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Da Unibo, a Unimore fino al Mur: studenti, lavoratori e docenti rifiutano l’elmetto!
Ieri siamo stati in presidio insieme al personale TAB dell’@unionesindacaledibase e ai docenti al MUR, all’Università di Bologna e all’Università di Modena e Reggio Emilia per ribadire al Governo Meloni e alla Ministra Bernini che non c’è posto per l’accademia militare né a Bologna né altrove. La decisione, frutto delle […] L'articolo Da Unibo, a Unimore fino al Mur: studenti, lavoratori e docenti rifiutano l’elmetto! su Contropiano.
Un “27 politico” in filosofia per i militari? No, grazie
L’esercito vuole studiare filosofia, e dio sa se non avrebbe bisogno. L’esempio del militare più alto in grado e funzione – l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare della Nato ed ex Capo di Stato maggiore – è quasi esemplare. Parlando della necessità di essere “proattivi” nella guerra ibrida […] L'articolo Un “27 politico” in filosofia per i militari? No, grazie su Contropiano.
Nessun accordo UniBo–Accademia militare di Modena!
Sono di qualche giorno fa le polemiche del capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello, in occasione degli Stati Generali della Ripartenza a Bologna, sul rifiuto di attivare un corso di laurea in Filosofia, ad hoc ed esclusivo, per 10 ufficiali dell’Accademia militare di Modena, seguito dalle dichiarazioni sdegnate del […] L'articolo Nessun accordo UniBo–Accademia militare di Modena! su Contropiano.
No al corso “su misura” all’Università di Bologna per i cadetti dell’Esercito
L’Università di Bologna è nell’occhio del ciclone per le recenti polemiche a mezzo stampa che toccano il tema dei rapporti tra mondo accademico e forze armate. La questione riguarda un corso di filosofia pensato esclusivamente per una quindicina di cadetti dell’Accademia militare di Modena, una proposta che il Dipartimento di Filosofia ha deciso di respingere. Il generale Carmine Masiello, capo di Stato maggiore dell’Esercito, ha criticato pubblicamente la decisione, lamentando che l’ateneo non voglia accogliere gli allievi militari. Mentre la ministra Bernini ha fatto eco parlando di una “rinuncia a missione formativa”. In realtà, la mancata attivazione del corso di studio dedicato non esclude in sé e per sé i cadetti dalla formazione universitaria: questi possono infatti iscriversi ai corsi già attivi presso l’Ateneo. La scelta del dipartimento mira, invece, a difendere l’autonomia dell’università e a evitare che risorse e programmi di studio vengano piegati a finalità militari o propagandistiche. Masiello stesso aveva parlato della necessità di sviluppare “linguaggi e tecniche di persuasione”, chiarendo così la natura selettiva e strumentale del nuovo percorso di studio. Non si tratta di pregiudizio: la decisione riflette una scelta etica, sostenuta anche dagli studenti, dalle studentesse e dal personale universitario che hanno ampiamente aderito agli scioperi contro guerre e per l’autodeterminazione del popolo palestinese. In un contesto di università sottofinanziate, attivare un corso di studio per un numero così esiguo di studenti è inconfutabilmente uno spreco di risorse pubbliche. Se poi pensiamo al fatto che migliaia di ricercatori precari stanno per essere espulsi dagli Atenei italiani a causa della scadenza dei loro contratti e per mezzo delle riforme volute della Ministra stessa, siamo al cospetto di una disfunzione davvero singolare: una ricerca a tempo determinato per tutte/i, contro la proposta di un nuovo corso destinato a essere replicato