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Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole
Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta. Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi. Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione. E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.       L'articolo Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole proviene da Pulp Magazine.
Mauro Baldrati / Quando la resistenza è noir
Chi ha detto che ogni possibilità di resistenza e di sovversione sia irrimediabilmente finita nel dimenticatoio? Se sei un “Bologna cowboy”, ciò che è iniziato, paradigmaticamente, nel 1977 continua – cambiando nomi, personaggi e forme – a imperversare a quasi cinquant’anni di distanza, e continuerà a farlo ancora per un secolo, fino al 2117. Non si può negare che il guizzo in avanti sia notevole; ha una dimensione epica, anzi, sostenuta dal riferimento ai cowboy nel titolo e a una copertina dove spicca, per quanto improbabile, un novello samurai. Se, in funzione di questa scarsa verosimiglianza, una certa ironia resta dietro l’angolo, occorre comunque dare atto alle possibilità di un noir politico e – ma soltanto in seconda battuta – distopico di poter proporre scenari diversi da quelli che restano, viceversa, piuttosto fragili, e non poco disperati, se consegnati ai territori della saggistica politica o della letteratura per così dire “alta”. Tornando al romanzo, sono due reincarnazioni di Orazio Coclite a rappresentare questo epos, nel testo: Toni Rinaldi, nel 1977, e Nicodemo Rossi, nel 2047. In entrambi i casi, è l’epica dell’“uno contro tutti”, sostenuto anche da tanta cinematografia hollywoodiana nei suoi vari generi, come ad esempio l’hard boiled (citato esplicitamente nel testo, pur con un piccolo refuso). Sconfiggere Cobra Nero – costola neonazista dei servizi segreti italiani (a carattere fittizio, pur evidenziando chiare connessioni con il contesto di violenza politica della fine degli anni Settanta) – oppure sfuggire al “regime della Morte che cammina” – futuro governo ultrareazionario e post-atomico che imperverserà sull’Italia del 2047 (scenario, anche qui, non del tutto improbabile) – implica una resistenza attiva e dinamica che trova nell’uso della violenza non tanto la giustificazione per farsi “lotta armata”, ma una ragione di sopravvivenza entro logiche altrimenti annichilenti. In realtà, le vesti eroiche sono consegnate, in entrambe le narrazioni, a una coppia, più che a un singolo individuo, ma la “cellula della resistenza” si spezza sempre, e in modo tragico. Emblematico è il caso dell’inganno e delusione provocati da Anneke Meinhof, nella storia di Toni Rinaldi, ribaltando e infine facendo cadere quello che avrebbe potuto essere un forte legame intertestuale con uno splendido film di Margarethe von Trotta, Anni di piombo (1981) – basato, anziché sui personaggi di Ulrike e Anneke Meinhof, sulla storia delle sorelle Christiane e Gudrun Ensslin (in ogni caso sempre legata alla RAF tedesca). Un’alternativa a questa epica dell’individuo dal respiro maggiormente collettivo si trova verso la fine del libro, quando viene evocata un’iniziativa (anche qui con l’uso di una violenza che non è mai né idealizzata né, per altri versi, demonizzata) di autonomi, punk e anarchici, in una borgata romana, contro l’avanzata di quello spaccio di eroina che, sul finire degli anni Settanta, avrebbe costituito una spina nei fianchi dei movimenti tanto letale, pur se su altri livelli, quanto la repressione di Stato. Uno spostamento anche geografico, questo, che rende conto della “bolognesità” della narrazione – così com’è dichiarata anche nel titolo – in modo critico e non solo banalmente nostalgico, accostandovi altre realtà politiche attive nel Settantasette e illuminando per contro l’esistenza, a Bologna, di una rete di intrighi politici e polizieschi che fa da contraltare alle immagini più diffuse – mitizzanti, talvolta, ai limiti della depoliticizzazione – delle componenti sociali della città in quegli anni. Al contrario, un romanzo come quello di Baldrati – che, d’altra parte, prende le fila da un momento cruciale del Settantasette bolognese come l’omicidio di Francesco Lorusso, – non trascura mai l’orizzonte politico della narrazione. Lo fa anche nella sua componente fototestuale, rappresentata da una sessantina di immagini scattate dall’autore alla fine degli anni Settanta negli ambienti del punk e della new wave bolognese – materiale assai prezioso, che non ha nulla da invidiare a un’opera fotografica simile per tematica e per approccio come quella del fotografo Dino Ignani, a Roma, e che da sola vale il prezzo del libro. È un’opera davvero “ritrovata”, che echeggia così il topos del manoscritto ritrovato usato per introdurre le storie di Toni Rinaldi e di Nicodemo Rossi, rifrangendone ed amplificandone la portata. Ed è di questa caratura tematico-ideologica sotterranea che vuole dar conto questa nota di lettura, tralasciando forse i riferimenti più diretti a trame e personaggi che procedono spesso con l’asciuttezza, e occasionalmente con la sciattezza, “brutta, sporca e cattiva” del noir. Merita, in ogni caso, una menzione finale al dettaglio paradigmatico relativo a un personaggio, ossia il nome di Nicodemo Rossi. Se in un primo tempo il suo nome sembra rimandare al nicodemismo di un personaggio che da agente di polizia del nuovo regime reazionario e post-apocalittico si riscopre novello Winston Smith – i riferimenti orwelliani della narrazione che lo riguardano sono talora evidenti, come nel caso dell’algoritmo incaricato di una sorta di sorveglianza totalitaria ma denominato “Peace & Love” – e riesce poi ad addivenire alla propria resistenza privata, Nicodemo rimanda, etimologicamente, all’esistenza di un “vincitore tra il popolo”. O anche, con un piccolo scarto interpretativo, a quella “vittoria del popolo” che resta la speranza, sottotraccia, dei cinquant’anni che ci stanno alle spalle e del secolo circa che ci attende.       L'articolo Mauro Baldrati / Quando la resistenza è noir proviene da Pulp Magazine.
