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Colonizzati da tech Usa: l’illusione di autonomia di Italia ed Ue
L’Europa continua a confondere addestramento con cultura digitale. La colonizzazione tecnologica americana prosegue indisturbata, mentre di sovranità non resta che qualche slogan buono per i convegni Ci stiamo avvicinando a passi da gigante a quella che Gibson chiama “la singolarità dell’idiozia“, in inglese Singularity of Stupid. Da una parte ci sono quelli che vogliono menare i russi trent’anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, e dall’altra ci sono gli Stati Uniti che non sanno decidere se preferiscono una dittatura o una guerra civile, con una crescente possibilità di ottenere entrambe. In mezzo, c’è una dozzina di tipi oscenamente ricchi e fantasticamente stupidi, che si diverte a bruciare centinaia di miliardi in un culto millenaristico chiamato Intelligenza Artificiale. E poi ci siamo noi delle colonie, sempre pronti a correre dietro all’ultima moda che viene da oltreoceano. Tra i temi affrontati da Vannini nell'articolo, segnaliamo: * ChatControl: quando la sicurezza minaccia la privacy * L’illusione della sicurezza senza privacy * Il grande errore del cloud computing * L’America di Trump: una nuova realtà geopolitica * L’assenza di sistemi operativi europei * L’addestramento mascherato da digitalizzazione * L’illusione dell’intelligenza artificiale Leggi l'articolo completo Oppure ascolta il podcast
PALESTINA: 713 GIORNI DI GENOCIDIO A GAZA. 300 VITTIME ACCERTATE IN 3 ORE, PROSEGUE L’INVASIONE VIA TERRA A GAZA CITY.
  Non si ferma il genocidio a Gaza: in soli tre giorni dall’inizio dell’invasione israeliana via terra di Gaza City, il numero dei morti accertati ha superato i 300 mentre le forze di Tel Aviv hanno intensificato i raid aerei sulla città, riducendola in macerie e portando alla mobilitazione dei carri armati israeliani. Secondo fonti ufficiali israeliane, circa 500.000 palestinesi sarebbero fuggiti dalla principale città della Striscia. Tuttavia, è difficile confermare questa cifra a causa del blackout delle comunicazioni: Tel Aviv ha infatti interrotto l’accesso a Internet per gran parte della Striscia, cercando di impedire la diffusione di informazioni e notizie indipendenti. Soltanto nelle prime ore di oggi, giovedì 18 settembre, i bombardamenti israeliani hanno causato 83 morti, dopo i 99 di ieri e i 110 di martedì. Gli ospedali, già al collasso, non riescono più a far fronte al numero crescente di feriti mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha lanciato un allarme: “I feriti non riescono a ricevere assistenza, e la crescente violenza sta impedendo l’accesso alle strutture sanitarie, mettendo in grave pericolo la vita di centinaia di persone.” Su Radio Onda d’Urto, la corrispondenza dalla Striscia di Gaza con Sami Abu Omar, cooperante di tante realtà solidali italiane, in particolare del Centro “Vik – Vittorio Arrigoni” e di ACS, oltre che nostro collaboratore. Ascolta o scarica. Nel frattempo, il ministro dell’economia israeliano, il colono fascista Bezalel Smotrich, vuole passare all’incasso: “Gaza rappresenta una miniera d’oro. Dopo aver investito ingenti somme nella guerra, Israele dovrebbe negoziare una spartizione del territorio con gli Stati Uniti”, che dal canto loro – fonte: il bilancio del Pentagono – hanno speso negli ultimi mesi mezzo miliardo di dollari in missili intercettori per difendere Israele, soprattutto durante i giorni di scontro aperto con l’Iran. Ancora Palestina: le violenze non si limitano alla Striscia di Gaza, ma si estendono anche alla Cisgiordania occupata. Da quando è iniziata l’invasione di Gaza, si è registrata un’ondata senza precedenti di raid, rapimenti e distruzione, giustificata dalle autorità israeliane con la pretesa di dover fermare gli attacchi di Hamas sulla West Bank. L’esercito israeliano ha ordinato centinaia di rapimenti (“arresti”, dice Tel Aviv) mentre i coloni – ancora più liberi di agire grazie al supporto delle forze occupanti israeliane – hanno intensificato il furto di terre e risorse dai palestinesi, oltre agli atti di terrorismo per spingere la popolazione a fuggire. Sul fronte internazionale: Le autorità Usa hanno avviato il processo di espulsione del palestinese Mahmoud Khalil, studente della Columbia e noto attivista per i diritti della Palestina, accusato di aver omesso (presunte) informazioni nella domanda di green card. L’Unione Europea, ha invece annunciato delle (micro)sanzioni economiche contro i responsabili israeliani, tra cui i ministri Smotrich e Ben Gvir, noti per il loro supporto ai coloni mentre le sanzioni, che riguardano la sospensione di alcuni accordi commerciali; si parla comunque di 227 milioni di euro, una goccia nel mare delle complicità europee con Tel Aviv. Nonostante questo, per il via libera alle sanzioni serve l’ok unanime dei 27 Paesi Ue; fantapolitica, al momento, vista la contrarietà già esplicitata da Germania e Repubblica Ceca. L’approfondimento su Radio Onda d’Urto con Samir Al Qaryouti, giornalista italopalestinese e collaboratore tra gli altri di Al Jazeera, BBC e France 24. Ascolta o scarica.
