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Enshittification: il progressivo degrado delle piattaforme digitali
Immagine in evidenza: rielaborazione della copertina di Enshittification di Cory Doctorow Da alcuni anni conosciamo il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”: un modello economico basato sull’estrazione, controllo e vendita dei dati personali raccolti sulle piattaforme tecnologiche. Lo ha teorizzato Shoshana Zuboff nel 2019 in un libro necessario per comprendere come Meta, Amazon, Google, Apple e gli altri colossi tech abbiano costruito un potere senza precedenti, capace di influenzare non solo il mercato e i comportamenti degli utenti, ma anche, tramite il lobbying, le azioni dei decisori pubblici di tutto il mondo. L’idea che queste grandi piattaforme abbiano sviluppato una sorta di potere sulle persone tramite la sorveglianza commerciale, com’è stata teorizzata da Zuboff, è però un mito che è il momento di sfatare. Così almeno la pensa Cory Doctorow, giornalista e scrittore canadese che negli ultimi anni ha pubblicato due libri particolarmente illuminanti sul tema.  In “Come distruggere il capitalismo della sorveglianza”, uscito nel 2024 ed edito da Mimesis, Doctorow spiega come molti critici abbiano ceduto a quella che il professore del College of Liberal Arts and Human Science Lee Vinsel ha definito “criti-hype”: l’abitudine di criticare le affermazioni degli avversari senza prima verificarne la veridicità, contribuendo così involontariamente a confermare la loro stessa narrazione. In questo caso, in soldoni, il mito da contestare è proprio quello di poter “controllare” le persone per vendergli pubblicità.  “Penso che l’ipotesi del capitalismo della sorveglianza sia profondamente sbagliata, perché rigetta il fatto che le aziende ci controllino attraverso il monopolio, e non attraverso la mente”, spiega Doctorow a Guerre di Rete. Il giornalista fa l’esempio di uno dei più famosi CEO delle Big Tech, Mark Zuckerberg: “A maggio, Zuckerberg ha rivelato agli investitori che intende recuperare le decine di miliardi che sta spendendo nell’AI usandola per creare pubblicità in grado di aggirare le nostre capacità critiche, e quindi convincere chiunque ad acquistare qualsiasi cosa. Una sorta di controllo mentale basato sull’AI e affittato agli inserzionisti”.  Effettivamente, viste le perdite che caratterizzano il settore dell’intelligenza artificiale – e nel caso di Meta visto anche il fallimento di quel progetto chiamato metaverso, ormai così lontano da non essere più ricordato da nessuno – è notevole che Zuckerberg sia ancora in grado di ispirare fiducia negli investitori. E di vendergli l’idea di essere un mago che, con cappello in testa e bacchetta magica in mano, è in grado di ipnotizzarci tutti. “Né Rasputin [il mistico russo, cui erano attribuito poteri persuasivi, ndr] né il progetto MK-Ultra [un progetto della CIA per manipolare gli stati mentali negli interrogatori, ndr] hanno mai veramente perfezionato il potere mentale, erano dei bugiardi che mentivano a sé stessi o agli altri. O entrambe le cose”, dice Doctorow. “D’altronde, ogni venditore di tecnologia pubblicitaria che incontri un dirigente pubblicitario sfonda una porta aperta: gli inserzionisti vogliono disperatamente credere che tu possa controllare la mente delle persone”.  IL CARO VECCHIO MONOPOLIO Alla radice delle azioni predatorie delle grandi piattaforme, però, non ci sarebbe il controllo mentale, bensì le pratiche monopolistiche, combinate con la riduzione della qualità dei servizi per i miliardi di utenti che li usano. Quest’ultimo è il concetto di enshittification, coniato dallo stesso Doctorow e che dà il nome al suo saggio appena uscito negli Stati Uniti. Un processo che vede le piattaforme digitali, che inizialmente offrono un servizio di ottimo livello, peggiorare gradualmente per diventare, alla fine, una schifezza (la traduzione di shit è escremento, per usare un eufemismo). “All’inizio la piattaforma è vantaggiosa per i suoi utenti finali, ma allo stesso tempo trova il modo di vincolarli”, spiega il giornalista facendo l’esempio di Google, anche se il processo di cui parla si riferisce a quasi tutte le grandi piattaforme. Il motore di ricerca ha inizialmente ridotto al minimo la pubblicità e investito in ingegneria per offrire risultati di altissima qualità. Poi ha iniziato a “comprarsi