per anni, solo per pochi privilegiati. Il caso ha messo in luce rischi più ampi: la pressione politica o finanziaria non dovrebbe mai determinare l’offerta formativa di un Ateneo. Il tentativo di ignorare le esigenze interne per soddisfare i desiderata politici del momento, minaccia la libertà accademica e l’autonomia universitaria. La decisione del dipartimento di Filosofia va sostenuta. Si tratta infatti di un atto di responsabilità: le università devono concentrarsi su ricerca, didattica ordinaria e diritto allo studio, non su percorsi pensati per élite ristrette. Difendere questa scelta significa tutelare il sapere come bene comune e proteggere l’università dai privilegi e dalle logiche di potere nonché agire contro la militarizzazione delle università. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Umberto Galimberti / Quanta verità si possa sopportare
Sono ali libere, per nulla ingombranti, quelle usate da Umberto Galimberti nel suo saggio concernente – vivaddio – i gradi di discrezione che si prende, nel corso delle epoche, la verità mentre esce dalla voce umana figlia (per lo più, quasi mai, o quasi sempre) del pensiero. Preferibile usare cautela quando si mette mano a una qualunque azione definita dalla (fin troppo) vivace esistenza umana. Come è bello aver chiaro quanto sia giusto definire “scoperta” l’aver di fronte l’essenza della “verità” senza che alcuno la insegni. Oggi che tutto è rappresentazione, Galimberti scopre gli inganni del populismo quando tenta, riuscendoci, a quanto pare, di compiere “tutto” tramite la persuasione. Sono molte le voci – intese come termini o lemmi – in questo aureo libretto che definiscono il tempo attuale (“innominabile”, secondo Roberto Calasso), fissandoci una volta per tutte gli indirizzi verso cui stiamo andando a sbattere. Siamo liquidati nell’incontenibile diffusione dei media, una rete diventata “mondo” da cui ben difficilmente qualcuno riuscirà a stare “in disparte”. Il mondo come rappresentazione: è tutto lì. E per spiegarlo il filosofo mette in campo la genealogia della verità nel mondo classico e da lì ai secoli successivi e al contemporaneo. Platone, Socrate, i poeti greci, e il “fare” della tradizione ebraica, e la diversità dei significati delle parole nelle diverse lingue. Gli equivoci rimandati a ogni generazione da traduzione letteralmente “scorrette”. Quanto occorrerebbe puntare i riflettori su questo. Galimberti poi ci imbarca sui testimoni del “sospetto”, Marx, Freud, Nietzsche, seguendo il filo della loro denuncia (messa in risalto da Paul Ricoeur) verso la persuasione diffusa che la verità sia davvero la verità. Come dire: ecco la misura dei danni apportati dalla falsa coscienza. Poi certo, Nietzsche va oltre, si chiede quanta verità possa osare un uomo. E come possa essere vile la cifra dell’errore. Da qui s’evolve il compito da assegnarsi, quello di liberare la verità dalle incrostazioni, né mai rinunciarvi. È l’età della tecnica, e il virus della soddisfazione è pericolosamente vicino quanto l’allargamento del ventaglio dei mezzi tecnici verso qualsivoglia fine. La produzione ha i suoi effetti, lo si vede chiaramente. Si digita, non si pensa. Come esseri “antiquati”, che guardano pasolinianamente allo sviluppo anziché al progresso, Galimberti nel finale del suo saggio ci mette in guardia citando Günther Anders quando si chiede cosa la tecnica oggi “può fare di noi”, e non viceversa. Il futuro sarà stabilito dalla memoria procedurale?     L'articolo Umberto Galimberti / Quanta verità si possa sopportare proviene da Pulp Magazine.
