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Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede
In un’epoca sempre più confusa e divisiva come la nostra, l’attesa di un seppur piccolo miracolo non è futile, ma anzi un desiderio che sentiamo ardere come comunità, oltre che come individui. Crederemmo a qualsiasi cosa pur di alleviare l’impotenza che governa le nostre vite e dare un senso alla nostra sfuggente esistenza. Così, quando una grande città italiana un giorno si risveglia con un enorme volto che osserva, placido, lo scorrere delle vite degli uomini dall’alto del blu del cielo, i cittadini gridano al miracolo: è forse questa, la svolta che tutti aspettavano? Il Volto, battezzato con la lettera iniziale maiuscola, è il fugace e incorporeo protagonista del formidabile romanzo Il prodigio, pubblicato da Mondadori ed esordio narrativo del drammaturgo e poeta Fabrizio Sinisi. Il Volto, per l’intera durata del romanzo, rimane immobile: non pronuncia sentenze né giudica, ma sembra starsene lì, nel cielo, a osservare il tafferuglio che avviene al di sotto. Un dio che ha deciso di mostrarsi per la prima volta dopo millenni, un dio che ora è – e forse è la caratteristica più importante – ben visibile e fotografabile. Certo, potrebbe semplicemente essere un agglomerato di nuvole testarde e ben ancorate tra loro, ma non è la verità che importa: ciò che conta è quello che, volgendo lo sguardo in alto, gli esseri umani scelgono di credere. Don Luca, il nostro narratore, è confuso: il Volto sarà veramente il dio a cui ha dedicato la sua esistenza oppure un mero avvenimento meteorologico? Potrebbe essere un esperimento biochimico oppure un tentativo di spionaggio? Già dai primi giorni sono tante le teorie complottiste che arrancano tra la fiumana di spiegazioni possibili, ma solo una sembra attecchire più delle altre: quello lì in alto pare essere proprio dio. Affiorano miracoli, voci, sogni, profezie. Ciò apre le porte a pellegrini, ordini religiosi, malati terminali e persone comuni che desiderano solo crederci più intensamente degli altri e trovarsi sotto quel cielo da cui potrebbero piovere benedizioni, assoluzioni e miracoli. Diventa comune imbattersi in sette religiose, profeti, confraternite e credenze demoniache. Se non esiste una verità inconfutabile, ciascuno si trova a vagare dove la propria mente o la propria fede sente un richiamo più forte di altri. La città diviene ben presto assediata da una fede per il Volto che scavalca qualsiasi norma sociale di convivenza. Mentre fedeli si riversano per le strade, c’è chi vuole creare un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di essere: da una parte c’è Folker, un transgender seguitissimo online, prossimo alle elezioni comunali, che invoca al cambiamento della società con retorica e slogan piuttosto astratti; dall’altra c’è il generale Capogrosso, che con ideali fascisti vuole cambiare lo Stato e la Costituzione, portando ordine con la forza. Ci sono colpi di stato, palazzi evacuati e trasformati in sedi religiose, disordini per le strade, ronde fasciste che invocano un regolamento di conti: tutto si svolge nell’immobilità di quel dio che osserva. Quando il Vescovo, in mancanza di una risposta del Papa, decide di affermare che quello lassù non è veramente dio, ai fedeli poco importa: ormai sono ammaliati da quella divinità così concreta rispetto al dio che hanno pregato per tutta la vita senza mai sentire, senza mai vedere, “sperduti in un sogno di fede”. Che cos’è questa fede che tutti all’improvviso sentono ardere, che tutti invocano e a cui tutti vogliono dare una direzione? Un bisogno di un miracolo, di qualcosa che spezzi le catene dell’ordinarietà e che offra una via d’uscita alla confusione che stabilmente abita nel mondo? E se fosse, invece, una fede che si risveglia dopo un lungo sonno, assopita da un’ordinarietà e da una quotidianità sempre più difficile? “Ogni lotta sulla terra è una lotta fra un dio e l’altro”, scrive Sinisi, riassumendo alla perfezione ciò che vediamo accadere nel romanzo e che richiama così fortemente ciò che già accade nella realtà: “assorti solo nella propria disperata strategia di salvezza” non riusciamo a veder al di là di noi stessi e non conosciamo più il significato di comunità e di fede. Se un volto apparisse davvero nel nostro cielo, cosa faremmo? Credo che Il prodigio tracci una risposta piuttosto concreta del nostro smarrimento. L'articolo Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede proviene da Pulp Magazine.
Antonella Ossorio / Colpevole o innocente?
