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“Cose che accadono sulla terra”. Il film di Michele Cinque arriva nelle sale italiane
Michele Cinque racconta i nuovi cowboys italiani in lotta contro il cambiamento climatico. “Cose che accadono sulla terra”, prodotto e distribuito da Lazy Film in collaborazione con Trent Film, inizia il tour nelle sale cinematografiche, le arene e i festival di tutta Italia, a partire da giugno fino a dicembre. Il film, che ha vinto il prestigioso Festival dei Popoli e ora il premio della distribuzione della Regione Lazio, torna da un tour negli Stati Uniti dove è stato premiato all’58°Houston International Film Festival nella categoria Feature documentary e selezionato in concorso al Big Sky documentary festival in Montana. Michele Cinque, regista del pluripremiato Iuventa, co-sceneggiatore e produttore creativo del lungometraggio di Netflix, attualmente in lavorazione, ispirato alla storia dell’ONG tedesca Jugend Rettet, torna a dirigere un documentario per il cinema su un altro tema urgente: il rapporto tra uomo e natura ai tempi della crisi climatica. A 50 km dal Grande Raccordo Anulare, nel “selvaggio west italiano” dei Monti della Tolfa, una famiglia di cowboys ha una missione: continuare ad allevare il proprio bestiame e difenderlo dagli attacchi dei lupi, senza però compromettere l’equilibrio dell’ecosistema. Narrato al femminile e girato nell’arco di due anni, il film esplora il profondo legame tra madre e figlia. Brianna, una bambina di 6 anni, in un dialogo con la madre Francesca, si interroga sulla sua vita e sul suo futuro, rivelando col suo sguardo innocente e originale alcuni temi urgenti con cui lo spettatore è chiamato a fare i conti. Francesca e Giulio, che gestiscono oltre 1.000 ettari, si sono accorti che ormai anche il pascolo brado, una pratica tramandata dai cowboy italiani, i butteri, non è più sostenibile e che la sopravvivenza dei loro animali è strettamente legata alla salute del suolo. Secondo l’International Panel on Climate Change, attualmente il 30% dei suoli mondiali è degradato e si prevede un incremento fino al 90% nel 2050, con gravissime conseguenze sulla produzione alimentare globale. Di fronte alla desertificazione del proprio territorio e alla perdita di molti capi per la siccità, Francesca e Giulio decidono di intraprendere una rivoluzione verde applicando la teoria del pascolo rigenerativo.  Già molto diffusa in diverse aree siccitose in Australia, in Africa, Messico e Stati Uniti, questa tecnica di pascolo invece di utilizzare l’assistenza di fertilizzanti di sintesi e dell’agricoltura intensiva, ottimizza il rapporto tra suolo, piante e animali con mutui benefici per l’ecosistema. L’idea è semplice: imitare il comportamento dei grandi erbivori selvatici, che migrano costantemente per l’effetto delle stagioni e della predazione. Il movimento continuo dei pascoli accelera il ciclo di formazione dell’humus, favorendo la rigenerazione dei suoli e il sequestro del carbonio. Questa pratica, secondo la Royal Society, l’associazione scientifica britannica, è una soluzione a basso costo e a basso contenuto tecnologico che può contribuire alla mitigazione dei cambiamenti climatici, riducendo le emissioni di gas serra associate all’agricoltura convenzionale. Un report della FAO indica le filiere zootecniche come responsabili del 15% delle emissioni globali di gas serra di origine antropica. Ma mentre sono ormai palesi gli impatti ambientali degli allevamenti intensivi, il consumo di carne a livello globale continua a salire; sempre secondo la FAO dalla seconda metà del Novecento è aumentato di 5 volte e le proiezioni al 2050 indicano il trend in continua crescita. Se da un lato si investe su prodotti come la carne sintetica e alternative vegane, la pratica