la strada verso il predominio” –sostiene Doctorow – grazie ad accordi che hanno imposto la sua casella di ricerca in ogni servizio o prodotto possibile. “In questo modo, a prescindere dal browser, dal sistema operativo o dall’operatore telefonico utilizzato, le persone finivano per avere sempre Google come impostazione predefinita”. Una strategia con cui, secondo Doctorow, l’azienda di Mountain View ha acquisito qua e là società di grandi dimensioni per assicurarsi che nessuno avesse un motore di ricerca che non fosse il suo. Per Doctorow è la fase uno: offrire vantaggi agli utenti, ma legandoli in modo quasi invisibile al proprio ecosistema. Un’idea di quale sia il passaggio successivo l’abbiamo avuta assistendo proprio a ciò che è successo, non troppo tempo fa, al motore di ricerca stesso: “Le cose peggiorano perché la piattaforma comincia a sfruttare gli utenti finali per attrarre e arricchire i clienti aziendali, che per Google sono inserzionisti ed editori web. Una porzione sempre maggiore di una pagina dei risultati del motore di ricerca è dedicata agli annunci, contrassegnati con etichette sempre più sottili, piccole e grigie. Così Google utilizza i suo i dati di sorveglianza commerciale per indirizzare gli annunci”, spiega Doctorow.  Nel momento in cui anche i clienti aziendali rimangono intrappolati nella piattaforma, come prima lo erano stati gli utenti, la loro dipendenza da Google è talmente elevata che abbandonarla diventa un rischio esistenziale. “Si parla molto del potere monopolistico di Google, che deriva dalla sua posizione dominante come venditore. Penso però che sia più correttamente un monopsonio”. Monopoli e monopsoni “In senso stretto e tecnico, un monopolio è un mercato con un unico venditore e un monopsonio è un mercato con un unico acquirente”, spiega nel suo libro Doctorow. “Ma nel linguaggio colloquiale dell’economia e dell’antitrust, monopolista e monopsonista si riferiscono ad aziende con potere di mercato, principalmente il potere di fissare i prezzi. Formalmente, i monopolisti di oggi sono in realtà oligopolisti e i nostri monopsonisti sono oligopsonisti (cioè membri di un cartello che condividono il potere di mercato)”. E ancora scrive: “Le piattaforme aspirano sia al monopolio che al monopsonio. Dopo tutto, le piattaforme sono ”mercati bilaterali” che fungono da intermediari tra acquirenti e venditori. Inoltre, la teoria antitrust basata sul benessere dei consumatori è molto più tollerante nei confronti dei comportamenti monopsonistici, in cui i costi vengono ridotti sfruttando lavoratori e fornitori, rispetto ai comportamenti monopolistici, in cui i prezzi vengono aumentati. In linea di massima, quando le aziende utilizzano il loro potere di mercato per abbassare i prezzi, possono farlo senza temere ritorsioni normative. Pertanto, le piattaforme preferiscono spremere i propri clienti commerciali e aumentano i prezzi solo quando sono diventate davvero troppo grandi per essere perseguite”. Così facendo, l’evoluzione del motore di ricerca si è bloccata e il servizio ha poi iniziato a peggiorare, sostiene l’autore. “A un certo punto, nel 2019, più del 90% delle persone usava Google per cercare tutto. Nessun utente poteva più diventare un nuovo utente dell’azienda e quindi non avevano più un modo facile per crescere. Di conseguenza hanno ridotto la precisione delle risposte, costringendo gli utenti a cercare due o più volte prima di ottenerne una decente, raddoppiando il numero di query e di annunci”. A rendere nota questa decisione aziendale è stata, lo scorso anno, la pubblicazione di alcuni documenti interni durante un processo in cui Google era imputata. Sui banchi di un tribunale della Virginia una giudice ha stabilito che l’azienda creata da Larry Page e Sergey Brin ha abusato di alcune parti della sua tecnologia pubblicitaria per dominare il mercato degli annunci, una delle sue principali fonti di guadagno (nel 2024, più di 30 miliardi di dollari a livello mondiale). “E così arriviamo al Google incasinato di oggi, dove ogni query restituisce un cumulo di spazzatura di intelligenza artificiale, cinque risultati a pagamento taggati con la parola ‘ad’ (pubblicità) in un carattere minuscolo e grigio su sfondo bianco. Che a loro volta sono link di spam che rimandano ad altra spazzatura SEO”, aggiunge Doctorow facendo riferimento a quei contenuti creati a misura