Nel parlamento italiano è stato da poco approvato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio con conseguente pena dell’ergastolo, e quasi in contemporanea Neri Pozza pubblica il nuovo romanzo di Antonella Ossorio in cui ci racconta le vicende – romanzate per colmare gli inevitabili buchi storici e narrativi – di Madame Popova. L’autrice spiega di essersi imbattuta per caso –mentre cercava del materiale online per un nuovo romanzo – nella misteriosa figura di Alexe Popova che nella Russia zarista ha ucciso oltre trecento uomini dal 1878 al 1909, anno in cui viene arrestata e giustiziata. Ovviamente la scarsa documentazione ha concesso ampio margine di scrittura all’autrice che, per sua stessa ammissione, ha dichiarato di essere rimasta rapita dallo sguardo severo della donna vestita di nero ritratta in una rarissima immagine ancora reperibile online. Pur utilizzando le sue radici napoletane per narrare storie dal valore universale e un’ambientazione nel passato come chiave di lettura del presente, Ossorio si è concessa un’uscita forzata dalla sua comfort zone per sbarcare nella Russia di fine Ottocento. Le tematiche principali su cui basa le radici questo romanzo sono tante e fondamentali. L’indipendenza economica delle donne del popolo, in primis, che era quasi impossibile ottenere e che si lega strettamente a un altro tema, quello dell’analfabetismo. Gli uomini al momento del matrimonio sceglievano se aggiungere al proprio documento d’identità i dati della consorte così da comprovarne l’esistenza in maniera ufficiale, documenti che venivano spesso richiesti per accedere a svariati uffici pubblici o, come capita alla coprotagonista del romanzo in questione, per prendere in prestito un libro in biblioteca. Nei comandi di polizia le donne non venivano nemmeno considerate e siccome si dava per scontata l’ignoranza dell’interlocutrice, una firma diversa da una “x” era vista quasi come una colpa. Tornando all’indipendenza economica, le donne sposate non potevano lavorare, c’era una guerra in corso e gli uomini erano spesso al fronte per cui le donne dovevano restare a casa e badare ai figli e, anche se non sempre questa era la regola, le donne che lavoravano erano considerate l’eccezione. Nadja si trova in una situazione intermedia: come a tante sue coetanee è capitato invece di essere analfabeta, con una figlia a carico e con un marito vittima del gioco d’azzardo e amante della bottiglia che per sfogare i suoi umori la picchia e la violenta. Quando viene ammessa alla congrega di Madame Popova capisce di non essere sola, che altre donne hanno vissuto la sua stessa condizione ma ne sono uscite. Potremmo considerare Madame Popova una femminista ante litteram che sosteneva l’alfabetizzazione delle altre donne, le aiutava a commercializzare i lapti, una tipica calzatura dell’Europa nord-orientale realizzata principalmente con la rafia, per ricavare un guadagno dignitoso ma soprattutto contribuiva alla prematura dipartita del problema marito attraverso l’utilizzo dell’arsenico, un veleno perfetto perché incolore e inodore. Ed eccolo il tema principale del romanzo, la violenza sulle donne. Per la cultura dell’epoca era pratica comune che un uomo si sfogasse sulla propria moglie che veniva considerata a tutti gli effetti un oggetto di proprietà, i poliziotti erano tutti uomini e una donna che scappava dal marito non aveva vita facile, quindi si preferiva tacere e continuare a subire violenza fino all’inevitabile epilogo. Il personaggio che l’autrice ha creato per fare da contraltare alla Popova – della quale non si sa nulla di preciso, né data e luogo di nascita né il vero nome – è un perfetto bilanciamento che mette in difficoltà il giudizio del lettore, istintivamente portato a stare dalla parte di Alexe. Nadja fa riflettere sulla moralità del gesto, del mettere in circolo altro male, oltre a quello compiuto con i delitti, che non è quella la via da percorrere. D’altro canto, Alexe fino all’ultimo si è dichiarata innocente per non aver mai ucciso bambini, donne né uomini giusti, ha compiuto giustizia condannando la sopraffazione del maschio e salvando la parte debole e senza diritto di replica della società del tempo. I documenti graziati dal passare dei secoli ci raccontano che Popova viene arrestata sulla base della denuncia di una donna, senza nome né altri dettagli, pentita all’ultimo istante dopo averle chiesto aiuto. Nell’infinita guerra tra bene e male dunque ai posteri l’ardua sentenza: colpevole o innocente?                                                                                     L'articolo Antonella Ossorio / Colpevole o innocente? proviene da Pulp Magazine.
Luca Cangianti / Resistere non è mai inutile
Se Distruggi il male è un romanzo sviluppato in una geometria frattale, allora le sue vicende possono essere percorse senza partire da un vero centro, districandosi tra i pieni e i vuoti di una vicenda narrativamente ambientata nei primi anni Ottanta a Roma, nel quartiere sudest dell’Appio-Tuscolano. Tuttavia, anche rifacendosi ai romanzi precedenti di Luca Cangianti, Sangue e plusvalore (Imprimatur, 2014) e I morti siete voi (Diarkos, 2019), l’utilizzo dello spazio e del tempo non è quello convenzionale e trova le sue origini nella narrativa fantastica e, in particolare, nell’utilizzo dei piani spazio-temporali che è alla base della serie di Eymerich l’inquisitore sviluppata da Valerio Evangelisti. Sicuramenti entrambi condividono la prospettiva di una narrativa che possa essere strumento delle lotte sociali, rifacendosi a tutta la tradizione della scrittura proletaria che parte dall’Ottocento, cercando il punto di vista delle classi subalterne e operando un’opera di denuncia delle reali condizioni di vita e di lavoro, delle lotte sindacali e della loro repressione. Dal romanticismo di Victor Hugo al naturalismo di Émile Zola, fino a narrazioni contradditorie come Il popolo dell’abisso di Jack London, Cangianti e Evangelisti hanno scelto di calarsi nel passato con la visione e la cultura del presente, con la memoria delle lotte che sono state consumate per cambiare quelle realtà di subordinazione, di superstizione, di povertà che hanno dominato ogni epoca. La cultura militante ha sempre opposto un senso della storia progressivo all’idea di un presente univoco e atemporale, le cui ragioni di esistere sono consolidate nel passato, da essere spacciate per naturali, e non possono essere cambiate. Una visione del tempo che si addice ai desideri e alle strategie delle classi dominanti, delle élite, dei ricchi, degli sfruttatori. Contro questa concezione di percezione