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Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Cop30: le associazioni ecologiste denunciano il fallimento del vertice
Ciò che era iniziato con grandi speranze e promesse si è concluso senza tabelle di marcia concrete per porre fine alla distruzione delle foreste e all’uso di combustibili fossili, mentre le divisioni geopolitiche hanno nuovamente messo in luce la disconnessione tra chi chiedeva un’azione per il clima in occasione della COP30 e chi difende gli interessi economici, in particolare dell’industria fossile. La prima COP nella foresta amazzonica avrebbe dovuto elaborare un piano d’azione per porre fine alla distruzione delle foreste entro il 2030 e, dopo che i piani d’azione per il clima del 2035 si sono rivelati pericolosamente insufficienti, la COP30 avrebbe dovuto elaborare anche un Piano di Risposta Globale per lavorare sull’innalzamento della temperatura globale del pianeta. Non ha fatto né l’uno né l’altro. All’unisono le principali associazioni ecologiste internazionali, da Greenpeace a Fridays for Future a Extinction Rebellion hanno denunciato con forza la pericolosità della situazione e la necessità di una immediata azione dal basso per portare di nuovo all’attenzione dei governi e della società l’urgenza di un cambio globale di sistema e di direzione. Pressenza IPA
Brasile: la lotta delle comunità quilombola
Alla Cúpula dos Povos incontriamo Mariateresa Muraca docente nella più grande Università dell'Amazzonia brasiliana. Con lei parliamo delle donne indigene in particolare del Quilombo che nasce dalla fuga delle schiavi e degli schiavi che non si sono volute sottomettere al colonialismo del regime imperialista ed hanno ricercato dei modi di vita indipendente. Ogni Quilombo ha la sua storia ma si tratta comunque di comunità di schiave fuggitive che sono riuscite a creare una lotta con quelle originarie per la riappropriazione della terra contro le multinazionali soprattutto minerarie. Le popolazioni indigeni non rivendicano la proprietà della terra anche perchè spesso erano nomadi, ma si parla proprio della sacralità della terra in una relazione viscerale.  In particolare La Vale è un'industria mineraria pericolosissima nel Parà regione enorme del Brasile.  Approfondiamo anche l'importanza della lotta delle donne indigene in particolare di Alessandra Munduruku. 
Lula torna nella Zona Blu della 30ª Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici nella fase finale dei negoziati
Si prevede che il primo pacchetto di decisioni venga annunciato oggi e che la presenza del Presidente contribuisca a sbloccare alcune questioni all’ordine del giorno. 19.nov.2025 – 11:23 Belém (PA) Afonso Bezerra Ad oggi, 118 Paesi hanno presentato i loro NDCD (acronimo di Contributi Determinati a Livello Nazionale), ovvero gli obiettivi che i Paesi stessi si impegnano a raggiungere per ridurre le emissioni e raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi. L’ordine del giorno del decimo giorno della Conferenza include il ruolo delle donne nella lotta al cambiamento climatico, soluzioni per i sistemi agroalimentari e una Riunione di Alto Livello sull’Azione Globale per il Clima, un momento cruciale della giornata incentrato sulla presentazione di proposte e annunci da parte dei leader. Un giorno prima dell’arrivo del presidente, decine di paesi che hanno formato la cosiddetta Alleanza Oltre il Petrolio e il Gas si sono incontrati in una conferenza stampa per dimostrare il loro sostegno all’appello del leader brasiliano e della Ministra dell’Ambiente e dei Cambiamenti Climatici, Marina Silva, per l’elaborazione di una “Roadmap” per la transizione dai combustibili fossili. “Il Brasile non ha paura di discutere di transizione energetica. Sappiamo già che non è necessario spegnere macchinari e motori, né chiudere fabbriche in tutto il mondo dall’oggi al domani. La scienza e la tecnologia ci consentono di evolvere in sicurezza verso un modello incentrato sull’energia pulita”, ha affermato il presidente al Summit dei leader, un evento che ha preceduto la Conferenza sul clima. > Lula retorna a Belém para ‘destravar negociações’ na reta final da COP30 Redazione Italia
