viaggio all’interno dell’io e delle proprie ossessioni, un percorso irto di spine verso la conquista della libertà. L'articolo Dora Šustić / Il demone nella mente proviene da Pulp Magazine.
Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque
Gabriele Cavallini – classe 1995, nato a San Miniato in provincia di Pisa – ha lavorato nel comparto conciario prima di dedicarsi alla scrittura e ambienta il suo primo romanzo in Toscana, dove esiste un vero e proprio “Comprensorio del cuoio”. L’area è così chiamata per l’altissima concentrazione di aziende conciarie che ne caratterizzano il tessuto economico; la quasi totalità della produzione italiana di cuoio da suola proviene da questa zona. È proprio qui che vivono e lavorano i protagonisti di questa storia che ruota attorno all’io narrante Michelangelo Cavalcanti; l’uomo è un tecnico della Conceria Fucci Vanni dopo che la blasonata impresa di famiglia, la “Cavalcanti & Figli” fondata dal nonno paterno, è miseramente fallita cambiando la vita di tutti: il padre di Michelangelo ha lasciato il mondo del lavoro e, smarritosi in varie fantasticherie, si interessa solo di botanica; il fratello minore Emanuele si è chiuso in un ostinato mutismo ed esce a malapena dalla sua stanza trascorrendo la giornata con in mano il cellulare; la madre è scomparsa da un giorno all’altro e non si sa dove sia e mai nessuno, per un lungo periodo, ha pensato di cercarla. È un libro spietato questo di Cavallini e molto attuale dal momento che “Il Sole 24 ore” ha di recente presentato una collana “I grandi romanzi dell’industria italiana” con cui si vuole raccontare e recuperare un pezzo della nostra storia e della nostra identità e lo stesso intento mi pare potersi ravvisare in Cuoio. L’autore, infatti, riserva grande spazio alla rappresentazione del sistema industriale conciario italiano e al mondo del lavoro in generale con le sue caratteristiche e, in particolare, con le sue violenze. Tanti gli argomenti trattati, ma il cuore del romanzo si potrebbe ravvisare in una parabola discendente del rapporto tra le tre generazioni dei Cavalcanti e la ditta di famiglia. In chi ha fondato la conceria, traspare una sorta di ammirazione e rispetto per la pelle e per la conciatura quale atto fondamentale di sopravvivenza, uno fra i primi compiuto dall’uomo per proteggersi dal freddo e dalla pioggia. Conciare è considerato un modo per valicare il confine stabilito fra la vita e la morte, è una forma di conservazione della specie e il lavoro, anche se duro, nobilita ancora la vita dell’uomo e dà soddisfazione: salvare ogni pelle dalla naturale decomposizione è come giocare a fare Dio poiché la concia, in qualche modo, ferma il tempo, lo scorrere degli anni e rende persistente ed eterno qualcosa che per sua natura non lo è. «Una leggenda del Comprensorio racconta che alla scomparsa di una famiglia conciaiola si dissolvano le loro pelli. Perché per renderle immortali il vero conciaiolo lascia un minuscolo frammento di anima in ogni pelle. Fin quando l’anima non comincia a diventare instabile. Fin quando l’anima accartocciata del conciaiolo non si disgrega. Solo allora è possibile vederli, quei minuscoli frammenti chiusi nel cuore delle pelli, che fuggono e levitano con i resti dell’anima del conciaiolo. Per l ‘amore di precipitare insieme giù all’inferno». È la seconda generazione, quella del padre di Michelangelo, che