della realtà, non solo si oppone il collegamento storico tra il presente e il nostro passato, ma si è sviluppata una narrativa antagonista che intende utilizzare il fantastico e le sue metafore come armi intellettuali per sovvertire lo stato di cose presenti. In tutti i suoi romanzi, Cangianti letteralizza le metafore, ovvero le rende elementi concreti della narrazione. Bisogna pensare all’insetto de La metamorfosi di Franz Kafka, metafora dell’isolamento del diverso come della disumanizzazione, che nel racconto diventa oggetto reale e concreto, un disturbante essere vivente. In Sangue e plusvalore l’elemento centrale, il mostro del romanzo, è una macchina che prende vita e succhia il sangue degli operai, e un ibrido biologico e meccanico che si ispira dalla metafora di Karl Marx tratta da Il capitale: «Il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia». Se il fantastico classico, specialmente l’horror, prevedeva il ristabilimento dell’ordine borghese contro il continuo risorgere delle forme misteriose e arcane del passato, configurandosi come presidio intellettuale illuminista, le forme narrative contemporanee descrivono un sovvertimento che sfugge a una classificazione conservatrice/progressista. Da qualche decennio l’horror ha assunto un ruolo distruttivo, si presenta con nuove forme di vita, come delirio anticapitalista. Cangianti si muove certamente all’interno di un fantastico sovversivo in cui non assistiamo al ripresentarsi di forme e poteri del passato in un’ottica di tempo circolare, ma di dialettica che rivoluziona i rapporti di forza sociali. L’etimologia di rivoluzione, dal latino “volvere” ovvero ruotare, girare, con il prefisso re, indietro, di nuovo, come in astronomia stabilirebbe il ritorno alla situazione precedente, il percorso di un’orbita che riporta al punto di partenza, ma nel tempo è diventato determinante un significato antitetico di rottura radicale, di non ritorno. Per l’horror è accaduta la stessa cosa, da narrazione del ristabilimento di un Ordine atemporale mitico alla rottura dell’ordine politico e sociale, all’impossibilità del ristabilirsi delle condizioni di partenza. Il romanzo I morti siete voi è l’esempio di come horror e fantascienza collaborino alla rottura dell’ordine politico, sociale, relazionale, esistenziale, affettivo, e come il risultato sia un presente che consenta la progettazione di un futuro, qualunque esso sia ma diverso dal presente capitalista globale. Quindi storia, cronaca e passione si interconnettono in una rete neurale letteraria che elabora dati, che pensa, che destruttura, che inventa, che demistifica. Il lavoro di Cangianti è di ricerca storica e, contemporaneamente, di attività militante. Ne I morti siete voi le vicende del gruppo partigiano romano Bandiera rossa, una formazione comunista attiva nelle borgate, si collegano con il G8 di Genova con una forza sorprendente, con un legame che si impossessa del tempo e lo flette in una lotta tra bene e male, tra comunismo e fascismo, in uno scontro tra corpi e nuovi corpi che lavora in profondità nell’immaginario contemporaneo. Ma sono le vicende di Distruggi il male che utilizzano appieno i modelli della fantascienza per ibridarli con il racconto realista della crisi dei movimenti giovali durante il Riflusso che segue al ciclo di lotte degli anni Sessanta. Sono abbastanza certo che Cangianti non abbia letto due racconti di Lino Aldani, “Screziato di rosso” e “Aria di Roma andalusa”, ma è interessante come l’importante scrittore italiano di fantascienza avesse lavorato sia sul rapporto narrativo tra Resistenza e fantastico sia sulle suggestioni di una Roma segreta e misteriosa che deve molto a un originale televisivo come Il segno del comando, diretto da Daniele D’Anza per la RAI nel 1971. L’attenta regia narrativa di Cangianti non nasconde le molteplici ispirazioni, dall’epopea della Resistenza popolare di traccia neorealista e ricca di autoironia, a Cherudek (1997), il più visionario dei romanzi di Valerio Evangelisti, alla geografia della mai completamente scomparsa capitale esoterica e iniziatica, alle utopie intellettuali e popolari, alla ricca letteratura dedicata alla fine della rivolta giovanile e del dilagare del disimpegno e dell’eroina. Ma per Cangianti quegli ideali dell’antifascismo spontaneo e popolare, senza partito, non sono mai morti, anzi sono destinati a rispuntare come le piante maligne da ogni crepa della nostra asfaltata società. Come in molte opere fantastiche esiste un libro guida, e in Distruggi il male ce ne sono due: Il signore degli anelli di Tolkien e Banditi di Piero Chiodi, comandante partigiano della Centotreesima Garibaldi e filosofo esistenzialista. La lettura di Tolkien che, nella finzione del romanzo, Cangianti affida a Enrico, il protagonista, un liceale che si avvicina ad Autonomia Operaia un po’ per amore e un po’ per senso salgariano di avventura, è quella ecologista e libertaria, interetnica, e che può essere sinteticamente riferita al saggio di Alessandro Portelli “Appunti su Tolkien e Il Signore degli anelli”, pubblicata sul numero 18 della rivista Primo Maggio (ripresa su Pulp Magazine). L’utilizzo de Il signore degli anelli nel romanzo di Cangianti, alla faccia di decenni di riscrittura ideologica e pacchiana dell’estrema destra, recupera il tema della lotta contro il male che percorre tutta la lettera popolare fino agli anime giapponesi, quel sentimento di lottare dalla parte giusta, quell’emozione di mettere a rischio la propria vita contro l’ingiustizia e la sopraffazione, quella comprensione delle diversità che costituiscono il gruppo. In Distruggi il male la “compagnia” che si raccoglie all’Alberone non può essere più eterogenea nelle esperienze e nelle sofferenze così profonde nonostante le giovani età, l’opposto del mito dell’individuo superiore, del culto della morte, del disprezzo. Da Banditi di Chiodi invece ricava una lettura della Resistenza anti-mitica, contraddittoria, di felicità e paura abbracciate. Ma è la fine del sogno di rivolta che era nato nel ’77 a essere chiave di lettura che lega la guerriglia dei partigiani di Bandiera Rossa, al Movimento che si scontrava ad armi pari con le squadre di Francesco Cossiga, alla lotta in Val di Susa. Se passate per Roma vedrete sui muri delle vecchie case le lapidi che ricordano gli assassinati delle Fosse Ardeatine. Più di cinquanta di loro erano partigiani di Bandiera Rossa. Quando leggerete le parole nel marmo, pensate che la lotta non è finita e resistere non è mai inutile. L'articolo Luca Cangianti / Resistere non è mai inutile proviene da Pulp Magazine.
