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Demolizione e ricostruzione di immobili, il Consiglio di Stato fa chiarezza
Mentre si profila all’orizzonte una nuova legge che si inserisce nel filone della cosiddetta “Salva Milano” ad opera del Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini, proponiamo una sentenza del Cosniglio di Stato pubblicata qualche settimana fa che fa finalmente chiarezza, con rigore e buon senso, su cosa si debba intendere per “rigenerazione urbana” e con quali modalità si debba applicare perchè vada nel senso dell’interesse pubblico e non della speculazione privata. Una sentenza che adesso potrebbe essere del tutto superata dalle modifiche normative al Testo Unico dell’edilizia che si vogliono introdurre e che sono l’ennesima offensiva alla qualità della vita dei cittadini, oltre che della tutela dell’ambiente e del paesaggio. Il dibattito sull’urbanistica scaturito dalla proposta di legge cosiddetta “Salva Milano” (1), a sua volta scaturita dalle indagini della magistratura su controverse decisioni urbanistiche del capoluogo lombardo, ruota fondamentalmente intorno a due punti: il primo riguarda l’obbligo di un “piano particolareggiato” stilato dal Comune per la costruzione di immobili che superano le altezze e gli indici stabiliti dalla legge (2); il secondo, un corollario del primo, riguarda il titolo edilizio necessario per gli interventi, se la SCIA (Segnalazione Certificata di Inizio Attività), o il Permesso di Costruire rilasciato dal Comune. Nel caso di demolizioni e ricostruzioni di immobili ci si può avvalere della SCIA per interventi che rientrino nella categoria della “ristrutturazione urbanistica”, così come stabilita dal Testo Unico dell’Edilizia (3), mentre è obbligatorio ottenere il Permesso di Costruire in caso di “nuova costruzione” (4). Le ricadute concrete sono consistenti: nel primo caso i costruttori si avvalgono di un’autodichiarazione che sfugge a qualsiasi pianificazione pubblica e che permette una riduzione fino al 40% degli oneri di urbanizzazione, mentre per la nuova costruzione devono corrispondere al Comune gli oneri necessari a garantire le opere pubbliche e i servizi per i nuovi fruitori, secondo le destinazioni d’uso degli immobili (residenze, uffici, commerciale ecc). Un grattacielo di 25 piani sorto dalla demolizione di una palazzina di due piani è ristrutturazione o nuova costruzione? L’interpretazione del Testo Unico dell’edilizia DM 380 /2001, nelle varie versioni che si sono succedute negli anni, in verità non sempre univoca da parte dei tribunali chiamati a dirimere contenziosi, a Milano ha prodotto una vera deregulation edilizia, che rischia di estendersi a tutta la penisola, annullando decenni di battaglie per i diritti degli abitanti e per la vivibilità dei quartieri, con servizi – verde, parcheggi, scuole – adeguate al “carico urbanistico” che si inserisce in una zona abitata. Qualche settimana fa è arrivata una sentenza del Consiglio di Stato (5), che ci sembra faccia chiarezza una volta per tutte sulla questione, con una buona dose di buon senso. Pubblichiamo alcuni stralci della sintesi dal sito Icalex (6) e i passaggi principali della sentenza pubblicata da Lexambiente.it (7), a cui rimandiamo per la lettura del documento integrale. (sintesi dell’articolo sul sito Icalex) La questione nodale dell’intera vicenda ruota intorno alla nozione di ristrutturazione ricostruttiva e al tema della continuità tra il nuovo edificio e quello precedente. Il caso su cui è stato chiamato a esprimersi il CdS, riguarda un intervento di demolizione e ricostruzione di due edifici e contestuale cambio di destinazione d’uso da industriale a residenziale, mediante SCIA alternativa al permesso di costruire. Il TAR di Milano aveva accolto il ricorso presentato da alcuni condomini e dal Condominio confinante annullando il provvedimento con il quale il Comune aveva confermato la legittimità dell’intervento, con la principale motivazione che con la demolizione di un vecchio fabbricato adibito a laboratorio-deposito e la realizzazione in suo luogo di una palazzina residenziale avente due piani fuori terra ed un piano seminterrato “si fuoriesce dall’ambito della ristrutturazione edilizia e si rientra in quello della nuova costruzione quando fra il precedente edificio e quello da realizzare al suo posto non vi sia alcuna continuità, producendo il nuovo intervento un rinnovo del carico urbanistico che non presenta più alcuna correlazione con l’edificazione precedente”. La nozione di ristrutturazione edilizia (3),nel tempo ha subito un progressivo ampliamento, allontanandosi dall’obbligo originario della fedele ricostruzione che prescriveva il rispetto della sagoma, dei prospetti, del sedime e delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, rendendo più incerto il confine tra la  “ristrutturazione ricostruttiva” e la  “nuova costruzione”, rendendo sempre più urgente l’individuazione di una chiara linea di demarcazione tra le due nozioni. La sentenza del Consiglio di Stato prende una posizione netta sul tema della continuità (tra immobile demolito e immobile ricostruito) affermando che detto requisito “se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’attuale testo dell’articolo 3 del Testo Unico Edilizia” (4) ma che una esegesi rispettosa della norma non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi una sorta di credito volumetrico “che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della ristrutturazione edilizia”. Per questo motivo, il giudice amministrativo, chiarisce che rientra nella nozione di demo-ricostruzione quell’intervento che rispetti i seguenti presupposti: * avere a oggetto un unico edificio (ricade nella nuova costruzione l’accorpamento di due o più volumi in un unico edificio, ovvero il frazionamento di un unico volume originario in più edifici di nuova realizzazione) * è necessaria la contestualità temporale tra la demolizione e ricostruzione, come fasi costruttive di un unico intervento, oggetto quindi di un’unica segnalazione certificata di inizio attività alternativa al permesso di costruire; * il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, in quanto gli incrementi di volumetria sono ammissibili “nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali” Secondo il giudice amministrativo, al di là di tali ipotesi eccezionali, laddove vi sia volumetria aggiuntiva si ricade nella nuova costruzione e, quindi, devono essere qualificate come tale “tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di ‘ristrutturazione ricostruttiva’ che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare ‘neutro’ sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica”. Il superamento anche solo di uno di questi parametri, pertanto, secondo i giudici, rende la demolizione e ricostruzione di un edificio qualificabile come nuova costruzione, soggetta al regime previsto per il permesso di costruire. Il Consiglio di Stato si è pronunciato in relazione a un complesso non vincolato. Nei casi di immobili soggetti a tutela ai sensi del d.lgs. n. 42/2004, permane, invece, l’obbligo di mantenere coerenza in termini di sagoma, materiali, prospetti e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, a salvaguardia dei valori paesaggistici e culturali riconosciuti. CONSIGLIO DI STATO SEZIONE II, ESTRATTO DALLA SENTENZA DEL 4 NOVEMBRE 2025 N. 8542 (evidenziazioni di Carteinregola) (…) FATTO e DIRITTO 1. Viene impugnata, da più soggetti e in più parti, la sentenza del T.a.r. per la Lombardia che, in accoglimento del ricorso di primo grado, ha annullato il provvedimento con cui il Comune di Milano ha attestato la conformità edilizia e urbanistica dell’intervento di demolizione e ricostruzione, con cambio di destinazione da industriale a residenziale, di un edificio in via -OMISSIS-, negando tuttavia il risarcimento del danno chiesto dai ricorrenti. La decisione è censurata: dall’Ente, con l’appello principale …; dalla società proprietaria del bene oggetto dell’intervento…; dal condominio vicino all’immobile e da singoli condomini ricorrenti in primo grado… 2. I fatti di causa rilevanti, quali emergono dalle affermazioni delle parti non specificamente contestate e comunque dagli atti e documenti del giudizio, possono essere sinteticamente ricostruiti nei termini seguenti. 2.1. La società -OMISSIS- (di seguito, “la società proprietaria” o “la società”) ha acquisito l’immobile oggetto di causa per effetto del decreto del Tribunale di Milano n. -OMISSIS- 2017, emesso nell’ambito della procedura r.g.e. n. -OMISSIS- del 2013. 2.2. Il 27 luglio 2018 ha presentato al Comune di Milano la segnalazione certificata d’inizio attività (Scia) prot. -OMISSIS-avente a oggetto opere di bonifica preventiva alla demolizione e ricostruzione, rappresentando la demolizione degli edifici esistenti, secondo la procedura semplificata disciplinata dall’art. 242-bis del codice dell’ambiente approvato con d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152. Questo progetto è stato interessato da una variante, oggetto della Scia prot. -OMISSIS- del 14 dicembre 2018, relativa a opere di demolizione con l’indicazione della rimozione degli alberi esistenti. Sulla base di questi atti, l’immobile è stato demolito nel 2018. 