di motore di ricerca e privi in realtà di qualunque valore informativo. Eppure, nonostante tutte queste criticità, continuiamo a usare un motore di ricerca del genere perché siamo intrappolati nei suoi meccanismi. Il quadro non è dei migliori. “Una montagna di shit”, le cui radici  – afferma lo studioso – vanno cercate nella distruzione di quei meccanismi di disciplina che una volta esistevano nel capitalismo. Ma quali sarebbero questi lacci che tenevano a bada le grandi aziende? La concorrenza di mercato – ormai eliminata dalle politiche che negli ultimi 40 anni hanno favorito i monopoli; una regolamentazione efficace – mentre oggi ci ritroviamo con leggi e norme inadeguate o dannose, come ad esempio la restrizione dei meccanismi di interoperabilità indotta dall’introduzione di leggi sul copyright; e infine il potere dei lavoratori – anche questo in caduta libera a seguito dell’ondata di licenziamenti nel settore tecnologico. La “enshittification“, secondo Doctorow, è un destino che dovevamo veder arrivare, soprattutto perché giunge a valle di scelte politiche precise: “Non sono le scelte di consumo, ma quelle politiche a creare mostri come i CEO delle Big Tech, in grado di distruggere le nostre vite online perché portatori di pratiche commerciali predatorie, ingannevoli, sleali”. Non basta insomma odiare i giocatori e il gioco, bisogna anche ricordare che degli arbitri disonesti hanno truccato la partita, convincendo i governi di tutto il mondo ad abbracciare specifiche politiche. Quando si parla di tecnologia e delle sue implicazioni a breve, medio e lungo periodo è difficile abbracciare una visione possibilista e positiva. Un po’ come succede per le lotte per la giustizia sociale e per il clima: il muro che ci si ritrova davanti sembra invalicabile. Una grossa difficoltà che, secondo Doctorow, è data dalla presenza di monopoli e monopsoni.  Ma la reazione alle attuali crisi politiche globali mostra che un cambiamento è possibile. “Negli ultimi anni c’è stata un’azione di regolamentazione della tecnologia superiore a quella dei 40 anni precedenti”, spiega Doctorow. Non solo: la seconda elezione di Donald Trump si starebbe rivelando una benedizione sotto mentite spoglie, sia per il clima sia per il digitale. “Ha acceso un fuoco sotto i leader di altri Paesi ex alleati, stimolando grandi e ambiziosi programmi per sfuggire al monopolio statunitense. Pensiamo ai dazi sui pannelli solari cinesi imposti da Trump nella prima amministrazione, per esempio. Una misura che ha spinto i produttori di Pechino a inondare i paesi del Sud del mondo con i loro pannelli economici, a tal punto che intere regioni si sono convertite all’energia solare”, afferma Doctorow, che considera questa strada percorribile anche per ottenere una tecnologia più libera. PER NON VEDERE TUTTO NERO Sfuggire alle Big Tech americane non dovrebbe significare semplicemente  rifugiarsi in un servizio alternativo (mail, cloud, social media, ecc.), anche perché il processo non è così semplice. “Non si copia e incolla la vita delle persone: le email, i file, i documenti custoditi nei cloud di Microsoft, Apple o Google. Nessun ministero, azienda o individuo lo farà”. Motivo per cui, secondo Doctorow, Eurostack è una possibile alternativa, ma che ha ancora tanta strada da fare. Eurostack è un’iniziativa europea nata recentemente in risposta all’esigenza di costruire una sovranità digitale del Vecchio continente, indipendente dalle aziende tecnologiche straniere (specialmente USA). Coinvolge attivisti digitali, comunità open source, istituzioni europee e alcuni politici. “L’Ue potrebbe ordinare alle grandi aziende tech statunitensi di creare strumenti di esportazione, così che gli europei possano trasferire facilmente i propri dati in Eurostack, ma possiamo già immaginare come andrà a finire. Quando l’Ue ha approvato il Digital Markets Act, Apple ha minacciato di smettere di vendere iPhone in Europa, e ha presentato 18 ricorsi legali”, ricorda Doctorow.  Se la risposta di un’azienda statunitense all’introduzione di una direttiva europea è questa, la soluzione allora non può essere che radicale. “L’unica via possibile è abrogare l’articolo 6 della direttiva sul diritto d’autore: l’Ue dovrebbe rendere legale il reverse engineering di siti web e app statunitensi in modo che gli europei possano estrarre i propri dati e trasferirli in Eurostack. Un modello aperto, sovrano, rispettoso della privacy, dei diritti dei lavoratori e dei consumatori”. 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La “Generazione Z” all’assalto del mondo
