La Procura contesta l’assoluzione di Maysoon MajidiL’assoluzione pronunciata dal Tribunale di Crotone del 5 febbraio 2025 sembrava
aver posto fine alla vicenda giudiziaria che aveva visto coinvolta l’attivista
curdo-iraniana Maisoon Majidi, imputata di favoreggiamento dell’immigrazione
clandestina a seguito dell’arresto dopo lo sbarco sulle coste italiane.
Notizie
IL CASO MAYSOON MAJIDI E LA CRIMINALIZZAZIONE DEI MIGRANTI
L'attivista curda iraniana è stata assolta da tutte le accuse
Chiara Lo Bianco
10 Febbraio 2025
La donna era stata fermata mentre tentava di allontanarsi attraverso la
boscaglia insieme pochi altri migranti, tra cui il capitano dell’imbarcazione,
ed era stata accusata di aver coadiuvato la navigazione di un natante con a
bordo circa settanta persone partite dalla Turchia.
Tuttavia, la giovane donna non ha fatto in tempo a riprendere la sua vita in
mano, dopo la lunga detenzione preventiva subita lo scorso anno nelle more del
processo di primo grado, che si trova nuovamente a dover difendere la propria
innocenza stante l’appello proposto dalla Procura per asserite irregolarità
procedurali e contraddizioni nelle prove raccolte.
Segnatamente, i motivi a sostegno della richiesta di riesame risiedono nella
convinzione da parte dell’Ufficio della Procura, che il Tribunale abbia male
interpretato i fatti esposti nel corso del processo, trascurando alcuni elementi
probatori, quali video e contatti telefonici, pervenendo così ad una motivazione
insufficiente e incoerente.
Appare dunque utile richiamare, sia pur sinteticamente, i passaggi salienti
della motivazione della sentenza del Tribunale di Crotone.
Primariamente, il Collegio ha ritenuto inattendibili le dichiarazioni
accusatorie tanto per ragioni procedurali quanto per ragioni contenutistiche.
Le accuse mosse a Maysoon Majidi si fondavano principalmente sulle dichiarazioni
rese alla polizia giudiziaria da due migranti irregolari che viaggiavano sul
medesimo barcone e che avevano descritto la giovane donna come libera di
muoversi durante la traversata e in possesso del proprio telefono cellulare, a
differenza degli altri passeggeri, cui era stato sottratto per l’intera durata
del viaggio secondo le regole imposte dai trafficanti responsabili.
Tali affermazioni, tuttavia, costituivano l’unico elemento a carico, per altro
integralmente smentite sia dalle risultanze probatorie – in particolare dalle
dichiarazioni del comandante dell’imbarcazione, del fratello e della stessa
imputata – sia da elementi oggettivi, quali l’analisi dei messaggi scambiati da
Majidi con la propria famiglia.
Dall’esame incrociato dei dati estratti dal cellulare e delle immagini in esso
contenute emerge chiaramente che l’utilizzo del dispositivo è avvenuto soltanto
nei momenti in cui ciò era consentito a tutti i migranti; analoga conclusione
vale per quanto riguarda gli spostamenti sull’imbarcazione. Ne consegue che le
dichiarazioni accusatorie non superano la soglia della prova oltre ogni
ragionevole dubbio e, pertanto, il Tribunale ne ha attestato l’inattendibilità.
Giova ricordare che, in ossequio al principio dell’onere della prova, cardine
del processo italiano, spetta all’accusa dimostrare i fatti attribuiti
all’imputato, mentre alla difesa compete un’attività di mera confutazione,
volta, in termini processuali, a far sorgere il ragionevole dubbio.
Sotto il profilo procedurale, inoltre, a tali dichiarazioni non poteva comunque
essere attribuita natura di piena prova, trattandosi di affermazioni rese da
soggetti indagati per reato connesso (ingresso irregolare ex art. 10-bis T.U.
imm.), successivamente acquisite al fascicolo dibattimentale ai sensi dell’art.
512 c.p.p. per sopravvenuta irreperibilità dei dichiaranti, circostanza che ha
impedito la loro escussione diretta in dibattimento.
Dall’analisi dei dati di traffico telefonico emerge ancora un’ulteriore lacuna
nella ricostruzione proposta dall’Accusa.
Secondo quest’ultima, Majid sarebbe giunta a bordo dell’imbarcazione in
automobile, diversamente dalle consuete modalità con cui si svolgono tali
viaggi; tuttavia, le indicazioni di orario e di luogo ricavate dall’esame del
cellulare dell’imputata, e segnatamente una fotografia ritraente il fratello che
viaggiava con Maysoon, hanno dimostrato che non vi è stata alcuna discrepanza
rispetto al trattamento riservato agli altri passeggeri.
Il Collegio ha altresì escluso che Maysoon Majid potesse avere un pregresso
rapporto o potesse aver instaurato un legame amicale con il comandante
dell’imbarcazione, considerata la barriera linguistica tra i due e l’assenza di
evidenze idonee a corroborare tale ipotesi.
Infine, il Tribunale ha riaffermato la consolidata giurisprudenza in materia di
onere della prova, rilevando che l’Accusa non ha dimostrato la veridicità della
propria ricostruzione in ordine al presunto mancato pagamento della traversata.
