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CLIMA: AL VIA LA COP30 IN BRASILE. LULA: “INFLIGGIAMO UN’ALTRA SCONFITTA AI NEGAZIONISTI”
Al via a Belem, in Brasile, i lavori della trentesima Conferenza delle Nazioni Unite sul clima. A inaugurare la Cop30 è il discorso del presidente brasiliano Lula da Silva: “controllano gli algoritmi, seminano odio, diffondono paura, attaccano le istituzioni, la scienza e le università. È il momento di infliggere una nuova sconfitta ai negazionisti”, ha dichiarato Lula con riferimento a coloro che negano l’esistenza della crisi climatica. Nel suo discorso inaugurale Lula ha lanciato anche altri messaggi significativi, in particolare agli assenti illustri, tra i quali Trump, Netanyahu e Meloni: “se quanti fanno la guerra fossero qui a questa Cop, si renderebbero conto che è molto più economico investire 1,3 miliardi per porre fine al problema climatico piuttosto che spendere 2,7 trilioni di dollari per fare la guerra”. Riguardo alla sede scelta per la conferenza, il presidente brasiliano ha spiegato che “portare la Cop nel cuore dell’Amazzonia è stato un compito arduo, ma necessario: l’Amazzonia non è un’entità astratta. Chi vede la foresta solo dall’alto non sa cosa succede alla sua ombra. Il bioma più diversificato della terra è la casa di oltre 50 milioni di persone”. Infine, la proposta: “per andare avanti è necessaria una governance globale più solida, in grado di garantire che le parole si traducano in azioni. Creare un Consiglio per il clima, collegato all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, è un modo per dare a questa sfida l’importanza politica che merita”. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto la corrispondenza e il commento di Ferdinando Cotugno, giornalista inviato alla Cop30 di Belem, in Brasile, per il quotidiano “Domani”. Ascolta o scarica.
Germaica oggi. Il vento che non si ferma
L’uragano Melissa travolge la Giamaica con venti fino a 300 chilometri orari. Tra devastazione, paura e solidarietà, il pianeta sembra gridare nella stessa lingua. Le immagini arrivano dalla Giamaica, oggi. Si sovrappongono, sembrano tutte uguali: case scoperchiate, alberi piegati dal vento, strade sommerse dal fango. Qualche volta facciamo confusione, non ricordiamo più né dove né quando. Oggi è la Giamaica in stato d’allerta, oggi è il suo turno. Indifferentemente potrebbe essere la Florida, New Orleans, le Filippine, la Libia, Rigopiano, Sarno. Oppure, addirittura, potrebbe essere il fiume che passa accanto alla nostra casa a ribellarsi. Un elenco che potrebbe essere infinito. Nessuno può ritenersi al sicuro. Il pianeta sembra ripetere lo stesso grido, in lingue diverse. La Giamaica è un’isola dei Caraibi grande poco più della Sicilia, distesa nel cuore del mare tra Cuba e Haiti. Tre milioni di abitanti, colline di foresta tropicale, piantagioni di canna da zucchero e caffè, coste che si affacciano su un mare di un azzurro quasi irreale. Nella memoria collettiva è Bob Marley, il ritmo del reggae, le spiagge, il turismo che rappresenta quasi un terzo dell’economia nazionale. Ma dietro quell’immagine luminosa ci sono comunità che vivono di pesca, agricoltura e lavori stagionali, spesso in condizioni precarie, in un Paese dove la povertà resta diffusa e la natura, un tempo madre generosa, è diventata sempre più imprevedibile. Ed è proprio questa isola, apparentemente sospesa tra sogno e mare, a essere ora travolta dalla furia dell’uragano Melissa. Un ciclone di categoria 5 che ha raggiunto venti fino a trecento chilometri orari, con onde alte oltre sei metri e piogge torrenziali destinate a proseguire per ore. Le autorità giamaicane hanno dichiarato lo stato d’emergenza e disposto evacuazioni di massa lungo le coste. Secondo i dati disponibili al momento della pubblicazione, si contano tre vittime accertate in Giamaica e almeno sette complessive in tutta l’area caraibica, includendo Haiti e la Repubblica Dominicana. Migliaia di persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Le abitazioni di lamiera, comuni nelle periferie urbane e nei piccoli villaggi interni, sono state le prime a cedere sotto la forza del vento. In molte zone l’elettricità è interrotta, le comunicazioni difficili, i soccorsi lenti a raggiungere le aree più isolate. Eppure, anche in mezzo alla paura, la solidarietà non si ferma. Le famiglie si aiutano una vicenda, i centri comunitari si trasformano in rifugi, i volontari distribuiscono cibo e acqua potabile. Dalle radio locali si ascoltano voci calme che invitano a mantenere la speranza: “Ricostruiremo, lo facciamo sempre”, ricostruiremo, come sempre. Ogni tempesta come questa racconta una verità più grande: la crisi climatica non è un’ipotesi, è una realtà. Secondo il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico, la regione dei Caraibi sta sperimentando un aumento medio delle temperature oceaniche di oltre un grado rispetto ai livelli preindustriali, e questo incremento favorisce gli uragani sempre più violenti e imprevedibili. Dietro le statistiche ci sono persone, pescatori che perdono le barche, agricoltori che vedono i raccolti distruttivi, famiglie che ricominciano da zero ogni volta. Sono i nuovi profughi climatici, costretti a lasciare le proprie case non per scelta, ma per sopravvivere. In questo scenario, il lavoro degli attivisti ambientali acquista un significato ancora più profondo. Da anni ci avvertono, ci chiedono di fermarci un momento, di ascoltare. Greta Thunberg è solo un esempio, per la sua giovane età e la forza con cui ha saputo scuotere un’intera generazione. Ma dietro di lei, e accanto a lei, ci sono stati e ci saranno grandissimi guerrieri in questo campo: scienziati, giornalisti, educatori, contadini, uomini e donne che da decenni combattono contro l’indifferenza, spesso nel silenzio. A tutti loro dovremmo riconoscere rispetto e gratitudine, perché non cercano consenso ma coscienza. Ci ricordano che dietro ogni disastro c’è un segnale, e che non basta guardare le immagini: bisogna imparare a soffermarsi, ad ascoltare davvero ciò che vogliono comunicarci. Ogni volta che un uragano colpisce, si misura la distanza tra chi può permettersi di ricostruire e chi no, e si misura la fragilità di un sistema che ha dimenticato la propria interdipendenza. Ma soprattutto, bisognerebbe contare le vite umane spezzate senza avere nessuna colpa, perché è da lì che si comprende la reale entità di una catastrofe. Non nei numeri, ma nelle assenze che lascia dietro di sé. Mentre queste righe vengono scritte, Melissa continua la sua corsa sull’isola. Non sappiamo ancora quale sarà l’entità dei danni, ma sappiamo che, come sempre, saranno i più fragili a pagare il prezzo più alto. Eppure, anche in mezzo al disastro, restano mani, voci, gesti di aiuto che raccontano un’altra parte dell’umanità: quella che non si arrende, che resiste, che ricostruisce. Perché ogni volta che un uragano passa, il vero vento che dovrebbe restare è quello della consapevolezza. Lucia Montanaro