Dal Nepal al Marocco, dal Madagascar all’Indonesia, molte delle proteste antigovernative di queste settimane sono guidate dalla Generazione Z. Hanno solo telefoni cellulari, slogan tratti dalla cultura pop e una rabbia di fronte a un futuro negato. Da Kathmandu ad Antananarivo, dalle piazze del Maghreb ai boulevard di Lima, dal Ghana al Togo lo stesso vento di collera soffia tra i ragazzi del Sud globale: è la Gen Z. Lo stesso nome, gli stessi codici, gli stessi slogan circolano da un Paese all’altro. Come se un’intera generazione avesse trovato il suo linguaggio comune, la ribellione è uno dei privilegi della gioventù. L’onda lunga delle proteste, che aveva già acceso il Kenya, il Nepal, l’Indonesia e le Filippine, si è allargata al Madagascar, al Marocco e al Perù. In Algeria è stato creato un account Gen Z 213 (213 prefisso telefonico dell’Algeria) per un appello alla protesta generale. Una geografia della mobilitazione che attraversa tre continenti. Senza leader né partiti, questi ragazzi tra i 15 e i 25 anni si muovono armati soltanto di smartphone, di slogan presi dalla cultura popolare e di una rabbia contro un futuro negato. Secondo un report di Marketing Analytics Africa, la Generazione Z rappresenta oggi quasi il 31% della popolazione africana, vale a dire oltre 428 milioni di giovani in tutto il continente. Non ci sono vertici, leader, strutture ufficiali. Le strategie si condividono online: tecniche di blocco, parole d’ordine, consigli pratici. Tutto viaggia attraverso TikTok, Instagram, Discord, Telegram. È il mondo del “mobile-first”, che non significa svicolare dalla realtà, ma reinventare forme di vita collettiva, sperimentare altre economie, altri modi di intendere la convivenza. La mancanza di leadership centralizzata non significa affatto mancanza di coordinamento; le reti orizzontali sono un’altra forma di organizzazione, basata sull’uguaglianza e l’autogestione. Una modalità che spesso disorienta. Piuttosto che un handicap, la leadership reticolare delle proteste della Generazione Z ha contribuito nel tempo alla resilienza del movimento e la sua capacità di riemergere di fronte alla repressione. Ma leggere queste proteste soltanto come un moto di ribellione sarebbe riduttivo. Piuttosto, sono il segno di un cambio di paradigma. Nel rifiuto di questi ragazzi di parole come “modernizzazione”, “transizione democratica” o “sviluppo” c’è un gesto di profonda rottura con un’intera narrativa. Ed è qui che entra in gioco un concetto che negli ultimi anni ha trovato un eco crescente: Afrotopia. Coniato dall’economista e intellettuale senegalese Felwine Sarr è un invito radicale: smettere di guardarsi allo specchio con le lenti dell’Occidente (progresso, emergenza, povertà) e iniziare a produrre immaginari propri. In questo senso, tutte le proteste della Gen Z nel mondo sembrano incarnare proprio quell’orizzonte perché chiedono un futuro diverso e non temono di immaginarlo. Le proteste di questi giorni e di quelli a venire non sono il segno di un’ennesima “emergenza africana”, ma piuttosto il risultato di un laboratorio di trasformazione più profondo, niente affatto indolore. Madagascar. Su poco meno di 32 milioni di abitanti, oltre 8,6 milioni sono giovani tra i 15 e i 28 anni: quasi il 27% della popolazione. La disoccupazione giovanile è ufficialmente bassa, ma la realtà è fatta di sotto-occupazione, di piccoli lavori in nero poco retribuiti e senza contratto. La sofferenza di questi giovani ha fatto scoppiare la protesta su rivendicazioni basilari: la cronica carenza di acqua, l’elettricità che manca anche per interi giorni, la libertà d’espressione. “Miala Rajoelina!