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COP30, nessun accordo sulle fossili. Le richieste del Sud Globale rimangono inascoltate
La trentesima Conferenza delle Parti si è conclusa e il risultato sembra il peggiore tra quelli ottenuti finora nelle edizioni precedenti. Il documento, infatti, contiene un gran numero di dichiarazioni d’intenti, ma poche indicazioni pratiche e, di fatto, non nomina in alcun modo i combustibili fossili. Un risultato non auspicato ma atteso, dal momento che, anche quest’anno, la COP è stata dominata dalla presenza di lobbisti delle multinazionali, mentre le popolazioni del Sud globale – il più colpito dai cambiamenti climatici – non hanno avuto pari voce in capitolo. Un’implicita ammissione in questo senso è stata fatta dal presidente della COP, che ha ammesso che le speranze della società civile in merito al risultato dell’evento non sono state soddisfatte. Il segretario generale dell’ONU Guterres, dal canto suo, ha invitato popoli e organizzazioni che lottano per il clima a continuare la mobilitazione. Alla cerimonia inaugurale il presidente brasiliano Lula, il cui Paese ha ospitato l’evento, aveva detto chiaramente che la COP30 sarebbe dovuta servire per tracciare l’abbandono progressivo delle fonti fossili, una scelta alla quale alcuni Paesi, tra i quali l’Italia, si sono mostrati ostili. Tanto che, nel documento finale (la Mutirao Decision) queste non vengono nemmeno nominate. Tra i risultati raggiunti vi sono il finanziamento di 1.300 miliardi di dollari entro il 2035 per l’azione per il clima, mentre ci si impegna a triplicare i finanziamenti per l’adattamento ai cambiamenti climatici entro il 2035. Obiettivi finanziari decisamente ambiziosi, cui non corrisponde un adeguato piano di attuazione e di iniziative concrete. E’ stato istituito un ciclo di ricostituzione per la mobilitazione delle risorse del Fondo per la risposta alle perdite e ai danni dovuti ai cambiamenti climatici e sono state lanciate le iniziative Global Implementation Accelerator e Belém Mission to 1.5°, entrambe destinate ad aiutare i Paesi a realizzare i loro piani nazionali per il clima e l’adattamento. Una novità è rappresentata dall’impegno a lottare contro la «disinformazione sul clima» attraverso il contrasto alle «false narrazioni». L’assenza di un discorso circa i gas serra, principali responsabili del riscaldamento globale, ha allarmato molti Paesi del Sud Globale e organizzazioni della società civile. Eppure, oltre 80 Paesi avevano sostenuto la proposta del Brasile di stabilire una tabella di marcia per agire in tal senso. Secondo lo scienziato brasiliano Carlos Nobre, che ha tenuto un discorso prima della plenaria finale, è necessario azzerare l’utilizzo di fonti fossili entro il 2040-2045 per evitare che la temperatura aumenti fino a 2.5° entro metà del secolo. Se questo si realizzasse, infatti, si verificherebbero conseguenze catastrofiche sui nostri ecosistemi, con la quasi totale perdita delle barriere coralline, il collasso della foresta pluviale amazzonica e un accelerato scioglimento della calotta glaciale della Groenlandia. Nel discorso di chiusura dell’evento, il presidente André Corrêa do Lago ha riconosciuto che «alcuni di voi nutrivano ambizioni più grandi per alcune delle questioni in discussione» e che «la società civile ci chiederà di fare di più per combattere il cambiamento climatico», promettendo di cercare di non deludere le aspettative durante la sua presidenza. Per tale ragione, Corrêa do Lago ha annunciato l’intenzione di creare due roadmap in merito: una per arrestare la deforestazione e invertirne la tendenza e una per abbandonare le fonti fossili in modo giusto, ordinato ed equo, mobilitando le risorse necessario in maniera «giusta e pianificata». Un messaggio analogo è arrivato dal segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, che ha ammesso come in un periodo di «divisioni geopolitiche» sia complesso giungere a un accordo comune: «Non posso fingere che la COP30 abbia fornito tutto ciò che è necessario [per affrontare la crisi climatica, ndr]». Anche se la COP è