Il bene, il male e l’evoluzione
Questi sono tre concetti di cui pensiamo di sapere cosa significano. Ma quello che ci confonde di più è il «bene». Buoni sono i bambini, il pappagallino nella gabbia, il gatto che fa le fusa, il cane che si distende su tutte e quattro le zampe quando lo si accarezza. Buoni sono anche la nuova auto e il nuovo cellulare. E buono è naturalmente il buon Dio. Solo che ormai quasi nessuno crede più in Lui. Il bene appare banale e quindi, secondo il pregiudizio comune, non è qualcosa da prendere sul serio, a meno che il male non si trasformi in bene. «Buona» è allora la collega che, rispetto a me, ha avuto la peggio; «buona» è l’assicurazione che non si è accorta che non mi spetta una somma così alta; e «buono» è il nemico sconfitto, la città nemica distrutta. Chi non conosce la frase: «Solo un indiano morto è un buon indiano». Il male, invece, cerca costantemente di attirare la nostra attenzione: la guerra in Ucraina, l’uragano Melissa, la miseria di Gaza, le atrocità nel Darfur, Guantanamo, il diavolo. Se si possa definire tutto questo «male» o piuttosto – in modo più rassicurante – cattivo, riprovevole, abominevole o semplicemente «negativo», è oggetto di discussioni infinite e animate. A questo punto lo ritengo superfluo. Tutti sanno cosa intendo. Ma perché prestiamo così tanta attenzione a tutte queste atrocità? Perché ci occupiamo più del diavolo che del buon Dio? LA FUGA DI BAMBI A mio avviso, la colpa è dell’evoluzione. Lasciatemi spiegare con l’esempio di un capriolo. Immaginate una soleggiata serata autunnale. Il nostro capriolo, che per semplicità chiameremo Bambi 2.0, è nella radura, si gode i raggi del sole sul pelo e bruca tranquillamente. Tuttavia rimane vigile, perché il mondo non è solo gustoso. Improvvisamente Bambi 2.0 interrompe il suo banchetto e fugge con ampi balzi leggeri verso destra. Cosa è successo? Bambi ha notato un movimento pericoloso sulla sinistra. Un giovane lupo, ancora inesperto, si era avvicinato troppo rapidamente al margine del bosco. Il nostro capriolo fugge quindi ad ogni movimento? No, assolutamente no. Prima che arrivasse il lupo, il vento aveva scosso violentemente i rami. Non solo dieci, ma centinaia di foglie erano cadute a terra, centinaia di movimenti avevano avuto luogo, eppure Bambi 2.0 era rimasto rilassato. Perché? Perché da mesi osservava questi movimenti innocui e vi era abituato. Solo quel movimento insolito ai margini sinistri del bosco ha scatenato la sua fuga. Niente stress Bambi 2.0 dovrebbe essere grato al lupo. Se non fosse fuggito davanti a lui, ora sarebbe morto. Infatti, un bracconiere era rimasto immobile ai margini del bosco con il fucile carico, in attesa del momento giusto. Un minuto dopo avrebbe premuto il grilletto. Perché Bambi 2.0 non lo aveva scoperto? Molto semplice: l’uomo non si era mosso. Il che ci porta all’evoluzione. Essa ha insegnato agli animali che tutto ciò che si muove può essere pericoloso. Tutto ciò che si muove viene quindi analizzato, classificato, valutato. Un albero in piedi è innocuo. Ma guai se cade. L’evoluzione ha organizzato tutto in modo molto ragionevole: una volta che gli animali hanno riconosciuto una situazione come «innocua» – o lo hanno imparato dai loro genitori – possono risparmiarsi molto stress per il resto della loro vita. Possono ignorare gran parte dei movimenti e dedicarsi al bene, al piacere e alla gioia di vivere. Se dovessero rivalutare costantemente ogni movimento intorno a loro, lo stress invaderebbe l’intero regno animale, finora così rilassato. Gli animali avrebbero bisogno di smartphone per fissare appuntamenti. Il che ci porta agli esseri umani. UN MONDO PERICOLOSO Anche noi vogliamo mangiare, digerire, riprodurci e dormire. Ma abbiamo creato un mondo pieno di pericoli, il pericolo fa parte della vita quotidiana. Durante il tragitto verso il supermercato può verificarsi un incidente mortale, nella zona pedonale possiamo essere urtati e romperci il collo sul bordo del marciapiede, possiamo essere derubati, minacciati, persino aggrediti. Lo schermo può esplodere, una piastra elettrica dimenticata può provocare un incendio devastante in cucina. Possiamo addormentarci nella vasca da bagno e annegare, e nostro figlio corre naturalmente il rischio di essere abusato da pedofili mentre va a scuola. Quindi