“ (“Rajoelina vattene!”) è diventato virale sui social malgasci; i ragazzi ce l’hanno con l’ex sindaco di Antananarivo e magnate dei media, Andry Rajoelina, 51 anni, arrivato per la prima volta al potere nel 2009.Le loro proteste e i 22 morti lasciati finora sul campo lo hanno costretto a sciogliere il suo governo, mentre in tv accusa i ragazzi di aver orchestrato addirittura un colpo di stato. Kenya. Su una popolazione di circa 57,5 milioni, i giovani tra i 15 e i 28 anni sono stimati tra 13,8 e 14,7 milioni, quindi un quarto della popolazione. La disoccupazione giovanile ufficiale (15-24 anni) si aggira sul 12%. Durante le proteste di questa estate, nate anche dall’opposizione alla nuova Legge Finanziaria e dal caro-vita, il governo ha provato a spegnere le telecamere e persino a minacciare lo “switch-off” di internet, ma i video hanno continuato a girare su TikTok, e Instagram: la protesta è rimasta in campo, e con lei una generazione che ha imparato a farsi media di sé stessa. La gioventù kenyana chiede un cambio di rotta drastico al governo del Presidente William Ruto. Undici milioni di voti: sono quelli che i politici keniani dovranno conquistarsi per le prossime elezioni del 2027, quando gli aventi diritto al voto aumenteranno appunto di 11 milioni: sono tutti giovani tra i 19 e i 29 anni. Nessuno potrà ignorarli. Marocco. Con i suoi 38,5 milioni di abitanti, il Paese conta circa 9 milioni di under-28. Qui il dato che pesa è il tasso di disoccupazione giovanile: oltre 37%, tra i più alti della regione. Quattro milioni e trecentomila marocchini senza lavoro, un laureato su cinque non ha uno stipendio e nelle aree urbane i giovani disoccupati sono il 30%. “Stadi sì, ma dove sono gli ospedali?” è lo slogan. Otto donne morte di parto in un ospedale pubblico di Agadir fanno da detonatore. Incendi, spari e, alla fine, i primi morti. Mercoledì 1° ottobre, nella città di Leqliaâ, vicino ad Agadir due giovani sono stati uccisi dalla gendarmeria, i feriti sono oltre 400. La violenza della repressione però non ferma i movimenti. Anzi, spesso li amplifica. Le cariche della polizia vengono filmate e rilanciate in diretta sui social, trasformandosi in materiale virale Le proteste sono tuttora in corso in molte città del Paese. ”Chiediamo lo scioglimento dell’attuale governo per la mancata tutela dei diritti costituzionali dei marocchini e per soddisfare le loro richieste sociali” dichiara il movimento della Gen Z 212 marocchina rivolgendosi direttamente a re Mohammed VI. Nepal. In un Paese di quasi 30 milioni di abitanti, i giovani sono quasi 8 milioni, pari al 27% del totale. Anche qui la disoccupazione giovanile è alta: 21%. La scintilla è stata il bando dei social network e così il mese scorso migliaia di ragazzi sono scesi in piazza, bruciando il palazzo del Parlamento e costringendo alle dimissioni il governo. Il Paese s’incendia: il palazzo presidenziale e altri edifici ufficiali sono stati dati alle fiamme. Il bilancio è terribile: circa 100 morti e migliaia di feriti, ma la pressione dal basso spinge il potere a cedere. I giovani non si sono limitati a protestare, ma sono stati coinvolti nelle trattative con i militari e il presidente Ram Chandra Paudel, che hanno portato alla decisione di nominare primo ministro transitorio un ex giudice come Sushila Karki. Indonesia. Il gigante del Sud-est asiatico, 285 milioni di abitanti, oltre 63 milioni di giovani under-28: il 22% della popolazione, una massa elettorale che può decidere governi. Qui la disoccupazione giovanile è attorno al 13%. Nelle presidenziali 2024, la Gen-Z è stata corteggiata a colpi di TikTok, K-pop e gaming: una politica “visual”, fatta di meme e video brevi. Quest’estate un manifesto virale, “17+8 Demands”, circolava tra personalità pubbliche e collettivi studenteschi. I titoli della piattaforma sono chiari: caro vita, corruzione, diritti del lavoro, Questi esempi ci raccontano che le comunità della Gen Z si osservano e si “clonano” nei format di protesta, nei canali (Discord, TikTok ecc.), perfino nei simboli pop, come sta accadendo con la bandiera del manga giapponese One Piece: il classico Jolly Roger, cioè il teschio con le ossa incrociate, reinterpretato nell’universo narrativo della serie, è diventato il simbolo di una costellazione che urla “navighiamo da soli, fuori dalle regole del potere”. E l’Africa è parte attiva di questa costellazione. Forse la Gen Z potrebbe essere la prima generazione a pensare alla rivolta su scala globale.   Africa Rivista
Abuso dei social e socializzazione degli abusi
Fatti Il 21 agosto scorso una ragazza di 23 anni denuncia di aver subito un commento sessista da un operatore, mentre la stessa si preparava per una TAC. È in corso un’indagine interna da parte del Policlinico Umberto I di Roma, per far luce su quanto accaduto. Modi La suddetta […] L'articolo Abuso dei social e socializzazione degli abusi su Contropiano.