conclusa, «il lavoro non è finito». Guterres ha anche esortato coloro che lottano per il clima a continuare a farlo: «non arrendetevi. La storia e le Nazioni Unite sono dalla vostra parte». L’accordo segna una nuova, profonda sconfitta per i popoli del Sud Globale, che durante il vertice aveano protestato contro la presenza delle lobby delle multinazionali fossili, accusando i governi di essere interessati a tutelare unicamente gli interessi di queste ultime, le quali hanno avuto un peso indubbiamente superiore a quello dei popoli originari durante l’evento. A questi rimangono una nuova serie di promesse e dichiarazioni d’intenti, che verosimilmente cadranno ancora una volta nel vuoto.   L'Indipendente
Belém, COP30 e Vertice dei Popoli: le donne in prima fila
Sono qui ormai da una decina di giorni trascorsi velocissimi, fitti di incontri, di emozioni, di scambi che continueranno a germinare per i giorni e (chissà anni) a venire: esperienza indimenticabile. Era il 7 novembre quando come delegata di un bel po’ di realtà italiane in movimento (Rete delle Mamme da Nord a Sud, Movimento Zero Pfas Italia, Movimento per il clima fuori dal fossile, Forum dell’acqua italiano) ho aperto il quarto incontro internazionale dei danneggiati dalle dighe e dalla crisi climatica qui a Belem, dove si sono uniti i popoli di tutto il mondo. Nei giorni successivi abbiamo continuato a lavorare divisi per gruppi tematici, noi ‘mamme’ nel Gruppo Salute e Infanzia. Solo due giorni dopo ecco cosa postavo sulla mia chat/contatti: 11 novembre 2025, Belém du Pará del Brasile: dichiariamo il quadro della costruzione di un movimento internazionale dei danneggiati dalle dighe e i cambiamenti climatici. Giornate importantissime, faticose e impegnative, piene di emozioni, tutte e tutti uniti per costruire un movimento internazionale dei popoli danneggiati. America, Africa, Europa, Asia, Oceania. Pace, fratellanza, amore, pazienza, perseveranza, diritti, democrazia, volontà, azione, speranza: queste le parole che oggi mi hanno dato tanta felicità. Acqua per la vita, non per la morte! Ai nostri figli lasceremo il nostro esempio, che toccherà poi a loro lasciare ai loro figli. L’indifferenza non è una cosa che le madri possano accettare. Ci unisce l’amore per la Vita!” E eccoci a ieri, 14 novembre. Mentre in tutte le città italiane si snodavano i cortei più o meno partecipati in difesa dell’ambiente, io ero alla Copola Dos Povos (Vertice dei Popoli) che si sta svolgendo qui a Belem in concomitanza della COP30. È un evento parallelo e indipendente che ha l’obbiettivo di dare voce alle comunità locali, ai popoli indigeni e ai popoli di tutto il mondo, ovunque accomunati dallo stesso assedio alla vita. Come italiani siamo stati invitati dal MAB, acronimo che sta per “Movimento dei colpiti dalle dighe e dai cambiamenti climatici”. L’obbiettivo e di consegnare ai governi un documento che porti le istanze delle popolazioni che sono maggiormente colpite da questo cosiddetto sviluppo, che in realtà è solo devastazione. In primis la questione dell’acqua, che viene mercificata con la costruzione di dighe e progetti ‘idrogeno-elettrici’, quando non viene proprio depredata, per essere destinata all’estrazione dei minerali. Privazione dell’acqua nel primo caso e restituzione di acqua inquinata da piombo e mercurio nel secondo. Sono sotto accusa anche le coltivazioni intensive che prosciugano i fiumi, l’uso dei pesticidi mediante aerei e droni, che compromettono la vita delle persone. E come sempre i bambini sono le prime vittime. Le multinazionali promettono lavoro e chissà quale “vita migliore”, mentre le popolazioni locali vengono sfrattate con la forza in zone dove l’acqua non esiste più. E non si sa neppure a quanto ammonti questo sfollamento a livello sia globale che  locale, perché spesso coloro che vengono colpiti non vengono censiti, e di conseguenza NON ESISTONO. Dare un volto, parlare con loro, fare amicizia e condividere è un esperienza che ti graffia dentro al cuore. A volte “vedere” non è sentire… Per la prima volta abbiamo parlato anche di Pfas, e soprattutto abbiamo