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Michele Mari / L’eterno ritorno
Leggere Michele Mari significa entrare in una stanza degli specchi in cui tutto è già noto. I convitati di pietra non fa eccezione: il romanzo è un sistema di ossessioni, una costellazione che costituisce l’impianto stesso del testo. Fumetti, collezionismo, film, rituali, rigidità moralistiche, un’ironia enciclopedica: motivi che si intensificano come in una filastrocca sempre più inquieta. In questa regressione ostinata al bambino sapientino di dieci anni che è dentro Mari si concentra la parte tragica dei suoi libri: l’autore non si emancipa dall’infanzia, la rimette continuamente in scena, trasformandola in una camera d’eco malinconica. La trama – la riffa mortuaria della III A del 1975, l’escalation di morti, sospetti e alleanze – ruota attorno a un patto semplice e spietato: ognuno dei trenta compagni versa una quota di denaro, un fondo comune che maturerà interessi e che, alla fine, verrà ereditato dagli ultimi tre superstiti della classe. Una sorta di Dieci piccoli indiani moltiplicato per tre: stesso meccanismo rituale, ma dilatato nel tempo, non finalizzato alla soluzione del giallo bensì alla conferma di un vincolo. Il piacere della lettura nasce dal riconoscimento immediato del mondo dell’autore: ogni romanzo amplifica le sue manie, e il lettore vi entra come in un’abitudine affettiva, trovando conforto in questa coerenza. Ne I convitati di pietra i personaggi invecchiano, accumulano acciacchi, attraversano decenni – il romanzo spinge la sua cronologia fino al 2050 e oltre –, ma sembrano non aver mai davvero lasciato il cortile della scuola. La cena rituale del 22 luglio è il momento in cui tutto si ricompone: un appuntamento che riconferma ogni anno il patto, riattiva la competizione e dissolve l’identità adulta. A tavola riemerge la stessa dinamica liceale, rigida e crudele, e tutto ciò che accade fuori da quel rito sembra una parentesi secondaria, un segmento di tempo che esiste solo per condurre nuovamente a quella data fissa, al vero centro delle loro vite. In questo mondo, la figura di Luca Brodo è l’emblema dell’infantile puro. Alla sua ossessione onanistica che esita un tremito permanente alla mano destra spacciato per morbo di Parkinson, corrisponde una precisione descrittiva altrettanto maniacale, che finisce per raccontarlo meglio di qualsiasi dialogo. Brodo vive in un erotismo senza altro: un archivio mentale fatto di immagini e micro-dettagli, una collezione interiore che ruota soprattutto attorno alla compagna di classe Francesca Ricci, sopravvissuta a un grave incidente e costretta alla sedia a rotelle. È lei il centro del suo immaginario: Brodo si concentra sulle cromature lucide della carrozzina, sulle curve metalliche del telaio, su quei bagliori che diventano per lui un’estensione feticistica del corpo della Ricci. Il desiderio si sposta dall’oggetto umano all’oggetto tecnico, come se la sua fantasia non riuscisse più a distinguere tra il corpo e ciò che lo sostiene. Un erotismo che però non assomiglia certo ai traumi metallici del Crash di BAllard — né alla loro versione cinematografica filtrata dallo sguardo glaciale e perturbante di David Cronenberg. Lì il metallo è una ferita, una promessa di dissoluzione; qui, nelle fantasie di Brodo, il metallo della carrozzina diventa un giocattolo sublimato, una superficie brillante su cui proiettare un desiderio che non ha mai imparato a diventare adulto. L’erotismo di Mari è perturbante, sì, ma lo è solo per la sua cifra di assoluto infantilismo, per il modo in cui riduce la complessità del desiderio a un rituale solitario, ripetitivo, statico, privo di ogni minaccia reale. È un perturbante che non nasce dal rischio, ma dalla regressione: dal rifiuto inconsapevole di crescere. Ed è così per tutti: la sessualità che attraversa il romanzo è goffa, immediata, ripetitiva. La Gaudillo colleziona conquiste fra i compagni di classe come figurine; Semprini si lascia trascinare all’atto sessuale mentre pensa alla gatta Crazy, la creatura di Herriman che gli abita nella testa più di qualsiasi donna reale; Rivadeneyra usa il corpo come valuta. Il sesso non genera legami: irrigidisce ruoli, conferma ossessioni, mostra un mondo emotivamente bloccato. C’è poi la città di Milano. I convitati di pietra è anche una sorta di giallo topografico. Ogni personaggio ha un indirizzo preciso, un civico esatto nella mappa milanese. Via Melzi d’Eril, via Sassetti, via Mac Mahon, via Canonica, viale Sarca: seguendo i loro movimenti, il lettore traccia percorsi e incroci che ricordano un’indagine. Milano diventa una città-cronologia, un reticolo di luoghi che conservano le tracce emotive e biografiche dei personaggi: scene della loro formazione, dei loro fallimenti, delle loro morti e omicidi. Come attraversare  mezzo secolo di memoria urbana leggendo, allo stesso tempo, la mappa di un delitto. La riffa – con la sua logica da gioco infantile – come detto è il centro gravitazionale di tutto. Non offre ricompense reali, eppure nessuno può sottrarsi: la competizione è identità. Ogni morte tiene in vita il fantasma della giovinezza; ogni cedimento fisico rinforza il legame perverso con quella classe di liceo che non smette di richiamarli a sé. E questa ripetizione genera un conforto nel lettore. Leggendo, si attende il momento in cui Mari spingerà ancora un po’ oltre la sua macchina narrativa: la monomania di Semprini, il potere della Bathory, le invenzioni rituali di Brodo. La prevedibilità diventa una promessa: entri in questo universo sapendo già come funziona e vuoi vederne i margini. Chi può essere allora il lettore di un romanzo così? A entrarci davvero è un “lettore sofisticato”, in grado di riconoscere la forma, il lavoro sulla ripetizione, la manutenzione maniacale del dispositivo narrativo. È un lettore che vede il mestiere di Mari e lo apprezza proprio perché è trasparente, quasi esibito. Un “lettore ingenuo”, invece — e soprattutto un lettore giovane che non sa niente degli oggetti o manie di un’epoca ormai sorpassata — rischia di uscirne spaesato. Senza il repertorio culturale che sostiene il mondo di Mari, la ripetizione può sembrare immobilità, e l’ossessione un vezzo più che una poetica. Il “lettore naturale” resta dunque un coetaneo dell’autore, qualcuno che riconosce quel paesaggio: fumetti, l’intera filmografia elencata titolo per titolo di un attore come Gene Hakmann! linguaggi scolastici, riti e mitologie di un’infanzia mai davvero superata. I convitati di pietra non racconta una generazione: parla a una generazione, e chiede un ascolto che viene da lontano. In ogni caso I convitati di pietra è un romanzo insieme divertente e triste con al centro, di fatto, la morte. È un libro che non cerca nuove direzioni: amplia una forma che Mari coltiva da sempre, cercando di renderla più nitida, più spietata, più teneramente crudele. Si legge come si legge un rituale: riconoscendo ogni passaggio e aspettando di vedere fino a che punto Mari permette alla sua macchina di girare. L'articolo Michele Mari / L’eterno ritorno proviene da Pulp Magazine.