Brasile: la COP brucia e le periferie resistono
Oggi, 20 novembre, è bastato un incendio nei padiglioni sfarzosi della zona blu della COP30 per far scattare l’allarme generale; eppure, mentre ci si affanna tra incontri, badge e diplomazie pochi sembrano preoccuparsi davvero delle foreste che bruciano, delle città alluvionate o dei quartieri popolari che subiscono per primi la crisi climatica. L’attenzione globale si concentra sulle vetrine istituzionali, ma resta quasi del tutto cieca davanti ai territori dove l’emergenza ambientale non è un tema da conferenza: è la vita quotidiana. A partire da qui nasce la CicloLog, progetto che intreccia comunicazione comunitaria, educazione ambientale e resistenza dal basso, dimostrando che le risposte alla crisi spesso arrivano prima dai territori che dalle conferenze internazionali. Everton della CicloLog e attivo nella zona est di San Paolo, racconta un lavoro quotidiano che unisce psicologia sociale, informazione indipendente e iniziative ambientali nelle periferie. La CicloLog combatte il “deserto di notizie”, distribuisce libri, gestisce orti comunitari e porta prodotti freschi nelle scuole. Ha creato anche una radio itinerante e un gioco da tavolo che insegna, in modo collaborativo, come affrontare problemi ambientali reali che colpiscono i territori marginalizzati. Nel racconto emerge la tragedia di Samuel Elder, un bambino morto dopo aver avuto contatto con l’acqua contaminata delle alluvioni del 2025 — un caso emblematico di razzismo ambientale aggravato dalla mancata prevenzione dello Stato. Everton denuncia la manipolazione del referto medico e l’ingiustizia vissuta dalla famiglia. Ancora una volta vediamo una periferia che non aspetta soluzioni dall’alto: crea reti, risponde collettivamente ai disastri, denuncia la presenza opportunista di istituzioni, e rivendica il diritto di definire le proprie politiche ambientali. Il messaggio è chiaro e familiare: la periferia non è solo la prima a subire la crisi, ma è anche il luogo dove nascono le risposte più concrete e radicali.    
La Contro COP Anarchica a Belém
I movimenti anarchici dell’Amazzonia organizzano una Contro-COP autonoma e senza figure istituzionali, a differenza della Cúpula dos Povos, conclusasi domenica, giudicata troppo vicina al governo Lula. Abbiamo intervistato due compagni del CCLA (Centro de Cultura Libertária da Amazônia) per i quali la COP30 si configura come un grande palcoscenico per lo Stato borghese e le multinazionali, marcata dalla forte presenza di lobbisti del petrolio e del settore minerario. Riflette una disputa interna alla borghesia globale: da un lato chi vuole mantenere l’economia dei combustibili fossili, dall’altro chi promuove la transizione energetica basata sull’estrazione di terre rare e sulla finanziarizzazione della natura, come il mercato del carbonio. Entrambi i fronti mirano a trasformare l’Amazzonia in laboratorio del capitalismo verde. Inoltre, la presenza di ministri come Marina Silva (Ministra dell'Ambiente) e Sônia Guajajara (Ministra dei Popoli Indigeni), di Guilherme Boulos (Ministro della Segreteria Generale) e di André Corrêa do Lago (Presidente della Cop30) durante la Cúpula dos Povos avrebbe neutralizzato le spinte più radicali.  La Contro-COP anarchica propone dibattiti, assemblee e iniziative internazionaliste ispirate all’ecologia sociale di Murray Bookchin, sostenendo che non esiste sostenibilità senza rompere con capitalismo, patriarcato e razzismo strutturale. Parallelamente, evidenziano altre lotte territoriali, come la Marcha da Periferia, che denuncia genocidio del popolo nero, avanzata delle milizie fasciste e gentrificazione accelerata dai lavori per la COP. Nella regione del Baixo Tapajós collaborano inoltre ai processi di autodermarcazione delle terre indigene, considerati strumenti essenziali di autodifesa comunitaria. Per i militanti, l’anarchismo resta una tradizione viva nella lotta sociale contemporanea e rappresenta una proposta concreta per un futuro basato su autonomia, mutualismo e buen vivir.   Per maggiori info:  https://cclamazonia.noblogs.org/