Giorgia Protti / Il diavolo al pronto soccorso
Una giovane dottoressa, medico internista che lavora nel Pronto soccorso di una grande città, timbra l’uscita ed esce dall’atrio attraverso la porta a vetri. Pochi minuti dopo la mezzanotte. Un deserto illuminato dalle luci al neon. È fuori, nel freddo e nella nebbia. Fa freddo, lei tira la cerniera del cappotto e camminando rasente il muro vuole raggiungere velocemente la macchina. Le chiavi in mano scattano come fossero un coltello a serramanico, “tiepida sensazione di sicurezza”. Al centro del cono di luce di un lampione “lui” sta seduto sul cofano di una macchina, il viso in ombra rischiarato da una sigaretta che sfrigola, jeans e maglietta dei Rolling Stones da cui fuoriescono due enormi ali membranose. “Chi sei?” “Chi ti sembro?” Lei pensa: allucinazione. O troppi pasti saltati. Raggiunge la macchina e si chiude dentro. È l’inizio del romanzo, è l’inizio del dialogo con quello che sembra la visione del male interno (o interiore, come si dice) ma che improvvisamente appare ben visibile, concreto e parlante, esterno al corpo della protagonista. Dottoressa come Giorgia Protti, in quel di Torino, autrice al suo esordio con questo romanzo che mette in scena prima di tutto la vera vita tra le pareti di un Pronto soccorso, là dove le esistenze di medici, infermieri e pazienti s’incrociano nel bel mezzo delle emergenze sanitarie e psichiche: al centro di drammi estremi e umanità rimbalzate tra sventure, salvezze e condanne, e comicità impreviste. Vicende quasi sempre insane e sinistre raccontate come rapporti sul campo da chi sa – e lo sa bene – cosa significhi tramortirsi in turni infiniti nel luogo di prima assistenza che spesso si trasforma in luogo infernale governato dal caos. Lucifero, con il suo piano, irrompe nel quotidiano tormentato della dottoressa, verso cui ogni capitolo guarda con precisione quasi forsennata, più che pertinente considerato il luogo delle operazioni. Il trambusto che governa i locali del Pronto soccorso, le stanchezze e le intersecazioni umane sono terreno fertilissimo all’intervento del diavolo, figura che saggia continuamente i limiti umani della dottoressa, e l’emotività che spesso sconfina in un dialogo che di mostruoso ha ben poco: “Mi sembri un cazzone.” Risposta: “Mi hanno chiamato in tanti modi, ma tu sei la prima che mi dà del cazzone”. Nell’ematologico e corporale susseguirsi del tempo viene a galla quel che Lucifero, figura sempre più tragicamente “umana”, scopre le carte del suo volere ponendo di fronte perdizione eterna e salvezza personale. Protti ha parlato – in intervista – di cruda realtà della carne e di odori (chi ha frequentato gli ambienti sanitari, da operatore e da paziente, sa bene di che si tratta) in cui irrompe il sovrannaturale perché in fondo “la materia e lo spirito non sono poi così lontani”. La lucidità con cui la scrittrice ha affrontato la storia brutale dei reparti di emergenza rasenta allo stesso modo momenti metafisici e realismo “chirurgico”: è proprio questo a sorprendere in un libro dove l’angoscioso trattamento dei disastri corporali avvicina il prodigio fuori sesto ma non per questo meno reale. Lucifero ha spesso il bon ton di certa oratoria venata qua e là di perfidia minacciosa. È verso la fine del romanzo che la storia guidata dalla presenza diabolica giunge in un territorio insondabile e irrompe la potenza fantastica del male. Se i destini in questo romanzo sono sghembi, per come l’autrice agisce pur nella sua scrittura ordinata e documentarista, la domanda bruciante che il lettore più attento e scaltrito è: cosa ci influenza di più, la vita dello scrittore o il suo romanzo? Il destino è in mano a chi pratica la letteratura o è quest’ultima a tenere strette le briglie del nostro mondo confuso? Probabile che solo il diavolo lo sappia, come ampiamente dimostra in La giusta distanza dal male. Al netto della sua (finta) affabilità lanciata come un dardo – tiepido sì ma non per questo meno mordente – alla dottoressa immersa nell’altrui e propria sofferenza. L'articolo Giorgia Protti / Il diavolo al pronto soccorso proviene da Pulp Magazine.