2.3. In parallelo, il 14 giugno 2018 è stata presentata l’istanza prot. -OMISSIS- per l’attivazione dell’istruttoria preliminare facoltativa prevista dall’art. 40 del regolamento edilizio comunale (disposizione che disciplina l’attivazione di un procedimento istruttorio preliminare che consenta l’individuazione delle linee fondamentali degli elementi caratterizzanti l’intervento e la fattibilità dello stesso), rispetto alla quale – come riferito nell’istruttoria tecnica del 17 ottobre 2023 – sono stati comunicati l’esito negativo dell’istruttoria tecnica e il parere favorevole della commissione per il paesaggio. Un’analoga istanza è stata presentata il 25 agosto 2021 e ha ottenuto un esito favorevole sia sul piano tecnico, sia su quello paesaggistico. 2.4. Il 5 agosto 2022 la società ha presentato al Comune di Milano la Scia prot. -OMISSIS-, alternativa al permesso di costruire, per un intervento di demolizione e ricostruzione dell’immobile in questione, con la stessa superficie lorda di pavimento (s.l.p.) preesistente fuori sagoma e sedime. 2.5. Secondo la relazione allegata alla Scia, l’edificio preesistente, un tempo adibito a laboratorio e poi dismesso, si articolava in due corpi di fabbrica: «il primo, risalente a dopo il 1910, un semplice rettangolo costruito in muratura con grandi specchiature di serramento tipiche dei laboratori produttivi con copertura a volta tirantata ai muri portanti», con una struttura portante in mattoni pieni e legata al muro perimetrale; il secondo, posto in adiacenza al muro di confine verso un’altra proprietà, con una struttura in cemento armato gettato in opera e uno sviluppo su due piani, perché «attraverso una scala in ferro, si sale al corpo che ospitava in origine il locale mensa del laboratorio che è anche il corpo edilizio più alto, che si sviluppa fino ad una altezza di colmo di 9,50mt. e con una altezza di gronda di 7,60mt. dalla quota di “zero”». Il progetto presentato dalla società prevede, riqualificato il sito e demolito il fabbricato precedente con bonifica del terreno, la ricostruzione di un edificio a uso residenziale di due piani fuori terra, con un’altezza massima di gronda di 7,6 mt., destinato a ospitare quattro unità abitative, nonché un piano cantine con garage interrati per sette posti auto (pp. 6-7 della relazione allegata alla Scia). 2.6. Il lotto interessato dall’intervento è situato in via-OMISSIS-, nel secondo cortile interno, e condivide l’accesso dalla pubblica via con il supercondominio confinante (come spiegato nella relazione di consulenza tecnica e stima immobiliare del perito nominato dal giudice civile nell’ambito del procedimento esecutivo, «dall’androne principale, che prospetta direttamente su Via -OMISSIS-, si accede al 1° cortile e da questo attraverso un altro androne si accede al secondo cortile, che insieme ai fabbricati presenti costituiscono l’oggetto della presente procedura»). Essendo intercluso tra i palazzi del condominio, con atto notarile del 17 marzo 1972, n. -OMISSIS-di repertorio e n. -OMISSIS- di raccolta, a favore del fabbricato è stata costituita una servitù di passaggio, pedonale e carrabile, attraverso i due androni condominiali. (…) 17. Data l’importanza giuridica (ma anche economica e sociale) della questione relativa alla definizione della nozione e dell’ambito di applicazione di quella che nella prassi viene chiamata “demoricostruzione” o “ristrutturazione ricostruttiva”, tematica che trascende la vicenda per cui è causa ed è suscettibile di porsi in diverse altre situazioni, alimentando così il contenzioso dinanzi ai giudici amministrativi – come le stesse parti hanno più volte posto in luce, negli scritti e nella discussione orale – il Collegio ritiene opportuno premettere alcune considerazioni di ordine generale, comunque necessarie per l’interpretazione delle disposizioni che vengono in rilievo e per la loro applicazione al caso di specie, muovendo dall’evoluzione che ha interessato la normativa. 17.1. L’art. 31 della legge 5 agosto 1978, n. 457, che dettava norme sull’edilizia residenziale, ricomprendeva gli “interventi di ristrutturazione edilizia” tra quelli di recupero del patrimonio edilizio esistente e li caratterizzava come «rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente». Nel vigore di questa normativa, la giurisprudenza amministrativa aveva già ritenuto di poter ricondurre al concetto di “ristrutturazione” «anche la demolizione seguita dalla fedele ricostruzione del manufatto, con l’unica condizione che la riedificazione assicuri la piena conformità di sagoma, volume e superficie tra il vecchio e il nuovo manufatto, con la conseguente possibilità di pervenire, in tal modo, ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, purché la diversità sia dovuta ad interventi comprendenti il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti, e non già la realizzazione di nuovi volumi o una diversa ubicazione» (Cons. Stato, sez. IV, 22 marzo 2007, n. 1388, e precedenti ivi citati). La definizione dell’art. 31 della legge n. 457 del 1978 è confluita nel testo originario dell’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia approvato con d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, che, senza modificare il periodo (giunto immutato sino a oggi e tuttora dotato di valenza normativa), ha aggiunto delle precisazioni – secondo cui tali interventi «comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti» – e, soprattutto, ha codificato l’ulteriore ipotesi di “ristrutturazione”, consistente «nella demolizione e successiva fedele ricostruzione di un fabbricato identico, quanto a sagoma, volumi, area di sedime e caratteristiche dei materiali, a quello preesistente, fatte salve le sole innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica». In seguito, il d.lgs. 27 dicembre 2002, n. 301, ha espunto l’aggettivo “fedele” che accompagnava il sostantivo “ricostruzione” e ha eliminato il vincolo relativo all’identità di area di sedime e caratteristiche dei materiali, lasciando dunque – per tutti gli edifici, fossero o meno tutelati – i limiti della volumetria e sagoma del fabbricato preesistente. Nel vigore di questa versione della norma, la Corte costituzionale, con sentenza 23 novembre 2011, n. 309, riconducendo tra i principi in materia di “governo del territorio”, attribuita dall’art. 117, comma 3, Cost. alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni, le disposizioni legislative che definiscono le categorie degli interventi edilizi, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 1, lettera d), della l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12, «nella parte in cui esclude l’applicabilità del limite della sagoma alle ristrutturazioni edilizie mediante demolizione e ricostruzione». In seguito, l’art. 30 del d.l. 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modificazioni dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, ha nuovamente modificato l’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia, da un lato eliminando il vincolo della sagoma per gli edifici che non fossero sottoposti a vincolo ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio approvato con d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, dall’altro introducendo un’ulteriore ipotesi di “ristrutturazione”, consistente nel «ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza». Quindi, le condizioni della “demoricostruzione” sono state ulteriormente ridefinite in forza del d.l. 16 luglio 2020, n. 76, convertito con modificazioni dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, il quale ha precisato espressamente che l’immobile ricostruito può avere anche «diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche» rispetto al fabbricato preesistente e persino presentare «incrementi di volumetria» nei casi previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali. Il rispetto di sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente, nonché il divieto assoluto di prevedere incrementi di volumetria, sono stati invece ribaditi per gli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, per quelli ubicati nelle zone A del decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 (ossia gli agglomerati urbani che rivestono carattere storico, artistico o di particolare pregio ambientale), o in zone a esse assimilate dalla normativa regionale e dai piani urbanistici, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico. Le modifiche più recenti all’art. 3 del t.u. dell’edilizia sono state apportate dal d.l. 1 marzo 2022, n. 17, convertito con modificazioni dalla legge 27 aprile 2022, n. 34, che ha escluso dalla nozione di “ristrutturazione edilizia” gli interventi di demolizione e ricostruzione ovvero di ripristino di edifici crollati o demoliti che si trovino in aree sottoposte a vincolo paesaggistico per legge ai sensi dell’art. 142 del codice dei beni culturali e del paesaggio, nonché dal d.l. 17 maggio 2022, n. 50, convertito con modificazioni dalla legge 15 luglio 2022, n. 91, che ha esteso tale esclusione agli immobili tutelati per il notevole interesse pubblico che essi rivestono, ai sensi dell’art. 136, comma 1, lettere c) e d), del medesimo codice. La disposizione, nel testo attuale e comunque vigente alla data del 5 agosto 2022, quando è stata presentata la Scia oggetto di causa, fornisce dunque la seguente definizione di “interventi di ristrutturazione edilizia”: «gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ad eccezione degli edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria». Come messo in luce dalla giurisprudenza, l’evoluzione della normativa ha quindi portato all’individuazione di tre distinte ipotesi di “ristrutturazione edilizia”, che possono tutte portare «ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente»: una prima ipotesi, spesso definita “ristrutturazione conservativa”, che non comporta la demolizione del preesistente fabbricato e che può apportarvi anche modifiche di significativo impatto, compresi, in linea generale, l’inserimento di nuovi volumi o la modifica della sagoma; una seconda e una terza ipotesi, definite anche “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione”, caratterizzate, rispettivamente, da demolizione e ricostruzione di un edificio e dal ripristino di un fabbricato crollato o demolito (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 30 maggio 2017, n. 2567 e 12 ottobre 2017, n. 4728). 