Octavia Cade / Notizie della dipartita
Da Borges a Calvino, agli epigoni cinematografici dei libri gioco, di moda qualche anno fa (Lola corre, Sliding doors), una storia a bivi dovrebbe in teoria attivarci per spingerci a partecipare alla meccanica del processo creativo. Tutto al contrario, Octavia Cade ricorre a questo espediente narrativo per la ragione opposta: una volta agganciato il lettore, accreditare invariabilmente la medesima conclusione, declinabile all’infinito, a prescindere dalle scelte a menu, apparentemente molto diverse, che potrà selezionare. Come l’autrice chiarisce sin dalle prime righe, infatti: “Questa è un’avventura a bivi.  Ogni episodio è a lieto fine. Tutti muoiono felici. Tu muori felice. Sempre”. Felicità parla innanzitutto dell’irrilevanza di qualsivoglia disposizione d’animo con cui crediamo di prepararci ad accogliere una catastrofe climatica a lungo annunciata ma che la nostra civiltà, intesa anche come l’ipotetica varietà umana privilegiata, ha preferito non prendere troppo sul serio. Un passo alla volta, come la tartaruga nel metaforico pentolone, avanziamo così in una fiction climatica che non rinuncia ai toni pungenti di una commedia molto black, a mano a mano che le nostre risorse emotive ostentate davanti alla crisi – dai sensi di colpa più o meno esibiti all’utilitarismo più o meno cinico, per concludere con l’eccitabilità del survivalista duro e puro – sembrano ricondursi tutte a una qualche ridicola formula consolatoria. Alla fine, si muore comunque ma si muore con una stupida sensazione di sollievo stampata in volto. Una volta vagliate le opzioni a disposizione per lasciare decentemente (cioè, “felicemente” secondo il lessico del racconto), questo mondo, non appena abbiamo, cioè, finito di scandagliate le molteplici varietà di suicidio, omicidio, morte incidentale, ecc. Cade sembra suggerire che la presa di coscienza e la conseguente ribellione, per quanto presumibilmente futile al pari di differenti posture, risulta a conti fatti non solo la prospettiva più sensata ma anche la più gratificante. Octavia Cade è un’autrice neozelandese specializzata nella comunicazione a tema ecologico, pluripremiata nel suo Paese, benché non ancora affermatissima nel mondo anglosassone. Felicità, una short story apparsa due anni fa su una rivista online di science fiction, ė l’ennesima perla che Zona 42 ha scovato e propone ora nella collana “I Nodi”. Il giochino dei “destini incrociati” si rivela naturalmente ben presto un mero trucco diegetico. Mentre la storia procede con deliziosa crudeltà tra macerie di socialità che intuiamo malamente scampate a calamità antropogeniche, ogni cosa, ovunque ci giriamo, sembra preannunciare un inquietante finale di stampo ballardiano. Come lettore non so dire se alla fine del racconto mi sia sentito più sollecitato, ispirato o respinto dal riflesso di una società che si specchia in una cacotopia fin troppo simile al mondo che già conosciamo. Posso dire però che l’espediente di Cade funziona e che, una volta iniziato a leggere, ho continuato di un fiato fino all’ultima paginetta.           L'articolo Octavia Cade / Notizie della dipartita proviene da Pulp Magazine.
Giuliano da Empoli / Dare un nome al mondo
“In tempi difficili e pericolosi la letteratura ha il compito di dare un nome al mondo”. Lo ha detto, non con queste esatte parole ma con questa stessa intenzione, Albert Camus nel 1955, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel a Upsala. E lo ha ripreso, lo scorso 17 novembre a Mantova, Ian McEwan, invitato per la festa di tesseramento di fine anno e per il primo appuntamento che apre ufficialmente la corsa al trentennale di Festivaletteratura. Questa frase “to name the world”, è molto difficile da tradurre. In rete usano la frase “nominare il mondo”, che però in italiano suona imprecisa e appunto tradotta. Dare un nome al mondo è migliore dal punto di vista tecnico ma usa il singolare, che stona con il concetto sotteso a mondo, che è pluralissimo. Ma spero di avervi comunicato il senso. Perché è quello che mi è venuto in mente leggendo L’ora dei predatori. Il nuovo ordine mondiale visto da vicino, un piccolo libro di Giuliano da Empoli. Di cui innanzitutto colpisce il titolo. È chiaro che si riferisce ad alcuni Capi di Stato, ad alcuni imprenditori, ad alcune figure pubbliche che, con quella connotazione, riconosciamo subito. Da Empoli, studioso di politica internazionale ma anche romanziere (molto bello il suo Il mago del Cremlino, vincitore del Grand Prix du roman de l’Académie française), portatore sano di due culture, italiana e francese, ha accesso alle stanze dei potenti e a quelle riunioni esclusive di cui qualche volta leggiamo sui giornali, ma che il più delle volte ci sono ignote. Stanze e riunioni in cui vengono prese decisioni che ci riguardano, ma che non ci vengono comunicate o che addirittura ci vengono occultate. La politica come ce la racconta da Empoli è ancora quella de Il principe di Machiavelli, che sembra essere ancora uno dei pochi libri che ci danno “le parole per dirlo”. Si sente dire o si legge, sulla stampa e sui social, che stiamo vivendo in un nuovo Medioevo. Intendendo con questo un sistema sociale di estreme disuguaglianze, in primis economiche e poi di diritti e libertà, in cui il potere è concentrato nelle mani di pochissimi ed è arbitrario e incontrollabile, in cui la mobilità sociale, la scolarizzazione obbligatoria e gratuita, la sanità pubblica sono in via di sparizione. I nuovi potenti, quindi, sono più simili a dei sovrani (non a caso le proteste americane contro Trump erano piene di cartelli “No King”), che si ammantano di miti fantasiosi e vari ma restano opachi e inconoscibili, nonostante siano a capo di stati democratici e il più delle volte siano stati eletti dal popolo. Certo le elezioni non sono sempre libere, e le democrazie possono essere puramente formali. Anche qui le parole hanno il loro peso. Il libro di da Empoli non ci aiuta a risolvere i nostri problemi, non ha risposte per le questioni che ci angustiano e angosciano, non ha neppure la pretesa di spiegarci il tutto. Ma ci accompagna e illumina i luoghi dove si incontrano i potenti, per farci vedere come oggi la spettacolarizzazione, l’uso spregiudicato delle informazioni e delle tecnologie, e soprattutto il caos sono l’ambiente naturale per l’esercizio di un potere il cui unico scopo è la perpetuazione di se stesso e l’accumulo di ricchezze, anche queste solo per se stesse. Le alleanze internazionali, i summit, gli incontri al vertice, sono gestiti attraverso la generazione di continui shock, ribaltamenti, sorprese e imprevisti, così che alla fine la prevalenza del più prepotente, del più forte, di quello che osa di più, del predatore tipicamente, sono garantiti. Le regole e le istituzioni con cui siamo cresciuti, in cui abbiamo creduto, che abbiamo magari anche malamente cercato di esportare e diffondere, non sono nulla di universale e si stanno rivelando carta straccia al confronto di questi modi molto più rozzi e spicci e tuttavia efficaci. L’ora dei predatori ci conferma anche che esistono diversi mondi paralleli, che ognuno di noi vive in uno di questi e poco riesce (o desidera) sapere degli altri. Sui social si parla di bolle, dentro le quali stiamo immersi al punto di credere che il mondo si esaurisca lì, nella propria bolla. E siccome i social sono una rappresentazione della realtà, ecco che sì, viviamo ognuno in una bolla, più o meno abitata e condivisa. Ma non è detto che si debba restarci. Così come non è detto che le regole della democrazia, in questo momento disprezzate e irrise, non vadano invece difese per il valore che continuano a contenere, o per il fatto che nell’era dei predatori si vive proprio male ed è nostro dovere di essere umani e senzienti cercare di migliorare la vita comune. Quello che ci dà questo libro è qualche conoscenza, qualche informazione, qualche insight in un mondo lontano, oscuro e inaccessibile. E come sempre, per quanto la verità possa essere sgradevole, brutta e maleodorante, è sempre meglio conoscere che cullarsi nell’ignoranza.         L'articolo Giuliano da Empoli / Dare un nome al mondo proviene da Pulp Magazine.