Alcide Pierantozzi / La realtà smagliata
Alcide ha quarant’anni, prende sette pastiglie al giorno, a volte dorme ancora con la madre. La sua malattia mentale lo costringe a un esilio forzato da Milano nella sua terra d’origine, l’Abruzzo. Alcide va in spiaggia, va in palestra, va dai medici. Alcide scrive. E firma un’opera di una potenza assoluta, disturbante e vertiginosa, una cronaca interiore che assume i tratti di una malattia tanto personale quanto collettiva nel suo preciso situarsi al centro esatto della contemporaneità. Nel raccontare uno sbandamento dell’individuo – il suo personale, in presa diretta –, Pierantozzi si fa specchio deformante di un’epoca intera, la nostra. Lo “sbilico” diventa allora un’idea guida, una condizione esistenziale, un baratro da cui si osserva il mondo crollare sotto il proprio stesso peso. Con una scrittura straziante e lucidissima, l’autore costruisce un’opera in cui la realtà si sfalda e si confonde con l’allucinazione. La trama non è lineare; anzi, si disfa come un tessuto mal cucito, seguendo i ritmi interiori di un protagonista che vive in perenne scivolamento. Il lettore non è accompagnato, ma precipitato in una spirale psicotica in cui ogni certezza percettiva viene erosa. È un’esperienza estetica e sensoriale prima che narrativa. Il linguaggio è il vero cuore pulsante del libro. Non è mai semplice mezzo espressivo, ma campo di battaglia. Pierantozzi lo piega, lo frantuma, lo trasforma in un organismo vivo, irregolare, carico di tensione e invenzione. Ogni frase sembra il risultato di un’incubazione febbrile, ma anche di uno studio meticoloso e inesorabile. La sua scrittura è una magia complessa, una forma di alchimia letteraria dove si incontrano il lirismo della rovina e la brutalità del presente. Con le parole, Pierantozzi ha un rapporto ossessivo e corporeo, quasi liturgico. Compila quadernetti pieni di appunti, annotazioni, esperimenti. Tenta di domare il linguaggio, di plasmarlo secondo una grammatica personale e vertiginosa. Anche se dichiara, senza indulgenze, che la letteratura non è salvezza, il suo gesto di scrittura è profondamente eroico: cercare una forma dentro il caos, senza illudersi che basti a guarire, ma senza mai smettere di lottare. Lo sbilico è anche, e soprattutto, una riflessione lancinante sulla malattia dell’identità. Il soggetto narrante non ha contorni definiti, non evolve secondo coordinate psicologiche canoniche: è una coscienza spezzata, in continua dissoluzione. L’identità diventa un campo di battaglia tra ciò che si è, ciò che si crede di essere e ciò che gli altri proiettano. In questo scenario, la follia non è altro che una lucidità al rovescio, una consapevolezza estrema di essere fuori asse rispetto a un mondo altrettanto disallineato. C’è in questa narrazione un dolore quasi mistico, una vertigine dell’essere che si fa carne attraverso parole rotte, risonanti. La realtà non è un dato oggettivo, bensì un costrutto soggettivo, instabile, spesso delirante. Pierantozzi radicalizza questa idea, facendo della percezione stessa un campo instabile, un cortocircuito continuo tra visione e allucinazione. Il lettore è costretto a rinunciare a ogni certezza, a ogni logica narrativa: e proprio in questo abbandono risiede la verità più profonda dell’opera. Lo sbilico non è un libro da “capire”, ma da attraversare, come si attraversa un sogno febbrile o una seduta di ipnosi. È un’opera che inquieta e incanta, che sfida le strutture canoniche per proporre un linguaggio che è esso stesso oggetto di crisi. Un libro che non racconta soltanto la malattia, ma la performa: nel corpo del testo, nella mente del lettore, nell’anima del tempo che viviamo. Opera-mondo, opera-corpo, opera-crisi: Lo sbilico è un esperimento radicale e necessario, uno di quei testi che non si dimenticano perché lasciano ferite aperte, domande irrisolte, e un silenzio denso da abitare. Con Lo sbilico, Pierantozzi dà voce a un’umanità sull’orlo del collasso, restituendole non la salvezza, ma la possibilità di un grido.     L'articolo Alcide Pierantozzi / La realtà smagliata proviene da Pulp Magazine.
Enzo Fileno Carabba / Quanti diluvi?