17.2. Dalla qualificazione dell’intervento come “ristrutturazione edilizia” ovvero come “nuova costruzione” dipende l’individuazione del titolo edilizio necessario per legittimare le opere. L’art. 23 del t.u. dell’edilizia consente infatti di realizzare mediante Scia “in alternativa al permesso di costruire” (per questo spesso definita “Super-Scia” nella prassi) «gli interventi di ristrutturazione di cui all’articolo 10, comma 1, lettera c)», il quale a sua volta comprende le ipotesi più impattanti (o “pesanti”) di “ristrutturazione edilizia” («gli interventi di ristrutturazione edilizia che portino ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, nei casi in cui comportino anche modifiche della volumetria complessiva degli edifici ovvero che, limitatamente agli immobili compresi nelle zone omogenee A, comportino mutamenti della destinazione d’uso, nonché gli interventi che comportino modificazioni della sagoma o della volumetria complessiva degli edifici o dei prospetti di immobili sottoposti a tutela ai sensi del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e, inoltre, gli interventi di ristrutturazione edilizia che comportino la demolizione e ricostruzione di edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, o il ripristino di edifici, crollati o demoliti, situati nelle medesime aree, in entrambi i casi ove siano previste modifiche della sagoma o dei prospetti o del sedime o delle caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente oppure siano previsti incrementi di volumetria»). All’art. 23 del d.P.R. n. 380 del 2001 rinvia anche l’art. 33, comma 1, lettera d), della l.r. Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), per l’individuazione dei casi in cui può essere presentata la Scia in alternativa al permesso di costruire (aggiungendone poi di ulteriori). È opportuno ricordare che, in questi casi, gli interventi sono soggetti al contributo di costruzione ai sensi dell’art. 16 del t.u. dell’edilizia (commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione nonché al costo di costruzione) e che, diversamente da quanto avviene secondo il regime della Scia ordinaria, disciplinata dall’art. 19 della legge 7 agosto 1990, n. 241, cui rinvia l’art. 22 del t.u. dell’edilizia con riferimento a interventi meno impattanti (manutenzione straordinaria delle parti strutturali e dei prospetti, restauro e risanamento conservativo che interessino le parti strutturali, ristrutturazione “leggera”, essenzialmente di natura “conservativa” e senza aumenti di volumetria), i lavori non possono avere inizio prima di trenta giorni dalla presentazione della segnalazione. Si aggiunga, con specifico riferimento agli interventi che comportino il mutamento della destinazione d’uso dell’immobile, che l’art. 23-ter, comma 1-quinquies, del t.u. dell’edilizia richiede la Scia “ordinaria” per i cambiamenti senza opere (o con opere rientranti nell’edilizia libera, ai sensi dell’art. 6, ovvero soggette a comunicazione d’inizio lavori asseverata-Cila, ai sensi dell’art. 6-bis), mentre in caso di esecuzione di opere prevede che il titolo richiesto per la loro realizzazione legittimi anche il cambio di destinazione. Inoltre, l’art. 10, comma 2, del medesimo t.u., stabilisce che, fermo restando quanto disposto dal citato art. 23-ter, con legge regionale possano essere definiti «quali mutamenti, connessi o non connessi a trasformazioni fisiche, dell’uso di immobili o di loro parti, sono subordinati a permesso di costruire o a segnalazione certificata di inizio attività». Nel caso della Lombardia, la legge per il governo del territorio n. 12 del 2005, all’art. 42, comma 5, nel dettare la disciplina della Scia alternativa precisa che «nel caso in cui l’intervento comporti una diversa destinazione d’uso, non esclusa dal PGT, in relazione alla quale risulti previsto il conguaglio delle aree per servizi e attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, il dichiarante allega impegnativa, accompagnata da fideiussione bancaria o assicurativa». Se dunque gli interventi di “ristrutturazione edilizia” possono essere realizzati previa Scia alternativa, quelli che esorbitano dai confini di tale nozione rappresentano delle “nuove costruzioni” soggette al previo rilascio del permesso di costruire: per avviare i lavori, il privato dovrà quindi attendere l’autorizzazione dell’amministrazione, oppure, sussistendone le condizioni, la formazione del silenzio-assenso, di regola dopo sessanta giorni dall’istanza, ai sensi dell’art. 20, comma 8, del t.u. dell’edilizia (e salvo che sussistano vincoli relativi all’assetto idrogeologico, ambientali, paesaggistici o culturali). È infine opportuno ricordare che, nell’ottica di assicurare una maggiore certezza, l’art. 22, comma 7, del t.u. dell’edilizia riconosce al privato la facoltà di chiedere comunque il permesso di costruire – così trasferendo sull’amministrazione l’onere e la responsabilità di valutare sin dall’origine la legittimità del progetto – per gli interventi subordinati alla Scia (e, a maggior ragione, alla Super-Scia, già di per sé “alternativa” alla richiesta dell’autorizzazione). 17.3. Oltre che ai fini dell’individuazione del titolo legittimante, dalla qualificazione come “ristrutturazione” piuttosto che come “nuova costruzione” di una complessa attività che vede susseguirsi la demolizione di un fabbricato e l’edificazione di un nuovo manufatto discendono anche conseguenze ulteriori. Se infatti in caso di “demoricostruzione” il proprietario può sfruttare il volume dell’edificio demolito, nell’ipotesi di “nuova costruzione” può utilizzare solo la volumetria espressa dall’area di edificazione (come puntualmente osservato dalla difesa del condominio). Inoltre, la “ricostruzione” è consentita nei limiti delle distanze legittimamente preesistenti (come da tempo affermato dalla giurisprudenza – tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 14 settembre 2017, n. 4337 – e come oggi codificato nel comma 1-ter dell’art. 2-bis del t.u. dell’edilizia, come inserito dal d.l. 18 aprile 2019, n. 32, convertito con modificazioni dalla legge 14 giugno 2019, n. 55, e modificato dal d.l. n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020) – mentre i “nuovi edifici” devono rispettare i limiti di distanza tra i fabbricati previsti dall’art. 9 del d.m. n. 1444 del 1968. L’individuazione degli esatti confini della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” o “demoricostruzione” (problema che sconta – come descritto – una non lieve stratificazione normativa) risulta quindi cruciale per la soluzione della presente controversia, non sottacendosi la necessità di chiarezza evocata (anche in corso di discussione all’udienza pubblica) dalle amministrazioni e dagli operatori del settore, trattandosi di un istituto che, da un lato, è ritenuto essenziale dal legislatore per perseguire obiettivi di rigenerazione urbana, contenimento del consumo di suolo, incentivazione degli investimenti – e, conseguentemente, migliore occupazione – ma che, dall’altro, consente modifiche di portata tale da incidere sulla “urbanistica” (e relativo potere di pianificazione) – meglio, sul “governo del territorio” – intesa non solo come coordinamento delle potenzialità edificatorie connesse al diritto di proprietà, ma, più ampliamente e compiutamente, come modello di sviluppo che s’intende imprimere ai luoghi in cui è insediata una comunità (secondo la nota ricostruzione elaborata da Cons. Stato, sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710, e ormai consolidatasi: tra le più recenti, Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2023, n. 765, e 27 ottobre 2025, n. 8313). 