del pascolo rigenerativo ci invita a riflettere sulle modalità di allevamento dei bovini e sul loro impatto sul pianeta. La piccola rivoluzione di Francesca e Giulio, come quelle di migliaia di allevatori in tutto il mondo che si oppongono alle pratiche intensive, testimonia che se usati nel modo corretto gli erbivori possono diventare un alleato nella mitigazione degli effetti del cambiamento climatico. In una sorta di “richiamo della foresta” contemporaneo, “Cose che Accadono sulla Terra”, si confronta anche con un’altra tematica di estrema attualità: la presenza dei lupi. La Commissione Europea ha recentemente approvato la modifica di status da “strettamente protetti” a “protetti”, concedendo maggiore flessibilità agli Stati nella gestione della popolazione dei lupi, che è stimata in circa 20.000 esemplari in Europa, di cui 3.300 solo in Italia, 950 nelle regioni alpine e 2.400 nel resto della penisola. Nel film di Michele Cinque, il lupo è un antagonista per la famiglia di allevatori, ma nel corso della narrazione diventa, in un gioco di specchi, una metafora dell’uomo stesso. La presenza del lupo risveglia paure ancestrali, ma anche la nostra appartenenza al mondo animale e la nostra responsabilità nella sua salvaguardia. Date proiezioni: 23-24-25 giugno Torino, Cinema Massimo 24 giugno, San Donato, Orbetello – Festival Terramara, presso Azienda La Selva 30 giugno, 1-2 luglio Milano, Cinema Palestrina 1-3-4 luglio Bologna, Cinema Arlecchino, Jolly e Bristol 1-4 luglio Bergamo, Cinema Conca Verde 2 luglio Firenze, Arena apriti Cinema dell’estate Fiorentina in Piazza Pitti 4 luglio Ussita, Festival Cosa accade se abitiamo 7 luglio Fermo, Arena Capo d’arco 9-10-11 luglio Roma, Cinema Farnese Il tour prosegue fino a dicembre nei capoluoghi del Lazio e nel resto d’Italia. Su richiesta è disponibile il link per la visione riservata del film. Redazione Italia
La corsa al nucleare di ChatGPT e gli altri
Immagine in evidenza: Centrale nucleare di Three Mile Island da Wikipedia – CC BY-SA 4.0 I data center che alimentano l’intelligenza artificiale richiedono una quantità di energia enorme, di gran lunga superiore rispetto a quella utilizzata dai social media o dalle ricerche in rete. Secondo Raul Martynek, amministratore delegato dell’azienda di settore DataBank, un rack di chip avanzati per l’AI (ovvero una struttura che ospita numerosi semiconduttori per aumentare la potenza di calcolo) può necessitare di oltre 100 kilowatt di energia, aumentando di molto la richiesta dell’infrastruttura che lo ospita.  Alla luce di tutto ciò, e vista la crescente diffusione di questa tecnologia, le Big Tech si stanno muovendo per cercare una soluzione che possa rispondere al fabbisogno energetico dei data center, permettendo al contempo di raggiungere l’obiettivo di zero emissioni di carbonio entro il 2030. E stanno guardando all’energia nucleare. Di recente, Microsoft ha fatto sapere di aver preso accordi per rimettere in funzione la centrale nucleare di Three Mile Island in Pennsylvania, chiusa lo scorso 2019 per ragioni economiche. Amazon e Google hanno invece annunciato piani per costruire piccoli reattori nucleari modulari (SMR) per alimentare i data center. Insomma, è evidente che le grandi compagnie tecnologiche “hanno il desiderio di crescere in modo sostenibile e, al momento, la risposta migliore è il nucleare”, come ha spiegato Aneesh Prabhu, amministratore delegato di S&P Global Ratings, una compagnia statunitense che si occupa di rating e analisi di credito. Ma le Big Tech non sono da sole in questa corsa al nucleare. Prima di passare il testimone a Donald Trump, il Presidente Joe Biden ha approvato una legge – il cosiddetto Advanced Nuclear for Clean Energy Act – finalizzata ad accelerare lo sviluppo dell’energia nucleare nel