Brasile: La Marcia Mondiale per il Clima riunisce 70.000 persone a Belém e chiede giustizia climatica, “noi siamo la risposta”
Mariana Castro Un incontro storico dà voce ai popoli che non sono stati ascoltati negli spazi ufficiali della COP30. La marcia fa parte del programma Cumbre de los Pueblos, un evento parallelo che critica i negoziati ufficiali della COP30. Secondo l’organizzazione, sabato mattina (15) le strade di Belém (PA) sono state occupate da oltre 70 […]
La Cop 30 e la guerra alla natura
-------------------------------------------------------------------------------- Foto MST – Movimento dos Trabalhadores Sem Terra -------------------------------------------------------------------------------- Sono un vecchio medico ospedaliero, negli ultimi anni di attività anche medico di base. Nei primi anni Novanta, avendo collaborato per diversi anni con il NAGA, una importante associazione di volontariato di Milano, ancora molto attiva, che cura ogni giorno i migranti senza permesso di soggiorno, ho imparato tante cose sul percorso di “malattia” di ogni persona, che è anche un fatto sociale e culturale, cose che non mi avevano insegnato né insegnano all’Università. Essendo nato e vissuto a Milano fino alla pensione conoscevo ben poco di Madre Natura e dei suoi cicli: ho iniziato a imparare qualcosa dal 2004, quando abbiamo cominciato ad andare in Brasile, conoscendo il Movimento Senza Terra-MST e vivendo per lunghi periodi negli accampamenti dei suoi meravigliosi contadini, che occupano le terre incolte, per restare contadini e non essere espulsi nelle tremende favelas delle megalopoli del Brasile, dove vivono oltre 16 milioni di persone, e dove in gran parte comandano le bande mafiose, spesso in “buoni” rapporti con la polizia. Siamo tornati in Brasile sei volte e siamo andati a conoscere anche i contadini e i popoli di Bolivia, Cile, Argentina, Cuba e Honduras in America Latina, un continente ancora “sotto il tacco”, non solo degli Usa, ma di tutto il colonialismo europeo, che lo ha invaso e massacrato nel 1500 e continua a condizionarlo, con speculazioni sulla sua produzione di materie prime ed export. Da 28 anni siamo fuggiti da Milano e dalla sua aria velenosa, come quella di tutta la Pianura Padana, la terza area per maggior inquinamento dell’aria in UE, dopo Polonia e Repubblica Ceca. Viviamo in una città della Liguria, a pochi metri dal mare, tutti giorni vediamo il nostro splendido Mediterraneo soffrire, ancor più di tutti mari e Oceani, e maledirci per l’inquinamento e il surriscaldamento dell’acqua marina di origine antropica, che continua a danneggiare il fitoplancton e quindi la metabolizzazione della CO2, che produce Ossigeno. I Mari e gli Oceani ricoprono il 70% della superficie terrestre e con l’atmosfera, comandano e regolano tutti i cicli naturali e quindi anche la terra (che è solo il 30%) e i suoi abitanti. Da qualche anno non andiamo in Brasile, ma siamo sempre grandi Amigos di Via Campesina Inter-nazionale (un movimento mondiale di 200 milioni di piccoli contadini) e dei contadini brasiliani Senza Terra, che sono diminuiti di numero per l’offensiva spietata delle multinazionali mondiali dell’Agrobusiness, che li espellono dalla terra (l’urbanizzazione in Brasile è arrivata al 92%, come in Argentina) e continuano a deforestare, per coltivare prodotti per i mangimi, da esportare per gli allevamenti intensivi in Europa e Cina. Questi prodotti agricoli sono soprattutto la soia Ogm e Mais Ogm, coltivati in Brasile (e anche in Argentina), dove