dobbiamo, sì, dobbiamo accompagnarlo a scuola, all’asilo, al club sportivo, alle lezioni di organo. Forse avete notato che questi pericoli esistono, ma prevalentemente in teoria, nella nostra testa. Il nostro cervello non è in grado di distinguere tra pericolo reale e immaginario, perché entrambi ci raggiungono sotto forma di segnali elettrici e chimici; ecco perché ogni pericolo che ci assale come pensiero dalle profondità dell’inconscio, dalle paure o addirittura dai traumi, ci fa reagire come Bambi 2.0: reagiamo con la fuga. Oppure ci irrigidiamo. Oppure diventiamo aggressivi per respingere l’illusione, la tempesta in un bicchiere d’acqua. LO STRESS È NECESSARIO. O NO? L’evoluzione ci ha insegnato a riconoscere i pericoli e a prenderli sul serio. Un pericolo è tutto ciò che può danneggiare la mia vita, la mia salute fisica e mentale. E la somma di tutti i pericoli è proprio il male. Non c’è da stupirsi quindi che ci sentiamo circondati dal male, che ci fermiamo davanti agli incidenti stradali e siamo felici che non sia toccato a noi. Occuparsi del male, ovvero di ciò che è cattivo, riprovevole, abominevole o negativo, è del tutto normale. Dopo tutto, il nostro comportamento è dovuto all’evoluzione. Pertanto, ci sembra logico e sensato che la polizia ottenga sempre più diritti di intercettarci, affinché possa porre fine al male; che la stampa riporti costantemente le notizie peggiori, obbedendo semplicemente a una necessità evolutiva. E se facciamo la guerra, è solo per respingere tutto il male del mondo. Ne siamo fermamente e irremovibilmente convinti. È ovvio che una vita del genere non può essere priva di stress, motivo per cui consideriamo lo stress come una cosa naturale e immanente alla vita. IMPARARE DA BAMBI Ben diverso è il Bambi 2.0, superiore a noi in questo. Si gode la vita al massimo, non si preoccupa dei diplomi scolastici o delle sofferenze del mondo, non ha a che fare con il fisco e si concentra sul bene, che è molto più presente del male. Gli animali sono realistici, non hanno altra scelta. Bambi 2.0 sa che nel prato crescono molte più erbe di quante ne possa mai consumare. E se un giorno dovesse arrivare il lupo, Bambi gli offrirà il suo collo delicato da mordere, perché fino a quel momento avrà avuto una vita meravigliosa e deliziosa. È così, e nemmeno il lupo sembra cattivo a Bambi. Ma ci sono sorprendentemente pochi lupi nei dintorni di Bambi; e i lupi frustrati da una caccia fallita preferiscono nutrirsi di topi e conigli piuttosto che di Bambi. In effetti, le statistiche ci dicono che solo tra l’uno e il cinque per cento di tutti i caprioli cadono vittime dei predatori. Non vale quindi la pena imparare da Bambi? Concentrarsi sul bene, sul vero e sul bello, tanto più che anche noi siamo circondati solo da pochi lupi, esclusi quelli presuntuosi. Il detto «chi chiama nel bosco, riceve un eco» vale anche per il male. Più ne sospetto la presenza nella foresta, anzi, più ne sono certo, più troll, orchi e fantasmi vi si insediano. E viceversa. Io, ad esempio, oggi ho vissuto solo cose positive: ho fatto una passeggiata mattutina senza incidenti con mio figlio, non mi sono strozzato né a colazione né a pranzo; ho bevuto un deliziosa tisana della giusta intensità senza scottarmi la lingua; mi sono goduto un pisolino pomeridiano e mi sono svegliato prima della sveglia. E sulla tastiera per questo saggio ho trovato tutti i tasti senza slogarmi nemmeno un dito; la sera mi aspetta un bicchiere di vino che so già non sarà diventato aceto. A dire il vero, potrei raccontare almeno altre venti cose positive di questa giornata, ma non voglio annoiare nessuno più del necessario. Anche il fatto che, mentre riflettevo su questo saggio, mi sia venuto in mente prima Bambi e non il lupo cattivo mi diverte. Qualcosa mi ha influenzato positivamente. E può essere stato solo qualcosa di buono. O no?   -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Bobby Langer
Paolo Virno. Il linguaggio della moltitudine – di Nadia Cavalera
C’è un punto, in ogni pensiero che conti davvero, in cui la vita e la teoria smettono di essere due linee parallele e si curvano l’una dentro l’altra. Paolo Virno ha vissuto esattamente in quella piega. Filosofo napoletano, militante del ’68 e del ’77, detenuto politico, docente e scrittore ironico, Virno non ha mai [...]
