Alcide Pierantozzi / La realtà smagliata
Alcide ha quarant’anni, prende sette pastiglie al giorno, a volte dorme ancora
con la madre. La sua malattia mentale lo costringe a un esilio forzato da Milano
nella sua terra d’origine, l’Abruzzo. Alcide va in spiaggia, va in palestra, va
dai medici. Alcide scrive. E firma un’opera di una potenza assoluta, disturbante
e vertiginosa, una cronaca interiore che assume i tratti di una malattia tanto
personale quanto collettiva nel suo preciso situarsi al centro esatto della
contemporaneità. Nel raccontare uno sbandamento dell’individuo – il suo
personale, in presa diretta –, Pierantozzi si fa specchio deformante di un’epoca
intera, la nostra. Lo “sbilico” diventa allora un’idea guida, una condizione
esistenziale, un baratro da cui si osserva il mondo crollare sotto il proprio
stesso peso.
Con una scrittura straziante e lucidissima, l’autore costruisce un’opera in cui
la realtà si sfalda e si confonde con l’allucinazione. La trama non è lineare;
anzi, si disfa come un tessuto mal cucito, seguendo i ritmi interiori di un
protagonista che vive in perenne scivolamento. Il lettore non è accompagnato, ma
precipitato in una spirale psicotica in cui ogni certezza percettiva viene
erosa. È un’esperienza estetica e sensoriale prima che narrativa.
Il linguaggio è il vero cuore pulsante del libro. Non è mai semplice mezzo
espressivo, ma campo di battaglia. Pierantozzi lo piega, lo frantuma, lo
trasforma in un organismo vivo, irregolare, carico di tensione e invenzione.
Ogni frase sembra il risultato di un’incubazione febbrile, ma anche di uno
studio meticoloso e inesorabile. La sua scrittura è una magia complessa, una
forma di alchimia letteraria dove si incontrano il lirismo della rovina e la
brutalità del presente.
Con le parole, Pierantozzi ha un rapporto ossessivo e corporeo, quasi liturgico.
Compila quadernetti pieni di appunti, annotazioni, esperimenti. Tenta di domare
il linguaggio, di plasmarlo secondo una grammatica personale e vertiginosa.
Anche se dichiara, senza indulgenze, che la letteratura non è salvezza, il suo
gesto di scrittura è profondamente eroico: cercare una forma dentro il caos,
senza illudersi che basti a guarire, ma senza mai smettere di lottare.
Lo sbilico è anche, e soprattutto, una riflessione lancinante sulla malattia
dell’identità. Il soggetto narrante non ha contorni definiti, non evolve secondo
coordinate psicologiche canoniche: è una coscienza spezzata, in continua
dissoluzione. L’identità diventa un campo di battaglia tra ciò che si è, ciò che
si crede di essere e ciò che gli altri proiettano. In questo scenario, la follia
non è altro che una lucidità al rovescio, una consapevolezza estrema di essere
fuori asse rispetto a un mondo altrettanto disallineato.
C’è in questa narrazione un dolore quasi mistico, una vertigine dell’essere che
si fa carne attraverso parole rotte, risonanti. La realtà non è un dato
oggettivo, bensì un costrutto soggettivo, instabile, spesso delirante.
Pierantozzi radicalizza questa idea, facendo della percezione stessa un campo
instabile, un cortocircuito continuo tra visione e allucinazione. Il lettore è
costretto a rinunciare a ogni certezza, a ogni logica narrativa: e proprio in
questo abbandono risiede la verità più profonda dell’opera.
Lo sbilico non è un libro da “capire”, ma da attraversare, come si attraversa un
sogno febbrile o una seduta di ipnosi. È un’opera che inquieta e incanta, che
sfida le strutture canoniche per proporre un linguaggio che è esso stesso
oggetto di crisi. Un libro che non racconta soltanto la malattia, ma la
performa: nel corpo del testo, nella mente del lettore, nell’anima del tempo che
viviamo. Opera-mondo, opera-corpo, opera-crisi: Lo sbilico è un esperimento
radicale e necessario, uno di quei testi che non si dimenticano perché lasciano
ferite aperte, domande irrisolte, e un silenzio denso da abitare. Con Lo
sbilico, Pierantozzi dà voce a un’umanità sull’orlo del collasso, restituendole
non la salvezza, ma la possibilità di un grido.
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