Riflessioni a partire da un testo di psicologia della resistenza e della lotta per il cambiamentoIl libro di Gianpaolo Contestabile fornisce un interessante contributo per
approfondire il dibattito sui temi della cura, del conflitto e del mutualismo
nell’ambito complesso e controverso della salute mentale, che negli ultimi anni
è stato attraversato da una «esplosione discorsiva» (come ha scritto Cresswell)
nella quale può accadere di perdere l’orientamento. Il volume si presenta come
un tentativo di riconfigurare il discorso sulla sofferenza mentale riattivando
le linee del pensiero psicologico che possano aiutare a porre una distanza dal
modello biomedico e dal suo riduzionismo, che isola la malattia come mera
deviazione patologica, obliterando il peso dei fattori sociali e ambientali.
Richiamando la figura di Franco Basaglia e la sua critica all’istituzione
manicomiale, la “psicologia della salute” nata in contesti di fermento sociale
come Cuba – che sposta il focus dalla mera cura alla prevenzione e alla
comprensione dei determinanti sociali della salute – e gli esperimenti classici
di psicologia sociale (Milgram, Asch, Zimbardo) l’autore rivendica la
possibilità di costruire attraverso la psicologia un sapere critico della salute
mentale, capace di comprendere come le dinamiche di potere operino non solo a
livello macro-sociale, ma anche nelle micro-relazioni e nelle istituzioni.
Le riflessioni in questo ambito sembrano rispondere a una crisi dei saperi psy,
che si mostra nella difficoltà ad affrontare i fenomeni del disagio
generalizzato fuori dalle angustie della relazione privata psicoterapeutica o
delle funzioni di controllo e gestione affidate ai servizi pubblici. L’ambito
dell’attivismo politico, quello a cui Giapaolo Contestabile fa esplicito
riferimento anche attraverso la sua vicenda biografica (è uno dei fondatori
della Brigata Basaglia) sembrerebbe quello più pronto ad affrontare questi temi.
In questo orizzonte la riflessione sul contesto editoriale e sul dibattito di
movimento in cui questo libro si inserisce può aiutarci a valutarne il possibile
impatto. Esso infatti si pone all’interno di un gruppo di pubblicazioni, uscite
dopo la sindemia di Covid, che ha provato a ricostruire la politicità del tema
della cura, rimettendone i contenuti in relazioni con le riflessioni
dell’attivismo di base.
MUTUALISMO, MOVIMENTI E SINDEMIA
Gli anni di crisi sindemica hanno aperto la strada a varie forme di
mobilitazione politica e riflessione di movimento nelle quali hanno acquisito
centralità la salute, la sanità e la cura. Tali elaborazioni hanno ripreso e
approfondito pratiche di mutualismo e di autorganizzazione “dal basso” in
continuità con alcune linee di azione politica sviluppatesi negli anni
successivi alla crisi economica del 2008, particolarmente nei paesi del sud
europeo. La pratica mutualistica orientata a costruire esperienze di cura
autogestite, destinate a chi fosse strutturalmente escluso dai sistemi formali
di protezione sociale, o a chi ne perdeva l’accesso in conseguenza di esperienze
di attraversamento “irregolare” dei confini o per esperienze abitative
informali, ha impegnato una variegata costellazione di soggettività di movimento
italiane maturate lungo i cicli di lotte sulla casa, le migrazioni e la loro
regolamentazione statale tanatopolitica (sul confine con la Francia e sulla
“rotta balcanica”), in contrasto alle forme violente di segregazione ed
espulsione che operano alle frontiere e nelle metropoli. Non sono mancati anche
casi in cui alla produzione di servizi autogestiti si sono accompagnate
esperienze focalizzate sulla costruzione di microeconomie esterne alle logiche
del mercato mainstream, come i mercati contadini e le autoproduzioni, esperienze
oggi in parte consolidatesi e in parte confluite in sperimentazioni maggiormente
articolate di autorecupero ecologico, economie circolari e programmazione
industriale. Attraverso una storia di conflitti e divaricazioni, a esse si sono
affiancate esperienze di rivendicazione e progettazione tecnologica dal basso
(si vedano ad esempio l’esperienza di Mondeggi o la GKN).