Sul finire del Quattrocento Leonardo da Vinci pose un’obiezione di tipo scientifico al Diluvio raccontato nella Genesi. Se è stato universale, a un certo punto la superficie esterna della Terra è stata tutta acqua: e poi quell’acqua che fine ha fatto? Come e dove si è ritratta? Questo era il primo problema, che anche altri dopo Leonardo si posero, mentre il secondo era: da dove sono arrivate le acque che hanno completamente sommerso la Terra? La pioggia da sola non poteva essere bastata. Sulla scia della “dubitazione” di Leonardo si situano le varie teorie sulla formazione della Terra elaborate nel Seicento. Una delle più celebri è quella del reverendo Thomas Burnet che scrisse Telluris theoria sacra: una geologia biblica, nella quale cerca di spiegare gli eventi sacri in modo scientifico, razionale, mediante processi naturali come la pioggia e l’evaporazione. Burnet era uno di quelli che non credeva che l’innalzamento del livello dell’acqua degli oceani potesse da solo spiegare il Diluvio universale, e scrisse a un contemporaneo: “Posso credere che il mondo potrebbe essere inondato dalle acque che vi si trovano quanto al fatto che un uomo possa essere sommerso dalla propria saliva” (la citazione è riportata da S. Jay Gould, Il piccolo sporco pianeta del reverendo Thomas, in Questa idea della vita. La sfida di Charles Darwin, Codice edizioni, Torino 2015, 1° ed. 1977). Oggi i tentativi di spiegare scientificamente il Diluvio universale possono far sorridere eppure sono il segno non solo di contesti e condizionamenti religiosi e culturali del passato, ma anche di quanto certe storie siano necessarie tanto che si fa di tutto per non buttarle via: di quanto siano archetipiche e moderne, e si possano continuamente raccontare da capo, come ha fatto Enzo Fileno Carabba proprio con una delle storie bibliche (e non solo) più note, quella del Diluvio e dell’arca di Noè. Anche perché, come scrive l’autore-narratore, “Se siamo qui, è grazie a individui in cui non crediamo più”. Carabba racconta la storia come un romanzo, diviso in tre parti: Fuori, ovvero fuori dall’arca, prima del Diluvio; Dentro, e poi di nuovo Fuori, dopo il ritorno alla terraferma. Un racconto di distruzione e di morte ma anche di rinascita, con una guest star unica, un seicentenario di nome Noè. Un uomo grottesco che progetta di navigare su un mare inesistente e che affronta con preoccupazioni tutto sommato leggere la solitudine dell’essere stato prescelto, l’attesa di una catastrofe e l’impresa per tutti insensata che ha messo in atto. Non è facile scegliere come agire quando si è l’unico ad aver sentito una voce potente e ad aver visto un angelo, e non si sa neanche esattamente perché arrivi il Diluvio (Dio come sempre è di poche parole). La principale virtù di Noè era “la capacità di concentrarsi su un punto fino a farlo diventare gigantesco” e tutto ruota intorno a quel punto, a quello spazio visivo, anche le relazioni non sempre facili con i figli (che qui sono quattro e non tre come nel racconto biblico) e il rapporto con la moglie Naama (menzionata un’unica volta nella Genesi, ma che nel romanzo invece assurge a ruolo di coprotagonista), l’unica a non giudicarlo mai. Carabba prova a raccontare i 40 giorni e le 40 notti dentro l’arca, dei quali la Bibbia nulla dice. La convivenza forzata al chiuso, senza luce, mentre sette metri di acqua sommergono le cime più alte della Terra – compreso il Paradiso terrestre – determinò comportamenti non convenzionali di uomini e animali, nonché una grande confusione, perché gli animali non erano ancora stati classificati dagli umani e a Noè (“un uomo del fuori, non del dentro”) capitava anche di usare nomi diversi per le stesse creature. Carabba scombina e allarga il racconto originale. La storia ufficiale dice che sull’arca non salirono cuccioli di nessuna specie: vogliamo credere che sia perché “i piccoli in certe situazioni diventano velocemente adulti”. Noè proibì gli accoppiamenti? Probabilmente perché sapeva bene che “certi divieti aumentano l’interesse per l’atto vietato”. Il problema era che gli uomini si potevano spaventare con la questione della colpa, della loro tracotanza, della necessaria punizione, ma queste cose agli animali non si potevano raccontare. Il Fuori, però, la prima parte del libro, resta la più riuscita, anche perché animata dal problema centrale di tutta la storia, il più misterioso: la questione della selezione. Noè viene scelto, e a sua volta deve scegliere chi salvare e far salire sull’arca. Nella finzione di Carabba accade però che questi animali, che chiaramente l’autore ammira come li ammira lo stesso Noè, un po’ si scelgano da soli, iniziando a mettersi in fila per entrare nell’arca ben prima degli uomini, per lo più stolti e scettici. L’unica cosa che Noè fa, oltre a costruire l’arca, è cercare di riconoscere le manifestazioni del male presenti sulla Terra, così da non portarsele in mare. Gli animali diversamente dagli umani preveggono la pioggia, o forse semplicemente hanno una idea del futuro più marcata rispetto agli umani. Credono nella salvezza insensata su un improbabile barcone di legno e nel ritorno a terra dopo il lavaggio del mondo. “Forse dopotutto il messaggio dell’arca per noi è questo: è proprio a bordo del ridicolo e dell’assurdo che ci salveremo. Perché i molti che hanno provato a salvarsi con troppa serietà sono finiti nella tristezza, che quando sale alla gola è anche peggio del diluvio di acqua”. In questo romanzo ironico e profondo, tutto animale e umano e dove la divinità è assente, il futuro di Noè (e di noi lettori) si dispiega inaspettato sul finale, sulla linea dell’orizzonte di quel nuovo mondo finalmente tornato asciutto e assolato. Leonardo da Vinci si chiedeva: come hanno fatto a scendere le acque, se non c’era un solo punto della Terra dove potessero scendere? Le prime due risposte che gli vengono in mente, e che gli sembrano improbabili, sono che l’acqua sia evaporata tutta oppure che sia accaduto un miracolo (che è poi quel che si dice nella Genesi: Dio fece soffiare un vento sulla Terra e le acque si abbassarono). Leonardo propende per una terza ipotesi, che in fondo è la stessa alla quale arriverà il naturalista Georges Cuvier, partendo da tutt’altre osservazioni, quasi tre secoli dopo: il Diluvio non è stato universale, ci sono stati tanti diluvi di dimensione piccola e locale. Non è una affermazione di poco conto ed è molto di più che una spiegazione empirica e razionale: significa la speranza che altri si siano salvati, che le salvezze e le arche siano state più di una e parallele, ciascuna a insaputa dell’altra. O che esistano luoghi che non sono stati sommersi dal male, dalla rabbia, dalle acque; e soprattutto, la speranza che possano essere esistite più persone che come Noè tutte si sono concentrate su un singolo punto – mettere in salvo gli altri – sino a farlo diventare gigantesco.   L'articolo Enzo Fileno Carabba / Quanti diluvi? proviene da Pulp Magazine.