non ride mai, a subire negativamente il lavoro: un’attività che lo costringe a tornare a casa tardi la sera senza avere la forza e la voglia di rivolgere la parola a nessuno, a fare telefonate nel cuore della notte a clienti lontani, senza neanche pensare di premurarsi di far piano, dimostrando così un totale disinteresse per la famiglia. In particolare, il trascurare la moglie porterà la donna a scaricare la sua insoddisfazione sui figli, i quali cresceranno in un ambiente anaffettivo e convinti che l’unica cosa giusta da fare nella vita per diventare migliori sia seguire il mestiere di famiglia. L’ultima generazione, quella di Michelangelo, invece, si trova a convivere con il declino di quello che sembrava un impero solidissimo. Ci si muove tra fabbricati che si assottigliano per numero e grandezza, e con l’intonaco sbriciolato che mostra lo scheletro nudo, i ferri arrugginiti del cemento armato e i tetti rotti e forati come se Dio in persona dovesse guardarci dentro. Alcune costruzioni, tra cui la gloriosa conceria dei Cavalcanti, sono messe così male che basterebbe un temporale a buttarle giù, ma è proprio lì, dove non entra più nessuno, che vivono gli scarnatori e i pressatori, manovalanza impegnata tutto il giorno in fabbrica tra il grasso, il cromo, la melma del fango tossico ma che, nonostante questo, non guadagna abbastanza da potersi permettere un tetto sopra la testa e vive accampata dentro gli stabilimenti ormai in rovina. Oltre alle parti che descrivono anche da un punto di vista materiale, il lavoro, la produzione e il funzionamento concreto di una conceria, largo spazio viene dato al racconto dei rapporti familiari. Siamo di fronte a una famiglia in crisi, segnata irreparabilmente dall’incapacità di comunicare e risolvere i conflitti, dall’assenza totale di empatia, dove nessuno pare essere in grado di condividere apertamente pensieri e sentimenti e dove solo il rifugiarsi nei pochi episodi felici dell’infanzia allontana il protagonista da un senso costante di malinconia e nostalgia per una tenerezza raramente conosciuta, ma di cui sente comunque la mancanza; a volte, Michelangelo si sente talmente solo d’aver paura di sparire e con suo fratello – inesorabilmente risucchiato dalla violenza più estrema del deep web – fatica a mantenere un rapporto che si esaurisce nell’accompagnarlo ai settimanali incontri con la psicologa. Tutto il romanzo è permeato da un senso di sconfitta del protagonista principale non solo per non aver più la ditta di famiglia che dava lustro e onore al cognome Cavalcanti, ma perché è un soggetto che vive nell’immobilismo, incapace di ricomporre i frammenti di una famiglia e di una stantia vita sentimentale che cerca goffamente di recuperare. È un interessante d’esordio questo di Cavallini che ha avuto la buona intuizione di esplorare il mondo del lavoro in un ambiente poco noto come quello della lavorazione della pelle e anche il coraggio di affrontare il tema dell’identità personale e della difficoltà di gestire i rapporti con gli altri e le emozioni in genere. Non solo, anche l’accenno al deep web è un tema drammaticamente attuale e un argomento che, probabilmente, andrebbe più diffusamente trattato e non solo dal giovane esordiente toscano.   L'articolo Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque proviene da Pulp Magazine.
Conway The Machine, la recensione live al Monk!
