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Michele Mari / L’eterno ritorno
Leggere Michele Mari significa entrare in una stanza degli specchi in cui tutto è già noto. I convitati di pietra non fa eccezione: il romanzo è un sistema di ossessioni, una costellazione che costituisce l’impianto stesso del testo. Fumetti, collezionismo, film, rituali, rigidità moralistiche, un’ironia enciclopedica: motivi che si intensificano come in una filastrocca sempre più inquieta. In questa regressione ostinata al bambino sapientino di dieci anni che è dentro Mari si concentra la parte tragica dei suoi libri: l’autore non si emancipa dall’infanzia, la rimette continuamente in scena, trasformandola in una camera d’eco malinconica. La trama – la riffa mortuaria della III A del 1975, l’escalation di morti, sospetti e alleanze – ruota attorno a un patto semplice e spietato: ognuno dei trenta compagni versa una quota di denaro, un fondo comune che maturerà interessi e che, alla fine, verrà ereditato dagli ultimi tre superstiti della classe. Una sorta di Dieci piccoli indiani moltiplicato per tre: stesso meccanismo rituale, ma dilatato nel tempo, non finalizzato alla soluzione del giallo bensì alla conferma di un vincolo. Il piacere della lettura nasce dal riconoscimento immediato del mondo dell’autore: ogni romanzo amplifica le sue manie, e il lettore vi entra come in un’abitudine affettiva, trovando conforto in questa coerenza. Ne I convitati di pietra i personaggi invecchiano, accumulano acciacchi, attraversano decenni – il romanzo spinge la sua cronologia fino al 2050 e oltre –, ma sembrano non aver mai davvero lasciato il cortile della scuola. La cena rituale del 22 luglio è il momento in cui tutto si ricompone: un appuntamento che riconferma ogni anno il patto, riattiva la competizione e dissolve l’identità adulta. A tavola riemerge la stessa dinamica liceale, rigida e crudele, e tutto ciò che accade fuori da quel rito sembra una parentesi secondaria, un segmento di tempo che esiste solo per condurre nuovamente a quella data fissa, al vero centro delle loro vite. In questo mondo, la figura di Luca Brodo è l’emblema dell’infantile puro. Alla sua ossessione onanistica che esita un tremito permanente alla mano destra spacciato per morbo di Parkinson, corrisponde una precisione descrittiva altrettanto maniacale, che finisce per raccontarlo meglio di qualsiasi dialogo. Brodo vive in un erotismo senza altro: un archivio mentale fatto di immagini e micro-dettagli, una collezione interiore che ruota soprattutto attorno alla compagna di classe Francesca Ricci, sopravvissuta a un grave incidente e costretta alla sedia a rotelle. È lei il centro del suo immaginario: Brodo si concentra sulle cromature lucide della carrozzina, sulle curve metalliche del telaio, su quei bagliori che diventano per lui un’estensione feticistica del corpo della Ricci. Il desiderio si sposta dall’oggetto umano all’oggetto tecnico, come se la sua fantasia non riuscisse più a distinguere tra il corpo e ciò che lo sostiene. Un erotismo che però non assomiglia certo ai traumi metallici del Crash di BAllard — né alla loro versione cinematografica filtrata dallo sguardo glaciale e perturbante di David Cronenberg. Lì il metallo è una ferita, una promessa di dissoluzione; qui, nelle fantasie di Brodo, il metallo della carrozzina diventa un giocattolo sublimato, una superficie brillante su cui proiettare un desiderio che non ha mai imparato a diventare adulto. L’erotismo di Mari è perturbante, sì, ma lo è solo per la sua cifra di assoluto infantilismo, per il modo in cui riduce la complessità del desiderio a un rituale solitario, ripetitivo, statico, privo di ogni minaccia reale. È un perturbante che non nasce dal rischio, ma dalla regressione: dal rifiuto inconsapevole di crescere. Ed è così per tutti: la sessualità che attraversa il romanzo è goffa, immediata, ripetitiva. La Gaudillo colleziona conquiste fra i compagni di classe come figurine; Semprini si lascia trascinare all’atto sessuale mentre pensa alla gatta Crazy, la creatura di Herriman che gli abita nella testa più di qualsiasi donna reale; Rivadeneyra usa il corpo come valuta. Il sesso non genera legami: irrigidisce ruoli, conferma ossessioni, mostra un mondo emotivamente bloccato. C’è poi la città di Milano. I convitati di pietra è anche una sorta di giallo topografico. Ogni personaggio ha un indirizzo preciso, un civico esatto nella mappa milanese. Via Melzi d’Eril, via Sassetti, via Mac Mahon, via Canonica, viale Sarca: seguendo i loro movimenti, il lettore traccia percorsi e incroci che ricordano un’indagine. Milano diventa una città-cronologia, un reticolo di luoghi che conservano le tracce emotive e biografiche dei personaggi: scene della loro formazione, dei loro fallimenti, delle loro morti e omicidi. Come attraversare  mezzo secolo di memoria urbana leggendo, allo stesso tempo, la mappa di un delitto. La riffa – con la sua logica da gioco infantile – come detto è il centro gravitazionale di tutto. Non offre ricompense reali, eppure nessuno può sottrarsi: la competizione è identità. Ogni morte tiene in vita il fantasma della giovinezza; ogni cedimento fisico rinforza il legame perverso con quella classe di liceo che non smette di richiamarli a sé. E questa ripetizione genera un conforto nel lettore. Leggendo, si attende il momento in cui Mari spingerà ancora un po’ oltre la sua macchina narrativa: la monomania di Semprini, il potere della Bathory, le invenzioni rituali di Brodo. La prevedibilità diventa una promessa: entri in questo universo sapendo già come funziona e vuoi vederne i margini. Chi può essere allora il lettore di un romanzo così? A entrarci davvero è un “lettore sofisticato”, in grado di riconoscere la forma, il lavoro sulla ripetizione, la manutenzione maniacale del dispositivo narrativo. È un lettore che vede il mestiere di Mari e lo apprezza proprio perché è trasparente, quasi esibito. Un “lettore ingenuo”, invece — e soprattutto un lettore giovane che non sa niente degli oggetti o manie di un’epoca ormai sorpassata — rischia di uscirne spaesato. Senza il repertorio culturale che sostiene il mondo di Mari, la ripetizione può sembrare immobilità, e l’ossessione un vezzo più che una poetica. Il “lettore naturale” resta dunque un coetaneo dell’autore, qualcuno che riconosce quel paesaggio: fumetti, l’intera filmografia elencata titolo per titolo di un attore come Gene Hakmann! linguaggi scolastici, riti e mitologie di un’infanzia mai davvero superata. I convitati di pietra non racconta una generazione: parla a una generazione, e chiede un ascolto che viene da lontano. In ogni caso I convitati di pietra è un romanzo insieme divertente e triste con al centro, di fatto, la morte. È un libro che non cerca nuove direzioni: amplia una forma che Mari coltiva da sempre, cercando di renderla più nitida, più spietata, più teneramente crudele. Si legge come si legge un rituale: riconoscendo ogni passaggio e aspettando di vedere fino a che punto Mari permette alla sua macchina di girare. L'articolo Michele Mari / L’eterno ritorno proviene da Pulp Magazine.