Nel campo specifico della salute all’interno dei percorsi di mutualismo si sono
sviluppate iniziative in cui, oltre a una focalizzazione sulle caratteristiche
“residuali” delle soggettività destinatarie (sempre collocate lungo particolari
faglie di oppressione sociale, razziale, di genere, ecc.) e sulla conseguente
azione per la riduzione delle barriere (amministrative e giuridiche) all’accesso
ai servizi, sono emersi approcci critici nei confronti dell’impianto
istituzionale delle tecniche mainstream, delle pratiche e dei saperi medici
ufficiali, riconosciute come inevitabilmente compromesse con i paradigmi
escludenti e selettivi promossi dalle istituzioni pubbliche.
> Nelle esperienze autogestite di mutualismo sono quindi maturate maggiori
> consapevolezze rispetto alla questione dei determinanti sociali, relazionali e
> ambientali della salute e si è approfondita la relazione tra l’intervento
> sanitario e assistenziale e le pratiche di presa di parola e di rivendicazione
> sugli assi della casa, del lavoro, dell’ambiente, della qualità della vita,
> della dignità dell’accoglienza, del riconoscimento dei diritti essenziali.
L’attenzione a quelle che nelle politiche istituzionali risponderebbero alle
martellanti raccomandazioni rispetto alla “integrazione socio-sanitaria” e alla
“promozione della salute” (ove però queste spesso restano più dichiarate che
reali) è stata pienamente assunta in alcune esperienze (si veda la Rete degli
Ambulatori Popolari).
Stimolata dal contesto pandemico e dalla visibilità assunta dal tema della cura
a partire dal marzo 2020 una parte significativa dei movimenti ha ulteriormente
approfondito la propria elaborazione attraverso le riflessioni femministe e
transfemministe – nelle quali è emersa con sempre maggiore importanza la
componente ecologista – tematizzando la socializzazione del prendersi cura, la
critica alla distribuzione iniqua del lavoro riproduttivo e ai saperi che
operano la naturalizzazione forzata di tale distribuzione. Oltre a uno stretto
confronto con pratiche rivendicative intese a contrastare l’invisibilizzazione
delle questioni di genere in periodo pandemico (tra cui l’irrigidimento dei
criteri di accessibilità all’IGV e la depauperazione dell’impianto pubblico dei
consultori), le forme autogestite e mutualistiche di azione in questa area hanno
riguardato la costruzione di attività nelle quali si mettessero
contemporaneamente a critica i dispositivi e i saperi patriarcali e si
realizzassero forme di azione collettiva basate sul riconoscimento della
reciproca interdipendenza e della necessità di costruzione di relazioni, anche
attraverso pratiche artistiche, performative e di inchiesta/autoinchiesta,
intese a far emergere una soggettività collettiva insieme protagonista e oggetto
della cura, che altrimenti sarebbe rimasta invisibilizzata dai saperi, dai
discorsi e dalle pratiche dominanti.
LA RIFLESSIONE TEORICA: RIPOLITICIZZAZIONE DELLA CURA E SOLIDARIETÀ
Lo sviluppo di pratiche di mutualismo è stato variamente discusso nella
letteratura scientifica focalizzata sui movimenti sociali. Anselmo et al ( 2020)
hanno usato il concetto di “solidarietà urbana” e hanno messo in luce le
possibili interazioni verificatesi tra ambiti istituzionali e azioni di
movimento, notando come in alcuni contesti nazionali siano emersi inediti
incontri tra «mobilitazioni sociali e (barlumi di) innovazione sociale». Altre
riflessioni hanno invece messo in luce la difficoltà riscontrata di dar luogo a
strutturali forme di interlocuzione con le istituzioni in questi percorsi.
Queste elaborazioni, emerse principalmente nel campo della sociologia del
welfare e delle politiche sociali, hanno costituito una parte molto minoritaria
nella più generale riflessione che in questi anni si è sviluppata a proposito
del rapporto tra welfare e mutualismo nel suo complesso.