Alice Spano / Ribaltare le aspettative sull’amore
I Quanti, sono la collana Einaudi di libri in solo formato ebook da leggere in un’unica seduta. Una versione aggiornata dei mitici Millelire: saggi, reportage, guide ma anche romanzi brevissimi come questo di Alice Spano. La protagonista, una donna italiana trentacinquenne, decide di lasciare Roma e un lavoro noioso in televisione per trascorrere un mese da sola nella capitale tedesca: uno spazio orizzontale e indifferente, dove può vivere in una sorta di invisibilità, smarrendosi tra corpi sconosciuti e paesaggi urbani.La svolta arriva quando scopre il Silverfuture, un bar queer, e lì incontra la Tigre: donna magnetica, vitale, indipendente, con cui nasce una storia d’amore intensa, carnale e trasformatrice. Il loro rapporto attraversa euforia, quotidianità e crisi, con momenti di fusione e incomprensione, desiderio e distanza. La protagonista si trasferisce stabilmente a Berlino per vivere con la Tigre, rinuncia al lavoro in Italia e cambia stile di vita. Le due donne condividono esplorazioni, litigi, sogni – anche quello di avere un figlio. Ma Spano ribalta le attese narrative legate all’amore. Nel cuore del libro, la scena di sesso tra due donne anziane — osservata sullo schermo dalla protagonista e dalla Tigre durante la proiezione di un film — è sorprendente e commovente, perché mostra una forma d’amore e desiderio che raramente trova spazio nella narrativa contemporanea. È un momento di rivelazione: la protagonista proietta sé stessa e la Tigre nel futuro, vedendo nel corpo vecchio l’immagine di un amore che dura nel tempo, che resiste, che evolve. Eppure, quel futuro non si compie. Il grande gesto narrativo è proprio questo: raccontare l’inizio di un amore senza raccontarne la fine. Spano ci guida attraverso tutte le fasi dell’innamoramento — il desiderio, la scoperta, la quotidianità, la paura, il compromesso — ma quando ci aspettiamo una conclusione netta, una separazione drammatica o un epilogo chiarificatore, tutto si sfuma. La relazione tra la protagonista e la Tigre non finisce con uno scontro o una decisione definitiva, ma con il naturale allontanarsi della vita. Il vero congedo avviene nel silenzio, nella distanza, in quel vuoto temporale che separa l’ultima scena vissuta insieme dal primo incontro casuale, anni dopo, in un bar romano. Così, Silverfuture diventa un romanzo sull’impossibilità di sapere quando un amore finisce, anche se sappiamo esattamente dove è cominciato. L’amore, come Berlino nel racconto, è uno spazio orizzontale in cui si può camminare a lungo senza sapere se si è arrivati davvero da qualche parte. L'articolo Alice Spano / Ribaltare le aspettative sull’amore proviene da Pulp Magazine.
Ernesto Franco / Spiccioli di vita
Nico Orengo raccontava negli Spiccioli di Montale come il Mediterraneo, prima del distopico ma realissimo presente, avesse i suoi eroi, le sue farfalle, i legnetti per chi volesse fare gli acquarelli – uscivano dalle scatole Winsor & Newton come figli delle giostre per diventare nipotini della Torre Saracena. A nord della Corsica c’è la frontiera, e chi vuole può prendersi un po’ di riposo alla Mortola dove i giardini Hanbury ricordano ancora le infanzie. È nel bel mezzo di panorami mnemonici che viaggia lo sguardo di Ernesto Franco in Sono stato, dove la moltitudine del proprio io dispiega le ali, in quest’ultimo viaggio dove c’è Genova “scintillante”, il cui mare accoglie – ha sempre accolto – lo scrittore dentro la sua barchetta dalla vela-bandiera genovese: come nell’evocativo disegno di Lorenzo Mattotti che adorna la copertina di Sono stato. Franco non ha paura dei flutti, né di Proust quando spesso fa capolino fra un suono di cicale e una tenera solitudine. Franco è, senza dubbio, tutti i personaggi che si ricombinano nelle pagine come fossero – e sono – particelle dell’universo intero. Né ricordi né “spiccioli” autobiografici, ma frammenti di vita vera: tanto che l’autore può dire in principio: «Sono stato, per un minuto, un’ora, un giorno, un anno uno di questi personaggi». Però poco Montale, e molto Caproni. Poiché dalla collina di Castelletto è più facile scendere giù in Piazza Alimonda, alle spalle di Piazzale Kennedy fra cariche di polizia, un ragazzo morto, e – risalendo verso nord – le torture alla caserma di Bolzaneto. Franco, come molti altri, è stato uno di quelli che in pieno G8 nel 2001 è rimasto ipnotizzato davanti ai container lungo le vie. La domanda a quel punto arriva puntuta: «Come se lo sono potuti permettere?» Sono parecchi i segni che l’uomo del ’56 offre al nostro sguardo coetaneo, dai travestimenti salgariani in piena infanzia, fatti di carta (ma guarda la coincidenza), al Natale del ’77 dove il dono più acclamato è una “pietra” fatta di hashish da cui viene confezionato un cannone di gran successo soprattutto presso i nonni. Dal velista che combatte le onde montanti di libeccio che affondarono la London Valour contro la diga foranea, al ragazzino “specializzato” nel gioco del dottore quando di fronte a lui si piazzano glutei trionfanti offerti all’inevitabile iniezione. E i primi amori… e le decine di fascicoli impilati per comporre enciclopedie… gli odori indimenticabili della carta e della colla… cowboy e 007… la magia della Rollei e della Vespa 50 cc. E sempre Genova, ottobre 1970, al centro del fango. Il ragazzo degli anni Settanta ha la propria colonna sonora nel risorgente Montale, in Pasolini e nel Che, in Martin Luther, John, Bob, Moro… il mondo in discussione partendo da Moby-Dick: capitano, marinaio, ma soprattutto figlio di un padre che lo educava (come il mio) dentro la “stanza degli attrezzi”. Il poeta Ernesto Franco     L'articolo Ernesto Franco / Spiccioli di vita proviene da Pulp Magazine.