avuto occasione di parlarne con alcuni giornalisti e ambientalisti indiani, per avvisarli della pericolosità degli impianti della Miteni che hanno chiuso (come è noto) in Italia, nel vicentino, ma sono già operativi in India, a poche decine di km da Mumbai, nello Stato del Maharashtra. E così dopo aver già avvelenato il sangue di tanti nostri figli, hanno già cominciato a colpire anche lì e a quanto pare l’opinione pubblica indiana è totalmente all’oscuro della pericolosità di questa situazione. Siamo davvero in tanti e tante. Tante madri, tante donne che in primis pagano le conseguenze maggiori di questo cambiamento climatico e dei danni causati dalla privazione dell’acqua o dalla contaminazione. Tante madri che in primis si sentono responsabili della crescita, della qualità della vita, del quotidiano dei propri figli. Avrei tanto da raccontare, ma non c’è tempo per scrivere, a malapena riesco ad annotare i nomi di chi incontro, con qualche appunto: Paula del Perù, Erica Mendez dal Mozambico, Damaris del Brasile, Giulieta della Repubblica Dominicana, Vilma del Guatemala … ciascuna di loro è un fiume di testimonianze di persone che lottano per la vita dei loro figli e del diritto all’acqua, mentre i governi sono consenzienti e fanno addirittura uccidere chi si oppone. Come sempre le donne sono in prima fila. Come sempre sono quelle che dimostrano più forza e coraggio nell’opposizione a questo capitalismo distruttivo e omicida. Prima o poi anche i responsabili di questo veleno moriranno, con o senza soldi, ma con la coscienza più nera del petrolio. Redazione Italia
Ecocidio in Palestina: perché custodire i semi è un atto politico
In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza, pompato acqua salata nel suolo (danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi), sradicato migliaia di ulivi. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Tra la marea di immagini strazianti che arrivano da Gaza e dai territori occupati palestinesi, alcune sono passate quasi inosservate. Un video mostra alcuni cecchini dell’esercito israeliano colpire, una dopo l’altra, tre pecore che attraversano una strada a Khan Younis. Un’altra fotografia ritrae il bombardamento di una banca dei semi. E poi le immagini di oltre diecimila ulivi sradicati dai bulldozer israeliani nel villaggio di al-Mughayyir, in Cisgiordania, durante un assedio di tre giorni. Perché colpire delle pecore? Perché distruggere semi, olivi, campi coltivati? Questa sequenza di immagini racconta più di molte parole. È la rappresentazione visiva dell’ecologia della guerra.  Ogni forma di vita — umana o non umana — che appartiene all’indigeno diventa un potenziale nemico. Una risorsa da sottrarre, uno spazio da depredare, una memoria da cancellare. Il non umano, l’ambiente, la terra, diventano strumenti del progetto coloniale in Palestina. La colonizzazione, la guerra e la resistenza in Palestina sono anche — e soprattutto — un conflitto ecologico. Un conflitto che si materializza attraverso l’espropriazione della terra, dell’acqua, delle risorse naturali. Il 31 luglio 2025, l’esercito israeliano ha attaccato l’Unità di Moltiplicazione dei Semi dell’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo, a Hebron. Con bulldozer e macchinari pesanti, ha distrutto magazzini e infrastrutture dove erano custoditi semi autoctoni, strumenti, materiali agricoli. Un attacco apparentemente minore, ma di enorme portata simbolica: colpire la possibilità di riprodurre la vita, di rigenerare. E non è un caso isolato. In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza. Ha pompato acqua salata nel suolo, danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi. E ha sradicato migliaia di ulivi, alberi antichi che per i palestinesi non sono solo fonte di reddito, ma simbolo di identità, radici e resistenza. La distruzione degli ulivi è la distruzione della memoria collettiva, della continuità generazionale. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Non è la prima volta che succede. Nel 2003, dopo l’invasione americana dell’Iraq, la banca nazionale dei semi di Abu Ghraib — una collezione genetica unica al mondo — fu saccheggiata e devastata. Più di 1400 varietà di semi adattate nei millenni al caldo, alla siccità, andarono perdute. Solo pochi scienziati iracheni riuscirono a salvarne alcune, spedendole anni prima al centro ICARDA di Aleppo. Ma la distruzione materiale non bastò. L’Autorità Provvisoria della Coalizione, guidata da Paul Bremer, emanò l’Ordine 81: una legge che proibiva agli agricoltori di riprodurre i propri semi, aprendo il mercato alle grandi multinazionali. A ricostruire l’agricoltura irachena fu chiamato Dan Amstutz, ex dirigente Cargill — la più grande esportatrice di cereali del mondo — nominato dal governo Bush. Oggi, nel mondo, quattro multinazionali — Bayer-Monsanto, Corteva, ChemChina-Syngenta e BASF — dominano il 60% del mercato delle sementi e il 75% dei pesticidi. E altre quattro, note come il gruppo ABCD — Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus — controllano fino al 90% del commercio mondiale di cereali. Dietro la distruzione dei semi, degli ulivi e delle pecore palestinesi c’è dunque una logica più ampia: quella del dominio economico, dell’estrazione, dell’accumulazione. La stessa logica che lega Gaza all’Iraq e l’agricoltura al potere delle multinazionali. “Fare il nostro cibo è una forma di liberazione”. Me lo ha detto Lina, del Forum Agroecologico di Ramallah. Una frase semplice, ma che contiene tutto: la resistenza, la cura, la possibilità di immaginare un futuro di giustizia e di libertà. Perché custodire un seme — oggi in Palestina come altrove — non è solo un atto agricolo. È un atto politico. Un atto di libertà. Sara Manisera è giornalista freelance. Ha realizzato reportage per testate nazionali e internazionali sulle donne, i conflitti e la società civile in Medio Oriente. Segui Sara Manisera sul suo blog. Attraverso la Campagna AcquaPerGaza puoi sostenere non solo la risposta locale e palestinese all’emergenza in atto, ma anche il lavoro straordinario di UAWC con cui continua a preservare i semi indigeni palestinesi. Forum Salviamo il Paesaggio
Le elites europee governanti hanno svenduto l’Europa alle multinazionali statunitensi. Chiediamo il ritiro della firma dall’accordo sui dazi!
L’accordo siglato tra Unione Europea e USA sui dazi è un disastro e costituisce un punto di passaggio periodizzante. Ci ricorderemo a lungo del campo da golf scozzese come del teatro di un atto di sottomissione che cambia la storia dell’Europa. Riassumendo brevemente le merci europee pagheranno per entrare negli USA dazi dal 15%al 50%. Viceversa le merci USA non pagheranno praticamente nulla: scenderanno sotto allo 0,9%. In aggiunta l’Unione Europa si impegna a comprare in tre anni (entro la fine del mandato di Trump) dagli USA 750 miliardi di dollari di gas (ad un prezzo di 5 volte superiore a quello che veniva pagato alla Russia), centinaia di miliardi di armamenti ed a fare 600 miliardi di investimenti negli USA. Non sappiamo ancora cosa prevede l’intesa nel dettaglio ed in particolare in merito agli “ostacoli non tariffari al commercio”. Gli USA hanno infatti sempre chiesto una modifica radicale dei regolamenti europei che aprisse il mercato europeo agli USA sul terreno bancario, assicurativo, dell’esportazione di carne (estrogeni, etc), di prodotti agricoli (OGM etc.), del riconoscimento dei farmaci (senza applicare il principio di precauzione) e così via. Conosciamo quindi le linee generali di un disastro su più piani. In primo luogo sul piano simbolico: la trattativa si è tenuta in un campo da golf scozzese di proprietà di Trump e l’accordo è stato firmato nella sala da ballo che il proprietario – Donald Trump – ha intitolato a se stesso. Questo quadretto, di cui tutto il mondo sta ridendo, esprime in forma plastica la completa e servile subordinazione della UE agli USA, dice chi comanda e chi ubbidisce scodinzolando. In secondo luogo per la sua arbitrarietà che nuovamente parla della subordinazione europea: La narrazione che ha preceduto la trattativa ha descritto i rapporti economici tra gli USA e l’Unione Europea come completamente