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Tra Cina e Giappone si allungano le ombre del nazionalismo
Le dichiarazioni della premier giapponese, Sanae Takaichi, secondo cui un eventuale attacco cinese a Taiwan «minaccerebbe la sopravvivenza del Giappone» e potrebbe dunque giustificare l’impiego delle Forze di autodifesa anche senza un attacco diretto, hanno provocato la reazione immediata di Pechino . La prima risposta alle dichiarazioni di Takaichi è stata quella classica, la convocazione dell’ambasciatore giapponese a Pechino. Immediatamente è stata attivata l’oliata e sempre più pervasiva macchina della propaganda, soprattutto attraverso i social, che ha presentato Takaichi come un mostro che vuole far rivivere gli orrori del militarismo imperiale nipponico. Per inciso, la storia dell’occupazione e dei massacri giapponesi in Cina in questa vicenda conta. Dal massacro di Nanchino alle nefandezze dell’Unità 731 comandata da Shiro Ishii, quella memoria viene tramandata da decenni sia a tutela della legittimità del partito che (assieme al Kuomintang) ha liberato il paese dagli occupanti, sia per contrastare ogni nuova tentazione militarista di Tokyo. Poi è arrivato l’invito del governo a studenti e tour operator a non andare in Giappone (a poco più di un mese dal Capodanno cinese, per l’economia nipponica si profilano perdite pesanti), perché il paese sarebbe “pericoloso”. Su questo fronte – quello economico-commerciale – nei prossimi giorni la Cina potrebbe esercitare ulteriori pressioni sul Giappone, per ottenere il dietrofront di Takaichi. Navi della guardia costiera di Pechino si sono dirette verso le isole contese Diaoyu-Senkaku. I missili Usa di medio raggio, testati per la prima volta in Giappone (e già provati nelle Filippine), così come la risposta di Pechino all’esternazione su Taiwan della neopremier nipponica, sono un sintomo delle cause profonde di questa crisi: nel Pacifico occidentale l’egemonia Usa sta subendo forti scossoni, sia per l’ascesa economico-militare della Cina, sia per la scelta di Washington di delegare in parte agli alleati la difesa dei suoi interessi e i relativi oneri. Ne parliamo con Sabrina Moles di China files.
NUOVO PROGETTO MANHATTAN, BOLLA AI, LOTTA AI DATACENTERS
Estratto dalla puntata di lunedì 17 novembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia / / immagine da 404media.co BOLLA AI E LOTTA CONTRO I DATACENTERS Mentre giganti della finanza come Warren Buffet e Micheal Burry, scommettono sull’approssimarsi di una nuova crisi scatenata dalla bolla dell’intelligenza artificiale, cerchiamo di tornare a osservare alcune declinazioni materiali e territoriali della cornice tecnologica in cui si sviluppano questi eventi. Da un lato il controllo di Taiwan potrebbe non essere sufficiente per concludere la corsa al primato sull’AI intrapresa dai grandi poli geotecnologici (Cina e USA), dall’altro le lotte contro il moltiplicarsi dei datacenters iniziano ad assumere una scala rilevante. Andiamo a raccontare il caso di Ypsilanti (Michigan), dove la comunità locale ha resistito al progetto di un centro di super-calcolo ed elaborazione dati che avrebbe visto fondersi – in modo esplicito – militare e civile, nucleare e AI, Los Alamos National Laboratories e Università del Michigan. A margine un’osservazione comparativa delle risorse investite nel vecchio Progetto Manhattan (corsa alla bomba atomica) e nel Nuovo Progetto Manhattan (corsa al primato cognitivo e militare dell’AI). per maggiori info su Ypsilanti
BASTIONI DI ORIONE 09/10/2025 – UNO SGUARDO PREOCCUPATO ALLA SVOLTA NAZIONALISTA GIAPPONESE E UN’IMMERSIONE IN UNA NARRAZIONE ALTERNATIVA ALLA PROPAGANDA BELLICA PRO UCRAINA DELL’UNIONE EUROPEA
Nella consueta indifferenza dell’informazione occidentale il partito al potere in Giappone dal dopoguerra a oggi si è adeguato al vento di destra imposto dal trumpismo, preparando il nazionalismo nipponico al suo ruolo al centro del fronte del Pacifico nel prossimo conflitto: la premier in pectore è Takaichi Sanae, creatura di Taro Aso, ipermilitarista conservatrice. Marco […]
La diplomazia del Vaticano a stelle e strisce: Leone XIV raccoglie l’eredità cinese di Papa Francesco
La nomina del vescovo Lin Yuntuan a vescovo ausiliare di Fuzhou da parte del Vaticano segna una svolta nelle relazioni sino-vaticane. Sotto la guida di Papa Leone XIV, il primo pontefice americano, la Santa Sede ha pienamente attuato il controverso accordo provvisorio del 2018 con Pechino – un delicato equilibrio diplomatico che preserva l’ultimo canale funzionale dell’Europa verso la Cina, pur mantenendo i legami formali con Taiwan. La cerimonia di insediamento dell’11 giugno ha coronato un processo meticolosamente orchestrato che ha coinvolto le approvazioni del comitato cattolico del Fujian, riconosciuto dallo Stato, della Conferenza episcopale cinese e del Vaticano. Questo meccanismo di approvazione trilaterale, istituito in base al rinnovo dell’accordo del 2022, rappresenta un raro consenso operativo tra Roma e Pechino. Questo gesto avviene nel cuore di una contraddizione geopolitica. La Santa Sede è l’unico Stato europeo a mantenere relazioni diplomatiche formali con Taiwan, ma al tempo stesso è l’unico attore che riesce a dialogare concretamente con la Cina sulla base di meccanismi concordati. Mentre altri soggetti occidentali, come gli Stati Uniti – che hanno riconosciuto formalmente la Repubblica Popolare Cinese come unico governo legittimo della Cina fin dal 