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Scuola Estiva di Filosofia: cura vs. consumo, distruzione, guerra
Con il tema della Cura inauguriamo quest’anno un progetto che ci accompagnerà fino al 2026 e che avrà in Materia il secondo termine di riferimento della nostra riflessione. È la materia viva come limite immanente della realtà il soggetto e insieme l’oggetto della cura. L’idea è quella di ragionare sulla coppia cura/materia nella forma di una interdipendenza reciproca, di un chiasmo: l’una implica l’altra e viceversa. Chiediamoci allora in prima battuta che cosa bisogna intendere con “cura“: l’occuparsi di sé che si esercita attraverso la conoscenza introspettiva oppure, secondo un’accezione più materiale, l’attività teorica e pratica con cui ci alleniamo ai diversi usi della nostra vita? Se la cura è una specie di training preparatorio alle sfide dell’esistenza, sia in senso individuale sia in senso collettivo, allora la cura non è contemplazione, è riproduzione.  Nella filosofia contemporanea il tema della cura è centrale nei lavori di Heidegger, di Foucault e nel pensiero femminista: che rapporto c’è con l’epimeleia degli antichi? E quale significato ha la cura nel XXI secolo di fronte alla questione della giustizia socio-ecologica? Una volta sganciata dalla sfera privata e domestica e anche dall’ambito medico, ci convince il fatto di attribuire alla cura un senso etico-politico in grado di rappresentare il criterio utile a resettarci. La cura oggi come alternativa al consumo e alla distruzione, la cura come parola chiave per rifiutare la guerra e come strumento per attraversare le contraddizioni del mondo presente e per lavorare alla pace. È questa la premessa della XVI edizione della Scuola Estiva di Filosofia “Remo Bodei” di Roccella Jonica (www.filosofiaroccella.it), organizzata dal basso dall’Associazione Scholé e che si svolgerà dal 22 al 29 luglio. Ventinove iniziative tra lezioni, laboratori e incontri che vedranno la partecipazione della cittadinanza interessata e di studentesse e studenti, dottorande e dottorandi provenienti da diverse zone d’Italia e anche dall’estero. Filosofia, studi classici, fisica e storia della scienza saranno i linguaggi attraverso i quali declinare il concetto di cura, grazie ai contributi di tredici relatori/relatrici. Per entrare nel merito di alcune delle questioni che saranno oggetto di discussione, abbiamo invitato Arianna Fermani, dell’Università di Macerata e direttrice della Scuola Estiva insieme a Bruno Centrone (Pisa), Giancarlo Cella dell’Università di Pisa e dell’INFN e Paolo Godani dell’Università di Macerata a un confronto su consumo, distruzione e guerra intesi come termini opposti alla cura e proprio per questa ragione anche come problemi e prove empiriche con cui fare i conti. Il tema sarà affrontato durante l’incontro del 28 luglio, nella serata che anticipa la chiusura della Scuola affidata quest’anno proprio a Godani. “CURIA” E “INCURIA” Ripartiamo dall’antico. Quali sono i termini della filosofia greca che esprimono il senso della cura da cui possiamo prendere spunto per la nostra attualità? E quali invece i termini contrari, che danno il senso dell’incuria? Risponde Arianna Fermani: «Se è vero che, per dirla con Nietzsche, «proprio perché sono partito da lontano – dico dai Greci – ho fatto un balzo più lontano degli altri”», allora, forse, può essere utile mettersi nuovamente all’ascolto delle parole antiche che “dicono” della cura e che dànno anche voce alle numerose forme di incuria che, allora come ora, distruggono la vita degli individui e della collettività. Alla grammatica della cura – di sé e degli altri – espressa da termini quali, ad esempio, epimeleia, melete, therapeia, boetheia, si contrappongono, nel vocabolario greco, svariate espressioni dell’incuria e dell’indifferenza, quali, ad esempio, ameleia, oligoresis, aphylaxia o akedia (da cui il nostro “accidia”)». L’assenza di cura vissuta quindi come difetto, trascuratezza, negligenza? «L’incapacità di prendersi cura di se stessi e del mondo – continua Fermani – implica il cattivo uso del proprio tempo: la trasformazione della scholé, ovvero del tempo libero da dedicare alla cura di sé e alla propria askesis (cioè al lavoro, all’esercizio costante in direzione dell’acquisizione o