Chat Control: quando la protezione dei minori sfida la riservatezza digitale
Chat Control UE: la nuova proposta di regolamento che rischia di compromettere la privacy digitale. Scansione preventiva dei messaggi per proteggere i minori vs. sorveglianza di massa. Analisi dei rischi e alternative possibili Nell’autunno del 2025 si prepara ad approdare al Consiglio dell’Unione Europea una proposta di regolamento nota con l’appellativo mediatico di “Chat Control” – che, se approvata, ridisegnerebbe dalle fondamenta l’architettura giuridica e tecnica delle comunicazioni digitali. Si tratta di una misura che si presenta formalmente come strumento di contrasto alla diffusione online di materiale pedopornografico e come risposta all’esigenza, difficilmente contestabile sul piano etico e politico, di proteggere i minori nello spazio digitale. L’idea sottesa è quella di obbligare tutti i principali fornitori di servizi di messaggistica, da WhatsApp a Signal fino a Telegram, nonché le piattaforme social, a introdurre sistemi di scansione preventiva dei messaggi, delle immagini e dei file scambiati tra utenti, così da rilevare contenuti potenzialmente illeciti prima ancora che vengano cifrati e trasmessi. Si tratta di un passaggio tecnico che appare marginale ai più – la scansione “lato client” prima della crittografia end-to-end – in realtà contiene la potenzialità di sovvertire la promessa stessa di riservatezza che da sempre sorregge la comunicazione privata. Infatti, in nome di un obiettivo unanimemente condiviso, si rischia di introdurre per la prima volta nella storia giuridica europea un meccanismo normativo che legittimerebbe la sorveglianza preventiva universale delle comunicazioni, non più su base mirata, autorizzata e proporzionata, bensì attraverso algoritmi automatizzati che passerebbero al setaccio miliardi di messaggi quotidiani. Leggi l'articolo
Le Dita Nella Presa - Antitrust e privacy: i tribunali se ne lavano le mani
Una settimana di sentenze per il mondo della silicon valley, tanto in Europa quanto negli Usa. Nonostante Google prenda una multa da quasi 3 miliardi di dollari per abuso di posizione dominante, non si può lamentare: il "rischio" antitrust è scongiurato, e l'Unione Europea si mostra più tenera del solito. Infatti nonostante negli Usa Google sia riconosciuto come monopolista nel settore delle ricerche sul Web, il giudice ha valutato di dare dei rimedi estremamente blandi, molto lontani da quelli paventati. Ricordiamo che si era parlato addirittura di obbligare Google a vendere Chrome. Anche nell'Ue i giudici sono clementi. Il caso Latombe, che poteva diventare una sorta di Schrems III, non c'è stato: la corte ha dichiarato che il Data Protection Framework è valido, e che quindi la cessione di dati di cittadini Ue ad aziende Usa è legale. È un grosso passo indietro nel braccio di ferro interno all'unione europea tra organismi che spingevano per questa soluzione (la Commissione) e altri che andavano in senso opposto (la Corte di Giustizia). Difficile pensare che i recenti accordi sui dazi non c'entrino nulla. Ascolta l'audio sul sito di Radio Onda Rossa
Trasferimento dati Ue-Usa: Tribunale Ue salva il Data Privacy Framework. Le prime reazioni
Il Tribunale dell’Unione europea, con sentenza del 3 settembre, ha respinto il ricorso del deputato francese Philippe Latombe diretto ad annullare il nuovo quadro normativo per il trasferimento dei dati personali tra la UE e gli USA. Non si sono fatte attendere le prime reazioni alla sentenza. Il team legale di Latombe ha scelto un ricorso piuttosto mirato e ristretto contro l'accordo sui dati UE-USA. Sembra che, nel complesso, il Tribunale non sia stato convinto dalle argomentazioni e dai punti sollevati da Latombe. Tuttavia, ciò non significa che un'altra contestazione, che contenga una serie più ampia di argomenti e problemi relativi all'accordo, non possa avere successo. Latombe potrebbe anche decidere di appellare la decisione alla CGUE, che (a giudicare dalle precedenti decisioni in "Schrems I" e "Schrems II") potrebbe avere un'opinione diversa da quella del Tribunale. Max Schrems, fondatore di NOYB – European Center for Digital Rights, ha dichiarato: "Si è trattato di una sfida piuttosto ristretta. Siamo convinti che un esame più ampio della legge statunitense, in particolare dell'uso degli ordini esecutivi da parte dell'amministrazione Trump, produrrebbe un risultato diverso. Stiamo valutando le nostre opzioni per presentare tale ricorso". Sebbene la Commissione abbia guadagnato un altro anno, manca ancora la certezza del diritto per gli utenti e le imprese" Leggi l'articolo
Accordo Usa-Ue: sono dazi nostri!