paese, sia attraverso lo stanziamento di importanti risorse finanziarie, sia attraverso la semplificazione della burocrazia per le compagnie che scelgono di inserirsi in questo mercato. “Rilanciare il settore nucleare in America è importante per incrementare l’energia a zero emissioni di carbonio nella rete e per soddisfare le esigenze della nostra economia in crescita, dall’AI e i data center all’industria manifatturiera e all’assistenza sanitaria”, aveva commentato l’allora segretario dell’energia Jennifer M. Granholm. Negli ultimi decenni, i progetti relativi alla costruzione di nuove strutture per il nucleare negli Stati Uniti non sembrano però essere andati a buon fine: sono stati conclusi i lavori di soli due reattori e questo sta portando i più critici a chiedersi se davvero le Big Tech riusciranno a superare i tanti ostacoli. E se anche ci riuscissero, che cosa significherebbe questo per l’economia statunitense e globale? Quali sarebbero i vantaggi in termini ambientali? E quale la spinta per lo sviluppo di nuovi progetti legati all’intelligenza artificiale? Prima di rispondere a queste domande, cerchiamo di capire quali sono davvero i piani che Microsoft, Google, Amazon e le altre grandi aziende tecnologiche hanno per il nucleare e l’intelligenza artificiale. AMAZON E GOOGLE PUNTANO SUGLI SMR  Impazza la corsa delle Big Tech per l’energia nucleare, ma lo scorso ottobre è stato Google “a firmare il primo accordo aziendale al mondo per l’acquisto di energia nucleare prodotta da alcuni piccoli reattori modulari (SMR) che saranno sviluppati da Kairos Power”, una compagnia con sede ad Alameda, in California. L’obiettivo del colosso tecnologico è quello di avere a disposizione 6 o 7 reattori entro il 2035, con il primo in consegna nel 2030, così da poter alimentare i data center dedicati ai suoi progetti AI. “Complessivamente, questo accordo consentirà di immettere nelle reti elettriche statunitensi fino a 500 MW di nuova energia, 24 ore su 24 e 7 giorni su 7, priva di emissioni di anidride carbonica, e di aiutare un maggior numero di comunità a beneficiare di un’energia nucleare pulita e a prezzi accessibili”, ha affermato Google nel comunicato che ha accompagnato l’annuncio della collaborazione con Kairos Power. Al di là dei dettagli dell’accordo, è interessante notare che questo rappresenta una svolta importante nell’evoluzione dei piccoli reattori modulari, dotati di una potenza massima di 300 megawatt e in grado di produrre più di 7 milioni di chilowattora di energia al giorno. Per la prima volta, questi hanno ottenuto una dimostrazione di fiducia da parte di un colosso come Google, convinto che contribuiranno ad accelerare la diffusione del nucleare. Le dimensioni ridotte e il design modulare dei reattori – che vengono sostanzialmente prodotti in fabbrica – possono infatti ridurre non solo i tempi e i costi di costruzione, ma anche “consentire la messa in opera in un maggior numero di luoghi e rendere più prevedibile la consegna del progetto finale”. In poche parole, i piccoli reattori modulari potrebbero essere la soluzione ai ritardi accumulati dagli Stati Uniti nei progetti di costruzione delle nuove strutture dedicate al nucleare. O almeno così crede Google. E anche Amazon. Appena qualche giorno dopo l’annuncio di Big G, anche il colosso dello shopping online ha infatti dichiarato di aver siglato tre diversi accordi per poter sfruttare l’energia nucleare per alimentare i suoi data center. Tra questi figura anche un accordo con Energy Northwest, un consorzio di aziende pubbliche statali, finalizzato alla costruzione di 4 piccoli reattori modulari che si prevede genereranno circa 320 megawatt (MW) di energia (con l’obiettivo di arrivare a 960 MW), al fine di contribuire a “soddisfare il fabbisogno energetico