squilibrati, in cui l’Europa inonda di merci gli USA che si debbono difendere. Si tratta di colossale mistificazione: Nei rapporti tra USA e UE infatti gli USA hanno un disavanzo di 213 miliardi per quanto riguarda le merci ma hanno un avanzo di 156 miliardi per quanto riguarda i servizi e di 52 miliardi per quanto riguarda i capitali. In pratica una situazione che vede un disavanzo economico-finanziario reale tra USA e UE è di 5 (cinque) miliardi, è stata presentata come un enorme squilibrio e questa narrazione tossica è stata accettata dall’Unione Europea. Che cosa succede invece per i servizi (Google, Microsoft, Amazon,etc etc.) in cui sono gli USA che invadono la UE? Nulla, nel senso che questi erano sostanzialmente detassati e tali rimangono: le grandi aziende tecnologiche statunitensi hanno nell’Europa – attraverso la porta irlandese – un gigantesco paradiso fiscale in cui non pagano le tasse, altro che i dazi! In una situazione di equilibrio negli scambi economici l’Unione Europea ha quindi accettato di mettere i dazi sulle proprie esportazioni di merci mentre tutte le esportazioni di merci e servizi degli USA sono esentasse, come ovviamente è esentasse il flusso di capitali dall’Europa agli USA. In terzo luogo per l’effetto distruttivo dell’apparato produttivo: i dazi e gli acquisti obbligati di gas determineranno un peggioramento netto della competitività delle imprese europee non solo rispetto alle imprese USA ma rispetto a quelle di tutto il mondo. Questo accordo infatti seppellisce qualsiasi possibilità di riaprire l’acquisto di gas a basso costo dalla Russia – e da altri paesi – obbligandoci a comprarlo dagli USA ad un prezzo esorbitante. Dopo decenni di attacchi al movimento operaio italiano ed europeo per ridurre il costo del lavoro, qui si accetta di peggiorare strutturalmente la competitività dell’industria europea, di impedire la crescita di aziende di servizi europei e probabilmente di mettere in discussione la tenuta delle strutture bancarie ed assicurative europee. Difficile trovare le parole per descrivere questo livello di sudditanza. In quarto luogo non ci vuole un mago per capire che l’accettazione dei dazi porterà con se la richiesta di tagliare ulteriormente i salari al fine di mantenere la competitività internazionale e nel contempo di foraggiare le aziende colpite dai dazi con sovvenzioni statali, cioè con i soldi derivanti dalla tasse della classe lavoratrice e dei pensionati (che sono gli unici che pagano le tasse). Questo accordo sarà cioè lo scusa per un ulteriore attacco al salario diretto e indiretto della classe lavoratrice. In quinto luogo porterà alla distruzione del welfare e alla sua sostituzione con un sistema assicurativo privato gestito dai fondi statunitensi. Non sfugge a nessuno il rapporto tra l’accordo sui dazi e la decisione della NATO di portare le spese militari europee al 5% del PIL in dieci anni. In una situazione in cui l’economia reale peggiora e in cui i salari reali sono destinati a diminuire, la scelta di porre in essere un piano di riarmo enorme – per l’Italia 6,4 miliardi di aumento della spesa militare ogni anno per i prossimi dieci anni – significa necessariamente tagliare la spesa sociale di un ammontare corrispondente. Quindi è il sistema pensionistico, sanitario, assistenziale, delle autonomie locali che verrà distrutto da questa scelta che – oltre al danno la beffa – non produrrà nemmeno un aumento di posti di lavoro in Europa perché la gran parte delle armi verranno prodotte negli USA (magari da aziende europee che delocalizzeranno). In sesto luogo questo accordo segue di pochi giorni il pieno fallimento del vertice tra UE e Cina. In questo modo la dirigenza UE, avendo rotto le relazioni con la Russia e la Cina – e quindi con il grosso dei BRICS – in un mondo che vede la crisi verticale della globalizzazione, si è consegnata mani e piedi ad avere come unico mercato di sbocco per i propri prodotti quello statunitense. Il combinato disposto tra l’esito del vertice con la Cina e l’accordo sui dazi determina quindi una dipendenza sistemica dell’Europa dagli USA come non si