L’interesse rispetto al mutualismo ha attraversato prepotentemente vari ambiti
di discussione sul welfare attraverso cui, con il concetto di “mutualismo”, si
sono identificate genericamente le pratiche del terzo settore, delle fondazioni,
delle assicurazioni, gli innovativi ibridi “comunitari” tra pubbliche
amministrazioni, associazionismo di volontariato e promozione sociale, impresa
sociale, ecc. Nel dibattito sociologico maggioritario sul tema si sono
valorizzate, piuttosto che gli aspetti di azione collettiva e di prassi
emancipatoria che hanno caratterizzato i dibattiti di movimento, le questioni
relative alle maggiori capacità di affrontare, attraverso la prassi comunitaria,
le sfide poste dalla sostenibilità economica dei sistemi pubblici di protezione,
dal bisogno di intercettare e intervenire su bisogni “nascosti” con una maggiore
prossimità rispetto alle istituzioni pubbliche tradizionali come i servizi
sociali o i servizi sanitari, la presunta capacità di azione sul legame
comunitario, anche attraverso elementi di responsabilizzazione, partecipazione e
coprogettazione con la cittadinanza. Nel movimento il dibattito su questi temi
resta invece incredibilmente legato alle questioni poste dal testo Centri
sociali: che Impresa del 1995 e dal quasi contemporaneo L’impresa sociale del
1994.
Oggi discutere di mutualismo in relazione all’azione politica emancipatoria e di
movimento deve confrontarsi con la difficoltà iniziale costituita dal fatto che
una serie di termini (a partire dallo stesso concetto di mutualismo) indicano
fenomeni con attori e campi d’azione molto diversi: si va dalle pratiche e le
elaborazioni di aggregazioni di think tank ed enti di secondo livello del terzo
settore e delle assicurazioni – nella cui agenda politica sta la sostituzione di
un sistema di contribuzione fiscale volontaria al “vecchio” sistema di
tassazione progressiva su cui si fondava l’universalismo in sanità – a centri di
ricerca universitaria che, con i mantra ossessivi dell’equità e della
sostenibilità, propongono forme di sussidiarietà sempre più compatibili con la
totale destituzione di un sistema di protezione sociale (e sanitaria)
universalistico.
Vista la sovrapposizione dei campi di studio e la forza performativa rispetto al
dibattito pubblico di termini elaborati in ambiti dotati di così ampio potere,
le soggettività di movimento hanno sviluppato varie ipotesi per delimitare un
campo autonomo di elaborazione i cui termini potessero svincolarsi dal fatto che
nell’attiguo campo del terzo settore, del welfare comunitario, del privato
(sociale e non), concetti come “comunità”, “partecipazione”, “reciprocità”,
“attivazione” hanno stabilmente informato campi semantici utili principalmente
alla penetrazione e allo sviluppo di vettori di policy making neoliberali,
tendenti alla destrutturazione del welfare state di caratterizzazione fordista.
Non sono appunto mancati negli spazi di movimento tentativi di risemantizzare
questi concetti, delimitarne in modo più specifico il campo, di riappropriarsi
delle questioni messe in gioco dal discorso neoliberale mainstream per
declinarle in ottica di azione collettiva emancipatoria. Si parla ad esempio di
“difendere” il mutualismo (che qui identifichiamo come “dal basso” per
distinguerlo da quell’altro) oppure di “rilanciarlo”, “politicizzarlo” fino
anche a chi ha proposto di “superarlo” verso pratiche maggiormente conflittuali
che però ne valorizzino il portato di esperienze. Come ha spiegato recentemente
Alberto De Nicola il dibattito di movimento si è polarizzato tra le posizioni
critiche alla macroarea di concetti di “comunità”, “partecipazione” – vedendone
i vettori strumentali di trasformazioni neoliberali – e chi ha collocato in essi
possibilità di contro-condotte e contro-dispositivi orientati alle «potenzialità
trasformative connesse al ricorso alle comunità e all’agire comunitario nelle
politiche del Welfare», alla «politicizzazione e ri-socializzazione
dell’economia» anche attraverso la «proliferazione di economie alternative, [e
il] ritorno di logiche di azione marginalizzate dai sistemi di Welfare», legate
a comunità oppresse e marginalizzate.