previsto per il Pacifico nordoccidentale a partire dall’inizio del 2030”. A questo si aggiunge la collaborazione con X-energy, società leader nello sviluppo di SMR e combustibili di nuova generazione, che punta a portare più 5 gigawatt di energia priva di emissioni di carbonio alla rete statunitense entro il 2039. L’accordo con la società di servizi Dominion Energy mira invece allo sviluppo di un piccolo reattore modulare vicino all’attuale centrale nucleare North Anna, in Virginia, che produrrà circa 300 MW di energia per alimentare la rete della regione. Infine, Amazon ha siglato un accordo per la costruzione di un data center accanto all’impianto nucleare di Talen Energy in Pennsylvania, così da garantirne l’alimentazione “con energia a zero emissioni”, oltre che a preservare il funzionamento del reattore. Una strategia che punta anche a migliorare l’immagine aziendale. Come riferito dalla stessa Amazon, gli investimenti nel settore nucleare contribuiranno a “creare e preservare fonti di energia priva di emissioni di carbonio”, ma anche a “fornire una spinta economica alle comunità locali” che ospiteranno gli impianti di produzione di energia, siano essi di nuova costruzione o preesistenti. PICCOLI REATTORI MODULARI: COME FUNZIONANO E QUANTO SONO SICURI Negli ultimi anni moltissime start-up – come X-Energy e Kairos Power – e aziende affermate, tra cui Toshiba e Rolls Royce, si sono concentrate su progetti dedicati allo sviluppo di piccoli reattori modulari per la produzione di energia. Si tratta di un sistema totalmente diverso rispetto a quello utilizzato finora dalle società energetiche tradizionali, che potrebbe cambiare per sempre il settore del nucleare. Come prima cosa, quindi, cerchiamo di chiarire cosa sono i piccoli reattori modulari e poi di capire come funzionano. Stando alla definizione dell’Agenzia Internazionale per l’energia atomica (AIEA, 2022), “gli SMR sono reattori nucleari avanzati con una capacità di potenza fino a 300 MWe (megawatt elettrici), i cui componenti e sistemi possono essere costruiti in fabbrica e poi trasportati come moduli in un sito per essere installati in base alla necessità”. Allo stato attuale, “gli SMR sono in fase di sviluppo per tutti i tipi di tecnologie di reattori (per esempio, reattori raffreddati ad acqua, reattori raffreddati a gas ad alta temperatura, reattori raffreddati a metallo liquido e a gas con spettro di neutroni veloci e reattori a sali fusi)”. L'impatto delle centrali nucleari di grandi dimensioni, SMR e microreattori - fonte: International Atomic Energy Agency riadattamento della Clean Air Task Force (CATF) In linea di massima, in quasi tutti i tipi di reattori nucleari la fonte di energia è data dalla scissione degli atomi di uranio: un nucleo dell’isotopo instabile uranio-235 si rompe quando viene colpito da un neutrone e questo libera altri neutroni, che colpiscono altri nuclei, dando luogo a una reazione a catena. Una centrale nucleare convenzionale estrae l’energia risultante, rilasciata sotto forma di calore, pompando acqua fredda attraverso il nucleo del reattore e producendo vapore pressurizzato per alimentare turbine che generano elettricità. Nel progetto di X-energy l’acqua viene sostituita dall’elio. Mentre Kairos Power prevede di utilizzare nei suoi reattori un sistema di raffreddamento a sale fuso. In entrambi i casi si utilizza il combustibile in forma di ciottoli, aggiunti continuamente nella parte superiore del reattore e poi rimossi dalla parte inferiore una volta esauriti, con un funzionamento simile a quello di un distributore automatico di palline. Una formula che si vuole presentare anche come più sicura: una volta spento, il nocciolo di un piccolo reattore potrebbe contenere meno calore e radioattività residua rispetto a quello di un tradizionale