Vito di Battista / Saga abruzzese
La storia è una saga familiare ambientata a San Vito Chietino, un piccolo paese abruzzese a trecento gradini dal mare e luogo di nascita dell’autore. Vito Di Battista riesce sapientemente a riempire la narrazione di dettagli, lasciando emergere anche il non detto, offrendo così al lettore diverse chiavi di lettura. Il romanzo si apre nel 1938, in pieno ventennio fascista, e attraversa il 1943, alla fine della Seconda guerra mondiale, fino ad arrivare al 1970. La vicenda della famiglia protagonista si intreccia con le conseguenze della dittatura sulla società locale, la crudeltà del conflitto e la trasformazione degli abitanti: la piccola provincia diventa una lente d’ingrandimento per osservare i mutamenti dell’intera nazione. Bontà e meschinità, povertà e ricchezza, abusi e vittime si alternano senza soluzione di continuità, lo stile dell’autore è lineare e scorrevole, e proprio questa apparente semplicità rivela una rara qualità narrativa. I protagonisti principali sono tre, ma la voce di altri personaggi si fa ugualmente sentire: Olimpo, uomo buono e appassionato di scrittura, rifiuta di seguire le orme paterne. La dittatura influenza profondamente le sue scelte personali: il clima politico lo costringe, più volte, ad affrontare paure e compromessi che mettono alla prova la sua integrità e il suo desiderio di libertà. Anita, la moglie di Olimpo, vive con un braccio amputato a causa di un incidente in giovane età; conosce il marito sul posto di lavoro e la loro relazione si costruisce su una comprensione reciproca e un affetto sconfinato. Emma, rimasta incinta da nubile, viene ripudiata dalla famiglia e dalla società: il suo percorso di riscatto rappresenta un cambiamento nella mentalità della comunità locale: da “svergognata” cacciata di casa, trova inaspettatamente una nuova possibilità di vita e di accettazione. Sul fondo si staglia il mare, i trabocchi dei pescatori, l’occupazione nazista, la liberazione della Puglia. Dopo il matrimonio, Olimpo e Anita hanno due figli. Emma, costretta a vivere in una stalla, viene coinvolta da Olimpo per aiutare Anita con le faccende domestiche e la crescita dei figli. Nonostante la riluttanza iniziale, Anita accetta la presenza di Emma, sottolineando la difficile convivenza tra dovere e sentimento. Alla fine, Emma trova una casa e un nuovo riscatto, mostrando come il romanzo esplori il tema della redenzione sociale e la trasformazione della mentalità collettiva. Il dialetto locale e i dettagli ambientali arricchiscono la lettura, immergendo il lettore in una dimensione senza tempo, che restituisce la musicalità del parlato abruzzese e la forza evocativa del paesaggio. L’autore non imbocca mai strade scontate o consolatorie, ma offre un’analisi precisa di un periodo storico e sociale che ha profondamente cambiato la società. La saga familiare si distingue così per la capacità di raccontare la storia collettiva attraverso le vicende intime dei suoi personaggi, mostrando come grandi eventi, come la dittatura e la guerra, plasmino le scelte e il destino di chi vive ai margini della storia ufficiale.     L'articolo Vito di Battista / Saga abruzzese proviene da Pulp Magazine.