di Marco Bersani Il fatto che l’incontro per definire un accordo sui dazi fra Stati Uniti e Unione Europea si sia tenuto nel lussuoso Golf Club di Turnberry, in Scozia, di proprietà del tycoon Trump, la dice lunga sulla gerarchia Continua a leggere L'articolo Accordo Usa-Ue: sono dazi nostri! proviene da ATTAC Italia.
Trump e Meloni sullo scudo modello NATO in Ucraina imbrogliano il mondo
A Giorgia Meloni non è bastato evidentemente il fallimento del “modello Albania” e la sostanziale sconfitta riportata sul Piano Mattei per l’Africa, un continente sempre più destabilizzato, nel quale, a partire dalla Libia, il ruolo dell’Italia si avvia a diventare marginale, e subordinato a quello di potenze emergenti come la Turchia e l’Egitto, per non parlare degli Emirati arabi e della Cina. Con una sudditanza sempre più evidente della Presidente del consiglio nei confronti degli Stati Uniti. No, non ci sentiamo affatto rassicurati. La sceneggiata ad uso elettorale mandata in onda su scala globale per celebrare gli accordi tra Putin e Trump sulla pelle degli ucraini, con il contorno di leader europei ormai alla disperazione, alla vigilia di sconfitte elettorali che andranno a tutto vantaggio dei partiti nazionalisti, ha attribuito alla presidente del Consiglio “tanto longeva nel suo incarico”, secondo Trump a differenza dei predecessori, un ruolo di grande mistificazione. Lo stesso Trump la ha infatti riconosciuta come ideatrice dell’idea di ricorrere ad un meccanismo simile all’art.5 del Trattato della Nato, per garantire una cornice di sicurezza agli accordi capestro che si vorrebbero imporre a Zelensky, anche se rimane fuori discussione l’ingresso dell’Ucraina nella Nato. Nè a garantire l’operatività delle misure di solidarietà militare previste dall’art.5, di cui nessuno ricorda l’esatta portata, basterebbe un eventuale ingresso di questo paese nell’Unione europea, che non avrebbe mai le risorse militari per garantire la copertura invocata dagli ucraini rispetto al potenziale offensivo degli arsenali russi, ormai in crescita inarrestabile, come dimostrano i successi sul campo di battaglia. In ogni caso l’Europa dei “volenterosi” disposti a garantire una copertura militare per la sicurezza dell’Ucraina non corrisponderà mai a tutti i paesi membri, ed i tempi, oltre che i termini, di un eventuale ingresso di Kiev nell’Unione europea rimangono assolutamente incerti. Non si sa neppure che fine abbia fatto in questo frangente l’OSCE, che pure dovrebbe favorire la “composizione politica, globale e durevole dei conflitti”. Altra vittima dell’abbattimento del diritto internazionale per effetto delle politiche basate sulla deterrenza militare e sul ricorso alla forza degli eserciti. L’art. 5 del Trattato Nato prevede che i Paesi membri della Nato “concordano che un attacco armato contro uno o più di essi in Europa o nel Nord America sarà considerato un attacco contro tutti”. Si tratta evidentemente di una norma la cui portata vincolante si esaurisce all’interno del Trattato, ed una sua eventuale estensione a paesi che non ne siano membri, non è fonte di un obbligo rilevante sul piano del diritto internazionale. Nel caso dell’Ucraina, ci si limiterebbe ad una mera dichiarazione di intenti, che resterebbe soggetta ad una continua rinegoziazione qualora si dovesse passare alla fase attuativa dell’impegno di solidarietà, inviando uomini e mezzi sui territori che diventino oggetto di un conflitto armato. Si dimentica poi che in base allo stesso articolo 5 ogni intervento armato adottato per effetto di questa norma “e tutte le misure prese in conseguenza di esso saranno immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza”. Si prevede inoltre che “Queste misure termineranno allorché il Consiglio di Sicurezza avrà preso le misure necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali”. Un meccanismo di copertura militare reciproca come l’art.5 del Trattato non appare dunque ipotizzabile al di fuori di un convolgimento dell’ONU, senza diventare un mero strumento di ritorsione militare, quindi un atto di guerra. Qualunque intervento armato al di fuori dei confini nazionali, in uno Stato di diritto, come l’Italia, inoltre, dovrebbe essere approvato dal Parlamento, e dal Presidente della Repubblica, non solo dal governo, approvazione che non appare affatto scontata, in Italia, come in altri paesi appartenenti alla Nato. La deterrenza di un simile meccanismo, che sarebbe la grande idea suggerita dalla Meloni a Trump, è assolutamente nulla, come è risultata nulla la deterrenza degli accordi con i paesi terzi, e la esternalizzazione delle frontiere italiane in Albania, rispetto al blocco delle partenze di migranti e rifugiati che si agita come un mantra davanti all’elettorato. Il