Effetti speciali del “mondo libero”
E’ accaduto anche a noi, che semplicemente avevano pubblicato il suo video... ***** Se posti l’ultima ballata di Roger Waters, in un nanosecondo arriva la mannaia della censura con la faccia da hamburger. 𝒮𝓊ɱ𝓊𝒹 non è una semplice ballata, è un inno eterno alla Resistenza e alla perseveranza nella lotta. […] L'articolo Effetti speciali del “mondo libero” su Contropiano.
Assemblea verso il Social Summit – 27 agosto – Roma
Per costruire insieme l’alternativa al “Defence Summit”, ci vediamo il 27 agosto, ore 18:00 al Polo Civico dell’Esquilino in via Galilei, 57, Roma. L’11 settembre si terrà all’Auditorium di Roma il “Defence Summit”. Un’iniziativa promossa da “Il Sole 24 Continua a leggere L'articolo Assemblea verso il Social Summit – 27 agosto – Roma proviene da ATTAC Italia.
Quando l’intelligenza artificiale diventa strumento di abuso
L’Intelligenza artificiale – IA  è la nuova frontiera della pedofilia e pedopornografia: chi abusa si rivolge a chatbot, sistemi che interagiscono online con i minori, con l’obiettivo di avere un contatto più intimo. Non solo: è possibile “spogliare” i bambini (2.967 caduti in questa rete solo nella prima metà del 2025) e farli agire dentro situazioni di abuso grazie al deepfake, le immagini truffa. La denuncia è contenuta nel primo Dossier in assoluto su quest’emergenza, dal titolo “Conoscere per prevenire, dalla pedopornografia ai deepnude”, preparato dall’Associazione Meter ETS fondata e presieduta da don Fortunato Di Noto  (www.associazionemeter.org). Le foto deepfake (e i video) potenziano la produzione e aprono ad una drammatica svolta: la “normalizzazione” dell’abuso perché in fondo sono immagini virtuali, non ci sono vittime fisiche dunque non è un crimine. I deepfake sono video o immagini create utilizzando l’IA per sostituire il volto di una persona con quello di un’altra, spesso in maniera così verosimile da risultare quasi indistinguibile dalla realtà. I deepnude, invece, sono una sottocategoria di deepfake, consistente in immagini manipolate dall’IA con lo scopo di rimuovere gli indumenti di una persona, creando immagini finte e sessualmente esplicite. Ma come si produce questo materiale? “Non mancano online, si legge nel Rapporto, applicazioni e software che permettono di spogliare i bambini o creare situazioni per nulla innocenti, tutto questo partendo da fotografie magari scattate durante momenti di gioco, sport, feste. La macchina virtuale sovrappone ai vestiti un “corpo” modellato pezzo per pezzo, dando pose maliziose alterando il contesto dell’immagine. Le violazioni sono tante, dalla privacy alle manipolazioni delle immagini, provocando un danno alla reputazione del minore.” Lo sviluppo dell’IA ha permesso insomma ai pedofili il massimo risultato col minimo sforzo: mentre prima per adescare un bambino dovevano chattare di persona, adesso è possibile reperire un chatbot, cioè un programma che interagisce con i minori, usa il loro linguaggio al fine di creare una relazione empatica ed indurli allo scambio di materiale intimo. L’obiettivo è far sentire il bambino compreso, accettato, complice. In sostanza l’IA può manipolare i minori sfruttando le loro emozioni e convincendoli che in fondo “non c’è niente di male” a spogliarsi o considerare situazioni che di fatto non sono per nulla accettabili. Non solo, i chatbot cambiano link e canali continuamente, crittografano e distribuiscono in tempi rapidi il materiale. Diventa così quasi impossibile, per le forze dell’ordine, individuarli e bloccare.  L’Associazione Meter, dopo aver monitorato Telegram, Signal e Viber, ha in particolare denunciato Signal, che protegge la privacy delle conversazioni e che i pedofili e adescatori trovano perfetta, visto che la crittografia end-to-end utilizzata dall’app conferma il social come il primo ed estremo baluardo della privacy, impossibilitando qualsiasi azione di contrasto al fenomeno. In questo modo è possibile produrre e smerciare –o anche raccogliere– materiale pedopornografico in maniera pressoché indisturbata. L’Associazione, in collaborazione con il Servizio Nazionale Tutela dei Minori della Conferenza Episcopale Italiana (CEI), ha anche proposto un questionario a 989 studenti degli