Gipi / Amore e altre imperfezioni
Non so se Gipi abbia un editor geniale che gli ha tagliato e cucito il suo primo romanzo nei punti giusti, con i ritmi giusti e con le parole giuste o se l’indubbia genialità del “fumettaro” sia anche una genialità squisitamente letteraria: di fatto questa graphic novel senza disegni, è davvero un romanzo e funzione egregiamente. Devo poi confessare che ero partito prevenuto: ancora questo Gipi, ok è bravo, è intelligente, è pure simpatico (le sue interviste mi fanno sbellicare); sui fumetti ovviamente non si discute, poi anche il cinema (i suoi film però non mi hanno mai entusiasmato – opinione personale discutibilissima – li metterei un gradino sotto il resto delle sue creazioni); ora vuol fare anche il romanziere, ma via! Sarà la solita cosa abborracciata tipo i libri dei cantautori: bravissimi a scrivere canzoni, ma un romanzo è un’altra cosa, perfino Bob Dylan con Tarantula… mah! Invece comincio, quasi per dovere, e mi piglia subito, e poi un capitolo tira l’altro: i personaggi ci sono tutti e l’ambientazione anche – di questo non dubitavo, sono la forza dei suoi comics, ma senza disegni però, pensavo… invece no, non si sente affatto la mancanza dei disegni, lo story board uno se lo fa in testa, e questo vuol dire che la scrittura funziona alla grande. Un’alternanza di comico e tragico, di cinismo e di sentimento (e di sentimento mascherato da cinismo), un uso non gratuito e perfettamente centrato del turpiloquio (estremo) e della pornografia (estrema). Insomma, se pregustavo con certa sottile perfidia una delusione, una ciambella senza buco, invece la ciambella è riuscita eccome, e il buco stava proprio dove doveva stare e nemmeno un’ombra di delusione: il miglior Gipi di sempre anche senza disegni. Chi conosce l’artista pisano ritroverà qui molti dei suoi topoi narrativi: siamo in provincia, come sempre, Gipi non ce lo dice di preciso dove, parla di un’isola. Io, chissà perché, mi immagino l’Elba o comunque un’isola dell’arcipelago toscano anche se il testo evita ogni esplicito regionalismo anche linguistico; i personaggi sono ragazzi sui venticinque anni, bravi ragazzi tutto sommato. C’è il Biondino, bello, atletico, che decenni di allenamento nelle arti marziali hanno trasformato in una macchina da guerra concentrata nella protezione totale del fratello minorato Aldo, ridotto a un vegetale vivente da uno sconsiderato gioco infantile per espiare la colpa del quale il primo ha rinunciato a tutto accollandosi il ruolo di eterno angelo custode del secondo; c’è Masamba, un nero dolce e gentile con un pene enorme che proprio per le sue dimensioni eccezionali non arriva mai a un’erezione completa (Masamba non si chiama davvero Masamba ma tutti lo chiamano così e lui non se la prende perché non c’è razzismo ma affetto in quel soprannome); c’è Marion, la bella barista marsigliese di cui il protagonista si innamorerà fino alla follia, così angelica, comprensiva, accogliente da risultare quasi esangue (decisamente l’universo di Gipi è un universo maschile: i personaggi femminili non vi emergono con altrettanta convinzione); infine c’è il protagonista Zaky, altezza media, intelligenza media, tutto medio tranne una fissazione: il sesso. Zaky è stato uno che si è scopato di tutto e ha scopato sempre, ma ecco che improvvisamente, dopo aver conosciuto Marion, e innamorato cotto di lei, essersela – con invidiabile facilità – portata a letto, non riuscirà più, nonostante la dolcezza e la disponibilità della ragazza, ad avere un’erezione: cuore e pene, per Zaky, non vanno in sintonia. Da qui la tragedia. Il tema della disfunzione erettile è un altro dei topoi di Gipi, tanto da aver affrontato l’argomento già in una graphic novel – La mia vita disegnata male (2015) – oltre che ad averne accennato spesso, in termini scopertamente autobiografici, in varie interviste. Il problema per Gipi è stato – a quanto se ne può supporre – temporaneo dal momento che è da anni felicemente sposato, per l’immaturo Zaky diventa invece un’ossessione fatale, insormontabile, un magma visionario nutrito dalle peggiori scene attinte dai siti pornografici più estremi, in cui gelosia, senso di inferiorità, suprematismo maschilista, brutalismo erotico, si miscelano e si confondono in fantasie deliranti che proiettano l’ignara Marion – che nonostante tutto potrebbe amarlo così com’è – nelle più sfrenate orge in cui lo dileggia e lo irride mentre viene penetrata ovunque e contemporaneamente da orde di negri dai peni ciclopici e duri come sbarre di ferro. Nel frattempo, illudendosi di recuperare così la virilità perduta, Zaky si avvelena con un uso smodato delle pasticche di una specie di surrogato del Viagra comprato su internet da siti pirata dell’Europa dell’Est e accompagnato da incomprensibili bugiardini scritti in cirillico. Si distruggerà così il fegato: meglio la morte dell’impotenza. Quello che Zaky non