Luca Tosi / Tra rovina e riscatto
Appena finita la lettura del secondo romanzo (breve) di Tosi sono andato a cercare su Google Maps il paesotto del nord ove è ambientato, Poggio Berni, convinto che non l’avrei trovato perché un posto così strampalato doveva essere parto – pensavo – della fertile immaginazione dello scrittore cesenate. Ma no! Poggio Berni esiste e sta in provincia di Rimini. Non fa però comune, in quanto frazione di Poggio Torriana. E adesso devo sperare che nessuno dei residenti prenda d’aceto e faccia causa al Tosi, visto che nelle pagine di Oppure il diavolo la (ridotta) popolazione locale viene presentata come un aggregato di sfigati, a partire dal protagonista e io narrante, che risponde all’antiquato nome di Natale. Devo dire che quanto a stramberia quest’ultimo brilla anche in una banda di scappati di casa quale quella che si raduna nel bar di Poggio Berni: orfano di padre, cresciuto con una madre anaffettiva e manesca (donna delle pulizie il cui unico orizzonte al di là del gramo lavoro è quanto passa su Rete 4), strappato dalla scuola per via delle non proprio floride finanze della sua famiglia monoparentale, decisamente imbranato per quanto riguarda i rapporti con l’altro sesso e non del tutto certo di non preferire lo stesso, una serie di lavoretti precari ma nessuna occupazione stabile, Natale a tutti gli effetti un inetto che fa impallidire persino Zeno Cosini. Attorno a lui un piccolo cast di provinciali a vita, più prigionieri che abitanti del natio borgo selvatico, il quale a modo suo ha anche qualche forma di inclusività, visto come ha integrato Dragoi lo slavo, che apre la narrazione sfasciando la sua Mini Cooper nella piazzetta del paesotto – uno di quegli incidenti automobilistici che costituiscono classicissimo argomento di conversazione in tutte le vere province del pianeta. Di questa e altre disgrazie si parla nel centro della vita sociale, l’immancabile bar dove bivaccano gli scioperati locali, coi quali il Natale socializza ma non proprio convintamente, consumando un Cremino Algida dopo l’altro nella torrida estate romagnola. Del resto nella terra di Fellini e Mussolini auto e moto non sono meri mezzi di trasporto, ma oggetto di una sorta di religiosità meccanica, che si materializza in corse forsennate e sinistri spettacolari. Natale ha però una diversa passione, la pesca, della quale è autentico esperto. Ma non ve lo figurate seduto sulle rive di fiumi maestosi, torrenti incontaminati, scenografici laghi alpini: lui e i suoi sodali gettano esche e ami nelle acque limacciose dei laghetti artificiali FIPS, una delle (ben poche) attrazioni della (non proprio) ridente cittadina. E proprio sulle rive di uno di questi stagni accade qualcosa che scombussolerà la vita del nostro eroe, fino a quel momento non proprio ricca di eventi memorabili. E il diavolo, si potrebbe chiedere? Dipende da come leggiamo la storia. A modo suo Natale ha una sua religiosità, per quanto non molto ben definita, e il diavolo ne fa parte; è il male che dal quale l’ha messo in guardia un’educazione rozzamente cattolica. Ma è qualcosa che sta fuori l’anima di Natale, o non piuttosto il nome da dare a una serie di sue pulsioni piuttosto inquietanti? Il protagonista di Oppure il diavolo a un certo punto s’imbarca in una serie di atti piuttosto discutibili se non delinquenziali. È solo un giovanotto sprovveduto e goffo ma sostanzialmente buono, o uno squilibrato capace di gesti inconsulti e pericolosi? Non mi pare corretto in sede di recensione dare una risposta a questa domanda, e mi limito a concludere che, dopo il buon esordio di Ragazza senza prefazione, uscito tre anni fa sempre per Terrarossa, Tosi ha dato ulteriore prova di stare degnamente nell’alveo della letteratura emiliano-romagnola. Vale la pena di seguirlo. L'articolo Luca Tosi / Tra rovina e riscatto proviene da Pulp Magazine.
Antonella Lattanzi / Nel mezzo del buio
Con Chiara, Antonella Lattanzi ci consegna un romanzo grave eppure dolce, un’opera che tesse un arazzo di sensazioni e segreti, dove il dolore abita in ogni piega del racconto, ostinato, talvolta latente, per sempre indelebile. Attraverso gli occhi di Marianna, narratrice e compagna di vita sin dall’infanzia di Chiara, Lattanzi ci trasporta nella Bari popolare degli anni Novanta, in un quartiere che sembra protettivo nei gesti più semplici — feste di compleanno in salotto, panini divisi a metà, la mano stretta di un’amica — ma è al contempo attraversato da un’ombra lunga, quella delle famiglie “in apparenza diversissime” ma uguali nella violenza che sanno infliggere. Fin dalle prime pagine, l’adolescenza emerge non come una stagione spensierata, ma come un’età scolpita: una materia fragile e resistente, che si plasma sotto il peso di ferite antiche e parole non dette. Marianna e Chiara non sono solo amiche: sono rifugio l’una per l’altra, un patto silenzioso di protezione contro qualcosa che non osa chiamarsi per nome ma che si avverte come un pericolo costante. In quel nido di complicità, l’intimità cresce: l’affetto diventa amore, l’innocenza si mescola con il desiderio, il bisogno di salvezza si fa promessa. Ma in quel fragile equilibrio, la violenza domestica minaccia sempre di esplodere — non in maniera sensazionalistica, ma con la forza spaventosa della quotidianità: padri che (si) feriscono, madri che sfuggono, muri che non tengono. Il senso di colpa, invisibile ma affilato, scava ferite nell’anima delle protagoniste; un senso di colpa che è anche silenzio, che è “non detto”, che è la paura di essere amate fino in fondo se davvero conosci chi sei. Lattanzi dipinge questi temi con una delicatezza gelida, raccontando quanto i mostri più terribili abitino nelle stanze che dovrebbero proteggere, e quanto siano reali — molto più spaventosi di quelli che si immaginano nei più sfrenati incubi infantili. Leggere Chiara significa accettare di non respirare: ogni pagina trasmette una tensione sottile, quella paura che il peggio stia per arrivare. E il peggio, in effetti, arriva: non come colpo teatrale, ma come conseguenza inevitabile, come frattura che era in agguato fin dall’inizio. Quando il patto tra le due ragazze sembra incrinarsi sotto i colpi della vita adulta, il lettore avverte la fragilità di quel rifugio che sembrava invincibile. E tuttavia, in mezzo a tutta questa oscurità, Lattanzi non rinuncia a offrire una speranza: l’amore ha scolpito la carne delle due protagoniste, così come il dolore. E la carne non dimentica. È proprio in quel tessuto umano, segnato ma vivo, che germoglia una possibilità di salvezza, non trionfale ma ferma: la promessa di esserci per l’altra, nonostante tutto, nonostante il Terrore. Il ritmo del romanzo è incalzante, magnetico; la scrittura concisa ma ricca di echi, capace di alternare la tenerezza dell’infanzia, la scoperta erotica e l’ombra di minaccia che incombe tra le mura domestiche. Lattanzi maneggia il tempo narrativo con perizia, saltando avanti e indietro, scavando nei ricordi e nei silenzi in modo sapiente. In definitiva, Chiara non è solo un romanzo di amicizia o di amore: è una storia di sopravvivenza, di cicatrici invisibili e parole non dette, di mostri che esistono davvero — ma anche di un bene “ostinato e splendente” che può disarmare il cuore, se solo ci concediamo di restare. Una lettura potente e commovente, che scuote senza urlare, che morde piano ma resta dentro. L'articolo Antonella Lattanzi / Nel mezzo del buio proviene da Pulp Magazine.