17.4. Da questo punto di vista, la descritta evoluzione dell’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia è innegabilmente caratterizzata da un progressivo allontanamento dall’obbligo originario della fedele ricostruzione, mediante eliminazione dei vari vincoli e conseguente estensione della nozione di “ristrutturazione”, rendendo ancor più necessario un chiarimento sui suoi confini rispetto alla “nuova costruzione”. In giurisprudenza si è infatti ritenuto, anche a seguito dell’eliminazione del vincolo della sagoma (fatti salvi gli immobili vincolati) in forza del d.l. n. 69 del 2013 (convertito in legge n. 98 del 2013), che l’esistenza di un “nesso di continuità” tra il fabbricato preesistente e quello risultante dall’intervento sia un requisito essenziale della “ristrutturazione ricostruttiva”, la cui mancanza induce a qualificare l’attività edilizia come “nuova costruzione” (tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 12 maggio 2023, n. 4794, relativa a un caso in cui l’edificio nuovo era «traslato in maniera significativa» rispetto a quello precedente; sez. II, 6 marzo 2020, n. 1641, inerente un’ipotesi di demolizione di un garage con ricostruzione di un edificio diverso per materiale utilizzato e per l’aumento della quota d’imposta; nonché, di recente – ma comunque con riferimento a una fattispecie alla quale era ancora applicabile l’art. 3 del t.u. dell’edilizia nella versione precedente alle modifiche apportate dal d.l. n. 76 del 2020, convertito in legge n. 120 del 2020 – Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857; nella giurisprudenza penale, tra le molte, Cass. pen., sez. III, 10 gennaio 2020, n. 280338, secondo cui nella “ristrutturazione” non si può prescindere dalla necessità che venga conservato l’immobile preesistente «del quale – a prescindere dalla identità di sagoma – deve essere comunque garantito il recupero»). Questo orientamento risulta ancora seguito in sede penale (Cass. pen., sez. III, 8 maggio 2024, n. 18044, relativa alla realizzazione di dieci villini in luogo di un unico immobile con destinazione commerciale, e 18 gennaio 2023, n. 1670, relativa all’abbattimento di una casa colonica e per l’edificazione di un complesso residenziale costituito da dieci villini in linea) e a esso ha aderito il T.a.r. nella sentenza impugnata. Tuttavia, il requisito della “continuità” con l’edificio preesistente, se preteso in termini assoluti, non trova fondamento nell’ultimo testo della disposizione, sul quale il legislatore è intervenuto nel 2020 con l’intenzione – ricavabile oggettivamente dalle modifiche apportate (l’espressa puntualizzazione che possono mutare «sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche») ed esplicitato nei lavori parlamentari (in particolare, nella relazione illustrativa al Senato), e nella circolare congiunta del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e del Ministero per la pubblica amministrazione del 2 dicembre 2020 (come ricordato dalla società proprietaria nel proprio appello incidentale) – di ricomprendere, per gli immobili non vincolati, qualsiasi intervento di demolizione e ricostruzione anche con caratteristiche molto differenti rispetto al preesistente, salvo il limite della volumetria (al punto che, secondo C.g.a., sez. giur., 3 giugno 2025, n. 422, la ricostruzione sarebbe possibile «anche altrove, ossia in un diverso lotto, pur sempre nel rispetto delle capacità edificatorie proprie di quest’ultimo»). 17.5. Tuttavia, da altra prospettiva, un’esegesi che sia rispettosa della lettera e della logica della disposizione non può nemmeno condurre a ritenere che dalla demolizione derivi – di per sé sola e in assenza di specifiche previsioni di legge o degli strumenti urbanistici – una sorta di “credito volumetrico” che il proprietario può spendere rimanendo comunque nell’alveo della “ristrutturazione”, dovendo quest’ultima rispettare una serie di limiti e condizioni, che si ricavano dall’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia e ai quali deve essere ricondotta ogni pretesa di “continuità”. 17.5.1. In primo luogo, l’intervento deve avere a oggetto un unico edificio, nel senso che nella fase di ricostruzione è precluso – meglio, esorbita dall’ambito della “ristrutturazione ricostruttiva” – l’accorpamento di volumi precedentemente espressi da manufatti diversi ovvero il frazionamento di un volume originario in più edifici di nuova realizzazione. Tale condizione è stata affermata dalla giurisprudenza nel vigore delle varie versioni dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia (tra le tante, Cons. Stato, sez. IV, 16 dicembre 2008, n. 6214 e, più di recente, 3 aprile 2025, n. 2857, dove si afferma che «l’essenza della nozione di ristrutturazione edilizia è che l’intervento deve agire sull’edificio preesistente al fine di dare continuità all’immobile pregresso, crollato o demolito. In altre parole la ristrutturazione edilizia non può mai prescindere dall’obiettivo di recupero del singolo immobile che ne costituisce oggetto»; nonché, nella giurisprudenza penale, Cass. pen., sez. III, 27 luglio 2020, n. 23010) e risulta dal testo della disposizione, il quale, nel porre a confronto “un organismo edilizio” (quello risultante dall’intervento) con il “precedente” – al singolare – e nell’evocare elementi quali la sagoma, i prospetti, il sedime e le caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, anche solo per sancirne l’irrilevanza, non può che presupporre che come termine di paragone venga assunto un unico edificio, poiché diversamente tali parametri sarebbero già di per sé inutilizzabili. 17.5.2. In secondo luogo la norma, rispetto alla prima ipotesi di “demoricostruzione”, che viene in rilievo nel caso di specie, presuppone necessariamente una contestualità temporale tra la demolizione e la ricostruzione, dando luogo ad una “unitarietà” dell’intervento prospettato con la Scia, nel senso, dunque, che entrambe debbono essere legittimate dal medesimo titolo. Vero è che, come obiettato dal Comune nei suoi scritti, a seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 69 del 2013 (conv. in legge n. 98 del 2013), è ora ricompreso nella “ristrutturazione ricostruttiva” anche il ripristino di edifici crollati o demoliti ed è quindi venuta meno «quella particolare relazione di continuità tra edificio preesistente ed edificio risultante dalla ristrutturazione» in forza della quale si richiedeva «che le due operazioni, cioè la demolizione e la ricostruzione, avvenissero in un unico contesto» (Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857). Tuttavia, in questa particolare ipotesi, «la continuità che si perde sul piano temporale viene recuperata, dal legislatore, con la reintroduzione del limite costituito dal rispetto della “preesistente consistenza” del fabbricato non più esistente; é da ritenersi che con tale precisazione il legislatore abbia inteso affermare la necessità di rispettare, nel nuovo fabbricato, la volumetria del fabbricato crollato o demolito» (Cons. Stato, sez. VI, 18 gennaio 2023, n. 616). La differenza tra le due ipotesi di “ristrutturazione ricostruttiva” si coglie soprattutto sui presupposti per la legittimità dell’intervento: nel caso in cui non vi sia soluzione di continuità tra demolizione e ricostruzione, l’edificio è ancora presente nel momento in cui il privato instaura il rapporto con l’amministrazione, presentando l’istanza di rilascio del permesso di costruire ovvero la Scia alternativa allo stesso, con la conseguenza che la sua consistenza può essere verificata da quest’ultima, nell’istruttoria preordinata al rilascio del titolo abilitativo ovvero ai fini dell’eventuale esercizio dei poteri inibitori, repressivi e conformativi di cui all’art. 19, comma 3, della legge n. 241 del 1990; al contrario, quando intenda ripristinare un edificio che non esiste più, il privato deve dimostrarne la “preesistente consistenza”, onere che logicamente non può essere assolto unicamente mediante i rilievi e le asseverazioni del tecnico di fiducia – i quali devono a loro volta essere verificabili – ma deve esserlo mediante elementi oggettivi, quali gli atti di fabbrica o i titoli edilizi che hanno interessato il precedente fabbricato, ovvero le planimetrie catastali, purché da essi siano ricavabili «in maniera pressoché certa, l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro del fabbricato su cui intervenire; solo se è chiara la base di partenza, è possibile discutere l’entità e la qualità delle modifiche apportabili» (Cons. Stato, sez. IV, 3 aprile 2025, n. 2857). 