del mantenimento della propria forma) in rathymia, ovvero in indolenza, rappresenta solo uno dei profili di una aergia (inattività) che può essere solo foriera di malattia, bruttezza e squilibrio». * * * * * LA CURA E IL LIMITE È molto interessante la connessione tra incuria, inattività e disagio psicofisico; nel mondo contemporaneo però è l’iperattività tecnico-scientifica della società di mercato a mostrare disinteresse per la cura generando caos e squilibri al livello planetario: «Abbiamo un’evidenza largamente condivisa che l’essere umano sia diventato una forza capace di modificare profondamente l’equilibrio planetario e questo impone una responsabilità nuova e profonda» – afferma Giancarlo Cella. «La scienza rende possibile definire indicatori globali che identificano i limiti entro i quali l’umanità può operare senza compromettere la stabilità del sistema Terra. Il superamento di questi limiti (climatico, della biodiversità, dei cicli dell’azoto e del fosforo, etc.) indica una crisi della cura». Di fronte alle forme di violenza e distruzione che stiamo vivendo tuttavia la scienza, fin dall’età moderna e poi dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, non è esente da responsabilità: «La scienza è uno strumento potentissimo – dichiara Cella. Può essere usata sia per il progresso e la cura, sia per la distruzione. Penso che lo stesso uso del termine “progresso” sia problematico e necessiti di essere approfondito. Lo sviluppo industriale, basato su scoperte scientifiche, ha contribuito all’inquinamento, al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità. La scienza è stata ed è al servizio di un modello economico estrattivo che non considera le conseguenze ecologiche a lungo termine, per non parlare delle tecnologie militari sofisticate e distruttive rese possibili da fisica, informatica, biologia e chimica». Oltre a mutare la rappresentazione scientifica della natura per concepire la Terra sempre più come un sistema complesso, vivente e interconnesso, occorre trasformare la rappresentazione che abbiamo della scienza stessa. «Credo – continua Cella – che la scienza possa essere anche parte della soluzione che andiamo cercando. Essa fornisce strumenti per la diagnosi del cambiamento climatico, propone tecnologie sostenibili e può guidare transizioni ecologiche se unita a valori etici e visioni politiche inclusive. Il dubbio è se sia possibile passare da una visione della scienza che vede come parole chiave ‘controllo’ e ‘dominio’ a un’altra che le sostituisce con “conoscenza” e “cura”». CURARE LE MALATTIE SOCIALI? Abbiamo bisogno di un nuovo Seicento, che teorizzi e metta in pratica riforme epistemologiche e politiche per una società della cura a venire. «Sono piuttosto pessimista sul fatto che le prossime generazioni possano vedere nascere una qualche “società della cura” – interviene Paolo Godanì– Non credo cioè che le nostre società occidentali, per come si sono degradate negli ultimi decenni e per il modo in cui oggi stanno correndo alla guerra, avranno la capacità di autoriformarsi». Però il problema resta. Con quali mezzi possiamo affrontare la “malattia” della civiltà occidentale? «Ogni “malattia” è un fenomeno collettivo. Chiama in causa le relazioni che intessiamo tra noi umani e con il resto della natura». Perciò non esiste cura che non sia politica? «Immagino – e credo che questo sia anche il compito politico di chi vede come stanno realmente le cose – che si produrranno sempre più spesso delle forme di abbandono del regime sociale dominante e del suo modo di vivere, delle pratiche di diserzione o di esodo che avranno da fondarsi su nuovi modi di stare insieme, su un nuovo modo di intendere e di realizzare concretamente l’amicizia, la solidarietà e la cura, su un nuovo modo di praticare una vita comune» – conclude Godani. La Scuola di quest’anno avrà un enorme vuoto da attraversare, con coraggio e determinazione ce ne faremo carico collettivamente. Fortunato Maria Cacciatore non c’è più, il mare e la filosofia per lui facevano parte di un rito rigenerante al quale non avrebbe mai voluto mancare. Grazie, Fortunato, per il tuo materialismo, per il tuo comunismo, per la tua generosità. L'articolo Scuola Estiva di Filosofia: cura vs. consumo, distruzione, guerra proviene da DINAMOpress.