1979, in adesione alla politica della “One China” sancita dalla Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1971 – alimentano le tensioni nello Stretto di Taiwan con forniture militari, esercitazioni navali e una retorica conflittuale, il Vaticano si muove nella direzione opposta. In assenza di formali relazioni diplomatiche con Pechino, la Santa Sede ha costruito una via propria: silenziosa, paziente, diplomatica. È questo l’autentico volto della diplomazia di pace. Ad oggi, sono soltanto tredici gli Stati che mantengono relazioni diplomatiche ufficiali con Taiwan, tra cui piccoli Paesi insulari come Palau, Tuvalu e Nauru, e alcune nazioni dell’America Latina e dell’Africa. La Santa Sede è l’unico soggetto sovrano europeo a farlo. Ciò rende la sua capacità di dialogo con Pechino ancora più singolare: un attore diplomatico che, senza rinunciare a relazioni con Taipei, riesce a costruire un’intesa funzionale con il governo cinese su una materia delicatissima come la nomina dei vescovi. La figura di Lin Yuntuan, 73 anni, già amministratore apostolico della diocesi di Fuzhou e protagonista della vita ecclesiale locale fin dagli anni ’80, diventa così la prima espressione visibile dell’accordo Vaticano-Cina nel contesto del nuovo pontificato. Nato a Fuqing, nel Fujian, Lin è stato ordinato sacerdote nel 1984 ed è stato consacrato vescovo nel 2017. La sua lunga esperienza amministrativa e pastorale nella regione lo ha reso figura di fiducia sia per Roma che per Pechino. La scelta della diocesi di Fuzhou ha anche un valore simbolico. Il Fujian è la regione cinese più vicina a Taiwan ed è da secoli crocevia della diaspora cinese sull’isola. Oltre la metà della popolazione taiwanese ha origini nel Fujian, e numerose famiglie conservano ancora oggi legami familiari e culturali con la Cina continentale. La diocesi di Fuzhou include anche territori (come le isole Matsu) che, pur sotto l’amministrazione de facto di Taipei, appartengono alla giurisdizione religiosa cinese. In questo senso, la nomina di Lin assume un ulteriore valore: quello di unire simbolicamente due rive dello stesso mondo sinico-cattolico, in una fase storica segnata dalla divisione. La diplomazia della Santa Sede, anche con un papa di passaporto statunitense, non si piega alle logiche dei blocchi. L’Accordo del 2018 non è stato annullato, ma rilanciato: in un’epoca in cui le grandi potenze alzano la voce e accumulano armamenti, il Vaticano scommette ancora su un modello di pazienza diplomatica. Il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha parlato esplicitamente di un “ulteriore frutto del dialogo tra la Santa Sede e le autorità cinesi”. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha dichiarato il 12 giugno che “la Cina è disposta a collaborare con il Vaticano per promuovere il continuo miglioramento delle relazioni Cina-Vaticano attraverso il dialogo costruttivo e la fiducia reciproca”. Il contrasto con la diplomazia statunitense è netto. Washington sostiene apertamente l’armamento di Taipei e ne fa una pedina nel confronto strategico con la Cina. Eppure, è proprio grazie a questo approccio che, almeno in ambito ecclesiale, si è evitata una frattura insanabile. L’alternativa era proseguire con nomine unilaterali, scismi de facto e comunità cattoliche divise tra clandestinità e patriottismo. La Santa Sede ha scelto un’altra via: imperfetta, ma praticabile. Va riconosciuto che il processo resta fragile. La nomina unilaterale del vescovo di Shanghai nel 2021 ha dimostrato i rischi concreti di un accordo ancora soggetto a interpretazioni divergenti. E il carattere “provvisorio” dell’intesa, rinnovata a scadenza quadriennale, rende il cammino costantemente esposto a scossoni. Ma proprio per questo, ogni passo compiuto ha un valore doppio: non solo come atto ecclesiale, ma come segnale politico. In un mondo che sembra bruciare sotto il peso dei conflitti, dal genocidio in corso a Gaza agli attacchi contro l’Iran, la Santa Sede versa sapienti e pazienti gocce d’acqua sul fuoco, alimentando riconoscimento multipolare e flebili ma forti speranze di pace. L’accordo con la Cina si distingue da altri modelli (come quello informale col Vietnam o la semplice tolleranza di Cuba) per la sua forma strutturata e vincolante. A differenza di contesti dove la diplomazia è improvvisata, il caso cinese è codificato, scritto, sottoscritto. Ed è in questo spazio scritto che si muove il Papa, con pazienza e determinazione. L’attitudine multilaterale e multipolare del Vaticano non si limita alla Cina. La Santa Sede mantiene un impegno costante nella costruzione di relazioni pacifiche anche in America Latina e Africa, dove il ruolo di mediazione e dialogo interreligioso è spesso l’unica alternativa credibile alle derive securitarie o alle interferenze esterne. La diplomazia vaticana opera con la stessa logica paziente e discreta: riconoscere le complessità locali, ascoltare i bisogni delle comunità, costruire ponti dove altri alzano muri. La nomina di Lin Yuntuan non è solo la cronaca di un’ordinazione episcopale: è la conferma che la Santa Sede continua a esercitare una funzione unica sulla scena internazionale. E lo fa oggi, con un pontefice statunitense che non tradisce, ma rilancia, la via del dialogo. Forse è proprio da qui, e non dai vertici militari o dai forum geopolitici, che può partire una nuova idea di convivenza pacifica. La speranza, per ora, ha un nome e una diocesi: Lin Yuntuan, Fuzhou.     Redazione Italia