17.5.3. Infine, dall’art. 3, comma 1, lettera d), del t.u. dell’edilizia si ricava che il volume dell’edificio ricostruito non può superare quello del fabbricato demolito, perché si stabilisce che gli incrementi di volumetria sono ammissibili «nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali» (sul punto, Cons. Stato, sez. IV, 2 maggio 2024, n. 4005 ha chiarito che «a differenza della fattispecie della ricostruzione con diversa sagoma e sedime, le modifiche e gli ampliamenti volumetrici di manufatti edilizi continuano ad integrare, di regola, interventi di nuova costruzione (art. 3 comma 1 lett. e. 1 D.P.R. n. 380/2001), sicché, ai sensi del richiamato art. 3 comma 1 lett. d) del D.P.R. n. 380/2001, l’incremento volumetrico eccezionalmente (art. 14 disp. prel. cod. civ.) conseguibile con un intervento di ristrutturazione edilizia è soltanto quello specificamente ammesso una tantum dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali per tale tipo di intervento edilizio e non quello (eventualmente) maggiore connesso all’indice edificatorio previsto per gli interventi di nuova costruzione o di ristrutturazione urbanistica»). Tale limite, letto in un’ottica sistematica, comporta che devono ritenersi escluse – meglio, conducono a qualificare l’intervento come “nuova costruzione” – tutte quelle opere che non siano meramente funzionali al riuso del volume precedente e che comportino una trasformazione del territorio ulteriore rispetto a quella già determinata dall’immobile demolito. Infatti, nelle varie evoluzioni della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva” che si sono susseguite, è rinvenibile un minimo comune denominatore, consistente nel fatto che l’intervento deve comunque risultare “neutro” sotto il profilo dell’impatto sul territorio nella sua dimensione fisica. Tale condizione, sicuramente sottesa a quella “fedele ricostruzione” che si pretendeva in origine, deve ritenersi presente anche nell’attuale quadro normativo e si evince dall’art. 10 del d.l. n. 76 del 2020 (conv. in legge n. 120 del 2020), il quale, pur avendo eliminato i «precedenti requisiti presupponenti una rigida “continuità” tra le caratteristiche strutturali dell’immobile preesistente e quelle del manufatto da realizzare» (C.g.a., sez. giur., sent. n. 422 del 2025), ha comunque ricondotto tali innovazioni agli scopi di «assicurare il recupero e la qualificazione del patrimonio edilizio esistente» e di «contenimento del consumo di suolo», così confermando la finalità “conservativa” sottesa al concetto di ristrutturazione (Cons. Stato, sez. IV, sent. n. 2857 del 2025). 18. Nel caso di specie, le caratteristiche dell’intervento posto in essere dalla società proprietaria del bene esorbitano dai confini della nozione di “ristrutturazione ricostruttiva”, come sopra delineati, e inducono a qualificarlo come “nuova edificazione”, con ciò che ne consegue in termini di titolo abilitativo necessario (il permesso di costruire, non sostituibile dalla Super-Scia) e limiti applicabili all’attività edilizia. Su questo punto essenziale – e assorbente rispetto a ogni altra questione sostanziale – la sentenza di primo grado merita dunque conferma, seppur con la precisazione che, in ossequio al principio di legalità di cui all’art. 97 Cost. e alla luce del testo vigente dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia, nella “demoricostruzione” non può pretendersi una “continuità” tra il nuovo edificio e quello precedente se non nella misura in cui per essa s’intenda il doveroso rispetto dei requisiti, sopra indicati, dell’unicità dell’immobile interessato dall’intervento, della contestualità tra demolizione e ricostruzione, del mero utilizzo della volumetria preesistente senza ulteriori trasformazioni della morfologia del territorio. 19. Premesso che il superamento di uno solo di questi limiti comporterebbe di per sé solo la qualificazione dell’intervento come “nuova costruzione”, nella specie essi risultano tutti inosservati. 19.1. È innanzitutto evidente, e dirimente, l’assenza di continuità temporale, dato che l’edificio preesistente è stato demolito nel 2018, mediante un intervento che non può certo ritenersi legittimato dalla Scia presentata nel 2022 (e che infatti è stato svolto sulla base di una diversa Scia). 19.1.1. Né tale continuità può ricavarsi dal fatto che la società nel 2018 aveva presentato istanza per l’attivazione dell’istruttoria preliminare facoltativa prevista dall’art. 40 del regolamento edilizio comunale: il carattere (appunto “preliminare”) e la finalità (appunto “istruttoria”) della procedura in questione escludono che alla presentazione della domanda – peraltro, poi abbandonata e ripresentata nel 2021, a demolizione già avvenuta – possa farsi retroagire l’effetto legittimante della Scia. A tal proposito, non è superfluo ricordare che, come espressamente stabilito dal comma 2 della stessa disposizione, le definizioni contenute nel primo comma dell’art. 3 del t.u. dell’edilizia prevalgono sugli strumenti urbanistici e sui regolamenti edilizi e la definizione di “ristrutturazione” mediante demolizione e ricostruzione presuppone la contestualità tra le due attività, nel senso che entrambe devono essere realizzate in forza di un unico titolo legittimante (anche al fine di consentire al Comune di verificare l’esatta consistenza del fabbricato preesistente prima che ne inizi la demolizione). 19.1.2. Nemmeno può invocarsi la modifica apportata dal d.l. n. 69 del 2013, che ha ricondotto alla nozione di “ristrutturazione” anche gli interventi volti al ripristino di edifici crollati o demoliti. In primo luogo, e con portata già di per sé dirimente, perché la stessa società proprietaria ha presentato l’intervento come demolizione e ricostruzione, e non come ricostruzione di immobile demolito. Inoltre perché, come già messo in luce, questa speciale ipotesi presuppone che il privato dimostri la preesistente consistenza dell’immobile mediante elementi oggettivi, che tuttavia nella specie non sono presenti (meglio, non sono stati prodotti nel procedimento e nel processo). Mancano infatti gli atti di fabbrica originari e le varie misure necessarie a individuarne l’esatta cubatura e sagoma d’ingombro non sono ricavabili in maniera univoca dagli altri titoli rilasciati e acquisiti al giudizio. In particolare, l’istanza di condono avanzata il 30 aprile 1986 (atto p.g. 178187.400/1986), poi integrata il 22 febbraio 1995, per cui è stata rilasciata la concessione edilizia in sanatoria n. -OMISSIS- del 18 febbraio 2003, ha ad oggetto un intervento che ha interessato l’edificio solo parzialmente (realizzazione di un soppalco, di un deposito, di un locale laboratorio annesso al corpo esistente, di una tettoia completamente chiusa) e, anche per questo, non rappresenta tutti i volumi del complesso nella loro interezza e con le varie misure. Anche la pratica presentata il 17 aprile 1991 (p.g. 116963.400), per cui è stata rilasciata l’autorizzazione n. -OMISSIS- del 16 settembre 1991, ha ad oggetto un intervento parziale (la manutenzione straordinaria alla copertura esistente quale vano deposito) e indica un’altezza di gronda del locale mensa, posto sopra al capannone, pari a 5,95 mt, inferiore a quella di progetto. Un’altezza ancora inferiore si ricava dalla piantina catastale del 1940, dove è indicata in 5,20 mt. Né tali elementi si ricavano dalla CTU svolta nel giudizio davanti al giudice dell’esecuzione, nella quale è peraltro riportata un’indicazione della superficie lorda di pavimento (650 mq) che non collima con quella indicata negli elaborati allegati alla Scia (tanto la tavola 5, quanto la relazione allegata indicano infatti una superficie lorda di 593,33 mq). Per concludere sul punto, dunque, dagli atti acquisiti al giudizio non si ricava quella certezza in ordine all’esatta cubatura e sagoma d’ingombro dell’edificio demolito che si vorrebbe recuperare. 19.2. Sotto altro profilo, è pacifico che l’intervento progettato dalla società accorpi volumi che in precedenza erano distinti. 19.2.1. In particolare, alla volumetria e superficie del capannone principale (con i vari ampliamenti che si sono succeduti nel tempo) si vorrebbero aggiungere quelle del “piccolo deposito” (identificato come “volume C” nella tavola 5 relativa allo stato di fatto e alla dimostrazione della consistenza della superficie lorda), il quale, tuttavia, rappresenta un manufatto totalmente separato. 19.2.2. Per giustificare questa operazione, la società e il Comune ne richiamano la natura pertinenziale, ma l’argomento non risulta convincente. Anche considerandolo una pertinenza, si tratta comunque di un manufatto distinto dall’edificio principale e che esprime una propria volumetria. Il fatto che questa sia irrilevante, ai fini urbanistici, dipende dalle sue caratteristiche strutturali – consistenti in una «dimensione ridotta e modesta» (tra le tante, Cons. Stato, sez. VII, 15 maggio 2025, n. 4175) – ma quella stessa volumetria diviene rilevante laddove si voglia cumularla a quella dell’edificio “principale” per aumentare quest’ultima. In altre parole, l’accorpamento della volumetria della pertinenza a quella dell’edificio principale viola il limite della “neutralità” dell’intervento di “demoricostruzione”, perché, mentre in origine l’impatto sul territorio era limitato al fabbricato principale (proprio per l’irrilevanza della volumetria espressa dalla pertinenza), con la ricostruzione si addiverrebbe a un immobile che presenta una volumetria e un’incidenza maggiore sul territorio. 19.3. Lo stesso limite della “neutralità” è oltrepassato, nel caso di specie, anche per la realizzazione di lavori ulteriori rispetto al mero recupero del volume preesistente, ossia le opere di sbancamento del terreno, costruzione del muro di contenimento e realizzazione del seminterrato, della rampa carraia e della sede viaria di collegamento. Tali lavori non si limitano a quanto strettamente funzionale a riutilizzare la volumetria disponibile – come avverrebbe, per esempio, per le sole opere di fondazione necessarie a riedificare l’immobile su un diverso sedime – ma comportano un rimodellamento della morfologia del terreno, che conduce a qualificare il complessivo intervento – il quale, secondo una consolidata giurisprudenza, deve essere apprezzato in modo globale e non in termini atomistici (tra le più recenti, Cons. Stato, sez. II, 4 luglio 2025, n. 5796) – come “nuova costruzione”. 