Tag - animali

Sulla crudeltà: un inventario poetico
Oh pietosa colei che mi soccorse! E tu cortese, ch’ubidisti tosto alle vere parole che ti porse! alle vere parole che ti porse! Dante Alighieri, Inferno II È indubbio che l’arte non sia affatto tenuta alla rappresentazione dell’orrore, ma il suo movimento la mette senza fatica all’altezza del peggio, e reciprocamente la raffigurazione dell’orrore ne rivela l’apertura a tutto il possibile. George Bataille Le mucche sono fatte per produrre latte, altrimenti soffrono. Le scimmie sono parenti stretti degli umani, per questo sono state lanciate nello spazio e vengono tuttora usate come cavie da laboratorio. I cinghiali si riproducono troppo in fretta, creando seri problemi di sovrappopolazione in alcune aree geografiche. La bile degli orsi contiene una sostanza, l’acido ursodesossicolico, che aiuta a sciogliere i calcoli al fegato e alla cistifellea degli umani. Le orche sono considerate animali intelligenti e sociali, è per questo che vengono catturate e rinchiuse in vasche per la gioia degli astanti di ogni età. I cani sono i migliori amici dell’uomo, ti restano fedeli fino alla morte, la loro. I gatti sono buffi e divertenti ma inaffidabili, soprattutto se di colore nero – portano sfiga. I maiali sono brutti, sporchi e cattivi. In più sono portatori virulenti di pericolosissime malattie letali per gli umani, come l’influenza suina e l’epatite E – per questo vengono rinchiusi, a milioni e al sicuro, dentro un grattacielo di 26 piani dove verranno macellati. Durante la stagione degli amori i trichechi non vanno disturbati, ci tengono alla loro privacy – quindi niente foto e niente video. A caval domato non si guarda in bocca. Del resto un dono è un dono, basta l’intenzione più che il suo valore materiale. Fra gli animali cosiddetti da reddito, gli asini sono coloro che subiscono nefandezze di ogni tipo. Sfruttati, maltrattati, caricati, bastonati, comandati e assoldati – guarda, un asino che vola. Impossibile. Più probabile che sia Balthazar, au hasard. Il panda è un animale dolce, timido e schivo “per natura”. Rifugge gli umani, nascondendosi tra le fitte trame arboree delle foreste – per la società dello spettacolo il panda è un rapporto sociale (tra specie diverse) mediato dall’immagine (quella dello zoo, contenitore di vite reificate artificialmente). Leoni e delfini vengono spesso utilizzati sui set cinematografici. I leoni sono i re della giungla e possono sbranarti per acquisito diritto regale (leo sacer). I delfini sono flipper con cui giocare e divertirsi. Attenzione però al disclaimer che appare nella parte finale dei titoli di coda: «Nessun animale è stato maltrattato durante la produzione di questo film». > La raccolta poetica di Teodora Mastrototaro, Le mucche se non le mungi > esplodono (di gioia), uscito per i tipi di Marco Saya Edizioni nella collana > Poesia Oggi, sceglie il paradosso e sovverte l’ordine del discorso. L’illogicità manifesta dello specismo, che alimenta e struttura il senso comune globale per giustificare lo sfruttamento e la violenza nei confronti degli altri animali, è data da una serie di affermazioni, percezioni e valutazioni accettate come vere, ma che non hanno nessuna plausibilità scientifica (ovvero logica), se non quella di una presunta ragion pratica. Tale precipitato culturale, un vero e proprio zoccolo duro, solido come un macigno e insolubile come l’acqua, fornisce generalmente l’alibi per applicare – materialmente e idealmente- il principio di non responsabilità che formalizza – legalmente e simbolicamente – il comportamento umano verso gli animali. In tutto questo il disclaimer, la traduzione legale di tale principio, è il trucco che rivela la maschera. La dichiarazione di non responsabilità libera i soggetti dal dovere di prestare la giusta attenzione e il dovuto rispetto al vivente tutto, animali compresi. Il libro di Mastrototaro, il cui sottotitolo (crudeltà sugli animali, un inventario poetico) ne condensa la