si utilizzano pesticidi proibiti in UE (atrazina, acefato, clorotalonil e clorpirifos, i quattro più usati, pesticidi venduti in Brasile, anche da aziende con sede in Ue. In Italia, dove finora è proibito fare coltivazioni Ogm, mangiamo, beati, questi prodotti, spesso ultra-processati, di animali nutriti nei nostri allevamenti intensivi con questi foraggi, coltivati con pesticidi proibiti in Ue, perché patogeni… D’altronde sulle etichette di questi prodotti è proibito scrivere cosa ha mangiato l’animale: la multinazionale tedesca Bayer, che produce enormi quantità di pesticidi, anche proibiti, e medicinali non vuole. Il mondo sulla Foce del Rio La COP 30 è in corso in Brasile, a Belem, alla Foce del Rio delle Amazzoni, 6.400 chilometri, il secondo fiume più lungo del mondo, dopo il Nilo. Tranne che su media specializzati, finora se ne è parlato poco sui “grandi” media. I movimenti mondiali, soprattutto quelli contadini ed ecologisti, prevedono che ne uscirà ben poco. Joao Pedro Stedile, uno dei fondatori e leader del MST, ha detto pubblicamente che la COP30 sarà una grande farsa, nonostante l’urgenza di affrontare la crisi climatica in aumento vertiginoso, sopra-tutto il surriscaldamento globale, con conseguenti desertificazione, crisi idriche, eventi estremi ecc. Si parla genericamente di crisi climatica e di transizione ecologica, ma in realtà siamo nel caos climatico: l’unica sola via è smettere di fare la guerra a Madre Natura ed eliminare l’utilizzo di carbonfossili e la conseguente emissione di gas serra. Gli impegni assunti nel 2015 da 196 paesi, con l’Accordo di Parigi alla COP21, per limitare l’aumento della temperatura globale al di sotto dei 2°C sono falliti, per “l’insufficienza degli stanziamenti finanziari, mentre 956 miliardi di dollari sono stati spesi dai governi nel 2023 in sussidi netti ai combustibili fossili. Le strategie di aumento della produzione dei 100 colossi mondiali del petrolio e del gas porterebbero le loro emissioni a superare di quasi tre volte i livelli compatibili con il limite degli 1,5°C. E tuttora le banche private investono nel fossile”. Re Petrolio continua a comandare, all’aumento delle Rinnovabili in molti paesi “ricchi” non corrisponde una diminuzione dei consumi di Petrolio e gas: ad esempio “in Italia nel terzo trimestre 2024, la produzione energetica da fonti rinnovabili è cresciuta dell’8%, ma accanto al calo del carbone, c’è stato un maggiore utilizzo di gas (+3%) e petrolio (+2,5%), con il primo in ripresa nella generazione elettrica e il secondo trainato dall’aumento della mobilità”. Abissali sono le differenze di consumi elettrici ed emissioni di CO2 tra i paesi ricchi e quelli del Sud del mondo, più che evidenti se confrontiamo i dati 2022 di Usa e Nigeria, due paesi con centinaia di milioni di abitanti: 1- Speranza vita: Usa Uomini 74 anni, Donne 80 anni, Nigeria Uomini 53 anni, Donne 54 2- Consumi elettrici/abitante: Usa12.393 kWh , Nigeria 144 kWh 3- Emissioni di CO2/ abitante: Usa 14,95 Ton., Nigeria 0,59 Tonnelate. Confrontiamo anche i dati 2022 del Brasile, una colonia fino al 1822, con 213 milioni di abitanti, grande 27 volte l’Italia (densità 25 abitanti per chilometro quadrato), e dell’Italia, 59 milioni abitanti (densità 195 ab. Kmq): 1- Speranza vita: Brasile Uomini 70 anni, Donne 76 anni, Italia Uomini 79 anni, Donne 86 2- Consumi elettrici/ab: Brasile 2710 kWh , Italia 4872 kWh 3- Emissioni di CO2/ab: Brasile 2,25 Ton., Italia 5,73 Ton. La “Cúpula dos Povos” A Belem (Stato del Parà), nei giorni scorsi si è svolta anche la Cupola dei Popoli, in parallelo alla riunione di COP30, organizzata dai movimenti dell’America Latina, compreso MST, a cui hanno partecipato 15 mila delegati di tutti i movimenti mondiali, per confrontarsi e sollecitare ai governi riuniti nella COP30 vere soluzioni, non quelle false come i Mercati del carbonio, la geoingegneria, il sequestro e stoccaggio del carbonio. Tutti i movimenti sono