reattore nucleare. Le stesse società che seguono i progetti sostengono inoltre che i reattori pebble-bed (quelli che utilizzano il combustibile in ciottoli), sarebbero intrinsecamente più sicuri perché non sono pressurizzati e perché sono progettati per far circolare i fluidi di raffreddamento senza l’ausilio di pompe – sarebbe stata proprio la perdita di potenza delle pompe dell’acqua, infatti, a causare il guasto di tre dei reattori della centrale di Fukushima Daiichi in Giappone nel 2011, in seguito a uno tsunami che colpì violentemente il paese. Ma non tutti sembrano vederla così. Il fisico Edwin S. Lyman, direttore della sicurezza dell’energia nucleare presso la Union of Concerned Scientists, ritiene che i piccoli reattori modulari “potrebbero effettivamente spingere l’energia nucleare in una direzione più pericolosa”. Secondo lo scienziato, il problema sarebbe nell’uso dell’uranio ad alto dosaggio e a basso arricchimento (HALEU) all’interno dei piccoli reattori, che potrebbe rappresentare un rischio per la sicurezza. “L’HALEU contiene tra il 10 e il 20% dell’isotopo uranio-23. A partire dal 20% di 235U, la miscela isotopica è chiamata uranio altamente arricchito (HEU) ed è riconosciuta a livello internazionale come direttamente sfruttabile nelle armi nucleari”, si legge in un articolo pubblicato lo scorso giugno su Science da Lyman, in collaborazione, tra gli altri, con il fisico Richard Garwin, che ha guidato il progetto della prima bomba all’idrogeno. “Tuttavia, il limite pratico per le armi è inferiore alla soglia del 20% di HALEU-HEU. I governi e gli altri soggetti che promuovono l’uso dell’HALEU non hanno considerato attentamente i potenziali rischi di diffusione e terrorismo che l’ampia adozione di questo combustibile comporta”. A indebolire l’idea di un sistema più sicuro rispetto a quello delle centrali nucleari tradizionali si aggiunge uno studio condotto dai ricercatori della Stanford University e della University of British Columbia, che insieme hanno portato alla luce un’amara verità sui piccoli reattori modulari. “I risultati rivelano che i progetti di SMR raffreddati ad acqua, a sali fusi e a sodio aumenteranno il volume dei rifiuti nucleari da gestire e smaltire tra le 2 e le 30 volte”, si legge nella ricerca pubblicata sulla rivista PNAS. Il motivo? A quanto pare, i piccoli reattori sono naturalmente meno efficienti, perché non garantiscono quella reazione a catena che permette ai neutroni di scontrarsi con altri nuclei e di produrre energia. Si verifica così un processo di dispersione di neutroni, che finisce con l’avere un impatto importante sulla composizione delle scorie dei reattori. “Non dovremmo essere noi a fare questo tipo di studio. I fornitori, coloro che stanno proponendo e ricevendo finanziamenti per lo sviluppo di questi reattori avanzati, dovrebbero essere preoccupati per i rifiuti e condurre ricerche che possano essere esaminate in letteratura”, ha commentato Rodney Ewing, coautore dello studio, lasciando così in sospeso la questione della sicurezza dei piccoli reattori modulari, che potrebbero essere notevolmente inquinanti. MICROSOFT PUNTA SULLA RIAPERTURA DI THREE MILE ISLAND Rimettere in funzione la centrale di Three Mile Island, in Pennsylvania, è invece l’ambizioso progetto di Microsoft per alimentare i data center destinati a sostenere il funzionamento dei modelli AI della compagnia. Una notizia che ha fatto scalpore, considerando che l’impianto è passato alla storia per essere stato la sede del più significativo incidente nucleare nella storia degli Stati Uniti: il 28 marzo 1979 il reattore dell’Unità 2 andò incontro a un malfunzionamento che provocò una fusione parziale del nucleo, causando la dispersione di materiale radioattivo nella zona e costringendo alla sua chiusura