> In Grecia l’elaborazione attorno alle social clinics, particolarmente
> sviluppata per le condizioni di retrenchment del servizio sanitario in seguito
> all’attacco alla spesa pubblica condotto dalle istituzioni europee, ha assunto
> caratteri politici fortemente connessi con le dimensioni della resistenza e
> della sopravvivenza delle comunità, che si sono sviluppati in modo congiunto
> con forme radicali di conflitto e di autogestione territoriale, sorte in
> risposta a una profonda azione di impoverimento delle istituzioni pubbliche
> strozzate dal diktat europeo.
Heath Cabot ha parlato a proposito di «solidarietà contagiosa» come «altra
faccia della crisi, che ha indotto nuove forme di partecipazione nella
cittadinanza greca». In modo inestricabile rispetto alla crisi indotta dai
meccanismi neoliberali, «la solidarietà parla di nuove forme di azione
collettiva, comunitaria e sociale», di una nuova idea di «salute emergente nei
momenti di bisogno somatico e sociale». In quanto paradigma e pratica della
socialità, «la solidarietà riconfigura le interrelazioni tra persone, farmaci,
assistenza e società, producendo nuove visioni di cittadinanza e di guarigione
somatica e sociale»; tuttavia riconosce che «la solidarietà ha una vita
ambivalente in quanto prodotto diretto dell’austerità».
In campo internazionale, mentre alcune forme di mutualismo sono state
valorizzate in quanto strumento di creazione di cura comunitaria radicalmente
esterna e alternativa ai dispositivi dei servizi statali (Spade, Mutuo
appoggio), altre riflessioni hanno invece valorizzato la relazione tra le
pratiche mutualistiche e i cambiamenti possibili/necessari nell’ambito del
welfare state, pensando ad una complessiva “rivoluzione della cura”. Gabriele
Winker e Matthias Neumann appunto individuano «l’opportunità di una diversa
etica sociale attraverso la cura stessa» per modificare «la gestione dei
tradizionali campi del welfare state, appellandosi a tutti coloro che in tale
pratica pubblica sono coinvolti in modo non disinteressato, non competitivo,
perché non direttamente quantificabile». In modo simile si sono sviluppate
alcune riflessioni femministe e transfemministe (Busi, Fragnito), in particolare
quelle interessate a «combinare diversi pubblici e diversi gruppi di attivisti
nel tentativo di sviluppare connessioni» impreviste.
Le pratiche e le riflessioni femministe e transfemministe, anche attraverso i
linguaggi artistici – per l’importanza che l’arte riveste nella ridefinizione
potenzialmente conflittuale del sensibile e dei dispositivi che ne consentono la
rappresentabilità – hanno messo in luce la trasversalità e la generalità del
lavoro di cura, anche lungo le faglie di razzializzazione che definiscono la
«divisione globale del lavoro di cura» e le sue contraddizioni. Secondo questa
elaborazione l’attività di cura è stata sempre cruciale e può acquisire forme
radicali grazie all’intersezione tra sguardi antirazzisti, transfemministi ed
ecofemministi, valorizzandone il senso ma anche deromanticizzandola,
problematizzandola e cogliendone l’ambigua natura di dispositivo di produzione e
riproduzione di ineguaglianze, «non innocente ma sempre coinvolto nelle
relazioni di potere» (Krasny). L’etica della cura, che rischia di
invisibilizzare la dimensione politica dell’organizzazione della cura (una delle
forme di invisibilizzazione è stata la retorica dell’eroismo che ha
caratterizzato gli anni pandemici in relazione alle lavoratrici/tori del
Servizio Sanitario Nazionale; su questo si veda Galanti), va corretta con la
riflessione di Mbembe sugli assunti necropolitci che «attraverso la
distribuzione della cura ci dicono chi deve vivere e chi no». Da questa
collocazione ambivalente si possono guardare «non solo le eziologie della nostra
crisi culturale (l’incapacità di pensare le nostre relazioni) ed ecologica, ma
anche contestare le scelte su cosa viene curato e cosa no, sulla divisione
sessuale e razziale del lavoro come traccia fondamentale delle attività di cura»
(nel testo curato da Fragnito).