precedente caso di applicazione dell’art.5, con l’invio di truppe NATO in Afghanistan, dopo l’attacco alle Torri gemelle nel 2001, dovrebbe fare riflettere sulle conseguenze devastanti che il ricorso a simili strumenti militari, basati su imbrogli internazionali, operazioni di polizia internazionale e subitanee ritirate, può produrre. Con la politica restrittiva di Trump nei confronti della NATO si possono prevedere oneri crescenti per il sostegno di questa organizzazione, che andranno a gravare sui paesi europei. Ma anche al di fuori della NATO i Paesi europei del gruppo dei “volenterosi” dovranno pagare miliardi di dollari per acquistare armi dalle aziende statunitensi per sostenere l’Ucraina, compresi i sistemi Patriot. L’incremento esponenziale della spesa militare porterà non solo alla moltiplicazione dei conflitti su scala globale, ma ridurrà in tutti i paesi gli spazi di copertura della spesa sociale ed i margini già ristretti di un confronto democratico, a partire dall’asservimento dell’informazione. Nel caso del conflitto in corso in Ucraina, al di là del rischio immanente di una guerra nucleare, la questione della sicurezza, e dunque sul modello dell’ombrello NATO derivante dall’art.5 del Trattato è strettamente connessa alla definizione dei confini territoriali tra i contendenti, paese occupante e paese invaso, e non può essere trattata separatamente. Tanto più si insisterà su questa proposta, tanto più, in assenza di un “cessate il fuoco” immediato, Putin, incontro dopo incontro, sarà indotto a conquistare la maggior parte possibile di territorio ucraino, continuando a prendere tempo su una falsa trattativa, che nei risvolti economici ha già concluso con Trump su uno scacchiere ancora più ampio dell’Europa, mentre le sue truppe avanzano giorno dopo giorno sempre più in profondità verso Kiev. Colpendo a morte quello che rimane dell’Ucraina come sistema paese, continuando ad uccidere civili, ed a imporre deportazioni di massa. Esattamente quei crimini di guerra riconosciuti dalla Corte Penale internazionale, che adesso si vorrebbero cancellare, dopo la legittimazione che gli ha riconosciuto Trump nell’incontro di Anchorage in Alaska. Legittimazione che, al di là dei prossimi incontri bilaterali, trilaterali o quadrilaterali, potrebbe cancellare il ruolo della giustizia internazionale, da tempo nel mirino dei leader sovranisti, e portare ad una serie di prevaricazioni sempre più gravi da parte del capo del Cremlino non solo sull’Ucraina, ma sull’intera Unione europea. Unione europea che i partiti nazionalisti indeboliscono dall’interno, alla rincorsa di canali preferenziali con gli Stati Uniti, come nel caso della Meloni, o con la Russia, come nel caso di Orban. Non è vero, dunque, che il richiamo all’art.5 del Trattato della Nato sarebbe una “garanzia di sicurezza stabile, duratura, effettiva”, come sostiene da mesi Giorgia Meloni, senza insistere, a differenza di altri leader europei, come Macron e Merz, sulla assoluta urgenza di una immediata cessazione delle ostilità. E non risulta neppure vero, alla prova dei fatti, che Putin abbia accettato “robuste garanzie di sicurezza” per l’Ucraina “sul modello dell’articolo 5 della Nato.” Un modello che non appare replicabile al di fuori dell’Alleanza atlantica, in regioni dai confini incerti, nelle quali i combattimenti, con bombardamenti sempre più estesi e feroci, continuano sotto la spinta dell’esercito russo, anche mentre sono in corso i colloqui di pace. Se si escludono la Nato e l’Unione europea, al di là dell’ONU, non si vede da dove potrebbero arrivare queste garanzie, mentre appare chiaro il costo che potrebbero comportare per i paesi membri dell’UE, che si ritroverebbero costretti ad acquistare a caro prezzo gli armamenti ed i sistemi di guerra elettronica prodotti negli Stati uniti. Lo stesso articolo 5 del Trattato non esaurisce peraltro gli strumenti di difesa collettiva che più Stati possono adottare nel caso di aggressione contro uno solo di essi. Strumenti che vanno ricercati al di fuori del Trattato istitutivo dell’Alleanza atlantica. I Russi, con le più recenti dichiarazioni subito dopo il termine della kermesse ad uso elettorale di Washington, hanno dichiarato che non accetteranno mai truppe di paesi aderenti alla Nato in territorio ucraino, svelando l’imbroglio imbastito da Trump con la complicità di Giorgia Meloni. Sarebbe invece tempo di tornare ad una negoziazione multilaterale nella sede naturale di risoluzione dei conflitti internazionali che dovrebbe essere costituita dalle Nazioni Unite. Istituzione da riformare, l’ONU, ma che nel frattempo non può essere cancellata, come sta avvenendo in questi giorni. Al di fuori di questa prospettiva di confronto tra gli