CURAMI – PRIMA DI TUTTO LA SALUTE: LA CARENZA DI MEDICI SPECIALISTI E DI MEDICINA GENERALE
La puntata di sabato 14 giugno, intitolata “Chi ci cura? La carenza di medici specialisti e MMG. A che punto è la formazione dei nuovi medici”, ospita Francesco Corradi, Direttore della scuola di specializzazione anestesia e rianimazione dell’Università di Pisa e Andrea Filippi della CGIL Medici. Conduce la puntata Antonino Cimino.  Curami è una trasmissione di Radio Onda d’Urto in onda il sabato mattina dalle 12.00 alle 12.30 di Donatella Albini, medica del centro studi e informazione sulla medicina di genere, già delegata alla sanità del Comune di Brescia, e di Antonino Cimino, medico e referente di Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute- di Brescia. La trasmissione viene replicata mercoledi prossimo alle 12.30. La puntata di sabato 14 giugno. Ascolta o scarica
Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamento
Il libro di Gianpaolo Contestabile fornisce un interessante contributo per approfondire il dibattito sui temi della cura, del conflitto e del mutualismo nell’ambito complesso e controverso della salute mentale, che negli ultimi anni è stato attraversato da una «esplosione discorsiva» (come ha scritto Cresswell) nella quale può accadere di perdere l’orientamento. Il volume si presenta come un tentativo di riconfigurare il discorso sulla sofferenza mentale riattivando le linee del pensiero psicologico che possano aiutare a porre una distanza dal modello biomedico e dal suo riduzionismo, che isola la malattia come mera deviazione patologica, obliterando il peso dei fattori sociali e ambientali. Richiamando la figura di Franco Basaglia e la sua critica all’istituzione manicomiale, la “psicologia della salute” nata in contesti di fermento sociale come Cuba – che sposta il focus dalla mera cura alla prevenzione e alla comprensione dei determinanti sociali della salute – e gli esperimenti classici di psicologia sociale (Milgram, Asch, Zimbardo) l’autore rivendica la possibilità di costruire attraverso la psicologia un sapere critico della salute mentale, capace di comprendere come le dinamiche di potere operino non solo a livello macro-sociale, ma anche nelle micro-relazioni e nelle istituzioni. Le riflessioni in questo ambito sembrano rispondere a una crisi dei saperi psy, che si mostra nella difficoltà ad affrontare i fenomeni del disagio generalizzato fuori dalle angustie della relazione privata psicoterapeutica o delle funzioni di controllo e gestione affidate ai servizi pubblici. L’ambito dell’attivismo politico, quello a cui Giapaolo Contestabile fa esplicito riferimento anche attraverso la sua vicenda biografica (è uno dei fondatori della Brigata Basaglia) sembrerebbe quello più pronto ad affrontare questi temi. In questo orizzonte la riflessione sul contesto editoriale e sul dibattito di movimento in cui questo libro si inserisce può aiutarci a valutarne il possibile impatto. Esso infatti si pone all’interno di un gruppo di pubblicazioni, uscite dopo la sindemia di Covid, che ha provato a ricostruire la politicità del tema della cura, rimettendone i contenuti in relazioni con le riflessioni dell’attivismo di base. MUTUALISMO, MOVIMENTI E SINDEMIA Gli anni di crisi sindemica hanno aperto la strada a varie forme di mobilitazione politica e riflessione di movimento nelle quali hanno acquisito centralità la salute, la sanità e la cura. Tali elaborazioni hanno ripreso e approfondito pratiche di mutualismo e di autorganizzazione “dal basso” in continuità con alcune linee di azione politica sviluppatesi negli anni successivi alla crisi economica del 2008, particolarmente nei paesi del sud europeo. La pratica mutualistica orientata a costruire esperienze di cura autogestite, destinate a chi fosse strutturalmente escluso dai sistemi formali di protezione sociale, o a chi ne perdeva l’accesso in conseguenza di esperienze di attraversamento “irregolare” dei confini o per esperienze abitative informali, ha impegnato una variegata costellazione di soggettività di movimento italiane maturate lungo i cicli di lotte sulla casa, le migrazioni e la loro regolamentazione statale tanatopolitica (sul confine con la Francia e sulla “rotta balcanica”), in contrasto alle forme violente di segregazione ed espulsione che operano alle frontiere e nelle metropoli. Non sono mancati anche