19.4. Pertanto, per tutte queste ragioni – ciascuna delle quali sarebbe di per sé sola dirimente – la sentenza di primo grado deve essere confermata nella parte relativa alla qualificazione dell’intervento e alla conseguente individuazione del titolo abilitativo necessario, che non può essere la Scia alternativa, ma è rappresentato dal permesso di costruire. Sono dunque infondati il terzo motivo dell’appello del Comune e il secondo motivo di quello della società proprietaria (relativi appunto alla qualificazione dell’intervento), mentre è fondato il terzo motivo riproposto dal condominio (relativo alla realizzazione di opere ulteriori). La portata radicale dei vizi rilevati conduce di per sé a una conferma dell’accoglimento della domanda di annullamento avanzata in primo grado ed esime da una pronuncia sulle altre questioni sostanziali dedotte dalle parti, che possono essere assorbite, così come risulta superflua l’istruttoria richiesta dalla società con l’appello incidentale. 20. È invece infondato l’appello proposto dal condominio contro il capo della sentenza che ha respinto la domanda risarcitoria. Anche sotto questo aspetto, la decisione del T.a.r. è condivisibile. (…) 29 novembre 2025 Per osservazioni e precisazioni: laboratoriocarteinregola@gmail.com NOTE (1) VEDI Salva Milano, cronologia materiali vai alla Relazione di Carteinregola all’audizione alla Camera sulla Proposta di legge 1987 (disposizioni connesse alla rigenerazione urbana) a cura di Giancarlo Storto 8 febbraio 2025 Audizione Carteinregola al Senato– intervento Giancarlo Storto a 58’20″(> vai alla registrazione (2) in base all’Art. 41-quinquies della legge 1150/1942 le costruzioni non possono superare l’altezza di 25 m e l’indice di fabbricabilità fondiaria non può superare i 3 mc/mq. Per superare tali limiti occorre la preventiva approvazione di un piano particolareggiato o un piano di lottizzazione estesi all’intera area con disposizioni planovolumetriche; In base all’art. 8 del decreto ministeriale 1444/68 le altezze massime degli edifici devono sottostare alle seguenti limitazioni: per la zona “A” alle altezze preesistenti nel caso di interventi di risanamento conservativo o agli edifici circostanti per le nuove costruzioni; per la zona “B” agli edifici circostanti ammettendo la possibilità di altezze superiori solo in presenza di un piano particolareggiato o un piano di lottizzazione estesi all’intera area con disposizioni planovolumetriche; per la zona “C” nessun limite a meno degli edifici “contigui o in diretto rapporto con la zona A” rispetto alla quale le altezze devono risultare “compatibili”. (3) DM 380/2001 articolo 3, comma 1, lett. d) d) “interventi di ristrutturazione edilizia”, gli interventi rivolti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente. Tali interventi comprendono il ripristino o la sostituzione di alcuni elementi costitutivi dell’edificio, l’eliminazione, la modifica e l’inserimento di nuovi elementi ed impianti. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi altresì gli interventi di demolizione e ricostruzione di edifici esistenti con diversi sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche, con le innovazioni necessarie per l’adeguamento alla normativa antisismica, per l’applicazione della normativa sull’accessibilità, per l’istallazione di impianti tecnologici e per l’efficientamento energetico. L’intervento può prevedere altresì, nei soli casi espressamente previsti dalla legislazione vigente o dagli strumenti urbanistici comunali, incrementi di volumetria anche per promuovere interventi di rigenerazione urbana. Costituiscono inoltre ristrutturazione edilizia gli interventi volti al ripristino di edifici, o parti di essi, eventualmente crollati o demoliti, attraverso la loro ricostruzione, purché sia possibile accertarne la preesistente consistenza. Rimane fermo che, con riferimento agli immobili sottoposti a tutela ai sensi del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, ad eccezione degli edifici situati in aree tutelate ai sensi degli articoli 136, comma 1, lettere c) e d), e 142 del medesimo codice, nonché, fatte salve le previsioni legislative e degli strumenti urbanistici, a quelli ubicati nelle zone omogenee A di cui al decreto del Ministro per i lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 14444, o in zone a queste assimilabili in base alla normativa regionale e ai piani urbanistici comunali, nei centri e nuclei storici consolidati e negli ulteriori ambiti di particolare pregio storico e architettonico, gli interventi di demolizione e ricostruzione e gli interventi di ripristino di edifici crollati o demoliti costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia soltanto ove siano mantenuti sagoma, prospetti, sedime e caratteristiche planivolumetriche e tipologiche dell’edificio preesistente e non siano previsti incrementi di volumetria (lettera modificata dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2020, poi dall’art. 28, comma 5-bis, lettera a), legge n. 34 del 2022, poi dall’art. 14, comma 1-ter, legge n. 91 del 2022 poi dalla legge n. 105 del 2024 di conversione del decreto-legge n. 69 del 2024) (4) DM 380/2001 Art. 3 L) – Definizioni degli interventi edilizi (comma 1 lett. e) 1. Ai fini del presente testo unico si intendono per: e) “interventi di nuova costruzione”, quelli di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio non rientranti nelle categorie definite alle lettere precedenti. Sono comunque da considerarsi tali: e.1) la costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati, ovvero l’ampliamento di quelli esistenti all’esterno della sagoma esistente, fermo restando, per gli interventi pertinenziali, quanto previsto alla lettera e.6); e.2) gli interventi di urbanizzazione primaria e secondaria realizzati da soggetti diversi dal Comune; e.3) la realizzazione di infrastrutture e di impianti, anche per pubblici servizi, che comporti la trasformazione in via permanente di suolo inedificato; e.4) l’installazione di torri e tralicci per impianti radio-ricetrasmittenti e di ripetitori per i servizi di telecomunicazione; (punto da ritenersi abrogato implicitamente dagli artt. 87 e segg. del d.lgs. n. 259 del 2003) e.5) l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulotte, camper, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, ad eccezione di quelli che siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee o delle tende e delle unità abitative mobili con meccanismi di rotazione in funzione, e loro pertinenze e accessori, che siano collocate, anche in via continuativa, in strutture ricettive all’aperto per la sosta e il soggiorno dei turisti previamente autorizzate sotto il profilo urbanistico, edilizio e, ove previsto, paesaggistico, che non posseggano alcun collegamento di natura permanente al terreno e presentino le caratteristiche dimensionali e tecnico-costruttive previste dalle normative regionali di settore ove esistenti; (punto sostituito dall’art. 10, comma 1, lettera b), della legge n. 120 del 2020) e.6) gli interventi pertinenziali che le norme tecniche degli strumenti urbanistici, in relazione alla zonizzazione e al pregio ambientale e paesaggistico delle aree, qualifichino come interventi di nuova costruzione, ovvero che comportino la realizzazione di un volume superiore al 20% del volume dell’edificio principale; e.7) la realizzazione di depositi di merci o di materiali, la realizzazione di impianti per attività produttive all’aperto ove comportino l’esecuzione di lavori cui consegua la trasformazione permanente del suolo inedificato; (5) Consiglio di stato Sezione II, sentenza del 4 novembre 2025 n. 8542, (6) VEDI Icalex 10 11 2025 Ristrutturazione ricostruttiva: il Consiglio di Stato ridefinisce il concetto di continuità tra fabbricato preesistente e quello ricostruito La sentenza del Consiglio di Stato (7) vedi Lexambiente 5 novembre 2025 Urbanistica.Requisiti della demo-ricostruzione e differenza con la nuova costruzione
Gridare “Palestina libera” non è reato
La sentenza respinge il licenziamento della maschera alla Scala e obbliga al risarcimento delle mensilità non retribuite dal 4 maggio e dimostra quanto fosse fondata la nostra tesi di un provvedimento sproporzionato e di natura politica, non disciplinare. I giudici ci hanno dato ragione e lo hanno respinto. Ora Sala (presidente del CDA scaligero), Ortombina (sovrintendente che ha firmato il provvedimento)  e Amoruso (direttore del personale) dovrebbero offrire alla maschera licenziata un nuovo contratto, dato che il suo è scaduto a settembre. La vicenda ha fatto scalpore prodotto danni d’immagine enormi per il disastroso  tentativo di mettere a tacere il dissenso contro  la complicità del governo Meloni verso Israele nel genocidio dei palestinesi. Il tentativo –  della serie colpirne  uno per educarne cento – da parte della direzione è fallito nel peggiore dei modi davanti alla corte del Tribunale del Lavoro, che ha obbligato la fondazione a risarcire le mensilità non lavorate. Ora permettere di concludere  il suo ciclo di studi e continuare fino a quel giorno ad avere un contratto da maschera per noi sarebbe  il minimo sindacale da offrirle per chiudere il sipario su questa vicenda che ha fatto vergognare lavoratori,  pubblico e cittadini milanesi . Roberto  Ambrosio, Cub info e spettacolo Redazione Milano
Definitiva la sentenza CEDU: per Demirtas è la volta buona per la scarcerazione?