LUI È CONWAY THE MACHINE, E QUI VI PARLO DELLA SERATA IN CUI HA SUONATO NELLA CAPITALE, NELLO STORICO SPAZIO DEL MONK A PORTONACCIO. * * * A prescindere dai gusti personali, non vi è dubbio alcuno che la Griselda sia la crew che più di tutte ha tenuto alto il livello dell’Hip-Hop crudo, fino a diffonderlo al grande pubblico. Ed uno dei componenti originali della crew è arrivato in Europa con un tour organizzato last minute, con in programma due date in Italia, a Ravenna e a Roma. Lui è Conway The Machine, e qui vi parlo della serata in cui ha suonato nella Capitale, nello storico spazio del Monk a Portonaccio. Lo show inizia puntuale nell’area interna, quella da sempre dedicata ai concerti, ben areata e con un impianto adeguato. A scaldare il palco prima dell’avvento del protagonista, sale prima DJ Kendrix, che oltre a manovrare il suono, si avventura anche al microfono, dimostrando di saper anche rappare discretamente. Ma la sua presenza fa da apripista per un altro opener, E-Murda direttamente dalla Black Soprano Family, che esegue tre pezzi del suo repertorio con un flow diretto e potente, provando che chiunque faccia parte di quel giro non scherza e ci sa fare seriamente. A QUESTO PUNTO IL PUBBLICO, CHE HA RIEMPITO LA SALA DA CIMA A FONDO, È BELLO GASATO, E QUANDO ENTRA CONWAY, È IMMEDIATA L’ESPLOSIONE GENERALE. Il rapper di Buffalo non perde tempo, attacca subito con dei pezzi tratti da Chaos Is My Ladder 2, il suo ultimo lavoro insieme a Ransom, e prosegue senza sosta attraversando in lungo ed in largo il suo vasto repertorio, sia con pezzi solisti che con versi da pezzi eseguiti in trio con i suoi soci Benny The Butcher e Westside Gunn. Il ritmo è sostenuto e l’atmosfera è infuocata, Conway non utilizza le basi con la sua voce ma solo la strumentale (cosa purtroppo non scontata) e le sue rime arrivano dritte a destinazione. Il pubblico lo segue rispondendo ai cori, recitando i versi insieme a lui ed acclamandolo con diversi cori. Il tutto è apprezzato al punto da spingere Conway a dichiarare che questa è la sua data preferita di tutto il tour, con l’aggiunta di ringraziamenti speciali per una risposta così massiccia nonostante il preavviso molto breve (e, aggiungo io, in un sabato sera di fine luglio). Come ulteriore regalo, esegue in anteprima il nuovo singolo prodotto dal fido Conductor Williams, al quale aggancia l’annuncio del nuovo album, in uscita il 22 agosto. Un’ora di live molto serrata, nella quale Conway, alternando diverse velocità di flow, uptempo ed acapella, non solo dimostra che l’appellativo di “macchina” non è stato preso a caso ma anche che il fatto di essere considerato uno dei migliori rappers in attività è opinione ampiamente giustificata. Tra i cinque battuti col pubblico, autografi sulle copertine e manifestazioni varie di simpatia, termina l’ora e mezza totale di concerto che ha lasciato tutti i presenti soddisfatti e ha fatto respirare a pieno l’aria del vero Hip-Hop internazionale a Roma. Ora speriamo di poter assistere presto ad un live di tutti e tre componenti della Griselda insieme, che a quanto pare, sentendo chi ha avuto la fortuna di vederli, è il massimo della potenza. Ma intanto ci godiamo Conway The Machine, in attesa del suo nuovo lavoro. Big Up! Recensione a cura di Claudio Contini
Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole
Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta. Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi. Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione. E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.       L'articolo Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole proviene da Pulp Magazine.
Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera
Il breve saggio di Charles Olson (1910-1970) che minimum fax ha appena ristampato (esisteva una precedente edizione Guanda del 1972), rivoluzionò alla sua uscita nel 1947, non solo gli studi su Moby Dick e su Herman Melville, ma il modo stesso di concepire e scrivere la critica letteraria. Olson, che fu anche poeta e che avrebbe molto influenzato la Beat Generation, introdusse nella saggistica letteraria non solo una radicale novità di temi, ma soprattutto uno stile e una scrittura assolutamente dirompenti che avrebbero stupito o addirittura scandalizzato il coevo mondo accademico. Alle pagine di analisi e critica del testo, la cui tesi più originale è il leitmotiv shakespeariano che animerebbe e sostanzierebbe il capolavoro di Melville e l’essenza dei suoi protagonisti, Ahab e Ismaele, si alternano pagine libere in cui si descrivono episodi marinari analoghi e, se possibile, ancora più macabri e sanguinosi di quelli raccontati nel romanzo: naufragi, ammutinamenti, cannibalismo. La carriera di navigatore di Melville viene poi delineata nella sue varie fasi esperienziali e narrative, dalla marina mercantile (Redburn), a quella militare (White Jacket), ai contatti con le marinerie non statunitensi (Benito Cereno, Le isole incantate, Billy Budd), all’esotismo e all’espansionismo Pacifico (Typee, Omoo, Mardi), con l’Oceano che, nella visione di Olson, Melville pone come una nuova frontiera, una sorta di West marino in cui si eserciterà, con tutte le sue terribili contraddizioni, il Manifest Destiny della democrazia americana: non la Grande Interiorità di Poe o di Hawthorne, o il Progresso sociale di Whitman, ma l’immensità dello Spazio. E la baleneria vi si impone come grande impresa statunitense, impresa nel senso dell’avventura ma soprattutto impresa nel senso di espansione economica e dominio e gestione delle risorse. A scandirne il massimo controllo nell’epopea manifatturiera di Nantucket emerge una radicalità veterotestamentaria, la dimensione biblica, la legge israelita dell’occhio per occhio, l’eco di Noè e di Giona, del libro della Legge del Sangue, in cui Mosè si contrappone a un Cristo del tutto assente da Moby Dick, un libro empio – come lo stesso Melville lo descrisse a Hawthorne – in cui perfino la perversa benedizione rivolta da Ahab al rampone, Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli, non fa nemmeno cenno alle altre due persone della Trinità. Melville anni dopo viaggerà in Terra Santa e scriverà il lungo poema Clarel quasi per riconnettersi ad un’esperienza cristiana negata nel suo capolavoro e i suoi ultimi personaggi, Bartleby, Benito Cereno, Billy Budd, non saranno che rifrazioni diverse e diversi ritratti di Cristo. Ma tutto questo passa inevitabilmente attraverso Shakespeare: Ahab è un po’ Amleto, e molto Macbeth e, come lui, “ha ucciso il sonno”. Il rapporto tra Ahab e Pip, il piccolo mozzo impazzito dopo essere caduto in mare, rispecchia quello tra Re Lear e il Buffone; il Pequod è la Roma e l’Oriente di Antonio e Cleopatra, l’opera shakespeariana che Melville annotò di più; Fedallah appare e scompare come le Tre Streghe del Macbeth e, se Jago diventerà Claggart in Billy Budd, confermando fino all’ultimo l’influenza su Melville dei personaggi negativi e totalitari del Bardo, sarà invece Ismaele, l’“Orfano”, a correggere Shakespeare in senso democratico dando voce e dignità all’equipaggio marinaro, composito e multietnico, unito fino all’epilogo della tragedia senza alcuna remissione dei peccati: Ismaele perennemente orfano ma, almeno in nome e memoria di tutti gli altri, salvo come Noè dopo il Diluvio.         L'articolo Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera proviene da Pulp Magazine.