contro i crediti di carbonio, uno strumento finanziario, per cui un’entità, che non può ridurre direttamente le proprie emissioni, può acquistare il diritto a emettere CO2, compensando tale emissione attraverso investimenti in progetti che la riducono altrove. In un manifesto pubblicato alla vigilia della COP 30, 55 movimenti e organizzazioni di 14 paesi dell’America Latina e dei Caraibi si sono riuniti per respingere i mercati del carbonio e difendere i loro territori contro una valanga di progetti di compensazione del carbonio che sta causando danni in tutta la regione. Una nuova ricerca di Oxfam e del CARE Climate Justice Centre, pubblicata in ottobre rileva che per ogni 5 dollari ricevuti, i “paesi in via di sviluppo” ne restituiscono 7. A livello globale, quasi il 70% dei finanziamenti viene erogato sotto forma di prestiti anziché di sovvenzioni. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI PAOLO CACCIARI: Il neoimperialismo del carbonio -------------------------------------------------------------------------------- Il petrolio di Lula La Cop30 è presieduta da Lula, presidente del Brasile, il cui governo, ha aderito all’Opec, l’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio, nel febbraio 2025. Dopo cinque anni di battaglia tra Petrobras, l’industria petrolifera statale brasiliana, e Ibama, l’organismo di controllo ambientale, il governo Lula ha autorizzato il 20 ottobre 2025 l’esplorazione, ai fini di successive trivellazioni di 19 Blocchi alla Foce del Rio delle Amazzoni. “Il progetto prevede la perforazione di un pozzo esplorativo nel Blocco 59, un sito offshore a 500 chilometri dalla foce del Rio delle Amazzoni e a 160 chilometri dalla costa, ad una profondità di oltre 2.800 metri. L’area, nota come Margine equatoriale, è considerata una promettente nuova frontiera petrolifera, sull’onda delle grandi scoperte offshore operate nella vicina Guyana. Secondo Petrobras, le trivellazioni, inizieranno immediatamente e dureranno cinque mesi. È un progetto prioritario per Lula, che sostiene che le maggiori entrate derivanti dal petrolio saranno fondamentali per finanziare la transizione climatica del Brasile, un Paese che, pur essendo l’8° produttore mondiale di petrolio, ricava circa metà della sua energia da fonti rinnovabili”. “Mentre lo shale oil sta calando, a livello mondiale quello estratto con trivellazioni offshore da acque profonde (Deep Water) vedrà un’impennata del 60% entro il 2030. Per trovare giacimenti di petrolio e gas sotto il fondo marino, le compagnie energetiche usano cannoni ad aria compressa per creare mappe sismiche”. Dopo la fase di esplorazione l’ANP, l’agenzia Nazionale Petrolio brasiliana, ha già concesso alle industrie petrolífere Petrobras, ExxonMobil, Chevron e CNPC 19 blocchi per lo sfruttamento di petrolio e gas alla Foce del Rio Amazonas: dieci blocchi alla statale Petrobras e alla ExxonMobil, in un consorzio 50/50 gli altri 9 blocchi a un consorzio composto da Chevron (65%) e dalla statale cinese CNPC (35%), che nel frattempo ha dato il via a trivellazioni in acque ultra-profonde, fino 11 mila metri per la ricerca di petrolio e gas, per cercare di affrancarsi dal petrolio straniero. In Brasile il petrolio è ora il principale prodotto di esportazione, avendo superato la soia. Nel 2006 c’è stata in Brasile la prima estrazione di Petrolio PreSal, a profondità fino ai 7000 metri, sotto uno strato di sale spesso fino a 2.500 metri, ma nell’ultimo trimestre 2024 la produzione di è diminuita del 3,4%, per la necessità di più frequenti fermate per manutenzione dell’estrazione dai pozzi, ma il petrolio da Presal, estratto nei bacini di Santos e Campos, rappresenta ancora a novembre 2024 il 71,5 della produzione totale di petrolio in Brasile. Anche per questa crisi del Presal il governo punta ad estrazioni offshore a minor profondità e in altre località del mare. Inoltre è da tener presente che il Brasile produce Petrolio greggio