La Corte Europea per i Diritti dell’Uomo (CEDU) ha respinto l’ultimo ricorso presentato dal Ministero della Giustizia turco contro la sentenza di scarcerazione per Demirtas e, di riflesso, per tutti i condannati nell’ambito del cosiddetto “processo Kobane”. Ora la sentenza è definitiva e, dal punto di vista della legalità formale […] L'articolo Definitiva la sentenza CEDU: per Demirtas è la volta buona per la scarcerazione? su Contropiano.
Sentenza definitiva della Corte d’Appello di Catanzaro: il fermo della nave di soccorso Humanity 1 era illegale e la Libia non è un Paese sicuro
SOS Humanity ha vinto la sua prima causa contro il governo italiano nel contesto di decine di fermi illegali e arbitrari di navi di ricerca e soccorso non governative. Una corte d’appello ha ribadito la storica sentenza del Tribunale di Crotone del giugno 2024, chiarendo che la cosiddetta Guardia Costiera libica, finanziata dall’UE, non può essere considerata un soggetto legittimo di ricerca e soccorso nel Mediterraneo. Inoltre, la sentenza ha confermato che SOS Humanity ha agito in conformità con il diritto internazionale nello svolgimento delle sue operazioni di ricerca e soccorso e che il fermo della sua nave di soccorso è stato illegale. SOS Humanity sta ora chiedendo un risarcimento al governo italiano. Nel giugno 2025, la Corte d’Appello di Catanzaro ha respinto un ricorso presentato dal governo italiano contro una sentenza del 2024 del Tribunale di Crotone, che aveva dichiarato illegittimo il fermo della nave di soccorso Humanity 1 nel marzo 2024 e stabilito che la cosiddetta Guardia Costiera libica non può essere considerata un soggetto legittimo di ricerca e soccorso (SAR).  Inoltre, ha confermato che la Libia non può essere considerata un luogo sicuro per i rifugiati e che SOS Humanity ha agito in conformità con il diritto marittimo internazionale in ogni momento. I ricorrenti – i Ministeri italiani dell’Interno, dei Trasporti e delle Finanze – hanno deciso di non impugnare questa sentenza, mentre SOS Humanity chiede un risarcimento per i danni finanziari causati dal sequestro illegale della sua nave di soccorso. Contesto: fermo della Humanity 1 nel 2024 e conseguente azione legale Nel marzo 2024, dopo aver soccorso 77 persone in pericolo in mare, la nave di soccorso Humanity 1 di SOS Humanity era stata fermata dal governo italiano con l’accusa di aver ignorato le istruzioni delle autorità libiche e di aver messo in pericolo vite umane. L’organizzazione di ricerca e soccorso (SAR) ha presentato con successo ricorso contro la decisione in un procedimento accelerato presso il Tribunale civile di Crotone, che ha dichiarato illegale il fermo della nave di soccorso Humanity 1 e ne ha ordinato l’immediato rilascio. Nel giugno 2024, il tribunale civile ha confermato e motivato la sua sentenza sottolineando che la cosiddetta Guardia Costiera libica non può essere considerata un attore SAR legittimo nel Mediterraneo. Ha inoltre chiarito che le istruzioni illegali della cosiddetta Guardia Costiera libica non devono essere seguite. Nel giugno 2025, il ricorso del governo italiano contro questa decisione è stato respinto dalla Corte d’Appello di Catanzaro, confermando la posizione di SOS Humanity circa l’illegittimità della cosiddetta Guardia Costiera libica e la pratica illegale di trattenere le navi di soccorso. Da anni la cosiddetta Guardia Costiera Libica è finanziata e equipaggiata dall’Unione Europea e dai suoi Stati membri per intercettare i migranti nel Mediterraneo centrale e riportarli in Libia, nonostante gli abusi ampiamente documentati contro migranti e rifugiati che, secondo le Nazioni Unite, costituiscono crimini contro l’umanità. Pertanto, secondo il diritto internazionale, la Libia non può essere considerata un luogo sicuro per le persone salvate dal pericolo in mare. La sentenza definitiva della Corte d’Appello di Catanzaro è disponibile qui.   Redazione Italia
“Maidan, la sentenza del tribunale ucraino inchioda i cecchini di estrema destra
Ivan Katchanovski è uno studioso affermato, docente e ricercatore presso la School of Political Studies dell’Università di Ottawa, in Canada. Specializzato in analisi politiche e dei conflitti, è autore del saggio The Russia-Ukraine War and its Origins: From the Maidan to the Ukraine War (scaricabile gratuitamente a questo link). Le sue ricerche si concentrano in […] L'articolo “Maidan, la sentenza del tribunale ucraino inchioda i cecchini di estrema destra su Contropiano.