Rachele Salvini / Una scrittrice lirica in America
A leggere Rachele Salvini, ci si dimentica di essere di fronte all’opera di un’autrice italiana. Il ritmo, la sintassi, la costruzione dei personaggi – è una prosa impregnata di letteratura e cultura americane; la sua origine è tradita solo da certe similitudini, eco di un lirismo tutto nostrano. Salvini, del resto, ha studiato in varie parti degli Stati Uniti ed è stata scelta per un dottorato in Inglese e scrittura creativa in Oklahoma, di cui si è innamorata grazie a persone, animali e a quella che definisce una selvaticità trash. Lo stesso Oklahoma protagonista di Pelli, suo secondo romanzo pubblicato da nottetempo. Nella cittadina di Agra abita Zelda, vedova taciturna, ancora prigioniera del ricordo di un marito verbalmente feroce, capace di divorare la sua autostima e la sua indipendenza pezzo per pezzo. Tom era un chirurgo ossessionato dalla caccia e dalle pelli delle sue prede, un uomo ben diverso dal ragazzo conosciuto in gioventù. A Zelda rimangono un figlio divorziato fin troppo simile al padre, una nipotina finita in mezzo a un matrimonio infelice, delle amiche con cui condividere la passione per gli oggetti di seconda mano, e quel pianoforte abbandonato, simbolo del monito materno a non perdersi per colpa di un uomo. A farle da antitesi, almeno in apparenza, è l’ex nuora Allison: una tossicodipendente abituata a lottare contro razzismo e pregiudizio per il suo sangue indiano, una voce in grado di opporsi alla crudeltà di Tom e dell’ex marito Gareth. Suocera e nuora non hanno mai avuto un rapporto stretto, eppure la presenza di Allison ristagna nella memoria di Zelda, perché incarna le direzioni non intraprese, le scelte rifiutate pur di tenere insieme la famiglia. A plasmare la scena, la vita di provincia fatta di consuetudini, pettegolezzi, ma anche inediti momenti di gioia. La diegesi si muove tra il presente e gli anni del matrimonio di Zelda e Tom. La costante è l’infelicità di Zelda: prima, a causa di uno sposo intenzionato a possederla quasi fosse un trofeo da esporre e dominare; dopo, nel tracciare un bilancio della sua giovinezza, nel vedere il tempo rimasto sgretolarsi in un’apatia densa (“E ora eccola qui. Si sente tradita da tutti, e soprattutto da se stessa”). Zelda non riesce a proteggere come vorrebbe la nipote Grace dall’egoismo del figlio Gareth, né a riprendere in mano le redini del suo futuro. L’arrivo di un puma in città, annunciatole da Allison al telefono, mette in moto pensieri ed eventi decisivi per Zelda, forse l’unico modo per rinunciare ai panni della vittima e recuperare quelli di donna. Sullo sfondo, le tante forme della violenza maschile: quella sottile e sempre più pervasiva di Tom, quella aggressiva di Gareth, riflesso di una quotidianità insoddisfacente e sregolata, quella subita dalle donne nel rifugio contro la violenza domestica, e infine quella nei confronti delle ragazzine uccise negli anni Settanta, un caso di cronaca nera impresso nella coscienza collettiva. Zelda la conosce bene, l’ha portata come una seconda pelle tra le mura domestiche, si è lasciata corrodere dalla frustrazione di essere in una gabbia, in cui per sopravvivere ha assunto su di sé aspettative e ruoli definiti: “La consapevolezza di quanto fossero deboli gli uomini della sua vita la colpiva dal nulla, con una precisione acuminata”. Salvini racconta la storia di una riappropriazione del corpo e dell’anima con una scrittura intima, abile nel restituire paura, solitudine, dipendenza. Ci dimostra che perdonarsi e affrontare la fragilità del nostro essere umani può essere un entusiasmante e necessario punto di ripartenza. L'articolo Rachele Salvini / Una scrittrice lirica in America proviene da Pulp Magazine.
Andrej Longo / I dieci Comandamenti a Napoli
In occasione dell’uscita della nuova raccolta di racconti Undici dello scrittore Andrej Longo, Sellerio ripubblica Dieci, raccolta edita nel 2007 da Adelphi. Il tempo non ha alterato o intaccato la contemporaneità di questi racconti, i cui temi centrali, suggestivi, identitari per l’autore, possiedono la potenza idonea e necessaria per raccontare Napoli e la sua gente. Per chi apprezza Longo è una collezione imprescindibile, per chi non lo conoscesse un’opportunità da cogliere per entrare nella sua narrativa. Dieci è una raccolta di dieci racconti e i titoli sono i noti comandamenti consegnati da Dio a Mosè: è singolare come il significato del comandamento sia riscontrabile o meno all’interno della trama del racconto, di certo come metafora, ma in alcuni casi con un messaggio più sottile, interpretabile, meno diretto e quindi estremamente interessante. La particolarità di Longo è proprio questa, mostrare scene di vita, mettere in cruda evidenza gli istinti primordiali umani: la violenza, la cupidigia, la falsità, l’ipocrisia, ma anche l’amore, l’onore e l’orgoglio; esponendoli, non descrivendoli, applicando il vero show don’t tell della grande letteratura del Novecento americana. Niente spiegazioni, la narrazione parla, le azioni di ogni personaggio rendono Napoli una città vivida, il più delle volte incomprensibile. In questa serie di racconti le immagini diventano frustate emotive e Longo usa saggiamente la rigidità morale delle tavole di Dio consegnate sul Monte Sinai per enfatizzare la caoticità complessa della città partenopea. In questi racconti gravitano storie legate al tradimento, all’abbandono, allo sfruttamento, al degrado, alla sopravvivenza. Incontriamo un figlio con la madre morente, determinato a prendere una decisione irrimediabile, un soldato ritornato nella sua Napoli che stenta a riconoscere, una moglie che vive un giorno alla settimana per un marito assente, una ragazza con un segreto da nascondere, una sposa nel giorno del matrimonio che si rifiuta di diventare la moglie di un uomo che non ama, un cantautore strozzato dal suo successo comprato; diverse trame, per differenti temi, tutte narrazioni trascinanti. Per chi non conoscesse l’autore, la sua prosa ha una cadenza napoletana, comprensibile e musicale, nei dialoghi invece il dialetto più stretto subentra per dare enfasi e rendere ancora più concrete le azioni dei personaggi, restando comunque, per chi non avesse familiarità, accessibile. La forma colloquiale e il parlato dialettale se non gestiti, rischiano di impoverire la cifra stilistica, ma con Longo tutto ciò non accade, la sua prosa appare sempre elegante, pulita e accattivante. Spero che il parallelismo non disturbi lo scrittore, ma in alcuni punti le ambientazioni ricordano quella cupezza descritta da Ermanno Rea in Napoli Ferrovia. Nelle pagine di Longo, in ogni suo romanzo, vi è una crasi di sentimentalismo e non-sentimentalismo, una medaglia lanciata in aria che atterra, mostrandoti una volta Napoli, l’altra la sua gente, i grandi misteri di questa città, la sua mutevolezza allo stesso tempo incastrata nella sua immutabilità.   L'articolo Andrej Longo / I dieci Comandamenti a Napoli proviene da Pulp Magazine.