riesce, non riuscirà mai a capire è espresso da Gipi in una commovente metafora: un giorno su un mezzo pubblico aveva visto per caso due ragazzi abbracciati, sono due bruttoni, lei ha i denti dell’arcata superiore sproporzionatamente estroflessi, lui ha la mandibola inferiore esageratamente prognata: quando si baciano però le loro bocche coincidono alla perfezione, riunendosi in una sola la debolezza dell’uno sostiene e dissolve la debolezza dell’altro. Questa fragilità complementare che è forse il fondamento dell’amore, solo un altro fragile la potrà vivere davvero, Masamba e la sua timida ragazza che lo vuole e lo accetta così com’è, gli altri, né l’ossessivo Zaki, né il rigido Biondino, né, in fondo, la delusa Marion ci riusciranno, e si allontaneranno, si perderanno, ognuno inguaribilmente concentrato nel proprio male, ognuno precipitato nel solitario scivolone del proprio destino.         L'articolo Gipi / Amore e altre imperfezioni proviene da Pulp Magazine.
Ferdinando Cotugno / Non c’è vita senza la consapevolezza di stare vivendo
Il tema della narrazione della crisi climatica, di come non riusciamo a scriverne se non nei saggi o nelle pubblicazioni scientifiche e specialistiche, di come non faccia parte dell’immaginario degli scrittori (e quindi di quello dei lettori) ci tormenta da un po’. Ferdinando Cotugno, con Tempo di ritorno, ci dà una risposta originale e uno spunto quasi rivoluzionario. Andiamo a vedere cosa abbiamo inquinato, sporcato, rovinato, distrutto noi, e la nostra famiglia, i nostri nonni, magari i nostri bisnonni. Non bisogna andare troppo lontano e tutto sommato neanche troppo indietro nel tempo: l’accelerazione dell’industria e del capitalismo, lo sfruttamento delle fonti fossili, l’invenzione della plastica e la sua invasione, non richiedono complesse ricerche e soprattutto riguardano le famiglie da cui veniamo. Sono pezzi di storia che abbiamo sentito raccontare da bambini e che hanno lasciato tracce facili da riconoscere. Cotugno ritorna a Bagnoli, la città in cui è nato e cresciuto, in cui vivono ancora i suoi genitori, in cui sono rimasti alcuni suoi conoscenti, oltre ai ricordi più o meno gradevoli, più o meno determinanti. La storia della sua famiglia è la storia dell’Italsider, la grande acciaieria che subito dopo la Seconda guerra mondiale è stata costruita alle porte di Napoli, sul mare. Il nonno faceva il gruista, e se tutto fosse andato come si pensava anche il padre sarebbe stato un operaio dell’Italsider. C’era una sorta di ereditarietà del posto di lavoro, durata però un tempo brevissimo. Nel mondo che cambia in fretta e in cui le fabbriche diventano obsolete e sconvenienti nel giro di pochi decenni, il posto garantito per il padre di Ferdinando non c’è più. Gli stessi capitali che avevano creato e alimentato l’Italsider si ritirano e abbandonano la fabbrica. Resta la struttura, cemento e acciaio che marciscono, la natura incurante che si riprende i luoghi, li ricopre, li nasconde. Dove prima c’era la fabbrica ora ci sono arbusti, erbacce, cespugli. Una natura selvatica. Che copre e forse con il tempo smaltirà l’inquinamento che è il vero lascito dell’Italsider: sedimenti, veleni parzialmente dissolti, polveri, malattie. Il padre di Cotugno, perso il posto che non aveva mai avuto all’Italsider, si converte camionista: trasportatore di gas, consumatore di diesel. Sempre sfruttamento di fonti fossili, sempre inquinamento prodotto per necessità di sopravvivenza. Non diversamente dalla maggior parte delle famiglie del sud, del nord e del centro, la famiglia di Cotugno ha dato il suo contributo alla produzione di CO2, alla contaminazione delle falde acquifere e all’accelerazione del cambiamento climatico. L’ha fatto senza alcuna consapevolezza, l’ha fatto perché era quello che si faceva, perché bisogna campare, perché si lavora dove il lavoro c’è. E sicuramente è lo stesso che è successo a molti, a quasi tutti: nasci in un certo punto della storia, hai il tuo numero limitato di scelte, segui la corrente, fai quello che puoi, magari ti accorgi solo alla fine che avresti dovuto o potuto fare altro. Magari non arrivi neppure ad accorgertene, perché muori prima, muori appena hai smesso di lavorare, come il nonno di Ferdinando. E allora quando sono responsabili, quelli che non sapevano, quelli che non avevano scelta? Non è una domanda a cui si può rispondere. È la stessa domanda che ci si fa dopo le guerre. Ma non è trovare i responsabili, che ci serve. Ci serve piuttosto capire che la storia è un processo, non lineare e a velocità variabile, uno svolgimento, un riavvolgimento qualche volta. In cui ognuno gioca la sua parte, e di cui ognuno può cercare di essere consapevole. Diventare sostenibili, ciascuno di noi, vuol dire essere consapevoli dell’impatto che hanno avuto quelli prima di noi, dell’impatto che abbiamo noi, dell’insieme di cui facciamo parte. Essere consapevoli