Ferdinando Cotugno / Non c’è vita senza la consapevolezza di stare vivendo
Il tema della narrazione della crisi climatica, di come non riusciamo a
scriverne se non nei saggi o nelle pubblicazioni scientifiche e specialistiche,
di come non faccia parte dell’immaginario degli scrittori (e quindi di quello
dei lettori) ci tormenta da un po’. Ferdinando Cotugno, con Tempo di ritorno, ci
dà una risposta originale e uno spunto quasi rivoluzionario. Andiamo a vedere
cosa abbiamo inquinato, sporcato, rovinato, distrutto noi, e la nostra famiglia,
i nostri nonni, magari i nostri bisnonni. Non bisogna andare troppo lontano e
tutto sommato neanche troppo indietro nel tempo: l’accelerazione dell’industria
e del capitalismo, lo sfruttamento delle fonti fossili, l’invenzione della
plastica e la sua invasione, non richiedono complesse ricerche e soprattutto
riguardano le famiglie da cui veniamo. Sono pezzi di storia che abbiamo sentito
raccontare da bambini e che hanno lasciato tracce facili da riconoscere.
Cotugno ritorna a Bagnoli, la città in cui è nato e cresciuto, in cui vivono
ancora i suoi genitori, in cui sono rimasti alcuni suoi conoscenti, oltre ai
ricordi più o meno gradevoli, più o meno determinanti. La storia della sua
famiglia è la storia dell’Italsider, la grande acciaieria che subito dopo la
Seconda guerra mondiale è stata costruita alle porte di Napoli, sul mare. Il
nonno faceva il gruista, e se tutto fosse andato come si pensava anche il padre
sarebbe stato un operaio dell’Italsider. C’era una sorta di ereditarietà del
posto di lavoro, durata però un tempo brevissimo. Nel mondo che cambia in fretta
e in cui le fabbriche diventano obsolete e sconvenienti nel giro di pochi
decenni, il posto garantito per il padre di Ferdinando non c’è più. Gli stessi
capitali che avevano creato e alimentato l’Italsider si ritirano e abbandonano
la fabbrica. Resta la struttura, cemento e acciaio che marciscono, la natura
incurante che si riprende i luoghi, li ricopre, li nasconde. Dove prima c’era la
fabbrica ora ci sono arbusti, erbacce, cespugli. Una natura selvatica. Che copre
e forse con il tempo smaltirà l’inquinamento che è il vero lascito
dell’Italsider: sedimenti, veleni parzialmente dissolti, polveri, malattie.
Il padre di Cotugno, perso il posto che non aveva mai avuto all’Italsider, si
converte camionista: trasportatore di gas, consumatore di diesel. Sempre
sfruttamento di fonti fossili, sempre inquinamento prodotto per necessità di
sopravvivenza. Non diversamente dalla maggior parte delle famiglie del sud, del
nord e del centro, la famiglia di Cotugno ha dato il suo contributo alla
produzione di CO2, alla contaminazione delle falde acquifere e all’accelerazione
del cambiamento climatico. L’ha fatto senza alcuna consapevolezza, l’ha fatto
perché era quello che si faceva, perché bisogna campare, perché si lavora dove
il lavoro c’è. E sicuramente è lo stesso che è successo a molti, a quasi tutti:
nasci in un certo punto della storia, hai il tuo numero limitato di scelte,
segui la corrente, fai quello che puoi, magari ti accorgi solo alla fine che
avresti dovuto o potuto fare altro. Magari non arrivi neppure ad accorgertene,
perché muori prima, muori appena hai smesso di lavorare, come il nonno di
Ferdinando.
E allora quando sono responsabili, quelli che non sapevano, quelli che non
avevano scelta? Non è una domanda a cui si può rispondere. È la stessa domanda
che ci si fa dopo le guerre. Ma non è trovare i responsabili, che ci serve. Ci
serve piuttosto capire che la storia è un processo, non lineare e a velocità
variabile, uno svolgimento, un riavvolgimento qualche volta. In cui ognuno gioca
la sua parte, e di cui ognuno può cercare di essere consapevole. Diventare
sostenibili, ciascuno di noi, vuol dire essere consapevoli dell’impatto che
hanno avuto quelli prima di noi, dell’impatto che abbiamo noi, dell’insieme di
cui facciamo parte. Essere consapevoli non è la soluzione dei problemi
ambientali, ma è il primo passo. Spesso il più difficile da fare.
Anche per Ferdinando il primo passo, affrontare i silenzi della famiglia,
chiedere ai genitori chi sono, cosa hanno fatto della loro vita, perché lo hanno
fatto, è difficile. Li diamo per scontati, i nostri genitori. Diamo per buone le
leggende di famiglia, e spesso ci accorgiamo troppo tardi di tutto quello che
non sappiamo. Invece Ferdinando i suoi genitori li interroga, con pazienza e
delicatezza e un affetto che cresce man mano che li conosce per davvero. Ne
interpreta le reticenze, si sorprende di certe rivelazioni, finalmente capisce.
Fosse anche solo per questo sarebbe valsa la pena di andare e tornare da
Bagnoli, dalla Milano dove ora Cotugno vive. Ma grazie a quelle domande, alla
tenacia e anche alla tenerezza, alla comprensione con cui si avvicina ai
genitori e al suo passato, ora noi lettori abbiamo un racconto
dell’industrializzazione selvaggia e della voracità capitalista. Della necessità
di un altro punto di vista e del bisogno di cura e dedizione che il mondo
intorno a noi ci manifesta. Delle persone che già hanno scelto di riparare i
danni. Abbiamo un racconto autentico, sincero e onesto. Abbiamo un romanzo,
soprattutto. Una storia con un inizio e una fine, con dei protagonisti e dei
personaggi minori. Da leggere anche per sapere come va a finire. Da chiudere con
il dispiacere che si prova quando un libro è finito.
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