Filippo Tuena / La memoria sul palcoscenico
I greci, come al solito, avevano le idee abbastanza chiare: gli artisti vengono ispirati dalle muse, nove in tutto come le arti che si praticavano all’epoca. Se eri un astronomo (all’epoca considerato artista), ti aiutava Urania, che poi fece carriera molto più tardi in tutt’altro ambito, tra alieni astronavi e androidi. Se invece danzavi, eri sponsorizzato da Tersicore. Ma la madre di tutte e nove le muse era, guarda un po’, Mnemosyne, la dea della memoria. Insomma, già ai tempi di Sofocle si sapeva bene che nelle arti, inclusa la letteratura, nulla si creava se non si ricordava. Non è dunque un caso se uno dei più interessanti scrittori italiani, uno di quelli che difficilmente vedremo a tracannare Strega, intesse da anni un discorso sulla storia (la figlia della memoria che più somiglia alla madre, restando alla mitologica personificazione greca), sui fantasmi (che in quanto revenants, come dicono i francesi, ritornano né più né meno come ricordi), e sull’atto stesso della rimemorazione. Parlo di Filippo Tuena, che in questo breve volumetto ci porta subito “all’interno di un immenso teatro a ferro di cavallo”, col palcoscenico ingombro di “oggetti alla rinfusa”, forse in preparazione di uno spettacolo, forse materiali da usare per il restauro dell’edificio, che non è messo molto bene, tra dorature screpolate e tappezzerie lacere. L’idea del teatro della memoria è di Giulio Camillo Delminio, umanista vissuto tra Quattro e Cinquecento, che avrebbe dovuto realizzare un edificio mnemonico, dove chi si fosse piazzato al centro del palcoscenico avrebbe avuto intorno una serie di immagini simboliche legate alle varie branche del sapere, interconnesse tra loro in modo da poter recuperare agevolmente tutto lo scibile umano. Praticamente, la Wikipedia analogica rinascimentale (ed esoterica). Delminio ricevette anche un finanziamento da re Francesco I di Francia per realizzare il suo teatro, e ancora si dibatte se ci sia riuscito o meno. Il teatro della memoria di Tuena è più modesto: si accontenta di evocare i ricordi della madre dello scrittore. Abbiamo quindi quella che i teorici della letteratura più aggiornati chiamerebbero post-memory (post-memoria per i puristi), ovvero il ricordo di avvenimenti vissuti da altri (spesso i genitori, o altri parenti stretti) e trasmessi tramite il racconto, con tutti i rischi di rielaborazione, autocensura, dimenticanza ecc. che ciò comporta. Esempio classico di post-memoria è il memoriale grafico Maus, di Art Spiegelman, nel quale il fumettista americano recupera i ricordi del padre ex-detenuto ad Auschwitz (Mauschwitz nel memoriale) mediante una serie di interviste registrate. Nel suo piccolo, anche Valzer con mia madre da ragazza è un atto di post-memoria, attraverso il quale Tuena recupera frammenti dell’infanzia della genitrice, e della propria, e così facendo recupera la terra d’origine della famiglia materna, quell’Istria che oggi sta in Croazia. E così inevitabilmente – come spesso accade nello scrittore romano emigrato a Milano – la storia personale s’intreccia con quella collettiva (così è per esempio, a leggere tra le righe, in Tutti i sognatori), le compagne di classe ebree nel liceo di Fiume alludono a tutta la complicata tragedia della frontiera orientale, e all’altra, ben più ampia, della Shoah. Tuena, onestamente, non cerca di ricomporre il tutto in forma romanzesca, riempiendo i buchi; anche nelle sue opere maggiori, l’atto del ricordo, anche in forma post-memoriale, non nasconde le falle, i vuoti documentali, le amnesie, i buchi neri (basti leggere Le variazioni Reinach per rendersene conto). E questo rientra completamente nella definizione della post-memory come originariamente formulata da Marianne Hirsch, perché anche gli squarci nell’arazzo tessuto della memoria devono restare lì, a ricordarci che non è possibile rammentare tutto, e che certe volte di intere storie restano poche righe e talvolta una sola foto in bianco e nero. Insomma, questa piccola opera dell’autore di Ultimo parallelo e La voce della sibilla getta luce su tutta la sua produzione, e induce a sospettare che dietro ogni atto di memoria ci sia inevitabilmente una perdita, qualcosa o qualcuno o qualche luogo che non si può più raggiungere, inghiottito dal vortice inarrestabile del tempo. (Colgo l’occasione per esortare qualche editore di buona volontà a tradurre The Generation of Postmemory: Writing and Visual Culture After the Holocaust di Marianne Hirsch, ancora riservato a quei lettori italiani che non hanno problemi con l’inglese. Ma si sa, questo è il paese dall’amnesia facile, figurarsi se interessa un ragionamento sui meccanismi della memoria). L'articolo Filippo Tuena / La memoria sul palcoscenico proviene da Pulp Magazine.