Istituti secondari di secondo grado, fascia d’età 14-18. Tema delle domande il deepfake e il deepnude. Il 92,2% di essi hanno interagito con un chatbot, e l’81% del campione è convinto che i deepfake possano rovinare la reputazione e la vita di una persona. Il 53,4% conosce il fenomeno deepfake e il 42,3% ha visto qualcosa che l’ha messo a disagio. Il 65,7% degli intervistati conosce il fenomeno deepnude e il 59,4% teme la loro creazione e diffusione, un allarme sempre più preoccupante per i giovani. Peggio ancora: il 52,3% dei giovani non riesce a distinguere un video deepfake da uno reale. Lascia un po’ di speranza sapere che il 90,5% ritiene diffondere un deepfake e deepnude un serio pericolo, che il 65,1% di essi denuncerebbe senza indugio.  “I risultati emersi, si legge nelle conclusioni del Rapporto, evidenziano l’importanza di un equilibrato coinvolgimento della comunità educante e del necessario sviluppo di consapevolezza e di conoscenza per mitigare i rischi. Per comunità educante, nello specifico, intendiamo la scuola e la famiglia. La scuola, infatti, rappresenta per i giovani l’ambiente di socializzazione per eccellenza, dove sviluppare le relazioni con i pari. Pertanto, la scuola deve essere coinvolta nella programmazione dell’educazione all’affettività, al rispetto dell’altro e all’educazione digitale. La famiglia ha invece la responsabilità di fornire tutti quegli elementi di sicurezza digitale attraverso la conoscenza e la partecipazione a corsi formativi educativi e valoriali, al fine di sostenerli e di supervisionare la loro crescita. La comunità è chiamata ad erogare interventi di sensibilizzazione e di formazione per promuovere lo sviluppo delle life skills anche nel mondo digitale, oltre i soft skills, con particolare riferimento all’empatia digitale che consentirà di sviluppare rispetto e contatto empatico anche attraverso i dispositivi. Sono necessari futuri studi longitudinali per individuare le variabili su cui strutturare potenziali percorsi di intervento preventivo e di contrasto di tali fenomeni, di sostegno alle vittime che subiscono gli effetti dell’uso inadeguato della rete e infine la valorizzazione delle potenzialità dell’IA utili alla società”. Qui il Rapporto: https://associazionemeter.org/wp-content/uploads/2025/06/dossier_ai_2025_web.pdf.  Giovanni Caprio
Informazione: vince ancora la TV e si fa sempre più strada la prossimità
Nonostante il drastico calo dell’interesse per le notizie, sceso da oltre il 70% a meno del 40% in un decennio, gli italiani e le italiane restano sorprendentemente legati al flusso informativo, interrogando costantemente i propri dispositivi e consultando le notizie con grande frequenza. Anche se il modo in cui fruiamo le news risulta  frammentario, rapido e spesso guidato dall’algoritmo più che dalla sostanza. E’ quanto si legge nel Digital News Report Italia, realizzato da Alessio Cornia (assitant professor a Dublin City University e già responsabile della parte italiana del Reuters Institute Digital News Report) e Marco Ferrando, Paolo Piacenza e Celeste Satta del Master in Giornalismo “Giorgio Bocca” di Torino, che mette a disposizione degli addetti ai lavori e del pubblico dati e analisi di assoluta rilevanza per comprendere i principali cambiamenti in corso nel mondo dell’informazione, sia dal punto di vista della domanda che dell’offerta. Il Report conferma che la televisione mantiene una solida leadership – oltre la metà del pubblico la considera fonte primaria, nonostante un lento declino – mentre l’online fatica a trovare slancio. “Non si tratta di rifiuto tecnologico, si sottolinea, ma di abitudini radicate nella centralità storica del mezzo televisivo. Eppure emergono eccezioni virtuose: alcune testate native digitali hanno conquistato un pubblico significativo grazie a formati agili, community profilate e strategie mirate sulle piattaforme, dimostrando che l’innovazione può ancora prosperare in un mercato maturo. Ci sono inoltre esempi di testate storiche che, rinnovandosi, continuano a soddisfare i loro lettori tradizionali e a conquistarne di nuovi”. La fiducia nell’informazione risale lievemente al 36%, ma cresce l’allarme verso influencer e figure politiche come vettori di