Paolo Virno filosofo dell’avvenire
-------------------------------------------------------------------------------- Per Nietzsche i filosofi dell’avvenire sarebbero stati quelli che, avendo attraversato la catastrofe della modernità, avrebbero vissuto il tempo nuovo del pensiero. Paolo Virno è stato e sarà filosofo dell’avvenire. Lo è stato perché ha praticato l’autonomia dell’intelletto e ha identificato in pieno l’intelletto con la prassi. In questo è consistita la sua maestria. Paolo ha vissuto fino in fondo e fino alla fine la seconda metà dello scorso secolo e in tre momenti tra fine secolo e il secondo decennio di questo, è stato artefice di una teoria politica permanente. Il primo momento è stato nel 1977, quando chi aveva 18 anni era un “cane sciolto”, leggeva Lotta continua e a volte Rosso e senza conoscerlo riconosceva un’appartenenza, una passione e una rottura. L’appartenenza istintiva era quella a una storia iniziata nei primi anni Sessanta e culminata nel ’68; ed era quella a una intellettualità di massa che, come aveva mostrato Michel Foucault proprio nell’annus terribilis, archiviava l’intellettuale universale e trovava nella metropoli il campo specifico della prassi, dei conflitti e dell’esodo dalla società del lavoro. La passione era quella del personale che è politico, e lo sarebbe sempre stato, ed era la passione di dover fare la cronaca del presente, di registrare con la parola scritta quel presente che Paolo indicava come il tempo storico in cui cogliere l’occasione rivoluzionaria. La rottura è stata quella di quel ‘77 fenomenale che Paolo riconosceva come il momento di esplosione del capitalismo industriale e l’avvento sulla scena della storia di nuovi soggetti sociali che si liberavano dal lavoro, dalla delega e dalle politiche d’ordine e giudiziarie del PCI che si faceva stato e dei sindacati compatibili e concertanti. All’epoca avevamo in testa il successo e sapevamo quanto era successo a Radio Alice. Dal ’77 al ’79, dalle fanzines alla rivista Metropoli, dal “7 aprile” al successo delle radio libere che sostituivano volantini e tat-ze-bao, iniziavano gli anni del nostro scontento che misuravano l’ampiezza della sconfitta, facendoci apprendere l’arte dell’intervento su riviste e giornali nell’imminente terremoto della modernizzazione. Paolo insisteva su questo: non l’89 e il crollo del muro è stato il principio epocale di estensione del capitalismo neoliberale, ma il 1980, la marcia dei 40.000 capetti e impiegati FIAT che realizzava la coscrizione obbligatoria di quell’intelletto autonomo in cui si erano generati i nuovi soggetti sociali non garantiti e sottoproletari, velocemente mutati in precariato e lavoro flessibile, con produzione just-in-time e sfruttamento intensivo. Questo è stato il principio di verità della rivoluzione conservatrice. Il secondo momento in cui il pensiero di Paolo ha costituito una circoscrizione filosofico-politica è stato tra la fine degli anni ottanta e i primi anni novanta. Il quotidiano il manifesto era, per dirla ancora con Foucault, il luogo magistrale di un “giornalismo filosofico” magnifico e inattuale. Le pagine della “talpa”, laboratorio alto dello spirito del tempo che ha sconvolto le categorie teoriche marxiste, e quindi la rivista Luogo Comune, registravano i sentimenti dell’aldiqua, sedimentati nella temperie post-fordista della modernizzazione neoliberale e dell’intelletto generale: opportunismo, cinismo, disincanto. Dagli ultimi anni del decennio tritatutto ai primi dell’innovazione tecnologica, chi dall’esterno leggeva il giornale, vedeva in Paolo l’alfiere del controdiscorso che disfaceva lo stanco, inadeguato e tronfio storicismo continuista e vedeva con chiarezza la possibilità di una genealogia contundente: il “frammento sulle macchine” e Krahl, l’analitica della chiacchiera e il nesso che lega i Manocritti economico-filosofici a Wittgenstein, Simondon e il rapporto tra moltitudine e singolarità. Per chi scrive, la memoria di quelle giornate va al bar di Via Tomacelli e al ristorante vicino, quando, collaborando alla sezione “spettacoli” del giornale, capitava di