Stati, imposta dai Trattati internazionali seguiti alla catastrofe del secondo conflitto mondiale, non ci sono prospettive di pace duratura in Ucraina, e negli altri territori nei quali sono in corso conflitti armati che ormai si giocano prevalentemente sulla pelle della popolazione civile, come a Gaza e nell’intera Palestina. Tutto il resto è imbroglio, mistificazione dei fatti e delle norme internazionali, frutto di una informazione monopolizzata dai governi ed imposta ad elettorati sempre più arroccati nell’individualismo, nel rancore sociale o nell’astensione. Parlano di pace giusta, alimentano la guerra permanente. Gli ossimori della democrazia “autoritaria”, basata sul personalismo del leader, e della guerra “pacificatrice”, come sistema di composizione dei conflitti internazionali, sono ormai più che compiuti. Se questo è il nuovo ordine mondiale, a pagare il conto più atroce saranno le generazioni future. Fulvio Vassallo Paleologo
Politica dei dazi, multipolarismo e rischio di crisi del dollaro: qualche riflessione
 Ma i rapporti economici tra Usa ed Europa stanno realmente come millantato da Trump? I dati ufficiali pubblicati dall’ufficio statistico del Consiglio d’Europa raccontano un’altra storia_ Si sa che a furia di ripetere il falso, la menzogna si invera. Media mainstream e governanti europei accettano passivamente l’idea trumpiana che i rapporti economici tra gli Usa e l’Unione Europea siano del tutto squilibrati a vantaggio dell’Europa, capace di esportare negli Usa molto più di ciò che importa. In tale contesto, i dazi vengono così legittimati e giustificati e, tutto sommato, il raggiungimento di un accordo che li posiziona al 15% non è poi tanto male.  Si dimentica, tuttavia, che tale accordo rimane valido solo se accompagnato da 600 miliardi di dollari di investimenti oltreoceano e 750 miliardi in forniture energetiche americane, gnl in testa, nei prossimi tre anni. Considerando che ad oggi l’importazione in Europa di prodotti energetici dagli Usa è pari a 75 miliardi, difficilmente questa condizione potrà essere rispettata. Nel 2024, per quanto riguarda la bilancia commerciale (ovvero l’export e import di merci e servizi), considerando le sole merci, si registra un surplus commerciale a favore dell’Europa di ben 198 miliardi di euro (532,3 miliardi di euro è il valore delle esportazioni dell’UE verso gli USA contro 334,8 miliardi di euro delle importazioni dagli USA). Ma se prendiamo in esame anche i servizi (soprattutto quelli intangibili), la situazione cambia radicalmente. Gli Usa infatti presentano un surplus commerciale di 148 miliardi, a fronte di un export Usa verso l’Europa pari a 334,5 miliardi e import dagli Usa in Ue di 482,5 miliardi. Ne consegue che l’Europa presenta un surplus commerciale complessivo di 50 miliardi, cioè solo il 3% dell’intero interscambio di merci e servizi tra le due aree economiche (pari a 1.684,1 miliardi). Ma non basta. Per dare un quadro esaustivo del frapporti economici tra Usa e UE occorre considerare anche i movimenti di capitali, che comprendono l’insieme delle transazioni finanziarie e creditizie. Secondo i dati del Fondo monetario internazionale, il saldo finanziario bilaterale Ue-Usa nel 2024 alla voce investimenti diretti esteri è pressoché in equilibrio. Nel 2022 – ultimo dato disponibile -, erano gli Usa a essere in avanzo sulle transazioni finanziarie, ovvero a rivendicare una prevalenza di attività (assets) rispetto alle passività (liabilities) dovute ai Paesi oltreoceano, con un avanzo di circa $49 miliardi. La bilancia dei pagamenti (bilancia commerciale e movimenti dei capitali) tra Usa e UE è quindi sostanzialmente in pareggio. Di conseguenza non c’è nessuna ragione economica che può legittimare l’imposizione di dazi. Vi sono però giustificazioni e motivazioni politiche. È noto che Trump ha ereditato dall’amministrazione Biden un’economia con un tasso di crescita positivo, ma con elevata inflazione e un forte e crescente indebitamento, sia nei conti con l’estero che in termini di debito pubblico. Un indebitamento che richiede un costante finanziamento sui mercati speculativi finanziari e sul mercato dei titoli pubblici. La politica monetaria Usa per tale motivo non ha ritenuto opportuno abbassare i tassi d’interesse, anche in previsione di una riduzione dell’inflazione (entrando in conflitto con lo stesso Trump) per mantenere quel ruolo di attrattore di capitali esteri necessari per ripagare i due debiti. La possibilità di attrarre capitali esteri (soprattutto dai paesi che vantano i più alti surplus commerciali con gli Usa, Cina e Giappone in testa) dipende dalla capacità del dollaro di mantenere la sua posizione dominante di valuta di riserva e di scambio internazionale. In contemporanea