Giacinta Cavagna di Gualdana / La Rinascente, una storia milanese
La Rinascente è stata per Anni uno dei simboli di Milano. Credo che lo sia ancora, almeno a giudicare dalla folla di stranieri che entrano ed escono dalle porte che affacciano sul Duomo, sotto i portici di via Vittorio Emanuele. Quando io ero giovane e la provincia era davvero provinciale, venire a Milano e fare un giro alla Rinascente erano una bellissima avventura. E una bellissima avventura è la storia di questo grande magazzino, raccontata in forma di romanzo da Giacinta Cavagna di Gualdana in Un milione di scale. Le ragazze della Rinascente. Un’avventura che comincia alla fine dell’Ottocento, nel 1889 per la precisione, quando i fratelli Bocconi, Ferdinando e Luigi, aprono il grande magazzino alle città d’Italia. Se il nome Bocconi vi suona familiare, sì, sono proprio quelli che hanno fondato l’università Bocconi. Oggi una delle istituzioni più famose d’Italia e d’Europa, la Bocconi è stata fondata con lo stesso intento dei grandi magazzini: aprire delle possibilità, far girare le idee, allargare gli orizzonti, migliorare la vita delle persone. I grandi magazzini concentravano idee e proposte per la casa e per la persona, il meglio di quel che i tempi offrivano al prezzo più abbordabile possibile. L’università offriva una formazione nelle materie economiche e commerciali, che a quel tempo non erano considerate oggetto di studio. Nel 1917 i grandi magazzini rinascono con una nuova proprietà, quella della famiglia di Senatore Borletti (finanziatori anche del “Corriere della Sera” e di Mondadori) e soprattutto con un nuovo nome, La Rinascente, coniato da Gabriele d’Annunzio. Nome che resiste ancora oggi. Nel romanzo, che rientra in quel filone di ricostruzione della storia industriale italiana, cominciato con i Florio e proseguito con tante altre riscoperte, la storia della Rinascente è raccontata attraverso le vicende di alcune commesse, oltre che dei proprietari e delle loro famiglie. Una storia corale che si snoda tra le due guerre mondiali, il fascismo, la Resistenza, la nascita della Repubblica. I grandi magazzini non sono solo un luogo di lavoro ma anche di incontri, di sogni realizzati e sogni infranti, di amicizie improbabili e resistenti, di imbrogli e di atti di coraggio. E l’intreccio tra figure realmente esistite e figure inventate è interessante e ben sviluppato, così come l’incrociarsi di vite brillanti e di successo con piccole storie quotidiane. La figlia di Marcello Dudovich, il grande artista e disegnatore che ha guidato per anni la comunicazione e la cartellonistica della Rinascente, fin da bambina fa amicizia con la figlia di una delle sarte del reparto sartoria del grande magazzino, e sarà un’amicizia che dura tutta la vita e che rende grandi benefici a entrambe le protagoniste. Uno dei fratelli Bocconi resta disperso durante la campagna d’Africa, l’ultima lettera è da Massaua; a lui sarà intitolata l’università Bocconi. Il marito di una delle dipendenti più affezionate della Rinascente, Giuseppe Ceriani, è un ingegnere che progetta macchine da cucire per la Necchi; l’azienda di quei Necchi per cui Portaluppi costruì la meravigliosa Villa Necchi Campiglio che è ora uno dei monumenti più amati e visitati di Milano. Insomma, gli intrecci e le scoperte sono tante e sono davvero piacevoli. Prevalgono nel romanzo le figure femminili. Sia perché per tradizione il lavoro della commessa è femminile, sia per scelta dell’autrice. Che senza sottolinearlo in modo palese, racconta però il lavoro nel grande magazzino come uno strumento di emancipazione. Del resto, così è stato. Il primo passo della libertà delle donne è quello dell’indipendenza economica, del lavoro, e possibilmente di un lavoro che abbia un senso, che consenta di esprimere qualcosa di sé stesse, e che crei relazioni, amicizie, solidarietà. C’è forse un po’ di ingenuità nel ritratto di un’azienda paternalistica ma rispettosa dei suoi dipendenti, rigorosa ma attenta al benessere di chi lavora, con un’affidabilità che parte dal datore di lavoro ma è rispecchiata dai dipendenti. La realtà era sicuramente più sfumata e anche più dura. È vero però che una certa etica del lavoro era effettivamente praticata in certe aziende nello scorso secolo, e se anche la Rinascente non è passata alla storia per essere un’azienda modello, è molto probabile e plausibile che i rapporti tra padroni e dipendenti fossero corretti e di buona qualità. Ma più di tutto, Un milione di scale è un ritratto di Milano. Un ritratto bello e ricco, che rende l’idea di quello che la città è stata per i milanesi e per tutti quelli che ci sono venuti a lavorare e a cercare fortuna. I solidi valori del lavoro e dell’impegno, del fare senza mettersi in mostra, quel che oggi chiamiamo understatement, la solidarietà e il rispetto di tutti i mestieri, emergono da ogni pagina e fanno venire anche un po’ di nostalgia e di rimpianto, guardando la Milano di oggi. Quello di cui manca il libro, secondo me, è una voce originale e sicura. La scrittura è piuttosto standard, e non aiuta la caratterizzazione dei personaggi, che il più delle volte sono estremamente interessanti ma a cui le parole non rendono giustizia. Le risate sono tutte fragorose, le giornate sono scampoli d’estate, le amiche si allontanano a braccetto, i fratelli parlano all’unisono… si potrebbe fare un catalogo di quelle espressioni da vocabolario d’italiano e romanzo classico. Ma soprattutto tutte le emozioni sono descritte con poche parole, sempre le stesse. E sebbene si intuisca che sotto c’è molto di più, sebbene in qualche modo la varietà delle esperienze e la ricchezza dei caratteri arrivino a noi lettori, le parole giuste mancano. E questo, trattandosi di un libro, è un dispiacere.     L'articolo Giacinta Cavagna di Gualdana / La Rinascente, una storia milanese proviene da Pulp Magazine.