Alessandro Gianetti / Bartleby e il giardino condominiale
Nel continuo andirivieni tra luoghi e storie che caratterizza l’immaginario di chi scrive a cavallo di almeno due luoghi tra loro distanti – come, ad esempio, nel caso di Alessandro Gianetti, la nativa Firenze e Siviglia, città d’elezione – può capitare che un luogo sia associato a determinate narrazioni, escludendone altre, percepite come più vicine all’altro polo della propria biografia. Si potrebbe così ipotizzare che La ragazza andalusa (già recensito su “Pulp Magazine”) raccogliesse qualcosa della sensualità, a dire il vero un po’ stereotipata, della città spagnola, mentre Firenze si attesti su quella “lentezza delle tartarughe” inclusa nel titolo di questo nuovo libro. Se questo è per certi versi incontrovertibile, il riferimento alle tartarughe del titolo richiama anche uno dei paradossi di Zenone: Achille non potrà mai raggiungere la tartaruga, così come lo scrittore (eroico o meno) che rivendichi molteplici appartenenze non potrà mai trovare precisa localizzazione, né raccontare con esattezza cosa succeda in uno dei due, o più poli, della sua traiettoria biografica e letteraria. Accade quindi che L’imbattibile lentezza delle tartarughe sia ambientata in una Firenze popolare, tra Rifredi e Novoli, raccontata con dovizia di particolari, ma i suoi contorni siano a tratti sfumati e si possano così apparentare a quelle di tante altre periferie industriali, in primo luogo italiane, dove potrebbe egualmente accadere quel che accade al protagonista del romanzo breve, Davide Risatti. Un’ambizione all’esemplarità, se non anche all’universalità, del racconto-apologo non può che ricordare il Bartleby melvilliano, capolavoro della narrativa breve ottocentesca e, dopo letture come quelle di Gianni Celati, punto di riferimento anche per un atto interpretativo, prima ancora che un uso, politico della letteratura. A differenza di Bartleby, Davide Risatti è stato licenziato, ma non ha, in principio, nulla in contrario all’essere riassunto e reintegrato nel tessuto socioeconomico dal quale è stato espulso. Nel frattempo, però, non disdegna la sua condizione di inoperoso: vi si installa comodamente, così come vorrebbe godersi, condividendolo con la propria tartaruga Perpetua, un giardino nelle pertinenze – o meglio, in quelle che Davide, diversamente dagli altri condomini e dall’amministratore, ritiene essere le pertinenze – del suo appartamento. Inizia così una bega condominiale, che tuttavia rivela presto alcuni risvolti metafisici, ma non per questo, come si diceva, meno politici. Anzi, sono proprio le coloriture chiaramente ispirate al dibattito politico italiano ed europeo di qualche anno fa – indicando, con ogni probabilità, un lungo lavoro preparatorio del testo, peraltro assai limato – a impreziosire il testo. C’è, ad esempio, un giornalista e insieme opinion leader come Girolamo Rovescio, che potrebbe essere identificato con vari giornalisti che sono saliti alla ribalta negli ultimi decenni, battendo, in particolare, sui tasti del civismo e del qualunquismo “anti-casta”; c’è, soprattutto, il reddito universale di cittadinanza che – pur nella confusione ideologica di un dibattito che mescola Karl Marx e l’idolo dei neoliberisti Friedrich von Hayek, passando per l’improbabile, e per questo assai gustosa, riattualizzazione di un Thomas Paine – che si inserisce e per certi versi acuisce il declino delle forze sociali anticapitaliste, rappresentate nel testo da un sindacalista metalmeccanico fortunatamente fuor di macchietta come l’Airaldi. Con ogni probabilità, non è questo il centro della narrazione – di fatto sfuggente, in un romanzo breve all’apparenza molto compatto e che in realtà lascia spazio alle brevi deposizioni dei singoli personaggi, incaricate di rimarcare la polifonia del testo – ma è senza dubbio questo preciso contesto a risignificare e aumentare il distacco di Davide dai modelli consolidati del lavoro e della vita associata. In questo senso, non è accidentale che la piccola impresa eterodossa di Davide riguardante il suo giardino si scontri con un sotterraneo intrigo famigliare – depotenziandone, così, certe possibili valenze metafisiche e riaffermando l’ineluttabilità di quella stessa dimensione provinciale e non di rado narcisistica che ha trionfato con il cosiddetto “crollo delle ideologie”.       L'articolo Alessandro Gianetti / Bartleby e il giardino condominiale proviene da Pulp Magazine.
Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole
Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta. Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi. Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione. E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.       L'articolo Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole proviene da Pulp Magazine.