definitiva. Il reattore dell’Unità 1, invece, continuò a funzionare correttamente – e a produrre energia in totale sicurezza – fino al 2019, quando fu chiuso per motivi economici. Nel prossimo futuro, però, tornerà in funzione con il nome di Crane Clean Energy Centre, in onore di Chris Cane, amministratore delegato della società madre Constellation, scomparso lo scorso aprile. Ad annunciarlo è stata la stessa Constellation Energy, che ha fatto sapere di aver chiuso con Microsoft un accordo ventennale per l’acquisto di energia carbon-free prodotta dall’impianto. Proprio per questo, nei prossimi mesi “saranno realizzati investimenti significativi per ripristinare l’impianto, tra cui la turbina, il generatore, il trasformatore di potenza principale, e i sistemi di raffreddamento e controllo”. La riapertura della centrale è prevista non prima del 2028, considerando che il riavvio del reattore richiede l’approvazione della Nuclear Regulatory Commission degli Stati Uniti, oltre al rilascio dei permessi delle agenzie statali e locali competenti. Nonostante ci sia ancora qualche anno da attendere prima di rivedere Three Mile Island in funzione, è innegabile che il progetto di Microsoft sia ambizioso sotto molteplici punti di vista. “Questo accordo è un’importante pietra miliare negli sforzi di Microsoft per contribuire alla decarbonizzazione della rete, a sostegno del nostro impegno a diventare carbon negative”, ha dichiarato Bobby Hollis, vicepresidente del settore energia della compagnia. Ma non è solo la sostenibilità ad essere al centro della riapertura del Crane Clean Energy Centre. Un recente studio, commissionato dal Pennsylvania Building & Construction Trades Council al The Brattle Group, ha infatti rivelato che l’impianto immetterà più di 800 megawatt di elettricità senza emissioni di CO₂ nella rete statunitense, creerà ben 3.400 posti di lavoro nella zona e aggiungerà 16 miliardi di dollari al PIL dello stato. Numeri da capogiro per un progetto che vuole rendere l’energia nucleare il motore dello sviluppo dell’intelligenza artificiale. Le centrali nucleari sono spesso presentate come una soluzione ottimale alla richiesta di energia delle Big Tech impegnate con l’AI, poiché – a differenza delle fonti rinnovabili come l’eolico e il solare, che sono disponibili in modo intermittente – garantiscono una produzione costante di elettricità, spesso denominata “energia fissa”. In questo senso, la scelta di ripristinare vecchi impianti oramai in disuso si dimostra estremamente conveniente tanto per le aziende tecnologie quanto per le autorità governative: lo scorso marzo, per esempio, la centrale nucleare di Palisades (Michigan) ha ottenuto un prestito dell’importo di 1.5 miliardi di dollari dal Dipartimento dell’energia degli Stati Uniti, finalizzato al riavvio dei reattori.  Chiusa nel 2022 per motivazioni economiche, la centrale dovrebbe riaprire nell’ottobre 2025, diventando così il primo impianto a tornare in funzione nel paese. Una sorte che toccherà presto anche a quella che un tempo fu Three Mile Island. OKLO, IL PROGETTO AMBIZIOSO DI SAM ALTMAN  Anche Sam Altman, CEO di OpenAI, di recente ha scelto di investire negli ambiziosi progetti di Oklo, una società con sede a Santa Clara (California), che lavora su “reattori a fissione di nuova generazione per produrre energia pulita, abbondante ed economica su scala globale – a partire da Aurora, che può produrre 15 MW di potenza elettrica, scalabile fino a 50 MWe, e funzionare per 10 anni o più prima del rifornimento”. Fondata nel 2013 da due studenti del MIT, la compagnia sta lavorando allo sviluppo dei cosiddetti “reattori veloci”, in grado di generare una maggiore quantità di energia con un minor impiego di combustibile. Più piccoli ed economici dei normali reattori nucleari, questi