Marcello Fois / Distrarsi dalla morte
Dopo la lettura de L’immensa distrazione mi sono chiesta se nella narrativa italiana contemporanea esista un autore che proponga, con estrema efficacia, saghe familiari che rispecchiano il genere, anche come canone internazionale, sebbene imprimendo caratteristiche tipiche della nostra storia e della nostra cultura. Marcello Fois è sicuramente, per i cercatori di tale categoria letteraria, uno degli scrittori più autorevoli nel nostro panorama. L’evidenza si era già fortemente palesata con la saga dei Chironi in Stirpe e nei due seguenti volumi, e chi ha dimestichezza con questa narrativa sa bene che per poter permettere di far vivere, convivere, tanti personaggi con svariate sottotrame, un autore deve necessariamente possedere doti assimilabili ed equiparabili a un direttore di orchestra. La Sardegna era l’ambientazione naturale per i Chironi, per la famiglia Manfredini –protagonista di L’immensa distrazione – viene invece scelta l’Emilia, un luogo completamente diverso, a suo modo per chi lo conoscesse, dotato di un fascino particolare e unico, privilegio invero tipico di ogni zona di Italia. Il 21 febbraio 2017 Ettore, ormai ultranovantenne, si sveglia in una mattina grigia dalla luce sciropposa: «Conosceva lo stridore di corvi e cornacchie sui rami dei pioppi scheletrici, i richiami delle volpi dalle tane negli argini, i muggiti e grugniti dal suo mattatoio oltre la siepe e la voluttà dalle mute dei gatti che ne leccavano i pavimenti. Tutto come sempre, dunque, in quella mattina di acciaio. Oppure no?» No, in verità Ettore Manfredini, proprietario di una delle aziende di allevamento più importanti dell’Emilia e del Nord Italia, si sveglia, ma è un risveglio falsato, il suo corpo è deceduto, il protagonista capostipite si rende conto che la sua anima rileggerà ogni passaggio decisivo, ogni sfumatura ininfluente di un intero secolo di vita della sua famiglia, dei suoi figli e dei suoi nipoti. Come Gregor Samsa, protagonista della Metamorfosi di Franz Kafka, Ettore al proprio e singolare risveglio dovrà fare i conti con una temporanea realtà esistenziale, un bilancio di vita che lo porterà a rivedere le scelte e la conduzione di una vita intera. I personaggi della famiglia sono tanti, il romanzo ripercorre nella prima parte la famiglia di origine di Ettore, i genitori di quest’ultimo, Vittorio e Elda, e il racconto di come lui ottiene il mattatoio Kosher della famiglia Teglio, ebrei perseguitati dalle leggi razziali. Il mattatoio andrà ai Manfredini e verrà trasformato negli anni in un’azienda importante, non solo da un punto di vista economico, ma sarà trampolino per l’ascesa sociale agognata da Ettore; l’allevamento e la macellazione sono centro e fulcro della narrazione, personaggio al pari di tutti gli altri, grande metafora esplicativa della storia di questi protagonisti dagli ideali e dagli affetti non propriamente positivi. Nella seconda parte conosceremo i figli di Ettore e Marida Teglio, Carlo, Enrica, Edvige ed Ester, e così Luisa, la moglie di Carlo, con il figlio Elio, Roberto, marito di Enrica e la loro figlia Elisa. Anche se scritto in terza persona, forma da prediligere per questo tipo di narrazioni, la voce di Ettore è come una serpentina che attraversa l’intero romanzo, alternando una dualità, un vocalizzo più intimo e introspettivo, con uno più generico che racconta il succedersi delle generazioni intessute al contesto storico nazionale. Tipico di queste narrazioni è il concatenarsi di eventi più o meno gravi, espedienti tensivi per catturare il lettore e coinvolgerlo nella trama. Una delle particolarità di Fois è lo schema costruttivo che usa, l’innesto di brevi e fulmine rivelazioni e le sue riprese successive largamente poi sviscerate, chiudendo, con soddisfazione del lettore, ogni livello di sottotrama. Il pregio di questo autore sta nella sua cifra stilistica, nella musicalità che scaturisce da una precisa visione per la nostra lingua capace di generare quel lirismo fondamentale per creare suggestioni; collante di questa saga famigliare, ambientata in una terra dal cuore fertile, nel tempo che si ostina a piegarti ma che invece fortifica.       L'articolo Marcello Fois / Distrarsi dalla morte proviene da Pulp Magazine.
Paolo Scardanelli / Sotto il Vulcano
Con Belletti e Romeo, Paolo Scardanelli firma un nuovo, intenso capitolo della saga del commissario Belletti, spingendosi, al suo solito, oltre i confini del noir per entrare nel territorio in cui la prosa incontra la poesia, e l’indagine diventa strumento di conoscenza. Siamo a metà degli anni Ottanta, in un’Italia ancora attraversata dalle ultime scosse della lotta armata, quando la storia collettiva e le ferite personali si mescolano in un magma incandescente. È allora che una coppia di escursionisti trova il corpo di Wolfgang von Rheingold, un quarantenne tedesco, con la gola squarciata. Accanto a lui, un libro intriso di sangue: La morte di Empedocle di Hölderlin. E il cane della vittima, uno splendido esemplare di cirneco dell’Etna – chiamato poi Romeo – accucciato, vigile, custode silenzioso del delitto. Ma l’omicidio misterioso avvenuto sulle pendici dell’Etna — “a Muntagna”, come la chiamano i catanesi — è solo il punto di partenza di una discesa vertiginosa nelle zone più oscure del desiderio e della colpa, e di un viaggio a ritroso nel tempo, dove sono nati i germi degli ideali infranti e della violenza. La trama corre infatti su binari che scandiscono un doppio tempo: quello della contemporaneità scolpita nel sud siciliano e quello del passato che ritorna – in Germania – con la sua carica di rimorsi e ideologie smarrite. Belletti si trova a fronteggiare non solo il crimine, ma la vendetta che si traveste da giustizia, l’amore che può mutarsi in ossessione, la lealtà che implode. Accanto a lui, Romeo: il cane dell’uomo assassinato, che sceglie Belletti come padrone. Non un semplice animale da trama, ma un testimone silenzioso, un tramite tra il vivo e il morto, tra la colpa e l’espiazione. Romeo – elegante, potente, incline alla fiducia che nasce dal dolore – diventa specchio del commissario: entrambi soli, entrambi in cammino. In Belletti il cane risveglia una forma d’affetto e responsabilità che sfuma i confini tra uomo e bestia, tra giudice e vittima. È un rapporto che rende il romanzo più vasto, più umano, più vulnerabile. Belletti si muove tra Catania e Amburgo, due città che Scardanelli trasforma in veri e propri luoghi simbolici dell’anima. Catania, terra di fuoco, di sudore e di passioni, è il regno del sentimento, della memoria e del corpo; Amburgo, fredda e lucida, diventa la controparte razionale, la sede della mente e della legge. Tra questi poli, Belletti — e con lui il lettore — oscilla come un pendolo che cerca equilibrio tra l’istinto e la norma, tra l’amore e la vendetta. Il vulcano, presenza costante e mitologica, non è solo scenario ma principio cosmico. L’Etna è il fuoco originario, la vita che si genera e distrugge, la voce arcaica che rimbomba sotto ogni gesto umano. Scardanelli ne fa una metafora potente del tempo e della storia, della passione che arde e consuma. Ogni eruzione è un ricordo che torna, un dolore che cerca la sua forma. Lo stile di Scardanelli rimane inconfondibile: denso, sensuale, intriso di odori, sapori, materie vive. Le parole sembrano impastate di pietra lavica e vento del Nord, capaci di restituire tanto la ruvidezza di un vicolo catanese quanto la geometria severa dei moli amburghesi. Se rispetto ai precedenti romanzi la componente musicale si fa un po’ meno esplicita, il ritmo resta calibrato con la stessa maestria: sincopato, quasi respirato, come una lunga ballata che alterna il passo lento della riflessione al colpo secco dell’azione. Ma Belletti e Romeo è anche — e forse soprattutto — una storia d’amore e di perdita, in cui la giustizia non è mai pura e il confine tra legge e trasgressione si fa sottile come il fumo che sale dal cratere. In fondo, Belletti non indaga solo sull’assassinio di un uomo, ma sul mistero stesso del vivere, su quel punto in cui la passione diventa colpa e la colpa chiede redenzione. Scardanelli riesce, ancora una volta, a trasformare il noir in poesia civile, e la poesia in una forma di verità. Belletti e Romeo è un romanzo che brucia piano, come la lava sotto la crosta, e lascia nel lettore il segno di una luce calda e pericolosa. Perché, come cantavano i Clash, “I fought the law, and the law won”.               L'articolo Paolo Scardanelli / Sotto il Vulcano proviene da Pulp Magazine.