da raffinare, ma ha solo 14 raffinerie (l’Italia ne ha 11), molte vecchie e con limitazioni tecnologiche per la lavorazione del petrolio Pre-sal, che è più leggero e richiede adattamenti. Il Brasile esporta attualmente il 52,1% della sua produzione di petrolio (dati 2024 INEEP (Istituto per gli Studi Strategici su Petrolio, Gas e Biocarburanti). Questo petrolio finisce per essere raffinato in altri paesi e una parte torna persino in Brasile come combustibile. La Cina importa il 50% del petrolio estratto dal Presal non raffinato. Il Brasile importa ancora fino al 25% del suo gasolio (con cui alimenta camion, trattori, autobus e macchinari agricoli) e il 10% della benzina che consuma. In Brasile non c’è una sovranità energetica. I colli di bottiglia nella raffinazione mostrano una contraddizione che grava pesantemente sulle tasche dei brasiliani, secondo i dati dell’OEC. È bene sapere che in Brasile la popolazione è costretta a viaggiare in bus e auto, i binari per trasporto di treni passeggeri sono solo 1.500 chilometri, rispetto ai 30.129 mila Km per trasporto merci dei quali solo 1121 elettrificati. È un bene che in Brasile nel 2024 ci sia stato una diminuzione delle emissioni di CO2 del 16,7%, secondo l’Osservatorio brasiliano sul clima, una rete di ONG ambientaliste, attribuita al successo del governo di Lula nella lotta alla deforestazione, ma le enormi contraddizioni di Lula stanno esplodendo. Lula ha sempre considerato il petrolio fondamentale per lo sviluppo del Paese e nell’ultimo anno l’ha difesa più volte dal essere considerata responsabile dell’aumento dei prezzi dei combustibili, ma nell’ultimo anno ha chiesto a Petrobras di non pensare solo agli azionisti. I movimenti contro il dominio del petrolio Nell’ultimo mese come Comitato Amigos MST Italia abbiamo chiesto al MST la sua posizione ufficiale in merito all’autorizzazione per le trivellazioni alla foce del Rio delle Amazzoni, concessa dal governo Lula, che include, per il 65% aziende americane (ExxonMobil e Chevron). Abbiamo scritto: “Il Brasile fa parte dei BRICS (che includono anche governi razzisti e autoritari, come Iran, India, Egitto, ecc.) permetterà agli Stati Uniti di massacrare il Mar del Pará (un oceano che, essendo il più forte, reagirà inevitabilmente, con conseguenze gravi e non del tutto prevedibili per i cambiamenti climatici e anche per la regione amazzonica), tutto questo alla vigilia della COP 30, che il governo Lula presiederà?”. Stedile ci ha risposto: ”Avete assolutamente ragione. In effetti, stiamo vivendo molte contraddizioni in ambito ambientale sotto il governo Lula… ma le forze del capitale sono più forti. Tutta Via Campesina, i movimenti ambientalisti mondiali e tutti movimenti brasiliani lottano e lotteranno contro questo ecocidio”. Anche la Commissione per l’Ecologia Integrale dei vescovi brasiliani ha preso una posizione durissima: “La Conferenza episcopale brasiliana (CNBB) condanna le trivellazioni petrolifere nel Margine equatoriale e mette in guardia dall’incoerenza del governo in materia di clima” CNBB ha ricordato che due anni fa, Papa Francesco, nella sua esortazione Laudato Deum sulla crisi climatica, avvertiva: «Le compagnie petrolifere e del gas hanno l’ambizione di realizzare nuovi progetti per espandere ulteriormente la loro produzione. (…) Ciò significherebbe esporre tutta l’umanità, specialmente i più poveri, ai peggiori impatti dei cambiamenti climatici» (LD 53)”. Vedremo come i movimenti riusciranno a incidere sulla COP 30 dei governi. La nostra lotta, senza guerra, continua, come ci hanno insegnato in America Latina. Ricordiamoci sempre le parole illuminanti di papa Bergoglio. ‘Dio perdona sempre, l’uomo qualche volta, la Natura non perdona mai’, di certo non perché Madre Natura sia matrigna. Sono l’uomo e il patriarcato ad essere spesso patrigni. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo La Cop 30 e la guerra alla natura proviene da Comune-info.