Mauro Baldrati / Quando la resistenza è noir
Chi ha detto che ogni possibilità di resistenza e di sovversione sia irrimediabilmente finita nel dimenticatoio? Se sei un “Bologna cowboy”, ciò che è iniziato, paradigmaticamente, nel 1977 continua – cambiando nomi, personaggi e forme – a imperversare a quasi cinquant’anni di distanza, e continuerà a farlo ancora per un secolo, fino al 2117. Non si può negare che il guizzo in avanti sia notevole; ha una dimensione epica, anzi, sostenuta dal riferimento ai cowboy nel titolo e a una copertina dove spicca, per quanto improbabile, un novello samurai. Se, in funzione di questa scarsa verosimiglianza, una certa ironia resta dietro l’angolo, occorre comunque dare atto alle possibilità di un noir politico e – ma soltanto in seconda battuta – distopico di poter proporre scenari diversi da quelli che restano, viceversa, piuttosto fragili, e non poco disperati, se consegnati ai territori della saggistica politica o della letteratura per così dire “alta”. Tornando al romanzo, sono due reincarnazioni di Orazio Coclite a rappresentare questo epos, nel testo: Toni Rinaldi, nel 1977, e Nicodemo Rossi, nel 2047. In entrambi i casi, è l’epica dell’“uno contro tutti”, sostenuto anche da tanta cinematografia hollywoodiana nei suoi vari generi, come ad esempio l’hard boiled (citato esplicitamente nel testo, pur con un piccolo refuso). Sconfiggere Cobra Nero – costola neonazista dei servizi segreti italiani (a carattere fittizio, pur evidenziando chiare connessioni con il contesto di violenza politica della fine degli anni Settanta) – oppure sfuggire al “regime della Morte che cammina” – futuro governo ultrareazionario e post-atomico che imperverserà sull’Italia del 2047 (scenario, anche qui, non del tutto improbabile) – implica una resistenza attiva e dinamica che trova nell’uso della violenza non tanto la giustificazione per farsi “lotta armata”, ma una ragione di sopravvivenza entro logiche altrimenti annichilenti. In realtà, le vesti eroiche sono consegnate, in entrambe le narrazioni, a una coppia, più che a un singolo individuo, ma la “cellula della resistenza” si spezza sempre, e in modo tragico. Emblematico è il caso dell’inganno e delusione provocati da Anneke Meinhof, nella storia di Toni Rinaldi, ribaltando e infine facendo cadere quello che avrebbe potuto essere un forte legame intertestuale con uno splendido film di Margarethe von Trotta, Anni di piombo (1981) – basato, anziché sui personaggi di Ulrike e Anneke Meinhof, sulla storia delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin (in ogni caso sempre legata alla RAF tedesca). Un’alternativa a questa epica dell’individuo dal respiro maggiormente collettivo si trova verso la fine del libro, quando viene evocata un’iniziativa (anche qui con l’uso di una violenza che non è mai né idealizzata né, per altri versi, demonizzata) di autonomi, punk e anarchici, in una borgata romana, contro l’avanzata di quello spaccio di eroina che, sul finire degli anni Settanta, avrebbe costituito una spina nei fianchi dei movimenti tanto letale, pur se su altri livelli, quanto la repressione di Stato. Uno spostamento anche geografico, questo, che rende conto della “bolognesità” della narrazione – così com’è dichiarata anche nel titolo – in modo critico e non solo banalmente nostalgico, accostandovi altre realtà politiche attive nel Settantasette e illuminando per contro l’esistenza, a Bologna, di una rete di intrighi politici e polizieschi che fa da contraltare alle immagini più diffuse – mitizzanti, talvolta, ai limiti della depoliticizzazione – delle componenti sociali della città in quegli anni. Al contrario, un romanzo come quello di Baldrati – che, d’altra parte, prende le fila da un momento cruciale del Settantasette bolognese come l’omicidio di Francesco Lorusso, – non trascura mai l’orizzonte politico della narrazione. Lo fa anche nella sua componente fototestuale, rappresentata da una sessantina di immagini scattate dall’autore alla fine degli anni Settanta negli ambienti del punk e della new wave bolognese – materiale assai prezioso, che non ha nulla da invidiare a un’opera fotografica simile per tematica e per approccio come quella del fotografo Dino Ignani, a Roma, e che da sola vale il prezzo del libro. È un’opera davvero “ritrovata”, che echeggia così il topos del manoscritto ritrovato usato per introdurre le storie di Toni Rinaldi e di Nicodemo Rossi, rifrangendone ed amplificandone la portata. Ed è di questa caratura tematico-ideologica sotterranea che vuole dar conto questa nota di lettura, tralasciando forse i riferimenti più diretti a trame e personaggi che procedono spesso con l’asciuttezza, e occasionalmente con la sciattezza, “brutta, sporca e cattiva” del noir. Merita, in ogni caso, una menzione finale al dettaglio paradigmatico relativo a un personaggio, ossia il nome di Nicodemo Rossi. Se in un primo tempo il suo nome sembra rimandare al nicodemismo di un personaggio che da agente di polizia del nuovo regime reazionario e post-apocalittico si riscopre novello Winston Smith – i riferimenti orwelliani della narrazione che lo riguardano sono talora evidenti, come nel caso dell’algoritmo incaricato di una sorta di sorveglianza totalitaria ma denominato “Peace & Love” – e riesce poi ad addivenire alla propria resistenza privata, Nicodemo rimanda, etimologicamente, all’esistenza di un “vincitore tra il popolo”. O anche, con un piccolo scarto interpretativo, a quella “vittoria del popolo” che resta la speranza, sottotraccia, dei cinquant’anni che ci stanno alle spalle e del secolo circa che ci attende.       L'articolo Mauro Baldrati / Quando la resistenza è noir proviene da Pulp Magazine.