disinformazione, un segnale che evidenzia come la sfiducia non sia diretta solo contro il giornalismo tradizionale, ma investa l’intero ecosistema informativo. Uomini, anziani e persone con livelli di reddito e istruzione elevati mostrano maggiore interesse per le notizie. Anche chi si colloca a sinistra registra un interesse particolarmente marcato. In generale, gli italiani consultano spesso le notizie: il 59% lo fa più volte al giorno, delineando un “paradosso ”: siamo ultimi per interesse ma secondi per frequenza di fruizione, dietro la Finlandia. L’81% degli italiani sono poi interessati all’informazione di prossimità con la cronaca nera in testa con il 58%. Come si diceva, la TV rimane un importante punto di riferimento per gli italiani: il 66% la usa settimanalmente e il 51% la considera la propria fonte principale. Tra i media online, i social guidano al 17%, seguiti da testate native digitali e giornalisti indipendenti al 9%, mentre i siti di quotidiani e di testate radiotelevisive si fermano all’8% e al 5%. La carta stampata è fonte principale solo per il 2%. L’Italia è l’unico tra i sei paesi in cui la TV è la fonte principale. Ultimo nell’uso dei media cartacei, il nostro Paese si distingue per il ricorso a testate native digitali e giornalisti alternativi. L’uso di fonti online, tuttavia, è inferiore a tutti gli altri mercati tranne la Francia. Podcast e chatbot di intelligenza artificiale si affermano poi come fonti aggiuntive (usati settimanalmente dal 6% e dal 4%), ma restano fonte principale per una quota trascurabile di italiani (1%). L’uso settimanale delle fonti informative mostra un calo in tutti i media: la TV scende al 65% (era all’85% nel 2017) e le fonti online al 66% (dall’81%), mentre radio e stampa cartacea registrano riduzioni ancora più marcate. Tra le fonti online, l’impiego di social media diminuisce, l’accesso tramite siti e app di emittenti radiotelevisive si riduce di un terzo rispetto al 2017 e quello dei quotidiani web quasi si dimezza, mentre le testate native digitali e giornalisti indipendenti resistono con solo un lieve calo. Facebook resta la piattaforma più usata per le notizie, ma il suo ruolo informativo è in netta flessione: se nel 2020 il 56% degli utenti lo impiegava per le news, oggi è il 36%, con un calo ancora più marcato tra gli under 35 (da 62% a 21%). Guadagnano invece terreno le piattaforme “visual”, usate ora dal 40% degli italiani per informarsi: Instagram (22%) e YouTube (20%) mantengono il primato, mentre TikTok cresce rapidamente (dal 2% al 10% in cinque anni), spinto soprattutto dagli under 35.  Solo il 5% degli italiani usa X (Twitter) per informarsi (era il 10% fino al 2018) e, a differenza degli Stati Uniti, non è particolarmente popolare tra il pubblico di destra.  Pur essendo usate dall’85% degli italiani, le app di messaggistica servono per informarsi solo al 26%. Il loro impiego per le news è in calo, con WhatsApp che scende dal 27% al 21% e Telegram dal 9% al 6% tra 2023 e 2025. Anche sui social il 52% degli utenti presta principalmente attenzione alle fonti professionali (testate e giornalisti tradizionali e nativi digitali), il 37% si affida a creator e personalità online e il 28% a contributi di persone comuni.  X, Facebook e, in parte, YouTube restano spazi dominati da fonti professionali, mentre Istagram e TikTok puntano maggiormente su creatori di contenuti e giornalisti nativi digitali. Solo il 9% degli italiani ha però pagato per accedere alle notizie online (−1 punto rispetto al 2024), il livello più basso di sempre e fanalino di coda tra i paesi di riferimento. Chi paga per le notizie online è soprattutto un giovane uomo con reddito e istruzione elevati, politicamente centrista o di centrosinistra, con alto interesse per la politica e abituato a informarsi tramite testate tradizionali online. Qui per scaricare il Digital News Report Italia 2025: https://mastergiornalismotorino.it/progetti/digital-news-report-italia/.   Giovanni Caprio
9 maggio, #ultimogiornodiGaza, per Gaza
Rilanciamo questa proposta di Paola Caridi, Claudia Durastanti, Micaela Frulli, Giuseppe Mazza, Tomaso Montanari, Francesco Pallante, Evelina Santangelo, e tanti altri che si stanno aggiungendo. Tanti che come noi si […]