Secondo i giudici, non vi è alcuna prova che l’asserita – e già di per sé non
comprovata – attività coadiuvante possa aver costituito controprestazione per il
compimento del viaggio.
Del resto, dalle conversazioni telefoniche frammentarie intercettate tra la
famiglia Majid e la giovane, nonché quelle tra quest’ultima e l’organizzatore
del viaggio, risulta sempre chiaro il riferimento al già avvenuto pagamento
totale della traversata.
In ultimo, il Tribunale si è pronunciato sulla circostanza per cui l’imputata,
abbandonata l’imbarcazione prima dell’approdo lungo la costa calabra, si era
data alla fuga, insieme ad altri quattro soggetti, tra cui il comandante del
natante, nel tentativo di far disperdere le proprie tracce.
La Procura riteneva che la fuga fosse motivata dalla necessità di evitare
l’accusa di favoreggiamento di immigrazione clandestina; eppure, dalle
conversazioni rilevate dal telefono di Maysoon emerge ripetutamente l’intento di
evitare i controlli di frontiera in quanto avrebbero precluso la possibilità di
avanzare richiesta di asilo in Germania, Paese in cui risiede la famiglia con
cui Maysoon e il fratello tentavano di ricongiungersi.
In forza del regolamento di Dublino, è possibile richiedere asilo nel Paese
Europeo di primo approdo: ne consegue che se i fratelli Majidi fossero stati
bloccati alla frontiera italiana non avrebbero potuto regolarizzare il loro
status e dunque permanere legalmente in Germania.
Per le ragioni anzidette il Tribunale di Crotone si è pronunciato assolvendo
Maysoon Majid “per non aver compiuto il fatto”, dunque, riscontrando la mancanza
di sufficienti elementi probatori tali da corroborare, al di là del ragionevole
dubbio, l’incriminazione originariamente ascrittale ex art. 12 T.U. imm.
Si ritiene tuttavia doveroso sottolineare che anche qualora Maysoon Majid avesse
compiuto atti di aiuto nella gestione della traversata – resa particolarmente
complessa dalle caratteristiche del mezzo impiegato, dall’elevato numero di
persone a bordo, dalle condizioni meteorologiche talvolta avverse e dalle
precarie condizioni igienico-sanitarie – al solo fine umanitario e senza alcun
coinvolgimento nell’organizzazione criminale, sarebbe comunque incorsa in una
condanna.
L’attuale formulazione dell’art. 12 T.U. Imm. determina, infatti, una
sostanziale equiparazione tra i soggetti che organizzano e traggono profitto dal
viaggio e coloro che, mossi dallo stato di necessità in cui versano i migranti
durante la traversata, intervengono unicamente per garantire che il viaggio si
concluda nelle migliori condizioni possibili.
Si tratta, dunque, di un problema normativo: l’ampiezza della fattispecie
incriminatrice e la rigidità sanzionatoria previste dall’attuale sistema penale
– specie in considerazione delle circostanze aggravanti previste dalla norma di
legge – continuano a colpire indiscriminatamente sia i trafficanti sia chi
presta un ausilio occasionale, senza distinguere il diverso grado di
responsabilità e il reale disvalore della condotta.
Una criticità che, peraltro, non può dirsi esclusivamente italiana, che, al
contrario, prende vita dai principi di matrice comunitaria e, in particolare,
del cosiddetto Facilitators package 1, che, a sua volta, suggerisce obblighi di
criminalizzazione.
In conclusione, la vicenda giudiziaria di Maysoon Majidi mette in luce le
profonde distorsioni prodotte dall’attuale disciplina sul favoreggiamento
dell’immigrazione irregolare.
La sentenza di primo grado si pone come correttivo di alcune delle storture che
caratterizzano processi di questo tipo e nell’analisi della sua motivazione
propone l’interpretazione più favorevole all’imputata nel rispetto di un’altra
regola base del processo penale italiano: il favor rei; principio per il quale,
in caso di conflitto o incertezza interpretativa, deve prevalere sempre la
soluzione più favorevole all’imputato; per altro, fornendo una interpretazione
compiuta, logica e coerente con le prove del processo.
Per tutte le ragioni esposte, l’appello proposto dalla Procura risulta privo di
fondamento e non offre elementi idonei a giustificare un ribaltamento della
decisione assolutoria di primo grado. Il caso Majidi conferma, tuttavia, la
necessità urgente di un intervento legislativo, a livello sia nazionale che
europeo, volto a circoscrivere l’ambito di applicazione dell’art. 12 T.U. imm.
ai soli casi di effettivo sfruttamento dei migranti, evitando di criminalizzare
atti di necessità o di solidarietà.
Fino a quando ciò non avverrà, vicende come quella di Maysoon Majidi
continueranno a ripetersi, esponendo a sofferenze ingiuste decine di migliaia di
persone coinvolte in contesti di estrema vulnerabilità.
1. Formato dalla direttiva 2002/90 volta a definire il favoreggiamento
dell’ingresso, del transito e del soggiorno illegali nel territorio
dell’Unione e dalla decisione quadro 2002/946 relativa al rafforzamento del
quadro penale per la repressione delle condotte in questione ↩︎