casi in cui alla produzione di servizi autogestiti si sono accompagnate esperienze focalizzate sulla costruzione di microeconomie esterne alle logiche del mercato mainstream, come i mercati contadini e le autoproduzioni, esperienze oggi in parte consolidatesi e in parte confluite in sperimentazioni maggiormente articolate di autorecupero ecologico, economie circolari e programmazione industriale. Attraverso una storia di conflitti e divaricazioni, a esse si sono affiancate esperienze di rivendicazione e progettazione tecnologica dal basso (si vedano ad esempio l’esperienza di Mondeggi o la GKN). Nel campo specifico della salute all’interno dei percorsi di mutualismo si sono sviluppate iniziative in cui, oltre a una focalizzazione sulle caratteristiche “residuali” delle soggettività destinatarie (sempre collocate lungo particolari faglie di oppressione sociale, razziale, di genere, ecc.) e sulla conseguente azione per la riduzione delle barriere (amministrative e giuridiche) all’accesso ai servizi, sono emersi approcci critici nei confronti dell’impianto istituzionale delle tecniche mainstream, delle pratiche e dei saperi medici ufficiali, riconosciute come inevitabilmente compromesse con i paradigmi escludenti e selettivi promossi dalle istituzioni pubbliche. > Nelle esperienze autogestite di mutualismo sono quindi maturate maggiori > consapevolezze rispetto alla questione dei determinanti sociali, relazionali e > ambientali della salute e si è approfondita la relazione tra l’intervento > sanitario e assistenziale e le pratiche di presa di parola e di rivendicazione > sugli assi della casa, del lavoro, dell’ambiente, della qualità della vita, > della dignità dell’accoglienza, del riconoscimento dei diritti essenziali. L’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle martellanti raccomandazioni rispetto alla “integrazione socio-sanitaria” e alla “promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che reali) è stata pienamente assunta in alcune esperienze (si veda la Rete degli Ambulatori Popolari). Stimolata dal contesto pandemico e dalla visibilità assunta dal tema della cura a partire dal marzo 2020 una parte significativa dei movimenti ha ulteriormente approfondito la propria elaborazione attraverso le riflessioni femministe e transfemministe – nelle quali è emersa con sempre maggiore importanza la componente ecologista – tematizzando la socializzazione del prendersi cura, la critica alla distribuzione iniqua del lavoro riproduttivo e ai saperi che operano la naturalizzazione forzata di tale distribuzione. Oltre a uno stretto confronto con pratiche rivendicative intese a contrastare l’invisibilizzazione delle questioni di genere in periodo pandemico (tra cui l’irrigidimento dei criteri di accessibilità all’IGV e la depauperazione dell’impianto pubblico dei consultori), le forme autogestite e mutualistiche di azione in questa area hanno riguardato la costruzione di attività nelle quali si mettessero contemporaneamente a critica i dispositivi e i saperi patriarcali e si realizzassero forme di azione collettiva basate sul riconoscimento della reciproca interdipendenza e della necessità di costruzione di relazioni, anche attraverso pratiche artistiche, performative e di inchiesta/autoinchiesta, intese a far emergere una soggettività collettiva insieme protagonista e oggetto della cura, che altrimenti sarebbe rimasta invisibilizzata dai saperi, dai discorsi e dalle pratiche dominanti. LA RIFLESSIONE TEORICA: RIPOLITICIZZAZIONE DELLA CURA E SOLIDARIETÀ Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo et al ( 2020) hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di movimento, notando come in alcuni contesti nazionali siano emersi inediti incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dar luogo a strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi. Queste elaborazioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso. L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti di discussione sul welfare attraverso cui, con il concetto di “mutualismo”, si sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni, delle assicurazioni, gli innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa sociale, ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso la prassi comunitaria, le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione, dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con