incontrarci, come anche alle riunioni della rivista in cui si faceva del “ridere e detestare” una cosa seria. Fu lunga poi la sequenza degli anni novanta e per quanto si elaborasse la sconfitta e si costituisse la ragione forte degli spazi sociali, – si accumulava nella riflessione un residuo impensato degli anni dei conflitti, della repressione e della vendetta di stato. Paolo indicava nella prassi delle forme di vita contemporanee la centralità strategica della facoltà di linguaggio. L’estensione capillare del capitalismo nelle fibre più intime della soggettività aveva forgiato il virtuosismo acrobatico delle moltitudini che opponevano il movimento alla dinamica corrotta della politica binaria stato-popolo. Tutto si giocava, e nel regime di guerra planetaria si gioca ancora, tra corpi e linguaggio, ed è il “tra” il nesso disgiuntivo in cui il verbo si fa carne. Così, il transindividuale è l’espressione del “tra”, congiunzione che destituisce, svuota e produce soggettività, non sostanze individuali. Così, il terzo momento di costituzione filosofico-politica di cui Paolo è stato artefice, agli inizi degli anni duemila venne fuori la rivista più acuta e contrastiva che si potesse immaginare, Forme di vita. In sei numeri fluorescenti la rivista squadernava un progetto filosofico per il XXI secolo: la natura dell’“animale umano”, l’antropologia di Marx, la funzione del rito e del discorso, la conversione della teologia politica nell’“uso”, nella negazione, negli atti ordinari di parola e nel motto di spirito. Questi temi ruotavano intorno al nucleo igneo dei rapporti tra giochi linguistici e forme di vita. Forse anche per questo la rivista si estinse. In uno degli incontri in pausa caffè a Roma3, naufragò l’idea di continuare la rivista in altro modo, forse giustamente, per assenza delle condizioni minime: mancava un luogo comune, mancava l’altezza e la lunghezza di pensiero in grado di contrastare le passioni tristi, che sono, da sempre e proprio ora, individuali. Nel pensiero di Paolo c’era Walter Benjamin. Non solo l’istantanea scattata al passato dal presente, non solo il balzo di tigre, ma anche l’elezione dell’“inappariscente” a sintomo dell’attualità e la tensione al limite di cristalline immagini dialettiche, la replica insistente dell’intreccio di storia e metastoria per rendere ragione della cattura dei corpi nella produzione di sé. E c’era, soprattutto, la realtà della filosofia, cioè farsi nella scabra pianura della verità. I suoi testi sono saggi di icastica lucidità che hanno demolito le pretenziose asserzioni dei filosofi puri, per lo più soggetti al maschile singolare, e di coloro che si autonominano pensatori. Pur non apprezzando il nomadismo filosofico, Paolo ne coglieva il profilo sovversivo e nel confronto con le proposizioni dell’immanenza assoluta, indicava il punto cieco in cui quel tema di fondo implode nella sua stessa materia. La sua opera esemplare ha aperto alla filosofia un campo di sapere possibile. I suoi ultimi saggi, sulla natura dell’animale loquace e sulla paralisi frenetica del presente, inaugurano un’archeologia del senso ancora da fare. Nelle occasioni non frequenti ma cruciali a ESC, a Roma3 e casualmente fino a pochi mesi fa in un bar di quartiere, saliva l’emozione per aver avuto il privilegio di conoscere il “gigante gentile”. Ed era una gioia, per la cura generosa dell’amicizia che Paolo aveva, nel chiedere qual era il tono del pensiero che si riusciva a pensare e a dire, quale ritornello si cantava e in cosa si era impigliati. Oltre alle recensioni ai suoi libri, disperse non si sa dove, che si proverà a ripescare, sono rimasti lo scooter in salita sulla circonvallazione, il bar in discesa sulla via larga e il suo passo con le sporte della spesa. Ricchi doni, oltre al viatico con cui percorrere il ricordo del presente, che è l’avvenire, e che, con Benjamin, consiste nell’“avere una totale mancanza di illusione nei confronti dell’epoca e ciò nonostante un pronunciarsi senza riserve per essa”. Ciao Paolo. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Paolo Virno filosofo dell’avvenire proviene da Comune-info.