Il neoimperialismo del carbonio
-------------------------------------------------------------------------------- unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Mi devo ricredere. Le Cop (conferenze dell’Onu sul clima) non sono inutili kermes che Greta Thunberg, già quattro anni fa, bollava come: «Bla bla bla. Questo è tutto ciò che sentiamo dai nostri cosiddetti leader. Parole che suonano grandiose, ma che finora non hanno portato a nessuna azione». La Cop di Belem è servita a due cose: offrire visibilità ai popoli indigeni che si sono organizzati per rivendicare il proprio protagonismo nel difendere i luoghi più ricchi di biodiversità e più utili al contenimento del surriscaldamento climatico – foreste, ma non solo: lagune, zone montane, steppe -; secondo aspetto positivo, lasciare a casa Tramp che ha così palesato il suo isolamento dal resto del mondo e il suo menefreghismo per le sorti del pianeta. Per il resto anche questa Cop ha dimostrato tutta la sua incongruenza. Affidare alle trattative intergovernative il compito di ridurre gli impatti delle attività antropiche sulla biosfera è come spegnere l’incendio con la benzina. Non solo perché le politiche dei singoli stati nazionali sono ormai completamente asservite alle logiche economiche dominate dalle compagnie multinazionali e dai mercati finanziari globali, ma perché le conferenze interstatali spostano l’attenzione dalle cose da fare qui e ora, posto per posto, territorio per territorio, città per città, ad una dimensione planetaria generica, numerica astratta dove nessuno è responsabile e ognuno ritiene che sia qualcun altro a dover fare il primo passo. Su queste basi la “negoziazione” tra i governi si riduce ad una penosa disputa al ribasso sulle risorse che i paesi più industrializzati dovrebbero conferire come risarcimento ai paesi impoveriti più esposti ai colpi del cambiamento climatico. In compenso si discute su come beffare i paesi del Sud globale accaparrando i loro “crediti di carbonio” in eccedenza in modo da poter esternalizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni dei gas climalteranti delle imprese più energivore localizzate nel Nord. Così come diceva Mark Twain, «Se hai un martello in testa, tutto ti sembra un chiodo», i centri di potere economici e politici non riescono a immaginare un modo per diminuire i gas serra che non sia mettere sul mercato permessi di inquinamento, tanti dollari a tonnellata. I nostri amici indigeni lo chiamano neoimperialismo del carbonio. Infine, non stupisce il fatto che nessuno sollevi la questione delle emissioni prodotte dagli apparati militari: il 5,5 per cento del totale in “tempo di pace”. Gli eserciti sono esentati dai protocolli e dai trattati internazionali anche solo dal rendicontare le loro emissioni. Si stima che se fossero uno stato sarebbero il quarto dopo Usa, Cina, India e prima della Russia. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GUIDO VIALE: > Belém, un elefante nella stanza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il neoimperialismo del carbonio proviene da Comune-info.
Belém, un elefante nella stanza
-------------------------------------------------------------------------------- Pixabay.com -------------------------------------------------------------------------------- C’è un elefante nella stanza della COP30 in corso a Belém; un tema escluso dall’ordine del giorno, ma capace di pregiudicarne gli eventuali risultati (comunque scarsi, ma non più che nelle 29 COP che l’hanno preceduta). Quell’elefante è la guerra. Tutti sanno che guerra e lotta per il clima sono incompatibili, ma nessuno osa parlarne. Il tema non è all’ordine del giorno. Nessuno lo ha proposto. Perché? Molti non credono che la crisi climatica e ambientale sia una vera minaccia. Altri pensano che sia talmente complicato affrontarla che non vale nemmeno la pena tentare. Altri ancora, la maggioranza di quelli che sono lì sperando di raggiungere un risultato – e non per boicottarne lo svolgimento, come i 5.000 e più lobbisti dell’industria fossili e affini presenti – temono che sollevare il problema finirebbe per pregiudicare il poco che si può ottenere. Invece occorre parlarne. Per tante ragioni: alcune banali, altre meno. Innanzitutto, la guerra, che la si faccia o no, succhia una quantità incredibile di risorse finanziarie, tecnologiche e umane che potrebbero e dovrebbero essere destinate alla lotta per il clima e per la salvaguardia dell’ambiente (e per l’eguaglianza, che ne è la condizione): lo abbiamo visto con il Green Deal europeo: dal progetto (malaccorto) di incanalare “sviluppo” e profitti sulla strada della cura dell’ambiente alla decisione, ormai condivisa da tutti i governi, di fare della produzione di armi il motore dell’accumulazione del capitale. Nessuno di loro, guerra o no, si tirerà