Magdalena Blažević / Gli scomparsi
“Preparatevi, il tempo sta per scadere. Il silenzio e la lentezza dureranno ancora per poco”. L’eclissi del periodo estivo coincide con l’esordio dell’orrore, mentre “il cielo si dissolve nelle prime scintille e nell’odore della polvere da sparo”. In tarda estate è il potente esordio romanzesco di Magdalena Blažević, critica letteraria che già nel panorama narrativo si era imposta con alcuni racconti di rilievo. Le sue pagine si animano di impressioni sensoriali e atmosferiche. La memoria tiene insieme la fragile trama narrativa. I ricordi balenano intensi, come dettagli illuminati per un istante dal sole attraverso le foglie e poi di nuovo celati. Giochi di fanciulli dalla durata effimera, bambole rinchiuse in una scatola per non vedere più la luce. La quotidianità della vita di campagna prefigura la violenza della guerra. L’odore del sangue e del fango impregna l’aria mentre le galline vengono macellate. Suini nati morti vengono gettati in una fossa, mentre sciami di corvi e di mosconi infestano l’aria. Il fratello di Ivana, la protagonista, porta a spalla un fucile ad aria compressa che anticipa quelli reali e ben più perigliosi che a breve sconvolgeranno quelle terre. Gazze mettono in scena “uno spettacolo nero”, mentre “l’aria rimbomba e il bosco si oscura”. Come nelle fiabe, la foresta è buia e minacciosa, albergo di inconsci timori. La paura percorre gli animi come un vento furioso. Nella casa giace abbandonata una fisarmonica, che nessuno è in grado di suonare. Paesaggi impregnati di gelo e di morte, nei quali il più lieve rumore echeggia furente. Le finestre delle case in rovina appaiono come orribili occhi cavati. Blažević, come Virginia Woolf in time passes, riesce a rendere il trascorrere del tempo, le piazze un tempo vive e ora deserte, i tetti piagati dalla pioggia e dalla neve, sotto i quali non vi è più riparo, le stanze vuote percorse da topi e da insetti, le mura aggredite da muschi e umidità. Il libro è dedicato agli abitanti del villaggio croato di Kiseljak, massacrati il 16 agosto del 1993 dalle forze bosniache. Un episodio poco noto dalle nostre parti, come altri che vengono posti all’attenzione solo ora, a così grande distanza di tempo, a dimostrazione di come ogni conflitto porti con sé strascichi infiniti e devastazioni morali enormi. “Quando quella casa sarà crollata, con le mura divorate dal vento e dall’umidità, scomparirà anche l’ultima prova che il villaggio un tempo aveva un aspetto completamente diverso. Che sapeva di polline di sambuco e dell’acqua del ruscello”. Gli odori e i sapori di un tempo si estinguono, inevitabilmente. Fotografie sbiadite simboleggiano la necessità di ricordare, prima che l’oblio renda tutto illeggibile. “Come fa il mondo a essere ancora lo stesso?”, si domanda l’autrice. Dopo tanto orrore il normale corso dell’esistenza appare sfigurato, per sempre. Le scarpe da ginnastica di Ivana restano appoggiate al muro; nessuno le indosserà più. Un telefono squilla invano nel vuoto popolato solo dalla morte.   L'articolo Magdalena Blažević / Gli scomparsi proviene da Pulp Magazine.
Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi
La Valle de Los Caidos oggi è tornata a chiamarsi Valle de Cuelgamuros, il nome che aveva prima che Francisco Franco decidesse di deturpare questa parte della sierra de Guadarrama con il suo triste mausoleo. Progettato per essere il monumento a cielo aperto del fascismo spagnolo, il caso volle che Josè Antonio Primo de Rivera, il fondatore della Falange Española, e Franco e morissero lo stesso giorno, il 20 novembre. Il primo fucilato dai repubblicani nel 1936 e il secondo nel 1975, ma di morte naturale dopo una troppo lunga vita. Entrambi furono solennemente sepolti sotto l’altare della tetra chiesa scavata nel granito sotto un’enorme croce, la più alta d’Europa. Fuori dalla porta della chiesa, in un enorme terrapieno, sono sepolti 40.000 caduti della guerra civile, più o meno a metà tra repubblicani e nazionalisti. L’opera venne costruita a partire dal 1940 per essere finita nel 1958, e fu opera dei prigionieri repubblicani costretti ai lavori forzati per quasi vent’anni. Gli storici non hanno consolidato un dato certo sui morti per la repressione che si scatenò successivamente alla fine della Guerra civile, ma alcune fonti riportano la stima di 200.000 persone. Per popolare la più grande fossa comune della storia europea, le autorità franchiste ordinarono l’esumazione dalle molte fosse comuni disseminate nella Spagna per riunire i morti repubblicani senza nome e deporli ai piedi dei corpi di Franco e de Rivera. Alcune fonti affermano che furono sepolti lì anche i numerosi morti sul lavoro e alcuni fucilati quando non erano più necessari alla costruzione. Nemico giurato di questa macabra e falsa opera di riconciliazione – almeno così era stata fatta passare con ipocrisia dalla propaganda dell’epoca – il Primo Ministro Pedro Sanchez ha ordinato il trasloco delle salme del dittatore e del suo compare, e ha ordinato lo smantellamento di ogni riferimento a quello che era di fatto un luogo di incontro di fascisti e nostalgici del regime. Salgo a piedi i sei chilometri che conducono al mausoleo fascista dalla strada della Guadarrama, tra pini e pareti di granito solcate dai torrenti, e mi avvicino alla croce alta 150 metri, sempre più grande e impressionante. Poche automobili mi passano a fianco e forse pensano a quanto sia risoluto quel camerata che procede a piedi verso il più ingombrante e brutto residuo del fascismo spagnolo. Mentre percorro la valle bellissima del Cuelgamuros, mi tornano in mente le pagine più toccanti de I girasoli ciechi, l’unico romanzo lasciatoci da Alberto Méndez, e pubblicato in Spagna nel 2004. Mendéz, nato nel 1941, aveva vissuto sotto il tallone della dittatura e il suo romanzo affronta i problemi centrali in cui ancora oggi l’intera Spagna si dibatte, quello delle memorie personali, della realtà del conflitto, della lunga e frustrante repressione in un’Europa che avrebbe dovuto debellare anche il loro fascismo dal 1945 e non lo fece, e della difficoltà a costruire una storia pubblica. Se oggi solo qualche coglione sventola sul piazzale la bandiera spagnola o si rizza nel saluto a mano tesa, le polemiche che hanno coinvolto per decenni la Valle de los Caidos sono state momentaneamente risolte spogliandola di ogni riferimento esplicito al fascismo, ma non si è ancora affrontata l’idea di farne un museo a cielo aperto della repressione falangista, cercando di collegare le memorie degli sconfitti con la storia ufficiale e riscrivere radicalmente il significato di quei luoghi ridotti a lager e a campo di lavoro forzato. Mentre cammino nella solitudine di un cielo terso e settembrino, le vicende e i personaggi de I girasoli ciechi non mi danno tregua e assumono in questo luogo un significato più concreto. Sono quattro storie interdipendenti che raccontano una sconfitta che non è solo dei repubblicani ma dell’intera Spagna, costretta a vivere per decenni in una società malsana animata da odio, vendetta e sospetto. I protagonisti dei racconti sono accumunati dall’essersi trovati a causa della guerra civile in condizioni esistenziali tali da spingerli a rifiutare la vita. Sono un nazionalista che si arrende al nemico nel giorno della resa di Madrid, un giovane padre nascosto nella sierra che si affaccia all’inverno con la moglie morta e un neonato da tenere in vita, un prigioniero in attesa della fucilazione, un intellettuale nascosto in un piccolo vano del suo appartamento. Sono quattro vicende personali in cui sono presenti gli spunti paradossali e surreali cari alla letteratura di lingua spagnola, ma immediatamente calati nel realismo della vicenda storica che il lettore conosce come tragica. Se i protagonisti del romanzo o sono d’invenzione o ripropongono vicende personali realmente accadute, i personaggi che completano la narrazione provengono dalla storia dell’assedio di Madrid, come il colonnello Miguel Eymar, responsabile della fucilazione di migliaia di militari repubblicani e dei loro parenti, e di semplici simpatizzanti, o come Edoardo López, il militante e poi dirigente del Partido Comunista di España, chiuso nella prigione in cui Eymar compie con zelo il suo compito di eliminare fisicamente i nemici della Patria, che nella realtà storica riuscirà a raggiungere l’Unione Sovietica e salvarsi. Il cimitero dell’Almudena di Madrid è intimamente legato alle vicende della terza storia, intitolata “La lingua dei morti” e ambientata nel 1941, ed è la logica prosecuzione spaziale della narrazione di Mendéz. Oggi all’Almudena, poco lontano dalle tombe di Dolores Ibárruri e Francisco Largo Caballero, è sepolto proprio Edoardo López, sulla cui lapide spiccano la falce e il martello che ricorda a tutti i visitatori la sua appartenenza e gli ideali per cui ha