Enzo Fileno Carabba / Quanti diluvi?
Sul finire del Quattrocento Leonardo da Vinci pose un’obiezione di tipo
scientifico al Diluvio raccontato nella Genesi. Se è stato universale, a un
certo punto la superficie esterna della Terra è stata tutta acqua: e poi
quell’acqua che fine ha fatto? Come e dove si è ritratta? Questo era il primo
problema, che anche altri dopo Leonardo si posero, mentre il secondo era: da
dove sono arrivate le acque che hanno completamente sommerso la Terra? La
pioggia da sola non poteva essere bastata.
Sulla scia della “dubitazione” di Leonardo si situano le varie teorie sulla
formazione della Terra elaborate nel Seicento. Una delle più celebri è quella
del reverendo Thomas Burnet che scrisse Telluris theoria sacra: una geologia
biblica, nella quale cerca di spiegare gli eventi sacri in modo scientifico,
razionale, mediante processi naturali come la pioggia e l’evaporazione. Burnet
era uno di quelli che non credeva che l’innalzamento del livello dell’acqua
degli oceani potesse da solo spiegare il Diluvio universale, e scrisse a un
contemporaneo: “Posso credere che il mondo potrebbe essere inondato dalle acque
che vi si trovano quanto al fatto che un uomo possa essere sommerso dalla
propria saliva” (la citazione è riportata da S. Jay Gould, Il piccolo sporco
pianeta del reverendo Thomas, in Questa idea della vita. La sfida di Charles
Darwin, Codice edizioni, Torino 2015, 1° ed. 1977).
Oggi i tentativi di spiegare scientificamente il Diluvio universale possono far
sorridere eppure sono il segno non solo di contesti e condizionamenti religiosi
e culturali del passato, ma anche di quanto certe storie siano necessarie tanto
che si fa di tutto per non buttarle via: di quanto siano archetipiche e moderne,
e si possano continuamente raccontare da capo, come ha fatto Enzo Fileno Carabba
proprio con una delle storie bibliche (e non solo) più note, quella del Diluvio
e dell’arca di Noè. Anche perché, come scrive l’autore-narratore, “Se siamo qui,
è grazie a individui in cui non crediamo più”. Carabba racconta la storia come
un romanzo, diviso in tre parti: Fuori, ovvero fuori dall’arca, prima del
Diluvio; Dentro, e poi di nuovo Fuori, dopo il ritorno alla terraferma.
Un racconto di distruzione e di morte ma anche di rinascita, con una guest star
unica, un seicentenario di nome Noè. Un uomo grottesco che progetta di navigare
su un mare inesistente e che affronta con preoccupazioni tutto sommato leggere
la solitudine dell’essere stato prescelto, l’attesa di una catastrofe e
l’impresa per tutti insensata che ha messo in atto. Non è facile scegliere come
agire quando si è l’unico ad aver sentito una voce potente e ad aver visto un
angelo, e non si sa neanche esattamente perché arrivi il Diluvio (Dio come
sempre è di poche parole). La principale virtù di Noè era “la capacità di
concentrarsi su un punto fino a farlo diventare gigantesco” e tutto ruota
intorno a quel punto, a quello spazio visivo, anche le relazioni non sempre
facili con i figli (che qui sono quattro e non tre come nel racconto biblico) e
il rapporto con la moglie Naama (menzionata un’unica volta nella Genesi, ma che
nel romanzo invece assurge a ruolo di coprotagonista), l’unica a non giudicarlo
mai.
Carabba prova a raccontare i 40 giorni e le 40 notti dentro l’arca, dei quali la
Bibbia nulla dice. La convivenza forzata al chiuso, senza luce, mentre sette
metri di acqua sommergono le cime più alte della Terra – compreso il Paradiso
terrestre – determinò comportamenti non convenzionali di uomini e animali,
nonché una grande confusione, perché gli animali non erano ancora stati
classificati dagli umani e a Noè (“un uomo del fuori, non del dentro”) capitava
anche di usare nomi diversi per le stesse creature. Carabba scombina e allarga
il racconto originale. La storia ufficiale dice che sull’arca non salirono
cuccioli di nessuna specie: vogliamo credere che sia perché “i piccoli in certe
situazioni diventano velocemente adulti”. Noè proibì gli accoppiamenti?
Probabilmente perché sapeva bene che “certi divieti aumentano l’interesse per
l’atto vietato”. Il problema era che gli uomini si potevano spaventare con la
questione della colpa, della loro tracotanza, della necessaria punizione, ma
queste cose agli animali non si potevano raccontare.
Il Fuori, però, la prima parte del libro, resta la più riuscita, anche perché
animata dal problema centrale di tutta la storia, il più misterioso: la
questione della selezione. Noè viene scelto, e a sua volta deve scegliere chi
salvare e far salire sull’arca. Nella finzione di Carabba accade però che questi
animali, che chiaramente l’autore ammira come li ammira lo stesso Noè, un po’ si
scelgano da soli, iniziando a mettersi in fila per entrare nell’arca ben prima
degli uomini, per lo più stolti e scettici. L’unica cosa che Noè fa, oltre a
costruire l’arca, è cercare di riconoscere le manifestazioni del male presenti
sulla Terra, così da non portarsele in mare.
Gli animali diversamente dagli umani preveggono la pioggia, o forse
semplicemente hanno una idea del futuro più marcata rispetto agli umani. Credono
nella salvezza insensata su un improbabile barcone di legno e nel ritorno a
terra dopo il lavaggio del mondo. “Forse dopotutto il messaggio dell’arca per
noi è questo: è proprio a bordo del ridicolo e dell’assurdo che ci salveremo.
Perché i molti che hanno provato a salvarsi con troppa serietà sono finiti nella
tristezza, che quando sale alla gola è anche peggio del diluvio di acqua”. In
questo romanzo ironico e profondo, tutto animale e umano e dove la divinità è
assente, il futuro di Noè (e di noi lettori) si dispiega inaspettato sul finale,
sulla linea dell’orizzonte di quel nuovo mondo finalmente tornato asciutto e
assolato.
Leonardo da Vinci si chiedeva: come hanno fatto a scendere le acque, se non
c’era un solo punto della Terra dove potessero scendere? Le prime due risposte
che gli vengono in mente, e che gli sembrano improbabili, sono che l’acqua sia
evaporata tutta oppure che sia accaduto un miracolo (che è poi quel che si dice
nella Genesi: Dio fece soffiare un vento sulla Terra e le acque si abbassarono).
Leonardo propende per una terza ipotesi, che in fondo è la stessa alla quale
arriverà il naturalista Georges Cuvier, partendo da tutt’altre osservazioni,
quasi tre secoli dopo: il Diluvio non è stato universale, ci sono stati tanti
diluvi di dimensione piccola e locale. Non è una affermazione di poco conto ed è
molto di più che una spiegazione empirica e razionale: significa la speranza che
altri si siano salvati, che le salvezze e le arche siano state più di una e
parallele, ciascuna a insaputa dell’altra. O che esistano luoghi che non sono
stati sommersi dal male, dalla rabbia, dalle acque; e soprattutto, la speranza
che possano essere esistite più persone che come Noè tutte si sono concentrate
su un singolo punto – mettere in salvo gli altri – sino a farlo diventare
gigantesco.
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