mai indietro. Poi le guerre in corso sono un potente fattore di rilancio dei fossili. Schiacciati dalle auto-sanzioni che si sono imposte, i paesi dell’Unione Europea si sono lanciati in una corsa alla scoperta o alla valorizzazione di risorse aggiuntive con cui sostituire le forniture di gas e petrolio russi, con tanti saluti alla transizione. La guerra, d’altronde, aumenta il consumo di combustibili e le relative emissioni: per spostare uomini e mezzi, per far funzionare e produrre sempre nuove armi. E ogni esplosione è un fuoco che brucia ossigeno e produce CO2. Poi la guerra distrugge non solo vite umane ma anche edifici e manufatti, fino a radere tutto al suolo; come a Gaza, ma anche in Donbass: tutte cose che andranno sostituite e ricostruite con altro dispendio di risorse e altre emissioni. Ma distrugge anche il suolo, le acque dei fiumi e la vita animale e vegetale, sia selvatica che coltivata o di allevamento che li abita, rendendoli sterili per anni o per sempre; e trasformando in fonti di emissioni quelli che erano pozzi di assorbimento del carbonio. La guerra è un incubatore di tecnologie della violenza rivolte contro la vita umana, i centri abitati, i manufatti e le infrastrutture, ma disponibili (dual use) a venir utilizzate anche nella guerra contro l’ambiente e la natura. La storia dei pesticidi, dei mezzi aerei per irrorali, dei razzi per provocare la pioggia o sventare la grandine e altro ancora è questa. Ma domani verranno sviluppate e impiegate per arginare il riscaldamento climatico con la geoingegneria: tecnologie “dure”, dagli effetti irreversibili, ideate e gestite da un qualsiasi “Stato maggiore” della lotta per il clima autonominato, sia di Stato che privato. Per mettere fuori gioco le tecnologie “dolci” e amiche della Terra – dall’alimentazione ai trasporti, da quelle dell’abitare alla rinaturalizzazione del territorio, dalla cura congiunta di uomini e ambiente (one health) alla salvaguardia della biodiversità – tutte cose praticabili solo attraverso una riorganizzazione della vita quotidiana con il coinvolgimento di tutti. La guerra produce profughi, milioni di “migranti”: sia direttamente, sia attraverso la distruzione dell’ambiente e la crisi climatica che alimenta. La lotta per la salvaguardia dell’ambiente e per il clima cerca invece di restituire a chi è investito da quei processi la possibilità e i mezzi per restare dov’è; per ricostruire su nuove basi le condizioni della vivibilità. La guerra porta alla militarizzazione non solo delle istituzioni, ma anche della vita quotidiana e delle culture che la sottendono: e a poco a poco – o anche rapidamente – invade tutti gli spazi: informazione, cultura, ricerca, scuola, lavoro, produzioni, mentalità e, ovviamente, “ordine pubblico”: cioè spazi di libertà. Tutti coloro che allo scoppio della guerra in Ucraina si sono compiaciuti della risposta puramente militare della Nato, dell’Unione Europea o del governo ucraino non si sono resi conto – allora e forse neanche adesso – di quanto quel loro entusiasmo abbia influito nel trasformare “lo spirito del tempo”: il linguaggio dei media, l’autocensura, il rancore, la priorità su tutto data alle armi, la perdita di un orizzonte di convivenza, il cinismo di fronte alla morte sia di “civili” che di combattenti, sia “nemici” che “amici”; e, ovviamente, l’indifferenza per il destino del nostro pianeta. La guerra promuove sudditanza e subordinazione da caserma, mentre la lotta per l’ambiente e per il clima produce autonomia, inventiva, spirito di collaborazione e di iniziativa dal basso: quello che occorre per affrontare il difficilissimo futuro che ci aspetta. Infine, tema di grande attualità, la guerra è sia fomite che copertura (per chi già la praticava alla grande) di corruzione: rende possibile accumulare potere e ricchezza alle spalle di chi viene mandato a morire al fronte o condannato a crepare nelle retrovie. Costi prezzi e destino delle armi sono segreti di Stato non controllabili (tanto poi scompaiono, distrutte), come lo è il conto delle vittime e dei danni: chi li maneggia e ci guadagna sta da sempre nelle retrovie mentre a morire sono sempre altri. Il contrario della lotta per la salvaguardia dell’ambiente: in prima linea nell’organizzarla e nel condurla ci sono sempre i “difensori dell’ambiente”; il numero ormai sterminato delle vittime della guerra che Governi e multinazionali che speculano distruggendo l’ambiente conducono contro madre Terra. Leggere l’enciclica Laudato sì farebbe bene a tutti i convocati a Belém. Ma i popoli indigeni presenti non ne hanno bisogno. La conoscono già. L’hanno ispirata loro. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > Geoguerra e cambiamento climatico -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Belém, un elefante nella stanza proviene da Comune-info.