combattuto. Ma intorno a lui i colori della repubblica (rosso, giallo e viola), le scritte che richiamano ai partiti operai, i simboli della lotta al fascismo maculano il cimitero fino al muro di mattoni rossi che fu uno dei luoghi delle fucilazioni. Nei cimiteri, dopo un’estrema unzione, i repubblicani veniva uccisi e sotterrati, come raccontano Paco Roca e Rodrigo Terrasa nell’eccezionale storia fumetti intitolata L’abisso dell’oblio (Tunué, 2023). Qualche fiore e la bandiera segnano, spesso senza nessun’altra spiegazione, i luoghi della memoria spagnola. Ma il muro dove avvennero le oltre 3000 fucilazioni a cui si riferisce “La lingua dei morti” è dall’altra parte del cimitero, a fianco dell’entrata principale, dove trovarono la morte anche las trece rosas, le tredici giovanissime donne uccise per un attentato a cui non presero parte. Quando I girasoli ciechi viene pubblicato nel 2004, la Spagna era già dilaniata in uno scontro politico e culturale sulla dittatura che non si è risolto neppure oggi e vede un partito dell’oblio opporsi con violenza a un partito della memoria. In tutta la nazione sono evidenti i segni delle contraddizioni e delle lotte che sono state portate avanti anche dai partiti istituzionali e durante i governi diretti da José Luis Rodríguez Zapatero e Pedro Sánchez. Tutta la narrativa spagnola, compreso autori del fumetto tra cui spiccano Paco Roca ed Eduard Altarriba, è impegnata nel progetto di tradurre in novel le storie familiari come paradigmi di una lotta che ha coinvolto tutta la popolazione spagnola, dalle famiglie più della classe operaia e contadina fino agli intellettuali, e che per la parte repubblicana hanno rappresentato una sconfitta personale e collettiva, un’umiliazione che si è protratta per anni senza mai una reale riconciliazione. Contrapposizioni aspre che la sinistra italiana, pur nella diversità delle due esperienze, invece, per quanto riguarda il fascismo mussoliniano, ha progressivamente attenuato nel tempo fino a farle scomparire cedendo a un patetico revisionismo storico. È bene leggere il capitolo di Contro l’identità italiana di Christian Raimo (Einaudi, 2019) dedicato al commento sul triste appello di Luciano Violante a favore dei “ragazzi di Salò” per capire come in Spagna, a partire da romanzi come I girasoli ciechi, non si chieda riconciliazione ma giustizia, se non vendetta. Sarebbe un errore, ci ammonisce Mendéz con le sue pagine, considerare la Guerra civile spagnola conclusa nel 1939, anzi il romanzo inizia proprio con la fine del conflitto militare, perché la guerra è proseguita fino alla fine del 1975. Quello che si è modificato nel 1939 è la struttura dei contendenti, per tre anni i nazionalisti avevano combattuto contro l’esercito repubblicano e una parte della popolazione civile, poi il conflitto era continuato contro una parte della popolazione disarmata senza un esercito che la difendesse. Nell’esordio del romanzo, intitolato “Prima sconfitta: 1939”, Mendéz descrive l’incredibile resa del capitano Alegría all’armata repubblicana. Un’azione inspiegabile, visto che è l’ultimo giorno di guerra, Madrid è caduta e lo stremato esercito repubblicano si sta consegnando ai suoi aguzzini, ma che è diretta conseguenza di un imperativo morale che lo obbliga a “non voler far parte della vittoria”. Mendéz costruisce il personaggio di Alegría affidandogli la razionalità della narrazione, una razionalità che viene mostrata progressivamente e a partire da quella che nella realtà della vicenda come in quella del lettore sembra la scelta di un pazzo. Eppure, pensiero dopo pensiero, Alegría si pone al di sopra dell’ideologia e della propaganda, spiegando al tribunale militare nazionalista che lo sta giudicando per diserzione, che non voleva vincere quella guerra perché non c’erano stati veramente ideali da difendere o valori da proteggere, ma solo la volontà di ammazzare tutti gli avversari. E storicamente è stato così, perché dopo la caduta di Madrid e Barcellona, la guerra è continuata. La vittoria nazionalista non è consistita solo nella conquista del potere, ma nell’eliminazione fisica, psichica e sociale di coloro che si erano riconosciuti nella Seconda Repubblica. Mendéz parla ai lettori con le parole dirette e coraggiose affidate all’eloquio di Alegría dei “soldati vittoriosi come di persone estranee alla vita, assenti da se stessi che si trasformeranno in carne di sconfitti”. Annientati da un vincitore reale che ha sconfitto l’esercito repubblicano e il proprio. La seconda sconfitta è datata nell’anno terribile della fuga: il 1940. La retirada republicana inizia nel gennaio del 1939 con la caduta di Barcellona, con i profughi diretti verso le città andaluse nella speranza di un imbarco, dove vennero trucidati a migliaia, o verso la Francia, dove oltre 500.000 persone affrontarono il valico dei Pirenei d’inverno. Con la caduta di Madrid, molti si allontanano dalla città diretti verso la sierra a nord, senza una vera speranza di raggiungere il confine ma solo di sfuggire alla repressione. Per coloro che saranno catturati si apre una realtà di fucilazioni, carcere indefinito e torture, per gli altri l’alternativa al suicidio è nascondersi. La sconfitta del 1940 che racconta le vicende di Eulalio Caballos Suárez si svolge sulle montagne delle Asturie. Bloccato in una baita con la moglie e il figlio neonato, attende l’inverno e la morte inevitabile. Lontano dal confine, questo giovanissimo poeta scrive un breve diario in attesa del freddo insopportabile, della fame, dei lupi e dell’inedia. L’espediente del manoscritto ritrovato ha una corrispondenza nel racconto “Diario del partigiano anonimo” di Angelo Del Boca (in Storie della Resistenza, Sellerio, 2013), ambientato in Val Trebbia nell’inverno del 1944, in cui al disgelo primaverile le pagine scritte in attesa della morte nella bufera sono tutto ciò che rimane di un combattente senza nome. Nel racconto di Mendéz la parola “sconfitta” è ripetuta più volte. Suárez afferma che è contagiosa e se mai riuscirà ad abbandonare la baita, ovunque il suo odore lo perseguiterà. Lui che si è gettato nel campo di battaglia con un foglio di carta e una matita è incaricato da Mendéz di rappresentare quello che lui stesso ha vissuto durante la dittatura, la condanna infinita a una vita di emarginazione. La terza sconfitta è del 1941 ed è la storia di un inganno. Juan Senra, un giornalista comunista ridotto a “cicatrice d’uomo” dal carcere e dall’attesa di un processo la cui sentenza è scontata, riesce a manipolare i propri accusatori e rimandare la sua condanna a morte, mentre i suoi compagni di prigionia vengono rapidamente condotti al muro delle fucilazioni dell’Almudeva. Ma la consapevolezza della precarietà della sua salvezza e il dolore continuo di vedere i suoi compagni abbandonare il carcere per salire sui camion che li conducono alla morte lo inducono a una ribellione solo morale e ad accettare la sconfitta totale che si concluderà con la sua fucilazione e la sepoltura nella fossa comune. Il romanzo si conclude con la quarta sconfitta ambientata nel 1942, in una casa borghese del quartiere Salamanca a Madrid. La caccia ai repubblicani non è terminata, e un uomo dato per morto si nasconde per mesi nel suo appartamento. Come nel racconto precedente, che opponeva lo spietato giudice militare al carcerato, qui si contrappongono un intellettuale prigioniero nella propria casa e un prete squallido e fanatico in preda a un’attrazione erotica morbosa. La narrazione interseca la cronaca della famiglia che cerca di far apparire normale la drammatica esistenza reale, mentre chiusa tra le quattro mura vive un’esperienza sociale schizofrenica, la confessione del prete a un suo superiore che rivela la sua frustrazione e la schizofrenia interiore, che vive diviso tra un’incontrollabile pulsione erotica e l’armamentario ideologico e religioso entro cui è stato formato, e la rievocazione della vicenda, anni dopo, da quello che era il bambino osservatore del dramma emotivo e politico che si svolgeva nella sua famiglia chiusa nell’appartamento. L’assurdità della vicenda, surreale e tragica al contempo, cerca di dare corpo non all’eccezionalità ma di quella che è diventata la normalità del nuovo ordine imposto dal falangismo e dalla versione più criminale del cattolicesimo novecentesco. Mendéz scrive infatti che “erano i tempi dell’incomprensibilità e nessuno cercava di capire ciò che accadeva”. Il girasole cieco del titolo, evocato alla chiusura della narrazione, è la metafora di coloro che, indipendentemente dalla parte con cui sono schierati, dopo un’immensa tragedia di dolore, di violenza e morte, non potranno che vivere senza più capire dove voltarsi per seguire il sole nel suo cammino. [foto © Domenico Gallo]   L'articolo Alberto Méndez / Vivere come uno fra i tanti girasoli ciechi proviene da Pulp Magazine.