una maggiore prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e coprogettazione con la cittadinanza. Nel movimento il dibattito su questi temi resta invece incredibilmente legato alle questioni poste dal testo Centri sociali: che Impresa del 1995 e dal quasi contemporaneo L’impresa sociale del 1994. Oggi discutere di mutualismo in relazione all’azione politica emancipatoria e di movimento deve confrontarsi con la difficoltà iniziale costituita dal fatto che una serie di termini (a partire dallo stesso concetto di mutualismo) indicano fenomeni con attori e campi d’azione molto diversi: si va dalle pratiche e le elaborazioni di aggregazioni di think tank ed enti di secondo livello del terzo settore e delle assicurazioni – nella cui agenda politica sta la sostituzione di un sistema di contribuzione fiscale volontaria al “vecchio” sistema di tassazione progressiva su cui si fondava l’universalismo in sanità – a centri di ricerca universitaria che, con i mantra ossessivi dell’equità e della sostenibilità, propongono forme di sussidiarietà sempre più compatibili con la totale destituzione di un sistema di protezione sociale (e sanitaria) universalistico. Vista la sovrapposizione dei campi di studio e la forza performativa rispetto al dibattito pubblico di termini elaborati in ambiti dotati di così ampio potere, le soggettività di movimento hanno sviluppato varie ipotesi per delimitare un campo autonomo di elaborazione i cui termini potessero svincolarsi dal fatto che nell’attiguo campo del terzo settore, del welfare comunitario, del privato (sociale e non), concetti come “comunità”, “partecipazione”, “reciprocità”, “attivazione” hanno stabilmente informato campi semantici utili principalmente alla penetrazione e allo sviluppo di vettori di policy making neoliberali, tendenti alla destrutturazione del welfare state di caratterizzazione fordista. Non sono appunto mancati negli spazi di movimento tentativi di risemantizzare questi concetti, delimitarne in modo più specifico il campo, di riappropriarsi delle questioni messe in gioco dal discorso neoliberale mainstream per declinarle in ottica di azione collettiva emancipatoria. Si parla ad esempio di “difendere” il mutualismo (che qui identifichiamo come “dal basso” per distinguerlo da quell’altro) oppure di “rilanciarlo”, “politicizzarlo” fino anche a chi ha proposto di “superarlo” verso pratiche maggiormente conflittuali che però ne valorizzino il portato di esperienze. Come ha spiegato recentemente Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato tra le posizioni critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” – vedendone i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali – e chi ha collocato in essi possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate a comunità oppresse e marginalizzate. > In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente > sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito > all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto > caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e > della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto > con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in > risposta a una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche > strozzate dal diktat europeo. Heath Cabot ha parlato a proposito di «solidarietà contagiosa» come «altra faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci, assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione somatica e sociale»; tuttavia riconosce che «la solidarietà ha una vita ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità». In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente esterna e alternativa ai dispositivi dei servizi statali (Spade, Mutuo appoggio), altre riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”. Gabriele Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo, perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate alcune riflessioni femministe e transfemministe (Busi, Fragnito), in particolare quelle interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste. Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la «divisione globale del lavoro di cura» e le sue contraddizioni. Secondo questa elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola, problematizzandola e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle relazioni di potere» (Krasny). L’etica della cura, che rischia di invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del Servizio Sanitario Nazionale; su questo si veda Galanti), va corretta con la riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura» (nel testo curato da Fragnito). Sugli stessi temi ha insistito il Manifesto della Cura – Per una politica dell’interdipendenza (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”. Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita (Cristina Morini)». In questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3 badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata, genderizzata e razzializzata. Proprio la capacità di impattare i servizi pubblici da parte delle pratiche mutualistiche resta il grande interrogativo di questa fase nel dibattito di movimento. PSICOLOGIA DELLA RESISTENZA Le presentazioni del libro Psicologia della resistenza, alla presenza dell’autore Gianpaolo Contestabile, stanno spesso assumendo i caratteri di vere e proprie assemblee. Il libro focalizza l’importanza del rapporto tra psicologia della salute e posture politiche critiche, evidenziando come l’approccio critico dei saperi possa incidere sull’impostazione dei servizi sanitari pubblici nel loro complesso. La psicologia della resistenza, soprattutto quella che si rifà a radici sudamericane, viene ricostruita come uno strumento fondamentale nella definizione di modelli di cura partecipati, universali e gratuiti per i movimenti rivoluzionari e democratici. La riflessione sui processi di disumanizzazione che attraversano le pratiche di gestione tanatopolitica delle migrazioni dà a Gianpaolo l’occasione di richiamare le riflessioni di Zimbardo, Milgram e Asch sui fenomeni della violenza e dell’oppressione istituzionalizzata. Gianpaolo prova a ricostruire una genealogia del sapere Psy che tenga conto delle sue possibilità emancipatorie scavando fino alle ambigue nozioni della psiche di Freud; l’autore cerca di sostenere l’esistenza di un orientamento tecnico dei saperi Psy che tenga conto delle condizioni di oppressione sperimentate da soggetti e – soprattutto – comunità sottoposte al giogo imperialista. La ricognizione di alcune possibilità inespresse contenute nelle teorie psicologiche sovietiche, così come la riflessione sulla psicologia della salute, permette a Gianpaolo di riconfigurare in termini politici le principali questioni della promozione della salute. Non essendoci un contesto comune in cui si riesca a confrontarsi collettivamente sia sulla strategia delle esperienze di movimento sia sul modo in cui stare politicamente dentro le istituzioni con i propri saperi tecnici, lo sforzo di verificare la validità e la tenuta etica delle proprie azioni è lasciato di solito a una sterile dimensione individuale. La configurazione assembleare assunta dalle presentazioni del libro di Gianpaolo Contestabile rivela il bisogno di rompere questa solitudine: il tentativo di leggere in un framework comune le varie esperienze soggettive di chi si forma, opera o in vario modo vive le discipline Psy, riesce a costruire un terreno comune nonostante le profonde differenze di approccio esistenti (che Gianpaolo rispetta nel libro lasciando aperte le questioni più controverse, come per esempio quando parla di neurodiversità). Sarebbe utile oggi indagare i motivi per cui non si sia riuscit3 a produrre una contronarrativa rispetto al tema della salute – capace di impattare sulle politiche sanitarie – nonostante numerose riflessioni e dibattiti abbiano aperto alla possibilità di sviluppare in questo senso la riflessione dopo la sindemia. Sicuramente l’assenza di un approccio unificato e interconnesso tra i temi della riproduzione sociale, del welfare, del genere, della disabilità e delle varie forme di oppressione che attraverso queste faglie si distribuiscono, impedisce una visione completa della situazione; la stratificazione dei lavori di cura – da quelli caratterizzati dall’alto potere contrattuale degli ordini professionali al lavoro nascosto e sottopagato di chi si dibatte tra caregiving non riconosciuto e sfruttamento – ha portato a una frammentazione in cui è difficile leggere le questioni comuni. Ma la lacuna più profonda sembra oggi essere quella che ha impedito di tramandare esperienze e