Pietro Spirito / Il giornalista che rubava i libri
Trieste è un crinale geografico e della mente. Trieste è consapevole d’essere confine, basta sorvolarla per comprendere subito come la gente da quelle parti (ricordiamo sempre che se ne fece alleato un grande scrittore come Daniele Del Giudice, “staccando l’ombra da terra”) presidi con leggerezza i propri ricordi fino a rasentarne i confini segreti. Che di ricordi e di storie sono pieni questi territori, e di buio se ne trova vasta estensione. Il buio della notte, e il buio più pericoloso – quello che si mischia al sangue, alla politica sporca, ai vizi delle spie, romanticamente posti nella sezione definita (con eleganza) dalla griffe “servizi”. Lo scrittore Pietro Spirito conosce tutti i colori del “nero” (l’ideuzza è buttata lì, quasi per caso, da Manganelli), ci fa i conti con questo nuovo romanzo che attraversa i giorni in cui anche in Italia si provò a mettere in moto il piano di colpo di stato promosso da Junio Valerio Borghese: era il dicembre del 1970, l’eversione stuzzicava militari e massoni, ma non se ne fece niente. Il quotidiano “Paese Sera” lo denunciò in un articolo tre mesi dopo. Solite indagini, solite fughe, condanne e (solite) assoluzioni. È notte sul confine segue i destini del giornalista Ettore Salassi, il disordine che lo contraddistingue (senza essere proprio sicuri che sia il suo tratto peculiare, altro si scopre seguendo da vicino le sue gesta, tra successi e fiaschi) e la simpatica abitudine di rubare i libri, amare le donne (appropriarsene, a dire il vero, da teppista dei sentimenti). Avendo passato dubbio e istinto innato per i guai e per le trame losche, che fa? Decide di collaborare con i servizi segreti (il Sid di quel tempo). Il nostro simpatico protagonista si svaga adocchiando in libreria La meccanica di Gadda e le Poesie di Prévert: novità il primo, sofisticata lettura per pochi, molto di moda invece il secondo – mellifluo, ma pur sempre poesia. Basandosi sulla difficoltà di occultarli nei pantaloni vediamo quale dei due decide di pagare alla cassa, e quale intascare in barba al proprietario della libreria. Riuscito il furto, Salassi sa già cosa fare del Prévert, sa bene che lo regalerà alla bella Maja, la slovena Maja nipote della portinaia dello stabile dove abita. Pensando ai futuri piaceri, deve trovare il modo di varcare gli occhi di ghiaccio della ragazza. Pensa al suo “corpo da pin-up”, ma infervorato dalle solite modalità maschiliste del suo essere latino, ancora non sa cosa lo attende dopo aver portato a compimento le sue manovre di conquista. Inchieste quotidiane vengono incrociate a vecchi fantasmi e nuovi (effetto di morti d’origine violenta), mentre la Storia a tratti sembra voler prendere il sopravvento su esperienze e faccende private, dove le decisioni hanno la loro origine in ambienti più alti le cui risorse girano intorno a traffici non proprio legali. A Spirito, come ben sa chi conosce l’autore, interessa l’aspetto civile delle storie, e la vita bassa descritta è fiero pretesto per smascherare il grigio italico, le manipolazioni, i molti vizi esplicitati da poco nobili fette della società. Gli anni 70, poi, brillarono per un’emergenza fumogena e guerrigliera, terribilmente complicata dove valenti giornalismi avevano a che fare con le sabbie mobili del potere e l’immanenza bombarola. Il romanzo nemmeno osa a placarsi, il terreno dove si sviluppa è quello dei confini aleatori lasciati in eredità dal conflitto mondiale, dal fasciamo e dalle foibe. È quest’aria nebbiosa dove s’incrociano orrori, odiati e odiatori, funeste scelte politiche, eventi atroci, a far decollare un racconto dotato di minuzia stilistica, di serietà interpretativa. Immaginiamo il protagonista nei panni di certi personaggi stilizzati da Monicelli, mentre si aggira come ombra inconsapevole nelle mani di traditori e faccendieri destrorsi, ma capace di deviare le poche risorse a effimero vantaggio suo – per capacità innata o per crudo azzardo. Trieste guarda, immobile là dove il mare inizia, forse timida o forse antica vestigia di cose ignote, di frontiera sommersa e emersa, però sa che i suoi abitanti hanno in essa protezione e nobiltà clamorosa di grandi intelletti. Spirito tiene con buona coscienza tutto questo, ha letto troppo per non esserne consapevole. Egli ha in mano non teorie letterarie, ha in mano civilissime azioni umane là dove le esistenze hanno avuto il tempo di pensarsi. E ne fa cortese cronaca.   L'articolo Pietro Spirito / Il giornalista che rubava i libri proviene da Pulp Magazine.