Thomas Brussig / Adolescenza a Berlino Est
Sonnenallee, letteralmente il viale del sole, è il racconto delle vite collettive di una banda di giovanissimi, un potenziale, in quel piccolo pezzo di strada di Berlino est strappato alla Germania ovest, a ridosso della “striscia della morte” del Muro, permanentemente vigilata da militari che sparano a vista contro qualsiasi tentativo di fuga verso l’occidente. L’autore è Thomas Brussig, classe 1965, quindi praticamente quasi coetaneo di Lutz Seiler, anche lui nato (nel 1964) nella Repubblica Democratica Tedesca e autore di Stella 111, un vero e proprio romanzo di formazione a ridosso della caduta del Muro, recentemente tradotto in italiano per Utopia editrice, mentre qui siamo dalle parti di un breve romanzo di fantasmatiche memorie nella Berlino est, prima della caduta di quel Muro, ma scritto nel 1999 (già pubblicato da Mondadori nel 2001) e ora giunto a un tardivo successo globale: una seconda vita, grazie alla traduzione statunitense di Jonathan Franzen che qui scrive la postfazione e che aveva ambientato una parte di Purity (2015) proprio nella Berlino orientale degli anni Ottanta del Novecento. Il libro è allora una sorta di favoloso e favolistico racconto lungo suddiviso in quattordici brevi capitoli, sempre pronto a strappare sorrisi e risate a scena aperta, perché a tratti picaresco e spavaldo, ironico e malinconico al contempo, bonariamente corrosivo contro le ottusità del realismo socialista e anche incantato dalle vite narrate in soggettiva di questi adolescenti, in presa diretta, dentro e contro la Storia che si muove, apparentemente lenta e inesorabile. Anche se di lì a poco precipiterà con tutto il Muro. E si tratta proprio della Storia con la esse maiuscola. In apertura quella di Stalin che, in lotta con Truman e approfittando del mozzicone spento di Churchill, riesce a sottrarre quei sessanta metri dei restanti quattro chilometri di Sonnenallee a Berlino ovest. Mentre la conclusione delle avventure della banda è affidata alla miracolosa apparizione di quell’uomo dalla grande voglia rossa sulla fronte, ben riconoscibile, eppure rimasto senza nome, perché “il russo miracoloso, con una risata, era già risalito in macchina e ripartito”. In mezzo ecco questi gioiosi “ragazzi terribili” alle prese con le gabbie ideologiche e materiali che li circondano, ma decisi a farsene beffe, in qualsiasi imprevedibile modo. Una collettiva fuga sul posto, una fuga da fermi, agitati e intrappolati nei microscopici appartamenti a ridosso del Muro, e allora sempre in strada, in mezzo alla via, dove qualcosa di divertente, e certo anche pericoloso, può sempre succedere. Un’attitudine e una postura universale dell’adolescenza, ma lì il Partito è subito pronto a imporre un contributo al dibattito per qualsiasi banale sgarro, mentre i genitori sono ossessionati dai vicini, temuti agenti della Stasi oppure no? E allora il (co)protagonista Micha si perde nell’innamoramento di Miriam, la ragazza più clamorosamente bella della zona, l’evento di Sonnenallee, che si bacia con i ragazzi dell’Ovest, mentre lascia il nostro con una inappagata promessa, per combattere la tristezza, che pure serpeggia costantemente nelle loro vite:“visto che sai che prima o poi ti bacerò non potrai mai essere davvero triste”. Chi dice una frase così deve saperla lunga sull’attesa, il desiderio e la speranza, ovvero tutte quelle cose con cui passiamo la maggior parte del nostro tempo. Nel frattempo, basterà un odioso colpo di vento per far volare via, nella famigerata “striscia della morte”, una lettera d’amore indirizzata allo stesso Micha che le tenterà tutte per riprenderla. Aiutato da quella sconclusionata compagnia di compari, ognuno perso nelle proprie idiosincrasie. Il Talpa alla ricerca di un ambito di studi assolutamente non politico. Mario deciso a farsi espellere dalla scuola per perdersi nell’amore sconfinato della sua ventenne esistenzialista, tra un disco di Edith Piaf vietato e mandato in loop, Non, je ne regrette rien, e la promessa di mettere al momento giusto l’ancora più vietata Je t’aime. E l’obiettivo comune di sovvertire il sistema, in un modo o in un altro. O in un altro ancora. Poi il Trippa sempre pronto a cesellare risposte acuminate al tedioso poliziotto di quartiere. Tutti e tre iscritti al corso di ballo per sperare di danzare con la meravigliosa Miriam. Mentre Cespo è costretto a passare per una squinternata serie di spacciatori di LP dell’Ovest alla rocambolesca ricerca di Exile on Main Street dei Rolling Stones. Perché anche in queste pagine, in queste adolescenze, è ancora una volta la musica a creare mondi abitabili, saldare amicizie, tessere amori, salvare, letteralmente, la vita. Intorno a questa banda ruota anche il mondo dei “grandi”, a partire dalla famiglia di Micha, con Brend, il fratello militare che ha inventato una lingua incomprensibile, e la sorella Sabine, circondata da uno stuolo di innamorati, tra i quali un giovane che spiega come riuscire a fare il giro del mondo senza passaporto. Quindi lo zio Heinz di Berlino ovest, insicuro e improbabile contrabbandiere che troverà un modo definitivo per essere lui il contrabbandato. Sono storie narrate sempre con un pacificato sorriso sulle labbra: “ragazzi, quante ne abbiamo passate” – scrisse Micha più tardi – “Poteva andare così per sempre, ma poi successe qualcosa”. L’irruzione miracolosa nella storia del blocco sovietico di un uomo come Michail Gorbaciov che parlerà all’est e all’ovest della casa comune europea. In chiusura di questi racconti è solo un’apparizione fantasmatica. Nella storia che stiamo vivendo da quel 1989 è completamente dimenticato, rimosso da despoti autocrati a est come a ovest del nuovo Continente. Nonostante ancora una volta un tedesco, nella Germania riunificata, Werner Herzog, solo pochi anni fa abbia confezionato una struggente testimonianza di quella meravigliosa poesia di Michail Lermontov narrata a memoria dall’uomo con la voglia rossa sulla fronte in Herzog incontra Gorbaciov (2018): “Sulla strada esco solo. / Nella nebbia è chiaro il cammino sassoso. / Calma è la notte”. E via proseguendo, quasi fosse ancora possibile rintracciare quegli scalmanati ragazzini sul viale del sole dell’avvenire, che Thomas Brussig ha fissato per sempre in questo libro destinato a fare di noi lettori quelle persone felici che hanno una pessima memoria e ricordi ricchissimi.     L'articolo Thomas Brussig / Adolescenza a Berlino Est proviene da Pulp Magazine.