riflessioni critiche nella formazione della psicologia come in tutte le altre professioni di aiuto. > Sono ormai divenute difficili da trovare nel dibattito dei movimenti le > riflessioni critiche sulla psicologia sviluppatesi negli anni ’70 e ‘80, a cui > hanno contribuito figure come Comba, Pirella, Fachinelli, Jervis, Risso, > Minguzzi, Palmonari e Melandri. In queste discussioni si metteva in > discussione il ruolo della psicologia, il suo rapporto con le istituzioni e > con il contesto politico-sociale, smontandone la presunta neutralità ed > elaborando metodi teorici e pratici che tenessero insieme la riflessione sul > proprio modo di svolgere le professioni di cura e le lotte che contestualmente > si sviluppavano nella società. Gli anni ‘90, con il processo che ha istituzionalizzato la formazione nel campo della psicologia e ha legato gli interessi corporativi dei nuovi gruppi professionali alle dinamiche aziendalistiche del welfare in via di innovazione, hanno contribuito a spazzare via le riflessioni critiche sulla tecnica psy come funzionale al potere e al sistema sociale esistente, colpevole di individualizzare e depoliticizzare il disagio, di riprodurre logiche di controllo e deresponsabilizzazione all’interno delle istituzioni. Senza capire cosa è accaduto negli anni ‘90 e che posizioni hanno tenuto i protagonisti di quella istituzionalizzazione, sarà difficile ricostruire forme di azione pratica capaci di mettere in discussione l’orientamento ideologico della pratica psy dominante. CONCLUSIONI Il libro di Gianpaolo Contestabile si inserisce nel solco di una serie di pubblicazioni che, a seguito della sindemia di Covid e della conseguente attenzione al tema della salute, hanno provato a riconfigurare il quadro della sofferenza riformulandolo in modi compatibili con l’attivismo di base e la mobilitazione politica. Per cogliere il senso dell’operazione di Contestabile è stato necessario delineare un quadro del contesto editoriale e del dibattito in cui essa è sorta, nei quali per ora non si sono ancora prodotti però orizzonti comuni ed efficaci strategie d’azione capaci di incidere sull’andamento delle politiche sanitarie. La difficoltà di attivare una coerente azione di movimento capace di porsi come azione di difesa popolare del Servizio Sanitario Nazionale ne è una drammatica conseguenza. In conclusione il libro si segnala per il tentativo di riannodare i fili tra sofferenza psichica, contesto sociale e impegno politico. Un’operazione necessaria, certo, in un’epoca di crescente medicalizzazione e individualizzazione del disagio. Resta da vedere se questa “psicologia della resistenza” saprà tradursi in un’azione politica e sociale incisiva, capace di superare le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano la formazione dei tecnici dei lavori di cura (soprattutto psy) e le riflessioni strategiche di movimento. Il libro offre spunti di riflessione importanti, ma la loro effettiva portata trasformativa dipenderà dalla capacità di innestarsi in un dibattito più ampio e in pratiche di elaborazione e di lotta collettiva. Immagine di copertina di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamento proviene da DINAMOpress.
Neuropsichiatria infantile: la lettera aperta in difesa di cura e riabilitazione
Di seguito la lettera che l’associazione il grande cocomero ha scritto sulle condizioni di cura degli adolescenti ricoverati alla neuropsichiatria infantile di via dei Sabelli dove ogni attività riabilitativa e le uscite per il quartiere sono state vietate, trasformando la struttura in un “carcere” e utilizzando la “sicurezza” come strumento di isolamento e paura. L’associazione fa appello alle figure sanitarie preposte, alla stampa e a tutta la comunità affinché sia garantita la cura a chi deve riprendere a crescere e affrontare i proprio disagi e patologie. -Al Direttore Generale, al Direttore Sanitario, al Direttore NPI, alla dirigente Professioni Sanitaria, alla Stampa tutta OGGETTO: Convenzione Policlinico Umberto Primo-Associazione Grande Cocomero per le attività riabilitative dei reparti e diurni della neuropsichiatria infantile di Via dei Sabelli. Da molto tempo siamo in attesa di una determina che renda ufficiale la convenzione tra l’Azienda Policlinico e la nostra associazione. Un paradosso insostenibile se si pensa che, per più di 20 anni, tutte le