Sugli stessi temi ha insistito il Manifesto della Cura – Per una politica
dell’interdipendenza (The Care Collective, 2021) che ha rideclinato la cura come
ambito di lotta politica sulla base della critica alla sua “naturalizzazione”.
Commentando il manifesto Lea Melandri ha scritto: «a mancare finora non sono le
esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela,
ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali”, “promiscue” di
socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle
istituzioni. Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la
possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune,
affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case
di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo
quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla
prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole
essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità
di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative,
dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green. Ma gli ostacoli al
cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un
sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e
le manifestazioni dell’umano, mettendo al lavoro la vita (Cristina Morini)». In
questo senso la riflessione del libro, a partire dal fatto che la pandemia ha
svelato la centralità sociale dei lavori di cura a tutti i livelli (dall3
badanti all3 rider fino alle lavoranti del settore sanitario), propone una
integrazione tra pubblico e mutualismo, sulla base di una rivendicazione
collettiva che nasca dalla generalità di questa soggettività precarizzata,
genderizzata e razzializzata. Proprio la capacità di impattare i servizi
pubblici da parte delle pratiche mutualistiche resta il grande interrogativo di
questa fase nel dibattito di movimento.
PSICOLOGIA DELLA RESISTENZA
Le presentazioni del libro Psicologia della resistenza, alla presenza
dell’autore Gianpaolo Contestabile, stanno spesso assumendo i caratteri di vere
e proprie assemblee. Il libro focalizza l’importanza del rapporto tra psicologia
della salute e posture politiche critiche, evidenziando come l’approccio critico
dei saperi possa incidere sull’impostazione dei servizi sanitari pubblici nel
loro complesso. La psicologia della resistenza, soprattutto quella che si rifà a
radici sudamericane, viene ricostruita come uno strumento fondamentale nella
definizione di modelli di cura partecipati, universali e gratuiti per i
movimenti rivoluzionari e democratici. La riflessione sui processi di
disumanizzazione che attraversano le pratiche di gestione tanatopolitica delle
migrazioni dà a Gianpaolo l’occasione di richiamare le riflessioni di Zimbardo,
Milgram e Asch sui fenomeni della violenza e dell’oppressione
istituzionalizzata.
Gianpaolo prova a ricostruire una genealogia del sapere Psy che tenga conto
delle sue possibilità emancipatorie scavando fino alle ambigue nozioni della
psiche di Freud; l’autore cerca di sostenere l’esistenza di un orientamento
tecnico dei saperi Psy che tenga conto delle condizioni di oppressione
sperimentate da soggetti e – soprattutto – comunità sottoposte al giogo
imperialista. La ricognizione di alcune possibilità inespresse contenute nelle
teorie psicologiche sovietiche, così come la riflessione sulla psicologia della
salute, permette a Gianpaolo di riconfigurare in termini politici le principali
questioni della promozione della salute.
Non essendoci un contesto comune in cui si riesca a confrontarsi collettivamente
sia sulla strategia delle esperienze di movimento sia sul modo in cui stare
politicamente dentro le istituzioni con i propri saperi tecnici, lo sforzo di
verificare la validità e la tenuta etica delle proprie azioni è lasciato di
solito a una sterile dimensione individuale. La configurazione assembleare
assunta dalle presentazioni del libro di Gianpaolo Contestabile rivela il
bisogno di rompere questa solitudine: il tentativo di leggere in un framework
comune le varie esperienze soggettive di chi si forma, opera o in vario modo
vive le discipline Psy, riesce a costruire un terreno comune nonostante le
profonde differenze di approccio esistenti (che Gianpaolo rispetta nel libro
lasciando aperte le questioni più controverse, come per esempio quando parla di
neurodiversità).