Jeanette Winterson / Stai lontano da dèi e fantasmi (Confucio)
Credere ai fantasmi al tempo dell’essere digitali. Al netto di una difettosità intrinseca della mente umana, e dei retaggi del mondo premoderno, eccoci qui a leggere racconti di cui affascinarci, tentando una fuga neppure troppo innocente dai disastri attuali cosparsi ovunque, a latitudini e longitudini, da uomini disamorati di tutto, tranne che di denaro e morte. Credere ai fantasmi e averne paura, addirittura terrore? Non scherziamo, ben altro si rende visibile dietro l’angolo di lynchiana (nel senso del regista) memoria: i mostri evidentemente non sono i fantasmi. Jeanette Winterson è stata chiara in 12 Bytes, prendendosela col maschilismo imperante nell’artificiale (più o meno stupido, altro che “intelligente”), con i maschi digitalizzati, quelli che non sanno cosa farsene della classicità millenaria. Tutto era iniziato con la rivoluzione di Scritto sul corpo. Anni ne sono passati, e ancora la felice fantasia della scrittrice articola la sua struttura dando vita a sottili (e pellegrinanti) interpretazioni del mondo e della sua natura frammentaria. E dunque Winterson coglie una semplice e diretta discontinuità del pensiero: perché le realtà virtuali non dovrebbero accogliere l’antica idea che abbiamo dei fantasmi? Più che un’idea, a ben pensarci, avendo presente quanto sia sempre stato acceso nei vivi l’interesse per i morti, e per gli spiriti da essi derivati, più che per i santi. Vedi le radici di Halloween ben piantate nell’attuale società (dei consumi e di un po’ di tutto) rispetto a Ognissanti. Nel Sud del mondo, e in Oriente, gli spiriti inquieti spadroneggiano, e in Europa che dire, se non che i fantasmi sono spesso vendicativi, richiedono cose ai viventi e turbano eredità. Le entità hanno un debole per luoghi e desideri di chi ancora calpesta le strade del mondo, e ora che la spaziosità del mondo si perpetua nei territori dei bytes eccoli pronti a invaderli prendendosi qualche rivincita sull’Illuminismo. Winterson si prodiga ad attraversare vicende e figure, personali e non, con la consueta verve ironica, descrivendo amori e generosità amorose svariate passa un po’ di tempo con Poe ma velocemente non può fare a meno d’intendersela con Shirley Jackson e Stephen King. Persecutori e perseguitati affollano il mondo, si sa, e la scrittrice ama sperimentare quel che l’arte offre e ha offerto – sapendo che, attualmente, le macchine sembrano avere l’opzione per niente peregrina d’essere infestate. Chiedersi se per caso l’uomo non sia solo fatto di ossa e sangue risulta semplice, perfino troppo, ma il mondo tecnologico – Winterson ne è convinta e ci convince – è sempre più abitato di ombre, e diventa pronto a consentire a intelligenze alternative di venire a trovarci. Sarà sempre “una risposta parziale al mistero della morte”, ma i fantasmi appariranno ancora pronti a essere “scaricati” da supporti e dispositivi. Nuovi o vecchi, leggendari o moderni, eccoli nella zona di confine circoscritta in “Dispositivi”, “Luoghi”, “Persone”, “Visitazioni”. E in questa zona la scrittrice – strumento di osservazione e protagonista – definisce la propria prosa in lucida gioia narrativa.           L'articolo Jeanette Winterson / Stai lontano da dèi e fantasmi (Confucio) proviene da Pulp Magazine.
Estela Canto / Un memoir vicino a Borges
Estela Canto, giornalista scrittrice argentina molto apprezzata come romanziera e personaggio culturale di spicco nell’Argentina del Novecento, fu amica e assidua compagna del grande scrittore Jorge Luis Borges. Personaggio sfuggente e controverso, Borges divenne solo in tarda età un intellettuale riconosciuto nel proprio paese, e questo fu solo come conseguenza della sua ormai ampia notorietà all’estero. Dominato dalla madre, in grave difficoltà nell’affrontare una reale e completa relazione affettiva, sempre con un piede nella dimensione fantastica della vita e attratto dall’infinito, così ossessivamente pervasivo nei suoi lavori, Borges risultava intimamente prigioniero delle convenzioni, sfuggente e ambiguo: questa sua difficoltà di comprendere la realtà in modo concreto e operativo determinò in larga parte e fino alla tarda età un sostanziale estraneamento dalla turbolenta vita politica e culturale del suo paese. Il lavoro di Estela Canto, che si basa sulla prolungata frequentazione fra i due, ha il grande merito di focalizzarsi da un lato sui complicati aspetti psicologici della loro relazione (e quindi della mente di Borges), e dall’altro di offrire al lettore uno spaccato di vari decenni della travagliata vita politica e culturale dell’Argentina, dagli anni immediatamente precedenti la Seconda Guerra Mondiale, attraverso la dittatura fascista e populista di Peron e i decenni del dopoguerra, fino alla morte dell’autore dell’Aleph, avvenuta a Ginevra nel 1986. Estela Canto, allora molto giovane, conobbe Borges per caso, nel corso di una riunione con un gruppo di scrittori; la loro relazione fu dapprima strettamente letteraria, nonostante una certa affettuosità che Borges manifestò ben presto, ma si evolse in qualcosa di molto particolare: lo scrittore si invaghì di Estela, si propose a lei nonostante le resistenze della propria madre e il rifiuto della donna. Nonostante questo, la loro frequentazione fu relativamente continua e si protrasse per decenni, nemmeno del tutto interrotta dal primo sfortunato matrimonio di lui con Elsa Helena Astete Millán (1967-1970): una relazione che non aveva possibilità di funzionare, come Estela comprese subito. Fu solo in tarda età, quando Borges si sposò nuovamente con Maria Kodama e quando, secondo Estela, Borges si sentì finalmente libero e pienamente se stesso, che il rapporto fra i due si allentò. Come detto, la parte forse più interessante per un lettore europeo ed italiano è il ritratto dell’Argentina di quel tempo, un Paese che da sempre fatica a trovare una propria dimensione: potenzialmente ricchissimo, autentico crogiuolo di popolazioni e culture (quella spagnola, quella italiana, quella indigena), a metà fra modernizzazione europea e radici gauche, fra la sterminata pampa delle grandi proprietà terriere e il fervore di Buenos Aires. Borges percepì e visse questa dicotomia: ossessionato dalle figure dei cuchilleros (i malviventi armati di coltello), da lui vissute come romantiche, immerso in una dimensione mitopoietica tutta personale, lo scrittore fu sempre fermamente contrario alle istanze progressiste, e dunque (sia fisicamente che psicologicamente), cieco a tanti aspetti della modernità. Con questa conoscenza di prima mano, Canto intesse un originale racconto sempre in equilibrio fra l’aneddotica, la penetrazione psicologica e le interessanti riflessioni squisitamente letterarie su diversi aspetti di importanti lavori di Borges. L'articolo Estela Canto / Un memoir vicino a Borges proviene da Pulp Magazine.