attività clinico-riabilitative concretizzatesi nella Neuropsichiatria Infantile di via dei Sabelli siano state concepite grazie a una proficua e consolidata collaborazione con il Grande Cocomero, ufficializzata sia dall’Azienda che dall’Università Sapienza. L’offerta degli spazi, dei volontari specializzati per i diversi laboratori (teatro, musica, movimento, arte, scrittura creativa, tutoraggio, studio …), delle idee da cui sono sorte esperienze di gruppo di ragazz* dei reparti degenza e del diurno della NPI, unitamente a una cornice di adulti operator*, capaci di esserci senza invadere e imporre ruoli, ha permesso un cambio di passo storico, all’interno della concezione dei trattamenti di salute mentale in età evolutiva. Divenendo un modello virtuoso di collaborazione tra Sanità Pubblica e cooperazione sociale, siamo stati protagonisti di una stagione di cambiamenti radicali nella cura di tanti ragazzin* e ragazz* incontrati nel tempo. Oggi invece scontiamo una incomprensibile e pericolosa “interruzione” non solo di tutte le attività del Grande Cocomero ma anche di tutti i trattamenti educativi e riabilitativi all’interno della Neuropsichiatria infantile: dalle uscite di quartiere, all’utilizzo degli spazi comuni di gioco e occupazionali ospedalieri, della piscina e della palestra. Vorremmo poter pensare che siano le lungaggini burocratiche a ritardare questo rapporto di collaborazione ma è alto il sospetto che questo tempo sospeso manifesti la non volontà di considerare la riabilitazione UNO STRUMENTO DI CURA realmente efficace per la ripresa armonica della crescita di bambini e/o adolescenti.  Oggi alla NPI si rischia di restare “rinchiusi” dentro un tempo e un luogo statici, dove il ritorno al passato, quello della psichiatria custodialistica e retriva, neutralizza l’utilizzo sempre nuovo di questi indispensabili trattamenti per la salute mentale A oggi denunciamo una violenza condita di superficialità e ignoranza, non solo per la cura delle patologie psichiatriche in adolescenza, ma il blocco delle uscite e la partecipazione ai laboratori artistico-creativi già calendarizzati per l’intero 2025. La Direzione generale, quella sanitaria e delle professioni sanitarie, stanno trasformando in un “carcere” quei Reparti e quei Servizi che da Bollea, a Lombardo Radice, Giannotti, Carratelli, Ferrara e oggi Pisani hanno rappresentato e rappresentano un riferimento teorico/clinico per tutta Italia. Sotto il nome della garanzia di “sicurezza” (irraggiungibile specialmente in adolescenza!) si abdica un percorso di cura: si annullano le testimonianze di migliaia di adolescenti, ora adulti guariti e non psichiatrizzati. Dietro lo schermo della sicurezza si nasconde una medicina difensiva che non educa, né sa gestire l’imprevedibilità. Si annulla il lavoro della cooperazione e della cura dei pazienti per educare delle/gli operatrici/ori alla difesa e ai trattamenti coercitivi. La Sanità Pubblica, come il diritto alla salute e al benessere, sta involvendo in una deriva di privatizzazioni e di diritti negati. Come Associazione Grande Cocomero, storicamente e attivamente partecipe dei numerosi progetti legati ai percorsi di cura individualizzati dei ragazz* della NPI, useremo tutti gli strumenti possibili, compresa una denuncia pubblica su giornali e TV, per NON PERMETTERE che questa storia e questo modello di cura vengano annullati o, in modo ancora più  subdolo, dimenticati fra le scartoffie dell’Azienda Policlinico Umberto I. Non possiamo aspettare ancora! Gli adolescenti ci insegnano che il tempo è oro: per vivere il presente e costruire, anche immaginandolo, il loro futuro. Vi chiediamo, quindi, di attivare TEMPESTIVAMENTE la nostra convenzione e tutte le attività dei nostri laboratori per poter utilizzare i nostri spazi a Servizio della Neuropsichiatria Infantile. Tra i nostri grandi progetti, desideriamo che la rappresentazione teatrale del Condominio di via dei Sabelli nel quartiere San Lorenzo a conclusione dei nostri lavori, possa realizzarsi. Perché la voce del grande cocomero è la voce e l’anima di chi è nel tempo giusto per scommettere sul proprio futuro. Roma, aprile 2025. Immagine di copertina: il grande cocomero su Facebook SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Neuropsichiatria infantile: la lettera aperta in difesa di cura e riabilitazione proviene da DINAMOpress.