sembrerebbero in grado di riciclare il combustibile utilizzato da altri impianti, riducendo l’impatto sull’ambiente. Ma non è solo questo l’intento di Oklo: la società prevede di produrre energia da vendere direttamente agli operatori dei data center, così da alimentare anche i chip di quelle aziende che non possono permettersi di investire cifre esorbitanti in progetti nucleari. QUANTO CONSUMA L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE? Definire con precisione la quantità di energia necessaria ad alimentare l’intelligenza artificiale non è cosa semplice: da un lato, i modelli AI sono talmente diversi tra loro da non permettere una misurazione chiara del loro fabbisogno energetico; dall’altro, le grandi aziende di settore non forniscono informazioni esaustive al riguardo. Una cosa è certa, però: la fase di formazione di un modello richiede una quantità di energia decisamente superiore a quella del suo funzionamento vero e proprio. Uno studio di settore, per esempio, stima che l’addestramento di un modello di grandi dimensioni come Gpt-3 richieda all’incirca 1.300 megawattora (MWh) di energia elettrica, ossia una quantità pari a quella consumata in un anno da 130 abitazioni statunitensi. Per avere un’idea più chiara, basta pensare che un’ora di streaming su Netflix richiede circa 0.8 kWh (0,0008 MWh) di elettricità, il che significa che dovremmo guardare 1.625.000 ore di film e serie tv per consumare la stessa energia richiesta dalla formazione di un modello AI di grandi dimensioni. Si tratta di una stima approssimativa, elaborata dai ricercatori di settore qualche anno fa, il che la rende non completamente affidabile, considerando i passi da gigante fatti dall’AI negli ultimi mesi. Eppure, come riferisce la ricercatrice di settore Sasha Luccioni (Hugging Face), avere una stima aggiornata della quantità di energia richiesta dai modelli AI è quasi impossibile, dato che le aziende hanno cominciato a condividere sempre meno informazioni su questa tecnologia mano a mano che è diventata più redditizia. Appena qualche anno fa, le compagnie come OpenAI condividevano con partner, stakeholder e stampa tutte le informazioni relative all’addestramento dei loro modelli: un’abitudine che hanno perso nel corso degli ultimi mesi. Da un lato, secondo Luccioni, questo è legato alla volontà di non condividere con i competitor i processi di sviluppo e formazione dei modelli AI. Dall’altro, però, è dovuto alla volontà delle aziende di settore di evitare critiche legate al consumo eccessivo di energia, decisamente dannoso per l’ambiente. Ma se non abbiamo stime aggiornate sull’addestramento dell’AI, non possiamo proprio dire lo stesso riguardo l’uso che gli utenti fanno dei modelli presenti sul mercato. Sasha Luccioni, in collaborazione con alcuni ricercatori di Hugging Face e della Carnegie Mellon University, ha di recente pubblicato uno studio che contiene le prime stime sulla quantità di energia necessaria per il funzionamento dei modelli AI. In linea di massima sembrerebbe che per portare a termine compiti semplici, come classificare contenuti o generare testo, la quantità di elettricità necessaria sia ridotta: tra 0.002 kWh e 0.047 kWh. Chiaramente, generare un’immagine richiede più energia, ma il lavoro della Luccioni ha dato una stima approssimativa anche per questa attività. L’obiettivo della ricerca, infatti, era quella di gettare le basi per una misurazione futura, non certo di fornirne una. Eppure, è ovvio che le Big Tech abbiano già chiare queste stime, considerando la decisione di ricorrere all’energia nucleare per alimentare lo sviluppo e il funzionamento dei nuovi modelli AI. Resta da vedere, quindi, se questa basterà davvero.cg L'articolo La corsa al nucleare di ChatGPT e gli altri proviene da Guerre di Rete.