Max De Paz / La strada sta lì
Max De Paz, classe 2002, fa sua una delle istanze principali della letteratura francese contemporanea con una scrittura già definita e matura: dare voce a chi vive ai margini del tessuto urbano, raccontare Parigi, la metropoli per eccellenza, mettendo al centro le disuguaglianze sociali e la povertà in crescita. Mendicare, pubblicato in lingua originale dalla prestigiosa Gallimard e in Italia da nottetempo nella traduzione di Annalisa Romani, si pone nel filone di opere come La trilogia della città di Parigi di Virginie Despentes (Bompiani, 2019), con protagonista un uomo per la prima volta alle prese con la quotidianità da senzatetto. Il narratore è un ragazzo senza nome, uno dei tanti clochard del V arrondissement, tra le famiglie borghesi del quartiere Val-de-Grâce e gli studenti di corsa della zona universitaria. Lo è diventato da poco, ma ha imparato in fretta il necessario: si riscalda sulle banchine della metropolitana, si lava quando può alle docce e ai bagni pubblici, si è conquistato uno spazio fisso dove passare le notti, trascorre le giornate chiedendo l’elemosina e cercando di combattere la noia. I suoi compagni sono gli unici di cui fidarsi: Philippe, l’anziano amante dei libri, Tamás, proveniente da una comunità rom, e Moussa, abituato a sopportare la sua condizione con qualche fugace piacere occasionale. La prosa si rivolge a un tu, incerto fino alla fine. Un destinatario capace di tirare fuori, capitolo dopo capitolo, la rabbia repressa del giovane: De Paz distrugge l’immaginario romantico di una povertà dimessa, tollerabile perché non intacca l’apparente armonia collettiva, e abbraccia invece il rancore dei vinti, il desiderio di fare disordine e rumore per infrangere l’indifferenza generale. Abitare per strada significa affrontare la solitudine con quello che si ha a disposizione, significa venire disumanizzati agli occhi degli estranei: se questa bestialità è inevitabile, lo è altrettanto l’ipocrisia del mondo, avvezzo a girare il viso dall’altra parte e fingere. Per questo motivo il protagonista vede nelle dinamiche dell’atto di mendicare il fulcro dell’ingiustizia: ad accettare denaro, si sente ancor più vincolato alla sua situazione, mentre l’altra persona si alleggerisce in una qualche forma la coscienza. Tra le vie di una Parigi agiata, De Paz restituisce il linguaggio della fame, la diffidenza che regna anche tra gli stessi mendicanti: il ragazzo incorre in meno difficoltà perché è francese e bianco, al contrario di Tamás e Moussa. «In strada ogni schifezza è permessa; ebbene eccola, la più grande di tutte: dover scegliere tra sé e l’altro quando l’altro è miserabile da morire». Eppure c’è sempre la possibilità di compiere gesti inediti di condivisione e solidarietà, mantenendo la propria dignità. Per lui, per esempio, la dignità è nell’aver infine accettato la realtà e nell’aver ammesso la tossicodipendenza di suo fratello Jonas, così a lungo negata dalla madre. L’incontro con Élise, che conosce fin troppo bene i pericoli dell’essere una senzatetto donna, coincide con la necessità del narratore di esprimere finalmente quella rabbia, di riprendersi a poco a poco gli spazi della città. Ed è anche l’arrivo di un insperato spiraglio di luce, lontano dai ricordi e dalla delusione: “Quello che voglio è trovare un po’ di vita in questo gran bordello, insieme”, ammette Élise. E il ragazzo aggiunge, a nostro beneficio: “La strada non si spiega, diceva, la strada sta lì”. L'articolo Max De Paz / La strada sta lì proviene da Pulp Magazine.