è necessario che anche gli indici delle borse americane (Dow Jones, Nasdaq, S&P500) si mantengano su livelli elevati, senza pagare eccessivamente le conseguenze di alti tassi d’interesse. Il primo semestre 2025 ha dato segnali contradditori che al momento non consentono ancora di valutare l’efficacia della politica di Trump nell’obiettivo di rimarcare l’egemonia unipolare Usa come principale condizione (tra le altre) per mantenere la stabilità e la solvibilità economica. L’andamento del PIL Usa ha fatto registrare un aumento del 3% nel II trimestre dopo un calo, inatteso, dello 0,5% nel I trimestre (dovuto all’incremento dell’import dei semilavorati del 41% per fare magazzino prima dell’imposizione dei dazi). Il dato del II trimestre, tuttavia, non deve ingannare.  Uno dei principali motori di questo rimbalzo è stato il contributo delle esportazioni nette (grazie anche, come vedremo, alla svalutazione del dollaro), che hanno aggiunto ben 5 punti percentuali al PIL. Tuttavia, il quadro non è completamente roseo: i consumi interni – storicamente il cuore pulsante dell’economia americana – hanno rallentato, con un aumento dell’1,4%, registrando, in due trimestri consecutivi, il ritmo più contenuto da quando è scoppiata la pandemia. Anche gli investimenti privati mostrano segni di indebolimento, mentre la domanda interna, misurata dalle vendite finali ai consumatori privati statunitensi, è cresciuta solo dell’1,2%, toccando il minimo da fine 2022. L’inflazione, infine, si è attestata al 2,5%, confermando che le pressioni inflazionistiche restano presenti, anche perché tale dato non tiene conto dell’andamento dei prezzi dei beni energetici e alimentari. Sul piano finanziario, il movimento dei capitali tra Usa ed Europa a partire dal 2025 ha mostrato una inversione di tendenza, con lo spostamento di fondi dagli Stati Uniti verso il continente europeo (e anche verso altri paesi), con il 39% dei gestori di fondi che ha sovrappesato le azioni europee a marzo 2025 (ovvero, assegnato un peso maggiore a una determinata azione o titolo rispetto a come sarebbe rappresentato nell’indice di riferimento: indice di aspettative positive al rialzo), mentre il 23% ha sottopesato i titoli statunitensi, la percentuale più alta mai registrata da Bank of America. Tale dinamica significa che è diminuita la fiducia negli investimenti finanziari verso gli Stati Uniti e la capacità attrattiva di Wall Street, dopo che al 30 giugno 2024 – secondo i dati del Ministero del Tesoro –  il valore totale degli investimenti esteri in attività finanziarie americane aveva raggiunto il suo massimo storico con un valore pari a 30.881 miliardi di dollari con un aumento di circa il 20% rispetto al 30 giugno 2023: tale cifra consisteva per il 60% circa di azioni delle corporation americane e per il restante 40% di titoli di stato. I principali creditori risultano essere, in ordine di impegno, la Gran Bretagna, Isole Cayman, Giappone, Canada, Lussemburgo, Irlanda, Cina e Svizzera. Nel corso dell’ultimo anno, il blocco Cina + Hong Kong ha venduto titoli di stato americani per un importo pari a 30 miliardi nel mese di marzo 2025, riducendo lo stock di titoli USA a 1033 miliardi di dollari. Nonostante la flessione mensile, su base annua la Cina registra ancora un saldo netto di acquisto di titoli americani per 53 miliardi di dollari. Rispetto al picco del 2015, il saldo complessivo ha registrato una contrazione di circa un terzo, a conferma di una strategia di progressiva diversificazione degli investimenti cinesi delle riserve Usa in valuta estera. È prevedibile che tale dinamica continui anche nell’immediato futuro e possa essere accentuata dal conflitto commerciale in atto sui dazi. Il risultato di questa inversione di tendenza ha avuto effetti non secondari sulla quotazione del dollaro, che a partire da quest’anno ha cominciato a svalutarsi per una quota più o meno del 10%. È difficile prevedere se tale svalutazione del dollaro sia solo congiunturale o nasconda qualcosa di più strutturale. La politica dei dazi di Trump nel breve periodo potrebbe favorire un incremento di entrate per le casse federali. Secondo Il New York Times, con i dazi introdotti da aprile, prima ancora che entrino in vigore dall’8 agosto quelli nuovi, Donald Trump ha incassato finora 152 miliardi di dollari, circa il doppio dei 78 miliardi di dollari entrati nelle casse federali nello stesso periodo dell’anno fiscale precedente. Solo a luglio le tariffe hanno fruttato quasi 30 miliardi di dollari. Gli analisti prevedono che nel tempo i nuovi dazi di agosto potrebbero generare entrate aggiuntive per oltre 2000 miliardi di dollari nel prossimo decennio, ovvero 200 miliardi all’anno. Un effetto positivo che rischia però di essere