Tommaso Giagni / Per bonificare fabbrica e storia
Tommaso Giagni è uno scrittore che sa utilizzare le categorie di spazio e di tempo con disinvoltura e franchezza, non tanto per costruire l’ossatura di fatti di cronaca, quanto piuttosto per definire le coordinate di una fotografia emotiva, personale, sociale e politica. Giagni è nato a Roma. Da qualche anno si è trasferito a Trento per seguire la compagna da cui ha avuto una figlia. Facilmente è riuscito a piegare a suo favore questa novità nella propria vita in una opportunità. Ha proseguito a scrivere per “l’Espresso” e, soprattutto, non ha abbandonato la scrittura letteraria. Proprio in questi giorni è uscito il suo libro più interessante e più maturo, La fabbrica e i ciliegi che è, in qualche modo, anche il frutto del suo soggiorno tridentino. Tra tempo passato, scandito dal titolo di quattro capitoli (2005, 2011, 2013, 2016), molto presente e definito da un inequivocabile “oggi”, viviamo la storia di Cesare, cinquantenne romano, “animale da archivio”, trasferitosi nella capitale dalla sua Trento fin da piccolissimo. Orfano di padre, Cesare, quando perde anche la madre, sente il bisogno di tornare nel paese natale dei suoi genitori per provare a ricostruire, per quanto possibile, la loro vita e in definitiva, le proprie origini. Attraverso i pochi documenti che riesce a reperire si trova subito a confronto con la storia dell’incendio della fabbrica SLOI, un grande edificio costruito sotto il fascismo per produrre piombo tetraetile per il carburante che doveva servire ad alimentare i mezzi da guerra dell’Asse. In altre parole: sodio, quell’elemento chimico morbido che per la sua conservazione doveva essere riposto sotto uno strato di petrolio in bidoni sigillati. Perché, se fosse entrato in contatto con l’acqua, sarebbe diventato soda caustica, quindi si sarebbe infiammato e avrebbe dato fuoco all’intero edificio. Proprio questo accade nel 1978 quando in occasione di un forte temporale, l’acqua penetra in un bidone chiuso male e provoca l’incendio della fabbrica. In quell’occasione, fu evitata una strage dei lavoratori, degli abitanti del quartiere limitrofo e forse dell’intera città nonché la distruzione di un intero ecosistema come quello dei ciliegi nel quartiere di Campotrentino che già nel passato avevano dato cenni di allarme per la situazione venefica in cui si trovavano. Il disastro più grave fu evitato solo per merito dell’intervento intelligente dei vigili del fuoco che, per spegnere l’incendio, usarono il cemento e non altra acqua. La SLOI dopo poco chiuse, ma la nocività della sua presenza naturalmente non era limitata all’incidente di quell’anno, ma riguardava anni e anni di lavorazione dei materiali che si producevano all’interno. Pertanto, i lavoratori morti a causa della SLOI furono anche coloro che dall’incendio si salvarono e chi, prima di loro, fu afflitto da saturnismo. Tra questi, il padre di Cesare, anche lui operaio di quella fabbrica. Il tempo trascorso da quei momenti consegna a noi e a Cesare alcune terribili domande: “perché la madre di Cesare ha sempre detto a suo figlio che il padre era morto di Leucemia?” Morire a causa del lavoro era forse una vergogna? E poi: “perché sui documenti che attestano la morte del padre – e che Cesare trova in archivio – c’è scritto ‘morto per etilismo’”? Qui la risposta è facile. Il “sistema”, il “potere” di allora voleva semplicemente nascondere responsabilità gravissime e decennali. La malattia dei proletari tridentini ha poi un epilogo logico per l’epoca, poco prima della grande riforma Basaglia: l’arrivo nel manicomio Pergine dove il padre di Cesare effettivamente morirà. Poi, grazie a imponenti battaglie civili certe fabbriche nocive chiuderanno e i manicomi pure, ma quello che era accaduto rimase sostanzialmente impunito. Il viaggio avanti e indietro nel tempo, dal 2003 fino ad oggi, i continui salti temporali e spaziali, sono un esercizio utile per il lettore che, se non è giovanissimo può iniziare a ricordarsi di date e di luoghi che hanno fatto la storia tragica del nostro Paese: Seveso, Porto Marghera, le acciaierie di Taranto, la Terra del Fuoco, il fiume Sacco in Ciociaria e molto altro. Stragi ignorate, più che dimenticate, che hanno costretto intere generazioni a vivere senza padri (altro che facili sociologismi sui conflitti generazionali degli anni Settanta) e che sono state sanguinarie come le strategie della tensione con cui le destre eversive hanno insanguinato l’Italia. Nel libro c’è molto di più. Oltre alla presenza di due trentenni, Loris e Marilù che si fanno seguire con molto interesse, il racconto è animato da personaggi che Cesare conosce e frequenta, che lo aiutano non solo a trovare la strada per scoprire la verità che lo riguarda direttamente ma che lo aiutano anche a vedere il mondo per quello che è in termini di disorientamento, speranza, individualismo. Oggi.       L'articolo Tommaso Giagni / Per bonificare fabbrica e storia proviene da Pulp Magazine.