era mai visto. L’Unione Europea è diventata una colonia L’accordo sui dazi è quindi destinato ad essere il punto di passaggio che sancisce la fine di una fase dell’Unione Europa e la sua consacrazione a colonia statunitense sul piano strutturale, non solo politico. L’accordo infatti non ha un carattere sovrastrutturale ma interviene a modificare i rapporti di forza tra gli apparati produttivi di merci e servizi ed a accentuare all’inverosimile elementi di dipendenza sistemica. Questo accordo è stato fatto in nome della stabilità per rendere irreversibile il rapporto di dipendenza dell’Europa dagli USA. Questo dipendenza è vista dalle classi dominanti europee come l’unica via possibile per salvaguardare i propri interessi. Questo accordo è stato fatto quindi per salvaguardare la posizione di privilegio subalterno da parte delle classi dominanti europee a scapito degli interessi dei popoli europei. E’ la genuflessione dei feudatari – di fronte all’imperatore e alla sua corte – che accettano di far morire di fame i propri sudditi pur di non perdere i propri privilegi e magari sostituiti. Sono tutti responsabili Questo disastro è così grande e sarà così visibile nei prossimi mesi, che tutti i governanti europei fanno a gara a criticare l’accordo per non assumersene la responsabilità. Moltissimi membri dell’establishment europeo sostengono che la colpa è tutta della von der Leyen, che sta diventando il capro espiatorio della vicenda. Ora, che la Presidente della commissione sia un personaggio squallido e immorale, venduta alle multinazionali e disposta a piegarsi al miglior offerente, è del tutto evidente. Il fatto che tutti critichino il risultato ma nessuno chieda di togliere la firma e di far saltare l’accordo però la dice lunga sulla malafede delle critiche. L’accordo firmato dalla von der Leyen è in realtà il frutto delle politiche liberiste e di subalternità agli USA che la dirigenza dell’Unione europea sta seguendo da decenni e di cui sono stati protagonisti i Draghi, i Monti, i Macron le Meloni e così via. E’ con gli accordi di Maastricht ed in particolare con quelli di Lisbona, con il Fiscal compact e tutte le criminali scelte fatte da Draghi, dalla Merkel e soci nel 2012 che sono state poste le premesse per questo risultato. La scelta folle è stata di puntare tutto su un modello finanziarizzato che aveva al centro gli USA e su un modello produttivo finalizzato unicamente alla compressione dei costi e all’esportazione, scegliendo come unico mercato di sbocco di grande rilevanza gli USA. Questa scelta è stata fatta da decenni e la von der Leyen non è nulla più che la criminale esecutrice testamentaria di un disegno costruito negli anni dalle classi dominanti europee che sono state bravissime a distruggere il movimento operaio europeo ma hanno sacrificato a questa prospettiva il destino complessivo dell’Europa. Mai come oggi risulta evidente che gli interessi delle classi dominanti europee – occultati e infiocchettati dal complesso dei media europei e dai principali schieramenti politici – sono in contrasto radicale con gli interessi dei popoli europei. Togliere la firma dall’accordo Il nodo politico è quindi uno solo: l’accordo deve essere mantenuto o deve essere fatto saltare? E’ evidente che deve essere fatto saltare. Tutte le critiche, anche le più dure se non chiedono di ritirare la firma e di azzerare l’accordo sono aria fritta, fumo negli occhi. Per evitare oltre al danno la beffa dobbiamo costruire una movimento di massa per chiedere le dimissioni della von der Leyen – e della Meloni – il ritiro della firma e la proclamazione della nullità dell’accordo. Paolo Ferrero Redazione Italia
Il genocidio nell’economia
“L’orrore economico” era il titolo di un libro di trent’anni fa di Viviane Forrester, che denunciava le ingiustizie profonde e la violenza della globalizzazione liberista. Ora quell’orrore è giunto a compimento, diventando il sistema internazionale di affari che lucra sul genocidio del popolo palestinese. Lo documenta rigorosamente il rapporto “Economia […] L'articolo Il genocidio nell’economia su Contropiano.