Richard Hofstadter / America oggi
La ristampa di Anti-intellectualism in America Life (The Knopf Doubleday Group, Penguin Random House 1963), meritoria iniziativa della Luiss University. Press non è soltanto un’occasione per proporre a distanza di sei decenni un’opera monumentale, ma – letta alla luce degli sviluppi della politica americana recente e meno recente – conferma la ricostruzione storico-culturale di Richard Hofstadter. L’odio per gli intellettuali in America (così il titolo italiano, sintomaticamente ben più forte dell’originale) parte infatti da un assunto bene sintetizzato dal titolo, e ricostruisce nei vari capitoli gli sviluppi storici del contrastato rapporto fra l’America e gli intellettuali, specialmente per quanto attiene alla politica, all’educazione e alla finanza. La tesi più interessante, che oggi possiamo leggere anche in relazione alla politica trumpiana e all’evoluzione del partito repubblicano (ma anche a posizioni non troppo minoritarie all’interno del Partito Democratico) è che alla base della diffusa disistima nei confronti del ceto intellettuale vi sia il rapporto diretto e squisitamente emotivo che l’ideologia religiosa di evangelici, metodisti, battisti e avventisti ha instaurato, già agli albori della storia americana, tra il fedele e Dio, senza la mediazione di un ceto clericale specializzato e quindi dando spazio (splendida la ricostruzione della Parte seconda) a predicatori improvvisati e spesso fraudolenti che ancora oggi imperversano. A quali estremi di fanatismo questa impostazione conduce appare chiaro da alcuni estratti “storici” di cui abbonda il Capitolo 5, senza dubbio il più interessante e illuminate del libro: “Se una sola porzione della Scrittura fosse falsa, tutto crollerebbe” (Dwight L. Moody, cit. p. 126). “Sarebbe bene distruggere tutti i libri che sono stati scritti fino a oggi, e salvare appena i primi tre versetti della Genesi” (William Jennings Bryan, democratico, tre volte in lizza per la Presidenza nel 1896, 1900, 1908, cit. p. 129) “Leggete la Bibbia… non c’è bisogno che uno legga altri libri, e per questo io sono contrario a tutte le biblioteche” (Dichiarazione di un delegato della Georgia, cit. p. 129) “Se si dovesse decidere tra abbandonare la religione o abbandonare l’istruzione, dovremmo abbandonare la seconda” (Bryan, cit. p. 132) Se il fondamento democratico ed egualitario di questa impostazione è evidente, sono evidenti i rischi che comporta. Già all’inizio dell’Ottocento la diffidenza si diffonde a ogni area della vita americana, pur con esiti alterni: è inevitabile infatti, soprattutto durante i governi democratici e i presidenti più illuminati, che si sia dato spazio alla figura dell’esperto, versione pragmatica dell’intellettuale che fece da supporto, per citare un esempio, ai governi di Theodore, F. D. Roosevelt e J. F. Kennedy. Quello che il traduttore definisce “l’odio per gli intellettuali”, tuttavia, si ripropone ciclicamente: ne sono stati esempi storicamente recenti il maccartismo, la figura di Nixon e, dopo di lui, tutti i presidenti repubblicani, i quali subiscono l’influsso crescente di un fanatismo religioso che, come si sa, porta l’America a ripudiare la dottrina evoluzionista a favore di varie versioni dell’“Intelligent Design” e del Creazionismo, fino agli estremi del Young Earth Creationism, sulla base di una totalmente acritica e anti-scientifica interpretazione della Bibbia: “La Bibbia condanna l’evoluzione…. l’evoluzione deve essere condannata come contraria alla volontà rivelata da Dio” (Bryan, cit. p. 131) Per il lettore italiano l’importanza del ponderoso lavoro di Hofstadter risiede proprio nel farci comprendere meglio l’America di oggi, e persino il rancore dell’amministrazione Trump verso le università più prestigiose, le nomine da lui effettuate ai più alti livelli e il senso di continua improvvisazione della sua politica.         L'articolo Richard Hofstadter / America oggi proviene da Pulp Magazine.