vanificato dal rischio di un aumento dei prezzi. Secondo il Budget Lab di Yale, un centro di ricerca politica indipendente, i prezzi aumenteranno dell’1,8% nel breve termine, con una perdita di reddito di 2.400 dollari per famiglia. Inoltre Trump, grazie all’effetto clava della politica dei dazi, soprattutto in sede di trattativa con l’Europa, ha ottenuto notevoli vantaggi fiscali per le imprese americane. Durante la riunione del G7 in Canada che si è svolto lo scorso 16-17 giugno, si è deciso, su pressione degli Usa, di non applicare la tassa minima globale sui profitti delle multinazionali che governano le piattaforme globali sotto il controllo americano. La proposta era già di per sé minima, considerando che l’aliquota proposta era pari solo al 15% (mentre ogni lavorator* o pensionat* paga aliquote ben più alte) ma era comunque qualcosa. C’è anche chi ha parlato, sfidando il ridicolo, di “compromesso onorevole” (il ministro dell’economia e delle finanze Giancarlo Giorgetti). Ma non basta. In sede di discussione del bilancio pluriennale europeo 2028-2034, oltre a ratificare il piano “ReArm Europe (che porta, come richiesto sempre da Trump e dalla Nato, le spese militari di ogni paese membro al 6% del Pil), la Commissione Europea ha deliberato di eliminare anche la proposta della digital tax, prelievo mirato a colpire i big della rete come Google, Meta e Amazon. L’insieme di queste decisioni ha galvanizzato la borsa americana, a seguito dei crescenti profitti che le imprese americane si apprestano a ottenere, grazie alla complicità fiscale. La svalutazione della valuta americana e la riduzione degli investimenti esteri in Usa non ha, per il momento, avuto effetto sulle aspettative speculative in atto, se non per un breve periodo. Dopo aver toccato il massimo a fine gennaio 2025 (44.850 punti), l’indice Dow Jones mostra segni di cedimento proprio per la svalutazione della valuta Usa e le incertezze della politica economica, sino a toccare il minimo a inizio aprile (37.645 punti), per stabilizzarsi sui 40.000 punti sino a metà giugno, quando le aspettative sono ritornate positive per le corporation americane. Oggi, il Dow Jones si colloca sui 45.000 punti.  Meglio ancora ha fatto lo S&P500 che a fine luglio ha superato del 4% il massimo storico di inizio febbraio 2025. Siamo dunque in presenza di segnali ambivalenti. Ma su un punto si può concordare: nonostante gli sforzi corporativi di Trump, la capacità Usa di guidare e dominare l’economia mondiale come ai bei tempi del Washington Consensus, a cavallo del millennio, è in declino. Non solo per le difficoltà debitorie dell’economia statunitense ma soprattutto per il fatto che negli ultimi trent’anni sono nati competitors sempre più agguerriti su scala globale, in grado di operare con innovatività, efficienza e cultura economica diversa. Stiamo ovviamente parlando di Cina, India, Brasile e gli altri paesi Brics+, non a caso i paesi che maggiormente sono stati attaccati da Trump con la politica dei dazi. È interessante notare che per India e Brasile, la giustificazione dei dazi non è di natura economica ma politica. Il Brasile viene sanzionato perché Lula sta avviando il procedimento di accusa per colpo di Stato al precedente presidente Bolsonaro e l’India perché acquista petrolio e gas dalla Russia di Putin. Più sfumata la posizione con la Cina e altri paesi del Sud-Est asiatico, con l’esclusione dei più piccoli. Tale prudenza non sorprende. Le grandi imprese americane sono fortemente internazionalizzate e hanno bisogno delle produzioni asiatiche di semilavorati e delle materie prime, oggi nevralgiche per l’innovazione tecnologica nell’industria dell’elettrico, dei big data e dell’intelligenza artificiale. L’introduzione di dazi in questi settori avrebbe forti ripercussioni sui prezzi dei beni americani e sulla profittabilità delle aziende. I proclami di Trump di riterritorializzare la produzione e/o di ridefinire linee di subfornitura “friend-shoring” (cioè con paesi amici, che non gravitano nell’area Brics+) difficilmente potranno diventare realtà nel breve termine. Ma l’egemonia politica internazionale non si gioca solo sul piano economico, ma anche logistico, militare e finanziario. A quest’ultimo riguardo, come abbiamo visto, è in atto, ma ancora in forma debole, un processo di de-dollarizzazione, seppur in presenza di una centralità delle borse americane del dettare le convenzioni speculative. Interessante notare la prudenza della Cina (e della Russia) di non accelerare verso la creazione di una moneta internazionale alternativa al dollaro (che si dovrebbe chiamare R5), soprattutto se ancorata alle terre rare. Questo è stato uno dei punti in agenda durante il vertice Brics+ di Johannesburg del 