non è la soluzione dei problemi ambientali, ma è il primo passo. Spesso il più difficile da fare. Anche per Ferdinando il primo passo, affrontare i silenzi della famiglia, chiedere ai genitori chi sono, cosa hanno fatto della loro vita, perché lo hanno fatto, è difficile. Li diamo per scontati, i nostri genitori. Diamo per buone le leggende di famiglia, e spesso ci accorgiamo troppo tardi di tutto quello che non sappiamo. Invece Ferdinando i suoi genitori li interroga, con pazienza e delicatezza e un affetto che cresce man mano che li conosce per davvero. Ne interpreta le reticenze, si sorprende di certe rivelazioni, finalmente capisce. Fosse anche solo per questo sarebbe valsa la pena di andare e tornare da Bagnoli, dalla Milano dove ora Cotugno vive. Ma grazie a quelle domande, alla tenacia e anche alla tenerezza, alla comprensione con cui si avvicina ai genitori e al suo passato, ora noi lettori abbiamo un racconto dell’industrializzazione selvaggia e della voracità capitalista. Della necessità di un altro punto di vista e del bisogno di cura e dedizione che il mondo intorno a noi ci manifesta. Delle persone che già hanno scelto di riparare i danni. Abbiamo un racconto autentico, sincero e onesto. Abbiamo un romanzo, soprattutto. Una storia con un inizio e una fine, con dei protagonisti e dei personaggi minori. Da leggere anche per sapere come va a finire. Da chiudere con il dispiacere che si prova quando un libro è finito.         L'articolo Ferdinando Cotugno / Non c’è vita senza la consapevolezza di stare vivendo proviene da Pulp Magazine.
Roberto Saporito / Un topo in piscina
Sono anni che seguo le peregrinazioni di Roberto Saporito nei desolati territori dell’editoria italiana. Ogni romanzo che pubblica esce per i tipi di un editore diverso; non so se sia una scelta dello schivo scrittore piemontese oppure se sia una necessità. Quel che noto è che la bibliografia del nostro è sempre più lunga, e spunta sempre un altro editore disposto a pubblicarlo, e questo attesta l’esistenza di una piccola ma affezionata comunità di lettori che lo seguono. Credo che il motivo di tale affetto sia che per un verso Saporito ha una notevole coerenza di riferimenti letterari, musicali, geografici – potrei addirittura tirare fuori la formuletta e descriverlo come un superstite degli anni Ottanta che non si rassegna ad abbandonare il versante americano di quel decennio. Però va anche detto che ogni volta il nostro imprime una torsione inattesa alla sua trama preferita (quasi sempre avente per protagonista un uomo solitario e disincantato un po’ alla deriva, un po’ prigioniero delle sue fissazioni), e alla fine ci spiazza. Polimeri riesce a fare questo con l’ultimissima riga, per cui vi sconsiglio di andare a spiare l’ultima pagina. Anche perché stavolta abbiamo a che fare decisamente con un thriller: la vicenda di un attore italo-americano di successo che viene chiamato da un regista italiano di successo a girare un film d’autore a New York, il remake a stelle e strisce de La grande bellezza. Se permettete già questa è un’idea geniale, tenuto conto che a sua volta La grande bellezza è una sorta di rifacimento scaltro di Roma di Fellini. Ma l’attore e io narrante (di parte del romanzo) deve anche girare una serie TV dove – invece dell’intellettuale disincantato stile Gep Gambardella – veste i panni “del poliziotto della omicidi italo-americano, un po’ sgarrupato e decadente”. L’interpretazione gli viene benissimo perché il protagonista di Polimeri è in effetti tendenzialmente sgarrupato e decadente, annoiato da quel che fa, con alle spalle un matrimonio fallito e una figlia con la quale non riesce a entrare in relazione, e forse neanche lo vuole più di tanto. Ma quando s’insedia nel villone hollywoodiano che gli ha trovato l’agente, l’attore scopre che qualcuno gli vuole decisamente male, tanto da fargli trovare un topo morto in piscina e un cartello con esplicite minacce che troveranno la loro attuazione con una serie di episodi sempre più inquietanti. Attenzione però: a parte la costruzione del meccanismo di suspense, dal momento del ritrovamento del roditore defunto Saporito comincia a inanellare una serie di citazioni cinematografiche più o meno evidenti, come se immaginando una storia a Hollywood fosse inevitabile proiettarla sullo schermo della nostra memoria filmica. Anni fa Saporito pubblicò un romanzo intitolato Come in un film francese, e capisco che non volesse pubblicare la sua ultima fatica sotto il titolo Come in un film americano, ma alla radice è questo che ci propone, in capitoli brevi montati come sequenze di un film, con improvvisi cambi di inquadratura (e punti di vista), con la solita fotografia nitida e accurata che ben conosciamo. E con qualche colpo di scena ben piazzato. E non dimenticate: gli attori recitano. Sempre.   L'articolo Roberto Saporito / Un topo in piscina proviene da Pulp Magazine.