Sarebbe utile oggi indagare i motivi per cui non si sia riuscit3 a produrre una
contronarrativa rispetto al tema della salute – capace di impattare sulle
politiche sanitarie – nonostante numerose riflessioni e dibattiti abbiano aperto
alla possibilità di sviluppare in questo senso la riflessione dopo la sindemia.
Sicuramente l’assenza di un approccio unificato e interconnesso tra i temi della
riproduzione sociale, del welfare, del genere, della disabilità e delle varie
forme di oppressione che attraverso queste faglie si distribuiscono, impedisce
una visione completa della situazione; la stratificazione dei lavori di cura –
da quelli caratterizzati dall’alto potere contrattuale degli ordini
professionali al lavoro nascosto e sottopagato di chi si dibatte tra caregiving
non riconosciuto e sfruttamento – ha portato a una frammentazione in cui è
difficile leggere le questioni comuni. Ma la lacuna più profonda sembra oggi
essere quella che ha impedito di tramandare esperienze e riflessioni critiche
nella formazione della psicologia come in tutte le altre professioni di aiuto.
> Sono ormai divenute difficili da trovare nel dibattito dei movimenti le
> riflessioni critiche sulla psicologia sviluppatesi negli anni ’70 e ‘80, a cui
> hanno contribuito figure come Comba, Pirella, Fachinelli, Jervis, Risso,
> Minguzzi, Palmonari e Melandri. In queste discussioni si metteva in
> discussione il ruolo della psicologia, il suo rapporto con le istituzioni e
> con il contesto politico-sociale, smontandone la presunta neutralità ed
> elaborando metodi teorici e pratici che tenessero insieme la riflessione sul
> proprio modo di svolgere le professioni di cura e le lotte che contestualmente
> si sviluppavano nella società.
Gli anni ‘90, con il processo che ha istituzionalizzato la formazione nel campo
della psicologia e ha legato gli interessi corporativi dei nuovi gruppi
professionali alle dinamiche aziendalistiche del welfare in via di innovazione,
hanno contribuito a spazzare via le riflessioni critiche sulla tecnica psy come
funzionale al potere e al sistema sociale esistente, colpevole di
individualizzare e depoliticizzare il disagio, di riprodurre logiche di
controllo e deresponsabilizzazione all’interno delle istituzioni. Senza capire
cosa è accaduto negli anni ‘90 e che posizioni hanno tenuto i protagonisti di
quella istituzionalizzazione, sarà difficile ricostruire forme di azione pratica
capaci di mettere in discussione l’orientamento ideologico della pratica psy
dominante.
CONCLUSIONI
Il libro di Gianpaolo Contestabile si inserisce nel solco di una serie di
pubblicazioni che, a seguito della sindemia di Covid e della conseguente
attenzione al tema della salute, hanno provato a riconfigurare il quadro della
sofferenza riformulandolo in modi compatibili con l’attivismo di base e la
mobilitazione politica. Per cogliere il senso dell’operazione di Contestabile è
stato necessario delineare un quadro del contesto editoriale e del dibattito in
cui essa è sorta, nei quali per ora non si sono ancora prodotti però orizzonti
comuni ed efficaci strategie d’azione capaci di incidere sull’andamento delle
politiche sanitarie. La difficoltà di attivare una coerente azione di movimento
capace di porsi come azione di difesa popolare del Servizio Sanitario Nazionale
ne è una drammatica conseguenza.
In conclusione il libro si segnala per il tentativo di riannodare i fili tra
sofferenza psichica, contesto sociale e impegno politico. Un’operazione
necessaria, certo, in un’epoca di crescente medicalizzazione e
individualizzazione del disagio. Resta da vedere se questa “psicologia della
resistenza” saprà tradursi in un’azione politica e sociale incisiva, capace di
superare le ambiguità e le contraddizioni che caratterizzano la formazione dei
tecnici dei lavori di cura (soprattutto psy) e le riflessioni strategiche di
movimento. Il libro offre spunti di riflessione importanti, ma la loro effettiva
portata trasformativa dipenderà dalla capacità di innestarsi in un dibattito più
ampio e in pratiche di elaborazione e di lotta collettiva.
Immagine di copertina di Rudy and Peter Skitterians da Pixabay
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