Mario Del Pero / L’unica cosa che può salvare l’America
Nel 1984 il gruppo punk californiano dei Dead Kennedys riadattò una canzone che aveva dedicato qualche anno prima al Governatore Jerry Brown, con un testo nuovo che attaccava ferocemente Ronald Reagan, già Governatore della California per due mandati negli anni Sessanta, e da poco rieletto per un secondo mandato come presidente degli Stati Uniti. La canzone si intitolava California Uber Alles, e in essa si delineava proprio lo scenario che stiamo vivendo in questi giorni, lo scenario di un’America fascista, anzi nazista. Nel 1984, come recitava il titolo dell’EP, la situazione stava peggiorando: “We’ve Got a Bigger Problem Now”. Ascoltando la hit dell’album, dopo una lunga e accattivante intro swing, all’improvviso esplode un urlo disumano, seguito dall’invettiva pronunciata da Jello Biafra: “Welcome to 1984! / Are you ready for the Third World War? / You, too, will meet the secret police / They’ll draft you and they’ll jail your niece / You’ll go quietly to boot camp! / They’ll shoot you dead, make you a man / Don’t you worry; it’s for a cause / Feeding global corporations’ claws / Die on our brand-new poison gas / El Salvador or Afghanistan / Making money for President Reagan / Making money for President Reagan! / And all the friends of President Reagan! / California Uber Alles / California Uber Alles” Si potrebbe tranquillamente sostituire il nome di President Trump nel testo della canzone, e il suo messaggio distopico e apocalittico non perderebbe nulla della sua forza, anzi… Già nel 1976 il gruppo rock californiano dei Residents, di cui si sospetta abbia fatto parte Thomas Pynchon, uscì con un disco che si intitolava The Third Reich ‘n’ Roll. Vi ricordate la famosa battuta sui nazisti dell’Illinois in The Blues Brothers? (1980): “Io odio i nazisti dell’Illinois” dice John Belushi. All’epoca la battuta faceva ridere per l’assurdità della situazione, l’esistenza di milizie naziste in America, in Illinois. Poi, con il passare del tempo la battuta è diventata sempre meno efficace, dopo aver visto scene agghiaccianti come il massacro di Charleston (2015), e film come American History X (1999), con Edward Norton. Il riso degli spettatori si è progressivamente attenuato, o allargato fino a diventare un ghigno malefico, da Joker, man mano che si andavano affermando le Milizie antitasse, il movimento del Tea Party, il movimento MAGA, ecc. In questo suo nuovo libro, Buio Americano, lo storico Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti presso l’Institut d’études politiques – SciencesPo di Parigi, affronta di petto quello che è diventato il centro dell’interesse degli storici e dei commentatori a livello mondiale, sarebbe a dire i possibili sviluppi della seconda presidenza Trump, che ha già sconvolto quasi tutti gli equilibri di potere e i rapporti di forza che si erano consolidati negli ultimi settanta anni. Ne viene fuori un ritratto estremamente documentato di quella che si annovera a buon diritto tra le presidenze “trasformative”, cioè quelle presidenze che hanno cambiato profondamente l’America e il suo assetto istituzionale. Tra i sintomi che destano maggiore preoccupazione ci sono lo scontro aperto tra il potere esecutivo e il potere giudiziario, le brutalità quotidiane compiute dall’ICE, le deportazioni, le incursioni nelle roccaforti democratiche, ecc. Ogni capitolo di questo studio, essenziale per chi vuole comprendere le ragioni profonde della vittoria di Trump e le sue modalità brutali di gestione del potere, parte da alcuni dei più famigerati post su Truth del Nuovo Presidente, dei post in cui, accantonata qualsiasi prudenza istituzionale, Trump accusa gli esponenti dem di essere dei dem-enti, dei veri e propri malati di mente, e si prodiga a diffondere a piene mani quel clima di odio che rischia di innescare, prima o poi, una vera e propria guerra civile. Giustamente Del Pero – uno dei più autorevoli americanisti del nostro tempo, formatosi sui banchi delle aule bolognesi di Via Zamboni 38, in cui si svolgevano i corsi di Storia contemporanea – accantonate le consuete cautele dello storico, si chiede cosa potrebbe succedere se uno qualsiasi degli immigrati irregolari o degli spacciatori ricercati dall’ICE dovesse reagire un giorno sparando un colpo di pistola e uccidendo uno degli agenti federali. Le conseguenze sarebbero certamente imprevedibili ed estremamente sanguinose. Del Pero ci fa toccare con mano l’odio e il risentimento middle-class bianca impoverita, gettata sul lastrico, dalla crisi dei mutui subprime del 2008. Un’America bianca espropriata del suo bene più prezioso, la casa, l’America rurale della Hillbilly Elegy (2016) di J.D. Vance, inferocita contro le minoranze etniche che, a suo parere, hanno goduto in questi anni di maggiori garanzie rispetto ai bianchi, oltre che di accessi privilegiati nelle università più prestigiose. Ecco dove la campagna d’odio di Trump ha avuto gioco facile, ecco dove le teorie complottiste di QAnon e del movimento MAGA hanno fatto presa, determinando la vittoria di uno dei Presidenti più eversivi della storia. Quando Trump si affacciò per la prima volta sulla scena politica, molti lo paragonarono al confidence-man di Herman Melville, al dealer che, sotto diverse identità, cerca costantemente di mettere alla prova la credulità e la fiducia del prossimo. Adesso invece che siamo in pieno secondo mandato, Trump è diventato il Joker, il Lord of Misrule (cit. “New York Times”), è diventato il clown Pennywise che sbuca dal tombino… “Da noi è impossibile che arrivi il Fascismo, è impossibile che il Fascismo prenda il potere”, dicevano in tanti nell’America degli Anni Trenta. Eppure è accaduto, sta accadendo. A Washington si rappresenta ogni giorno questa svolta inaspettata nella Storia, lo stravolgimento delle regole tipico del carnevale, ma non è più questo che sovverte una volta l’anno le regole del Potere; è diventato la messa in scena di un potere che cerca una sua ulteriore legittimazione proprio nella sovversione costante delle più elementari regole della convivenza civile e democratica. Viviamo in un eterno carnevale, in cui il Re Carnevale si diverte costantemente a deridere e insultare i suoi avversari, a inondarli di escrementi, come abbiamo visto in uno dei video fake più cattivi inventati dalla macchina della propaganda di Trump. Buio Americano di Del Pero è un prezioso strumento per capire quali sono le ragioni profonde della torsione autoritaria in atto e quali potrebbero essere i suoi possibili esiti. Nella visione di Del Pero non si prevede un esito catastrofico di questa involuzione autoritaria, ma è chiaro che basterebbe un minimo incidente e gli scontri tra l’ICE e i manifestanti nelle grandi città a maggioranza democratica potrebbero facilmente degenerare. Sarà la fine dell’America come la conosciamo, oppure l’inizio della sua ennesima rigenerazione attraverso il sangue e la violenza? Ricordate il messaggio stampato sul camion del Joker che combatte contro le Forze dell’Ordine ne Il Cavaliere Oscuro (2008) di Christopher Nolan? “(S)laughter is the best medicine”? Il massacro è la migliore cura. Adesso il Joker non deve più combattere contro le forze dell’ordine, adesso lui è a capo delle Forze dell’Ordine. ll Joker è di nuovo a piede libero, è salito sul più alto scranno del potere, la presidenza degli Stati Uniti d’America, e non vede l’ora di esibirsi in una oscena danza sulle macerie del suo Paese. L'articolo Mario Del Pero / L’unica cosa che può salvare l’America proviene da Pulp Magazine.