2023.Ma tale opzione ha avuto al momento uno stop nell’incontro Brics+ 2024 a Kazan, dove si è chiesto piuttosto una riforma del FMI e nel summit recente di Rio 2025 dove i BRICS+ hanno chiesto maggior potere decisionale all’interno del FMI. In ogni caso, la realtà ci dice che l’ammontare delle transazioni commerciali tra i paesi BRICS che non si basano sul sistema Swift (dollaro) sono in forte aumento e che oggi tali transazioni rappresentano circa un quarto del commercio mondiale (24%). Se i tempi per una nuova valuta di riferimento internazionale in grado di sostituire il dollaro non sono ancora maturi, Trump può favorire tale maturazione se la politica dei dazi con l’obiettivo di ridurre il debito estero favorisce una fase recessiva e quindi una possibile svalutazione del dollaro, come sta, in parte, già avvenendo. Sul piano logistico-tecnologico, la supremazia dei BRICS+ è oggi senza discussione, anche se è in corso un tentativo di recupero delle big tech americane. Il problema piuttosto è l’emergere di tensioni competitive all’interno di un gruppo eterogeneo come quello dei Brics soprattutto tra India e Cina. Sul piano militare, la supremazia Usa non è soverchiante, anzi. Nel campo della tecnologia militare e dei nuovi metodi di combattimento (i droni), ad esempio, la Russia dispone di tecnologia più avanzata e la Cina è il paese che ha maggiormente aumentato la spesa militare. La richiesta di riarmo europeo a vantaggio del militare Usa cerca di sopperire a questa situazione. In conclusione, la visione degli Usa come potenza egemone richiede oggi una qualche revisione così come l’idea che oggi esiste un unico imperialismo, quello statunitense. Esistono diversi imperialismi con metodologie e logiche diverse (basti pensare alla penetrazione commerciale della Cina in Africa e oggi in Sudamerica). È il frutto della globalizzazione neoliberista. Da questo punto di vista, aveva ragione Marx nel Discorso sul libero scambio, pronunciato all’Associazione Democratica di Bruxelles il 9 gennaio 1848 e poi pubblicato in appendice a Miseria della filosofia: > “… ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema > del libero scambio è distruttivo. Il libero scambio dissolve le antiche > nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra la borghesia e il > proletariato. In una parola, il sistema della libertà di commercio affretta la > rivoluzione sociale. È solo per questo esito rivoluzionario, signori, che io > voto in favore del libero scambio”. *DOCENTE DI ECONOMIA POLITICA Redazione Italia
Unione europea: cronaca di una deriva senza fine – di Paolo Punx
C'era una volta un continente europeo, che nello scacchiere internazionale appariva uno dei pochi a possedere e propagandare la necessità di un welfare state e la tutela di alcuni inalienabili diritti universali. Ben inteso, sia il welfare che la tutela dei diritti rappresentavano il tentativo keynesiano di rispondere alle lotte che nel novecento avevano [...]
Office365 ci faceva schifo, ma adesso ci piace tanto. La papercompliance della Commissione Europea
Long story short: l'8 marzo 2024 la Commissione Europea, con il supporto dell'EDPB, il Garante Europeo, ha riscontrato una serie di criticità e violazioni, 180 pagine per descrivere minuziosamente le ragioni per le quali office356 fa talmente schifo da non poter essere utilizzato dagli enti, istituzioni e organi dell'Unione Europea. Dopo varie interlocuzioni e modifiche, l'11 luglio l'EDPB ha chiuso l'indagine confermando la risoluzione delle problematiche precedentemente riscontrate. Oggi, 28 luglio, la Commissione Europea ha emanato un comunicato dichiarando la conformità di Microsoft 365 alla normativa in materia di protezione dei dati applicabile (che non è il GDPR ma quasi... qui si applica il regolamento UE 2018/1725) L'EDPS (che non è l'EDPB ma quasi) ha eslamato giubilante: "Grazie alla nostra indagine approfondita e al seguito dato dalla Commissione, abbiamo contribuito congiuntamente a un significativo miglioramento della conformità alla protezione dei dati nell'uso di Microsoft 365 da parte della Commissione. La Corte riconosce e apprezza inoltre gli sforzi compiuti da Microsoft per allinearsi ai requisiti della Commissione derivanti dalla decisione del GEPD del marzo 2024. Si tratta di un successo significativo e condiviso e di un segnale forte di ciò che può essere conseguito attraverso una cooperazione costruttiva e una vigilanza efficace." Cosa è successo? Cosa potrà mai essere accaduto, nel frattempo, per consentire a Microsoft Office365 di entrare trionfante nel valhalla, accompagnato dalla immortale musica di Wagner? Perché non mi sento affatto tranquillo? Beh, forse io non faccio testo... Leggi l'articolo di Christian Bernieri