Migranti e Paesi sicuri, la Corte Europea di Giustizia affonda ancora il governo Meloni
Ennesima mazzata per il governo Meloni in materia di immigrazione. Con una sentenza attesa, pronunciata oggi alle 10.57 la Corte Europea di Giustizia ha sentenziato che non sono i governi dei singoli Paesi a poter determinare quali siano i “Paesi sicuri” in cui rimpatriare, o per meglio dire, deportare le persone che fuggono, ma che tale decisione appartiene ad un giudice obbligato a valutare se tutto il Paese di provenienza di chi chiede asilo sia o meno sicuro al punto da predisporre il diniego alla domanda e il conseguente rimpatrio. Piantedosi e Meloni avevano provato sia a ridurre il numero dei Paesi in cui deportare, sia a stringere con questi nuovi accordi, sia, soprattutto, a depotenziare il ruolo della magistratura. L’intero impianto salta, al punto che anche il costoso esperimento coloniale in Albania, che comprende, ricordiamo, un hotspot e un CPR, diventa un colossale boomerang che si abbatte su chi legifera dimostrando di avere scarsissima conoscenza del diritto internazionale. La sentenza precisa che fino a quando, probabilmente nel 2027, non ci sarà un nuovo regolamento che determinerà le modalità e le ragioni di ogni rimpatrio, la decisione di un tribunale dovrà essere considerata valida su tutto il territorio dello Stato membro; non sono ammesse disposizioni discrezionali. Resta l’amaro in bocca di chi è convinto che a tali decisioni si debba arrivare attraverso la politica e non per decisione di una, per quanto autorevole, Corte internazionale. Ci si svegli, anche in Parlamento, prima ancora di attendere che una sentenza ci lavi la coscienza. Maurizio Acerbo, Segretario nazionale Stefano Galieni, Responsabile nazionale immigrazione, Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea   Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
Clima, le Sezioni Unite della Cassazione danno ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini contro l’ENI
Con una fondamentale decisione pubblicata nel pomeriggio di ieri, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, riunitesi lo scorso 18 febbraio, hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini, che nei mesi scorsi avevano fatto ricorso alla Suprema Corte, chiedendo se in Italia fosse possibile o meno avere giustizia climatica. «Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica», commentano Greenpeace Italia e ReCommon. «Nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni». L’importantissimo verdetto avrà infatti impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Non solo potrà essere decisa nel merito la causa contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avviata da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini davanti al Tribunale di Roma perché sia imposto alla società di rispettare l’Accordo di Parigi, ma la decisione indica la strada per tutte le future azioni giudiziarie nel nostro Paese. Questa pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali di climate change litigation. Nel maggio 2023, Greenpeace Italia, ReCommon e i 12 cittadine e cittadini italiani avevano presentato una causa civile nei confronti di ENI, di Cassa Depositi e Prestiti e del Ministero dell’Economia e delle Finanze – questi ultimi due enti in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI – per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui il colosso italiano del gas e del petrolio ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole. ENI, CDP e MEF avevano eccepito “il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito”, ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. Greenpeace Italia, ReCommon e le cittadine e cittadini che hanno promosso la “Giusta Causa” hanno dunque fatto ricorso per regolamento di giurisdizione alla Suprema Corte, a cui hanno chiesto un pronunciamento in via definitiva. Il verdetto delle Sezioni Unite della Cassazione, pubblicato nel pomeriggio di ieri, ha infine dato ragione a cittadine, cittadini e organizzazioni. Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadine e cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani. Inoltre le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di ENI presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia. A questo punto il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico lanciato nel 2023 da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini italiani dovrà entrare nel merito dei danni che ENI ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti, ma non c’è più alcun dubbio sul diritto ad agire per la tutela dei loro diritti di fronte a un giudice italiano quando gli effetti del cambiamento climatico si verifichino in Italia e quando le decisioni che hanno contribuito al cambiamento climatico siano state prese in Italia. Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri Paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale. Greenpeace Italia e ReCommon attendono ora che il giudice ordinario a cui spetta tornare a decidere su “La Giusta Causa”  superi ogni altra eccezione preliminare ed entri finalmente nel merito, come già avvenuto nei tribunali dei più importanti Paesi europei. Le due organizzazioni e i 12 cittadine e cittadini chiedono che la giustizia faccia il suo corso, come già avviene nei più avanzati ordinamenti giuridici europei. Leggi la sentenza.   Re: Common
Do you remenber Bibbiano? E dunque?
E’ arrivata la sentenza di primo grado del processo “Angeli e Demoni”, che riguardava presunti illeciti compiuti a danno di bambini da assistenti sociali, psicoterapeuti e amministratori locali di un paesino dell’Emilia Romagna. Caso mediatico e politico, oltre che giudiziario, che infiammò il dibattito qualche anno fa. “Parlateci di Bibbiano”: […] L'articolo Do you remenber Bibbiano? E dunque? su Contropiano.
Sentenza Sovrano, lacrime amare per i nemici del Movimento No Tav
Nella giornata di ieri è stata depositata la sentenza di primo grado del processo “Sovrano” che ha visto 16 militanti del Centro Sociale Askatasuna, del Movimento No Tav e dello […] The post Sentenza Sovrano, lacrime amare per i nemici del Movimento No Tav first appeared on notav.info.
Grecia: il tribunale assolve 11 richiedenti asilo accusati di traffico di esseri umani
Una sentenza destinata a segnare la giurisprudenza europea: il tribunale dell’isola di Samos ha assolto 11 richiedenti asilo dalle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, sollevate contro di loro esclusivamente per aver assunto il controllo dell’imbarcazione che li ha condotti sulle coste greche. Si tratta di una decisione senza precedenti nel contesto delle politiche migratorie europee, da anni caratterizzate da una crescente criminalizzazione dei movimenti migratori autonomi. Una sentenza storica La Corte ha riconosciuto che il semplice atto di guidare una barca – in assenza di scopo di lucro o collegamenti con reti di traffico – non costituisce reato. È una pronuncia che conferma quanto denunciato da tempo da avvocati, attivisti e organizzazioni internazionali: cercare asilo non è un crimine, e guidare un’imbarcazione per salvare se stessi e altri dalla guerra o dalla persecuzione non può essere equiparato al traffico di esseri umani. L’organizzazione Human Rights Legal Project (HRLP), che ha rappresentato 9 degli 11 imputati, ha definito la sentenza “una pietra miliare” e “un passo necessario verso un futuro più giusto”. Gruppi come Aegean Migrant Solidarity e Community Peacemaker Teams che hanno seguito il processo da vicino, fornendo supporto legale, mediatico e umano ai richiedenti asilo coinvolti, hanno sottolineato come questa sentenza “è solo il minimo sindacale”: secondo il diritto internazionale, le persone non devono mai essere punite per essere state trafficate, che si tratti di richiedenti asilo o meno. La criminalizzazione in questi casi non è solo illegittima, ma profondamente immorale. Il principio di protezione: la Convenzione di Ginevra Fondamentale nella difesa è stato il richiamo all’articolo 31 della Convenzione di Ginevra del 1951, che stabilisce che una persona che entra irregolarmente in un paese per chiedere asilo non può essere penalizzata, a condizione che si presenti tempestivamente alle autorità e giustifichi la sua condotta. Nel contesto greco – e più in generale in Europa – questo principio è stato spesso ignorato, con la conseguenza che centinaia di richiedenti asilo sono stati accusati e incarcerati con pene durissime per il solo fatto di aver tenuto il timone durante la traversata del Mar Egeo. La pratica dei “boat drivers”: una strategia di sopravvivenza criminalizzata Negli ultimi anni, migliaia di persone sono state arrestate in Grecia con l’accusa di “traffico di migranti”, nonostante siano esse stesse persone in cerca di protezione. I “boat drivers” sono spesso coloro che, per disperazione o necessità, si offrono di guidare l’imbarcazione in cambio della gratuità del passaggio, oppure lo fanno in condizioni di emergenza, quando il timoniere designato non è in grado di continuare la traversata. Secondo i dati raccolti da Borderline Europe, Watch the Med – Alarm Phone e Refugee Support Aegean (RSA), la Grecia ha il più alto numero di detenuti per reati legati al traffico di migranti in tutta l’UE, con condanne che possono arrivare anche a 100 anni di carcere. La portata della sentenza di Samos è doppia: giuridica e simbolica. Giuridica, perché si tratta di 11 assoluzioni consecutive, un chiaro segnale di discontinuità rispetto alla prassi corrente. Simbolica, perché rappresenta un primo passo verso il riconoscimento ufficiale della non colpevolezza delle persone in movimento, sfidando una narrazione securitaria che vede nella migrazione irregolare un problema di ordine pubblico anziché una questione umanitaria. Ma la giustizia non è (ancora) uguale per tutti Dei dodici imputati iniziali, uno è stato condannato: si tratta dell’unico che non è riuscito a dimostrare la volontà o l’avvio di una procedura di richiesta d’asilo. Questo conferma quanto fragile e soggettivo sia, in molti contesti, il confine tra “migrante da proteggere” e “persona da punire”. Inoltre, tutti gli assolti avevano già trascorso tra i sei e i dieci mesi in detenzione preventiva, spesso in condizioni carcerarie difficili e con accesso limitato a interpreti e difesa legale qualificata. La detenzione preventiva viene spesso usata come forma di deterrenza e punizione anticipata, in violazione del principio di presunzione di innocenza. Verso un cambiamento sistemico? La sentenza di Samos apre la porta a nuove strategie di difesa legale e potrebbe essere usata come precedente giuridico in futuri casi simili. Tuttavia, serve un cambiamento più profondo: un’armonizzazione europea che impedisca l’uso punitivo del diritto penale nei confronti delle persone migranti. Il caso solleva domande cruciali per l’Unione Europea, in particolare sul rispetto dei diritti fondamentali, del principio di non discriminazione, e della proporzionalità della pena nei confronti di chi attraversa le frontiere per salvare la propria vita. Il verdetto di Samos non chiude un capitolo, ma ne apre molti altri. È una vittoria del diritto e della dignità, frutto della tenacia di avvocati, attivisti, osservatori, e delle stesse persone accusate ingiustamente. Ma è anche un promemoria amaro: la giustizia, spesso, va conquistata centimetro dopo centimetro. Guidare una barca per sopravvivere non è un crimine. La lotta per la libertà di movimento continua.  Fonti: @hrlpsamos @aegean_migrant_solidarity @cpt.ams Melting Pot Europa