A volte ritornano: “Tiro al piccione” di Giose Rimanelli
Fenoglio. Vittorini. Calvino. Rigoni Stern. Revelli. Meneghello. Viganò. Tobino. Arpino. E mettiamoci anche Levi, perché se non altro c’era l’intenzione di resistere. E anche Morante, per quanto non combatté. Ecco, il canone della letteratura sulla Resistenza è ben definito, o almeno tale sembra. Eppure, i canoni non sono fissi. Certo, impensabile che ne escano gli scrittori su elencati, Fenoglio in testa; ma ogni tanto scavi e trovi altro, e il quadro si arricchisce, in qualche modo cambia. Potremmo far entrare Tutti i sognatori, di Filippo Tuena, per esempio. Ce lo ha insegnato Thomas Stearns Eliot: tutto il canone cambia quando entra un nuovo testo, le relazioni mutano, le filiazioni si complicano, la rete si allarga, lati in ombra vengono alla luce… Ragioneremo quindi su un testo che entra di diritto nel canone resistenziale. Un libro per certi versi maledetto, rimosso, emarginato, uscito nel 1953, otto anni dopo Uomini e no di Vittorini, sei dopo Il sentiero dei nidi di ragno di Calvino, l’anno dopo I ventitré giorni della città di Alba di Fenoglio. Insomma, un romanzo (con una dose di autobiografia ancora da misurare) figlio della stessa ondata, nato dagli stessi eventi storici, animato dalla stessa volontà di fare i conti con un passato vicinissimo, scritto da un uomo che aveva combattuto. Parlo di Tiro al piccione di Giose Rimanelli (1925-2018), pubblicato la prima volta nella “Medusa degli italiani” di Mondadori (copertina arancione); un romanzo di guerra notevole, che in quel territorio dovrebbe avere lo status di classico, del quale Giuliano Montaldo realizzò un adattamento cinematografico omonimo, nel 1961. Tuttavia se ne parla pochissimo, e ancor meno se ne scrive. Una parziale spiegazione sta forse nella scelta di Rimanelli di raccontare la Resistenza vista da un ragazzo molisano, Marco Laudato, che finisce in modo rocambolesco tra le file dei miliziani in camicia nera. Non è un partigiano: è uno di quelli che combattono contro di loro. E pare che il libro rispecchi l’esperienza vissuta dal suo autore. Insomma, abbiamo la versione di un repubblichino, anche se alla fine del romanzo il protagonista ripudia completamente quello che ha fatto (e che in una certa misura è stato costretto a fare), e il suo contenuto non invita certo a simpatizzare per la causa della Repubblica Sociale Italiana. Quando torna nel suo paesetto, dopo due anni vissuti a dir poco pericolosamente, aver visto gran parte dei compagni d’arme uccisi, aver conosciuto la disfatta e rischiato l’esecuzione sommaria, dopo esser stato consegnato agli americani per la deportazione in un campo di prigionia in Nordafrica ed esservi scampato evadendo dalla tradotta che lo portava a Napoli, Marco viene accolto dal padre ex-camicia nera come un figliol prodigo. In stile meridionale, vengono convocati i notabili del posto per festeggiare il miracoloso ritorno di un ragazzo creduto da lunga pezza morto; tra di essi don Diego Scrocca, già segretario del Fascio, che attacca un panegirico dell’eroico combattente, del “giovane camerata qui presente reduce dal nord”, che “ha combattuto per una Patria grande, ma sfortunata”. Ma Marco, dopo tutto quel che ha visto e subito, non è affatto compiaciuto. Pensa: Ora sapevo con chiarezza che quello che parlava era uno dei tanti che andavano frustati e cacciati a pedate, era uno di quelli che avevano pensato alla maniera sporca di mandarci a morire, sfruttando il nome della Patria e altre cose. Io credevo che, salvandomi dalla guerra e tornando a casa, sarei uscito dalla guerra e avrei trovato uomini nuovi, che mi avessero insegnato come si fa a riprendere a vivere in una Italia diversa. Invece la provincia era ancora attaccata ai fantasmi e alle illusioni del passato, e speculava sulla nostra stupidità. Come a dire, l’Italia non ha imparato niente, e don Diego Scrocca ce lo possiamo immaginare benissimo tra le fila della DC degli anni Cinquanta e Sessanta, magari nella corrente Andreottiana, come tanti ex-camerati. Questi e altri brani nei capitoli conclusivi attestano che Tiro al piccione tutto è tranne che un’opera di apologia nostalgica del Ventennio, tantomeno di legittimazione di Salò e dei suoi combattenti. Eppure fino a oggi, nonostante sia stato edito da Mondadori prima e poi addirittura da Einaudi nel 1991, il romanzo di Rimanelli è restato in una sorta di zona crepuscolare, ai confini con la realtà. La destra non può farlo suo perché il libro presenta la RSI. in una luce tutt’altro che favorevole; quanto alla sinistra, soffre – pur con lodevoli eccezioni – di quella sorta di puritanesimo per cui bisogna essere antifascisti sforzandosi di sapere il meno possibile del fascismo (ultimamente sembrava che bastasse condannare annualmente le leggi razziali, sorvolando su tutto quello che precede il 1938); insomma, il libro di un ex-repubblichino è una cosa forse un po’ troppo sporca per certe sensibilità. Ma il contenuto di Tiro al piccione non basta a spiegare il fato di Rimanelli. Il problema serio fu verosimilmente un altro libro, un saggio che lo scrittore e critico pubblicò nel 1959 sotto lo pseudonimo “Solari”: Il mestiere del furbo: panorama della narrativa italiana contemporanea, edito da Sugar. Lo stesso pseudonimo Rimanelli l’aveva utilizzato per firmare una rubrica letteraria su “Lo specchio” dal 1958 al 1959, e nei suoi scritti aveva sparato a zero sul mondo dei salotti che a suo avviso decideva vincitori e vinti dei vari premi letterari. A partire dai suoi articoli, ne Il mestiere del furbo lo scrittore molisano presenta un quadro delle patrie lettere dal 1930 alla fine degli anni Cinquanta dove non fa sconti a nessuno; Leonardo Sciascia gli riconobbe il merito di “una sincerità e un coraggio di cui, purtroppo, pochissimi sono capaci”, ma il resto del mondo letterario ne decretò la damnatio memoriae. E non va trascurato il fatto che la rivista “Lo specchio” fosse diretta da Giorgio Nelson Page, un americano che aveva rinunciato alla cittadinanza statunitense per prendere quella italiana e aderire al fascismo, poi salvato dall’amnistia di Togliatti; e che l’orientamento della rivista, che si era “distinta” per una serie di attacchi a Pasolini, fosse di orientamento decisamente conservatore, per usare un eufemismo. Ad ogni modo, dopo la pubblicazione del pamphlet Rimanelli lascia l’Italia, recandosi prima in Canada, quindi negli Stati Uniti per il resto dei suoi giorni. Lì inizia, potremmo dire, la sua terza vita, quella di professore di letteratura italiana e comparata in diverse università statunitensi – tra le quali Yale – che lavora sulla letteratura della diaspora italiana ma anche sulle tradizioni della sua regione di nascita; non senza proseguire l’attività di narratore, i cui frutti sono stati di recente ripubblicati da Rubbettino. Al di là di vetuste polemiche letterarie, è