Curzio Malaparte / Amarezza di uno “straniero”
Inspiegabile è l’oblio che nei decenni posteriori alla sua scomparsa ha colpito in Italia Curzio Malaparte, l’Arcitaliano, come amava definirsi, in realtà nato Curt Erich Suckert (1898-1957), pratese di padre tedesco e di confessione luterana. Senza ombra di dubbio uno dei nostri più grandi scrittori e giornalisti del ’900, le cui opere più importanti, Kaputt e La pelle, sono universalmente note e – a nostro probabile disdoro – assai più celebrate all’estero che in patria. Inspiegabile, dicevamo, e imperdonabile oblio quanto alla forza letteraria dello stile e alla pregnanza sconvolgente dei temi affrontati nei suoi libri, come, nella sua vita tumultuosa e straordinaria, alla contraddittoria e contorta (ci sembrerebbe in verità ingiusto usare l’aggettivo “ambigua” per definirla) traiettoria ideologica e politica che lo vide piroettare, sempre in sella ad un bianco destriero, dall’anarchismo giovanile al fascismo intransigente degli anni ’20, dalla fronda fascista degli anni ’30 alla cobelligeranza con gli Alleati dopo il ’43, fino al comunismo e al maoismo degli anni ’50, e – ma la dibattuta questione resta assai dubbia quanto quella analoga del suo ispiratore Bonaparte – alla conversione in articulo mortis al cattolicesimo. Voltagabbanismo per alcuni, percorso tortuoso ma sostanzialmente coerente per altri (dal fascismo di sinistra al comunismo totalitario): identica damnatio memoriae che lo accomuna a un altro gigante letterario, Louis-Ferdinand Céline con il quale intrattenne rapporti cordiali (tanto da devolvere generosamente gli introiti di un premio ricevuto per sostenere lo scrittore francese ancora imprigionato in Danimarca per collaborazionismo) e condivise con lui, oltre all’autofiction, all’espressionismo letterario e all’invenzione stilistica (non però, quella malapartiana, altrettanto sperimentale di quella celiniana), anche, in periodi diversi, le grazie di Jean Voilier, compagna del comune editore Denoël (e in seguito editrice a sua volta dopo il misterioso omicidio di lui nel ’45). Da anni Adelphi sta per fortuna ripubblicandone l’opera integrale reintegrandola come merita nel novero di quelle imprescindibili: dopo Kaputt (2009), La pelle (2010), Il ballo al Kremlino (2012), Tecnica del colpo di stato (2011), Maledetti toscani (2017), Il buonuomo Lenin (2018), Coppi e Bartali (2009), è ora la volta di Giornale di uno straniero a Parigi, diario scritto direttamente in francese (la presente edizione ne riporta anche il testo originale) nel 1947, al ritorno in Francia dopo 14 anni di lontananza, e mai dato alle stampe in vita. Momentaneamente abbandonata l’Italia dell’immediato dopoguerra, per evitare imbarazzanti rinfacciamenti del suo passato fascista (dopo aver rinunciato all’amnistia e subito un processo in cui era stato assolto), non immagina che la sua “seconda patria” possa riservargli un destino ancora peggiore. Giunge a Parigi senza la minima intenzione di confondersi con altri transfughi con troppe cose da far dimenticare, personaggi come i rumeni Eliade o Cioran, e il suo modello di esilio parigino vorrebbe piuttosto modellarsi su quello di D’Annunzio nel 1910, per sfuggire non all’epurazione ma ai creditori. Lo accompagna un altro italiano di successo, recentemente convertito come lui dal fascismo all’antifascismo, Roberto Rossellini, reduce dai due manifesti cinematografici dell’Italia risorta, Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) – dopo aver firmato pochi anni prima i fascistissimi La nave bianca nel 1941 e Un pilota ritorna nel 1942, sceneggiati addirittura dal figlio maggiore del duce, Vittorio Mussolini – trasformismo e voltagabbanismo, dunque, non possono certo imputarsi al solo Malaparte. Appena arrivato rilascia interviste in cui non si presenta affatto come un fascista pentito o involontario ma, mentendo spudoratamente o esagerando in modo paradossale il suo frondismo, come un oppositore confinato a Lipari per cinque anni (in realtà la pena, in condizioni privilegiate, durò meno della metà e fu causata da uno scontro personale, non ideologico, con Italo Balbo: Malaparte venne poi perdonato e reintegrato da Ciano in persona…), e addirittura come dimissionario dal PNF fino dal 1931 per non aver accettato, in quanto protestante, le conseguenze dei Patti Lateranensi: fanfaronate tali da screditarlo, più che giustificarlo agli occhi dei francesi. Il suo passato giovanile di volontario della Legione Garibaldina e di combattente a Bligny in difesa della Francia nella Prima guerra mondiale però, gli assicurarono, pur con tutte le diffidenze, la concessione del permesso di soggiorno. In quegli anni il pregiudizio antitaliano da parte dei francesi è giunto all’apice e il “colpo di pugnale nella schiena” del ’40 – mai nominato ai tempi di Vichy, quando si contava sugli italiani per moderare i tedeschi – è tornato in auge; intanto i trattati di pace ci hanno lasciato fortunosamente la Val d’Aosta ma hanno consegnato Briga, Tenda e il Moncenisio ai “cugini” d’oltralpe. In quel clima assai poco favorevole Malaparte, mentre completa la composizione di La pelle, che uscirà di lì a poco con successo, in anticipo sull’edizione italiana, è a tutti gli effetti un isolato e quasi un reietto – considerato spesso filotedesco, fascista, collaborazionista –  il suo anticomunismo (non si è ancora convertito) gli aliena le simpatie di Sartre e degli esistenzialisti, come quelle di Breton, Eluard, Aragon e dei surrealisti; Camus e Malraux lo disprezzano, Mauriac lo rimprovera, Montherlant lo ignora, Drieu la Rochelle – che forse potrebbe capirlo – si è suicidato da tempo, Céline lo ringrazia per lettera ma è ancora in prigione in Danimarca; solo Blaise Cendrars e, in parte, Jean Cocteau, che hanno apprezzato Kaputt, gli attestano stima e amicizia. L’amarezza e la delusione per questa condizione di étranger “nella doppia accezione di ‘straniero’ ed ‘estraneo’“come scrive Monica Zanardo nella bella postfazione, traspaiono abbondantemente nel testo oltre che nel titolo dell’opera, una malinconia e uno sguardo nostalgico al passato che si incarnano nell’idealizzazione della figura letteraria di Chateaubriand che ricorre, quasi ossessivamente, in tutta la seconda parte del libro: “Mi piace Chateaubriand, benchè non mi somigli. Mi piace in lui il costante disprezzo degli uomini nuovi, la fedeltà, solo apparente, alle antiche idee, ai costumi, ai gusti, ai piaceri, alle pene, ai sentimenti, ai piaceri della vecchia Francia, nella quale, checchè ne dica in ogni occasione, non credeva più. Mi piace l’amore nascosto per le idee nuove, per la Francia nuova, per la gloria nuova. Eppure niente di materiale mi lega a questa vecchia Francia, a questa vecchia Italia, a questa vecchia Europa che ho visto, che vedo morire. Non rimpiango né privilegi né onori, niente. Dall’antica Europa non ho avuto nulla, se non botte e prigione. Non riceverò niente di meglio da questa nuova Europa, da questa nuova Italia”. Malaparte lavora alacremente, conclude La pelle, scrive il suo Giornale e mette in scena due testi teatrali scritti in francese, Du coté de chez Proust e Das Kapital, in cui scomoda due icone della modernità come Proust e Marx oltre che divi come Pierre Fresnay (che accetta la parte) e Michel Simon (che dopo lunghe riflessioni rifiuta) per ottenere due insuccessi incresciosi di critica e di pubblico. Una delle stroncature più aspre, quella di Francis Ambrière per la rivista “Opéra”, giunge a paragonare il pubblico che lascia la sala prima della fine dello spettacolo alle colonne dei profughi dell’esodo del 1940 “mitragliate dai vecchi amici di Malaparte”. La misura è colma, è la constatazione del fallimento, di poco alleviata dal contemporaneo successo internazionale (Francia compresa) de La pelle, uscito nel 1949: in quello stesso anno Malaparte riattraversa le Alpi e torna in Italia (ufficialmente a causa della nostalgia per la patria, e addirittura perché “il suo cane è malato e ha bisogno di lui”, mentre tutti i parigini lo incitavano a restare…), in realtà abbandona perfino la scrittura del diario, troppo rivelatore del suo stato d’animo, e ogni ipotesi di futura pubblicazione. Chissà se lo consolerebbe sapere di quanto la sua fama postuma, tributatagli nel paese che allora lo rifiutò, oltrepassi tutt’ora quella di cui gode nel suo paese d’origine. L'articolo Curzio Malaparte / Amarezza di uno “straniero” proviene da Pulp Magazine.