il suo romanzo a interessarci, un testo che indubbiamente abides: perdura ostinatamente, incancellabile. Offre una prospettiva rovesciata rispetto a quella dei classici della letteratura resistenziale, consentendo di vedere il conflitto come appariva a entrambe le parti; un modo di affrontare la narrativa di guerra che si avvale della metodologia comparatistica, la quale di solito opera su letterature di diversi paesi in conflitto tra loro. In questo caso, l’operazione è semplificata perché sia i partigiani che chi dava loro la caccia (o ne era cacciato) si esprimevano (e poi scrivevano) nella medesima lingua, al netto di tutte le idiosincrasie stilistiche e le diverse strategie narrative. Ma Tiro al piccione si fa apprezzare anche per la sua brutalità: un aggettivo prescritto dal romanzo stesso. Quando Marco racconta a Ida, l’amante del sergente del suo reparto, come due uomini in borghese, entrati nella corsia dell’ospedale dove era ricoverato, hanno scaricato le loro pistole su un militare convalescente, la donna protesta: “È brutale come racconti”. Il commento vale per quell’episodio, ma sembra rivolto all’intero romanzo. La guerra partigiana e la repressione della Resistenza da parte dei reparti di Salò è raffigurata senza nascondere niente, senza retorica, senza abbellimenti, senza giustificazioni. La vicenda di Marco Laudato comincia all’indomani dell’8 settembre; il ragazzo sente il traffico incessante dei camion tedeschi che portano rifornimenti al fronte, passando per il suo paese. Recano gli echi di un mondo più ampio e avventuroso di quello della provincia molisana. Il rapporto con il padre, ex fascista non per fede politica ma per portare uno stipendio a casa, è conflittuale; ha una storia con una ragazza del posto, la cui sua famiglia la vuole sposata ad un maestro. Dopo l’ennesima lite, Marco scappa di casa, chiede un passaggio a un camion della Wehrmacht, attraversa l’Italia occupata e si ritrova a Venezia senza sapere cosa fare. Va ad arruolarsi nell’esercito di Salò come se cercasse di trovare la propria identità in quella divisa, ma si ritrova a scavare trincee per le truppe tedesche: manovale come suo padre dopo la smobilitazione della milizia. Marco ha uno spirito ribelle, e di fare lo schiavo per i crucchi non ha nessuna voglia: fugge di nuovo, arriva a Milano e lì viene tradito da un milite fascista al quale dà ingenuamente fiducia. Si ritrova davanti ad una scelta: la fucilazione in quanto disertore, o mettere la camicia nera e combattere. Opta per la seconda alternativa, ma le aspettative sue e degli altri arruolati vengono nuovamente deluse: non si ritrovano a combattere inglesi e americani, il nemico che parla un’altra lingua e veste un’altra divisa, ma vengono inviati in Val Sesia ad affrontare i partigiani. Si ritrovano in una guerra civile, a dover ammazzare altri italiani, e scoprono a loro spese che i partigiani sono inafferrabili, colpiscono quando meno te lo aspetti, anche mentre sei in convalescenza in una corsia ospedaliera. Sempre che i due sicari in borghese fossero davvero partigiani, e quello cui Marco assiste non fosse un regolamento di conti tra camerati. Nella seconda parte del romanzo, che narra gli scontri, i rastrellamenti e le imboscate sui monti, c’è una ristagnante atmosfera di morte. Quella dei soldati di Salò è una lotta senza speranze, l’unica chance che hanno è morire eroicamente (cosa che non sempre succede), in nome di un malinteso senso dell’onore. A uno a uno i compagni di Marco cadono, anche la sua storia d’amore imbastita con un’infermiera più grande di lui (un riecheggiare hemingwayano?) è senza futuro e senza scampo. Unico amico tra i commilitoni è il sergente Elia, un militare di carriera che ha continuato a combattere perché nella vita ha fatto solo quello, pur consapevole che dalla RSI non se ne uscirà vivi. Il romanzo parte dunque lentamente, mostrando gli eventi dalla prospettiva di un ragazzo che sta uscendo dall’adolescenza, e che si perde nel caos dell’Italia occupata; ma nella seconda parte raggiunge anche momenti di suspense, come quello in cui un gruppo di miliziani entra in una taverna frequentata dai partigiani spacciandosi per paracadutisti inglesi; una scena che ne anticipa in modo sorprendente una assai simile in Inglorious Basterds di Quentin Tarantino (avrà visto il film di Montaldo?). Il momento culminante (e devastante) è il finale della seconda parte, quando il reparto di Marco sta tentando di raggiungere la Valtellina, dove si dovrebbe resistere fino all’ultimo uomo agli eserciti alleati che dilagano nella Pianura Padana. La via dell’ultimo ridotto passa per il valico del Mortirolo, dove però sono asserragliati i partigiani, ben armati e posizionati e decisi a non far passare i repubblichini. Dopo tre giorni di combattimenti disperati, i superstiti vedono arrivare un prete con una bandiera bianca, e quello che rivela loro li annichilisce: Mussolini è stato catturato e giustiziato, ormai non si combatte più, è veramente finita. Gli assalti suicidi delle ultime camicie nere in attività sono stati inutili. Mi sembra che questa chiusa, seguita dal deprimente ritorno a casa di Marco, sia una sorta di metonimia della sua avventura al Nord: una guerra condannata fin dal principio, senza prospettive di vittoria, nella quale si poteva solamente morire. Una guerra perduta prima ancora di cominciarla, perché già nell’estate del 1943 era certo che l’Italia non poteva più combattere, proseguita per gli interessi del Terzo Reich, non per i nostri. In tutto questo Marco più che protagonista è un ragazzo trascinato dalla corrente; in parte forzato a combattere pena una pistolettata in testa, in parte legato volente o nolente ai suoi compagni di squadra, le uniche persone con cui si rapporta, una relazione tutt’altro che affettuosa, una sorta di solidarietà tra condannati a morte; in ultima analisi – ed è uno degli aspetti più interessanti – è un adolescente immaturo spesso preda di emozioni momentanee, degli istinti, incluso quello di uccidere. Non è dunque un innocente, e la sua maturazione consiste nel prenderne pienamente coscienza verso la fine, rendendosi conto di essere in fin dei conti figlio di suo padre, con una vena violenta come la sua, e nel comprendere che sulle montagne ha perso qualcosa, ha “detto addio all’altro Marco Laudato che era rimasto lassù […] con tutti i morti della guerra”. Memorabile la chiusa, nella quale il protagonista, dopo aver rifiutato la celebrazione da parte dei notabili paesani irrimediabilmente fascisti, riflette: “Adesso sapevo che era necessario tornare in mezzo alla gente, vestito con i miei panni civili, e vivere finalmente per una ragione”. Perché la lugubre e grottesca epopea di Salò, a ben vedere, avrà avuto le sue cause, ma una ragione non l’aveva.   L'articolo A volte ritornano: “Tiro al piccione” di Giose Rimanelli proviene da Pulp Magazine.
Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede
In un’epoca sempre più confusa e divisiva come la nostra, l’attesa di un seppur piccolo miracolo non è futile, ma anzi un desiderio che sentiamo ardere come comunità, oltre che come individui. Crederemmo a qualsiasi cosa pur di alleviare l’impotenza che governa le nostre vite e dare un senso alla nostra sfuggente esistenza. Così, quando una grande città italiana un giorno si risveglia con un enorme volto che osserva, placido, lo scorrere delle vite degli uomini dall’alto del blu del cielo, i cittadini gridano al miracolo: è forse questa, la svolta che tutti aspettavano? Il Volto, battezzato con la lettera iniziale maiuscola, è il fugace e incorporeo protagonista del formidabile romanzo Il prodigio, pubblicato da Mondadori ed esordio narrativo del drammaturgo e poeta Fabrizio Sinisi. Il Volto, per l’intera durata del romanzo, rimane immobile: non pronuncia sentenze né giudica, ma sembra starsene lì, nel cielo, a osservare il tafferuglio che avviene al di sotto. Un dio che ha deciso di mostrarsi per la prima volta dopo millenni, un dio che ora è – e forse è la caratteristica più importante – ben visibile e fotografabile. Certo, potrebbe semplicemente essere un agglomerato di nuvole testarde e ben ancorate tra loro, ma non è la verità che importa: ciò che conta è quello che, volgendo lo sguardo in alto, gli esseri umani scelgono di credere. Don Luca, il nostro narratore, è confuso: il Volto sarà veramente il dio a cui ha dedicato la sua esistenza oppure un mero avvenimento meteorologico? Potrebbe essere un esperimento biochimico oppure un tentativo di spionaggio? Già dai primi giorni sono tante le teorie complottiste che arrancano tra la fiumana di spiegazioni possibili, ma solo una sembra attecchire più delle altre: quello lì in alto pare essere proprio dio. Affiorano miracoli, voci, sogni, profezie. Ciò apre le porte a pellegrini, ordini religiosi, malati terminali e persone comuni che desiderano solo crederci più intensamente degli altri e trovarsi sotto quel cielo da cui potrebbero piovere benedizioni, assoluzioni e miracoli. Diventa comune imbattersi in sette religiose, profeti, confraternite e credenze demoniache. Se non esiste una verità inconfutabile, ciascuno si trova a vagare dove la propria mente o la propria fede sente un richiamo più forte di altri. La città diviene ben presto assediata da una fede per il Volto che scavalca qualsiasi norma sociale di convivenza. Mentre fedeli si riversano per le strade, c’è chi vuole creare un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di essere: da una parte c’è Folker, un transgender seguitissimo online, prossimo alle elezioni comunali, che invoca al cambiamento della società con retorica e slogan piuttosto astratti; dall’altra c’è il generale Capogrosso, che con ideali fascisti vuole cambiare lo Stato e la Costituzione, portando ordine con la forza. Ci sono colpi di stato, palazzi evacuati e trasformati in sedi religiose, disordini per le strade, ronde fasciste che invocano un regolamento di conti: tutto si svolge nell’immobilità di quel dio che osserva. Quando il Vescovo, in mancanza di una risposta del Papa, decide di affermare che quello lassù non è veramente dio, ai fedeli poco importa: ormai sono ammaliati da quella divinità così concreta rispetto al dio che hanno pregato per tutta la vita senza mai sentire, senza mai vedere, “sperduti in un sogno di fede”. Che cos’è questa fede che tutti all’improvviso sentono ardere, che tutti invocano e a cui tutti vogliono dare una direzione? Un bisogno di un miracolo, di qualcosa che spezzi le catene dell’ordinarietà e che offra una via d’uscita alla confusione che stabilmente abita nel mondo? E se fosse, invece, una fede che si risveglia dopo un lungo sonno, assopita da un’ordinarietà e da una quotidianità sempre più difficile? “Ogni lotta sulla terra è una lotta fra un dio e l’altro”, scrive Sinisi, riassumendo alla perfezione ciò che vediamo accadere nel romanzo e che richiama così fortemente ciò che già accade nella realtà: “assorti solo nella propria disperata strategia di salvezza” non riusciamo a veder al di là di noi stessi e non conosciamo più il significato di comunità e di fede. Se un volto apparisse davvero nel nostro cielo, cosa faremmo? Credo che Il prodigio tracci una risposta piuttosto concreta del nostro smarrimento. L'articolo Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede proviene da Pulp Magazine.
Antonella Ossorio / Colpevole o innocente?
Nel parlamento italiano è stato da poco approvato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio con conseguente pena dell’ergastolo, e quasi in contemporanea Neri Pozza pubblica il nuovo romanzo di Antonella Ossorio in cui ci racconta le vicende – romanzate per colmare gli inevitabili buchi storici e narrativi – di Madame Popova. L’autrice spiega di essersi imbattuta per caso –mentre cercava del materiale online per un nuovo romanzo – nella misteriosa figura di Alexe Popova che nella Russia zarista ha ucciso oltre trecento uomini dal 1878 al 1909, anno in cui viene arrestata e giustiziata. Ovviamente la scarsa documentazione ha concesso ampio margine di scrittura all’autrice che, per sua stessa ammissione, ha dichiarato di essere rimasta rapita dallo sguardo severo della donna vestita di nero ritratta in una rarissima immagine ancora reperibile online. Pur utilizzando le sue radici napoletane per narrare storie dal valore universale e un’ambientazione nel passato come chiave di lettura del presente, Ossorio si è concessa un’uscita forzata dalla sua comfort zone per sbarcare nella Russia di fine Ottocento. Le tematiche principali su cui basa le radici questo romanzo sono tante e fondamentali. L’indipendenza economica delle donne del popolo, in primis, che era quasi impossibile ottenere e che si lega strettamente a un altro tema, quello dell’analfabetismo. Gli uomini al momento del matrimonio sceglievano se aggiungere al proprio documento d’identità i dati della consorte così da comprovarne l’esistenza in maniera ufficiale, documenti che venivano spesso richiesti per accedere a svariati uffici pubblici o, come capita alla coprotagonista del romanzo in questione, per prendere in prestito un libro in biblioteca. Nei comandi di polizia le donne non venivano nemmeno considerate e siccome si dava per scontata l’ignoranza dell’interlocutrice, una firma diversa da una “x” era vista quasi come una colpa. Tornando all’indipendenza economica, le donne sposate non potevano lavorare, c’era una guerra in corso e gli uomini erano spesso al fronte per cui le donne dovevano restare a casa e badare ai figli e, anche se non sempre questa era la regola, le donne che lavoravano erano considerate l’eccezione. Nadja si trova in una situazione intermedia: come a tante sue coetanee è capitato invece di essere analfabeta, con una figlia a carico e con un marito vittima del gioco d’azzardo e amante della bottiglia che per sfogare i suoi umori la picchia e la violenta. Quando viene ammessa alla congrega di Madame Popova capisce di non essere sola, che altre donne hanno vissuto la sua stessa condizione ma ne sono uscite. Potremmo considerare Madame Popova una femminista ante litteram che sosteneva l’alfabetizzazione delle altre donne, le aiutava a commercializzare i lapti, una tipica calzatura dell’Europa nord-orientale realizzata principalmente con la rafia, per ricavare un guadagno dignitoso ma soprattutto contribuiva alla prematura dipartita del problema marito attraverso l’utilizzo dell’arsenico, un veleno perfetto perché incolore e inodore. Ed eccolo il tema principale del romanzo, la violenza sulle donne. Per la cultura dell’epoca era pratica comune che un uomo si sfogasse sulla propria moglie che veniva considerata a tutti gli effetti un oggetto di proprietà, i poliziotti erano tutti uomini e una donna che scappava dal marito non aveva vita facile, quindi si preferiva tacere e continuare a subire violenza fino all’inevitabile epilogo. Il personaggio che l’autrice ha creato per fare da contraltare alla Popova – della quale non si sa nulla di preciso, né data e luogo di nascita né il vero nome – è un perfetto bilanciamento che mette in difficoltà il giudizio del lettore, istintivamente portato a stare dalla parte di Alexe. Nadja fa riflettere sulla moralità del gesto, del mettere in circolo altro male, oltre a quello compiuto con i delitti, che non è quella la via da percorrere. D’altro canto, Alexe fino all’ultimo si è dichiarata innocente per non aver mai ucciso bambini, donne né uomini giusti, ha compiuto giustizia condannando la sopraffazione del maschio e salvando la parte debole e senza diritto di replica della società del tempo. I documenti graziati dal passare dei secoli ci raccontano che Popova viene arrestata sulla base della denuncia di una donna, senza nome né altri dettagli, pentita all’ultimo istante dopo averle chiesto aiuto. Nell’infinita guerra tra bene e male dunque ai posteri l’ardua sentenza: colpevole o innocente?                                                                                     L'articolo Antonella Ossorio / Colpevole o innocente? proviene da Pulp Magazine.