dimensione argomentativa, ha come obiettivo sicuramente quello di ripensare i paradigmi epistemologici dell’umano sentire, aderendo a quell’ontologia animalista che in questo momento sembra essere in grado di scardinare il modello antropocentrico che riconosce lo statuto di soggetto al solo essere umano. Il suo inventario è leggibile come possibilità di sventare la duplice violenza gratuita del senso comune e quella istituzionale del senso pieno. I versi dell’autrice interpretano gli episodi di violenza su animali di ogni tipo, ovunque e in ogni tempo come semiosi che produce nuovi significati in grado di corrompere quelli stantii fin qui adottati e acquisiti.  La descrizione delle situazioni di oppressione e di crudeltà a cui vengono sottoposti gli animali con precise date di riferimento, luoghi e nomi viene in qualche modo incistata dai continui deragliamenti prospettici che con poche e dirimenti parole ridimensionano la loro valenza comunicativa, trasformandoli nella pietosa dea che ti soccorre, quell’arte poetica che insegna a vedere attraverso il punto di vista dell’altro. 18 Maggio 2024- Zoo di Valencia, Spagna: Natalia, femmina di scimpanzè tiene in grembo il corpo morto e in via di decomposizione del figlio nato quattordici giorni prima, continuando ad accarezzarlo. «Abbassare le palpebre/ Per serrare il figlio/ In una fossa/ Per abitare spoglia/ I suoi detriti». CULLARE ALTRI FIGLI SCHIUSI NELLA MORTE La dimensione orrorifica con cui Mastrototaro apre il bollettino di guerra alla pietà viene ridimensionata dal suo personale agire poetico che, in qualche modo, ne infetta, per usare la lingua batailliana, la logica comunicativa. Il senso di tutto ciò allora risiede nella relazione tra i fatti acclarati mediaticamente e la paradossalità che ne attenta lo stesso senso. La cronaca “nera” che scandisce drammaticamente le pagine del libro fotografa lo sconvolgente quanto assurdo zoocidio in atto citando immancabilmente i nomi delle vittime e la data e il luogo dove si è consumato il delitto. Nomi, luoghi e date non hanno volto, sono semplicemente figure anonime rese comprensibili dalla relazione produttiva e perversa tra capitale, politica e vita animale. Il disclaimer, vera e propria sineddoche del capitalismo, è la liberatoria attraverso cui la civiltà del mercato mette in atto la sua propaganda eticamente insostenibile. Nomi, date e luoghi infatti procurano una vertigine di senso che esclude un vero riconoscimento degli animali, includendoli semmai nel dispositivo del censimento come rilevazione di fatti e biografie concepito come sussunzione di nuda vita. 13 novembre 2024 Cina – Oliver (orso); 14 luglio 2020 Trento – M49 (orso); 1994 Zoosafari di Fasano – Riù (gorilla); 9 marzo 2023 Canada – Kiska (orca); 20 gennaio 2023 Turchia – Proteo (cane); 14 agosto 2022 Oslo – Freya (tricheco); 3 novembre 1957 Russia – Laika (cane); 13 dicembre 1958 Stati Uniti – Gordo (scimmia); 24 gennaio 2024 zoo di Colonia – Barney (panda); 11 novembre 2023 Ladispoli – Kimba (leone); 12 novembre 2014 Bahamas – Kathy (delfina); …. > Il bollettino di guerra è un simulacro di un incontro, un riconoscimento > statistico che censisce vite che non contano – meglio, vite che, > paradossalmente, contano solo se contate in quanto vittime, come il quotidiano > body count dei morti palestinesi definitivamente inclusi nella “specie” > inumana. L’inventario poetico reagisce così allo stato delle cose come se fosse un vero e proprio pamphlet politico. Una delle situazioni più deprimenti descritte è quella che riguarda un gorilla – Riù, detto il gorilla triste – rinchiuso in un recinto dentro lo zoosafari di Fasano dal 1994. Nella cella è stata installata una videocamera che trasmette ininterrottamente documentari sulla natura, il cui intento sarebbe quello di fornire al povero gorilla l’illusione della libertà. Riù muore a 54 anni, dopo aver scontato la condanna a 30 anni di carcere inflittagli dai paladini della salvaguardia di specie. Il 26 luglio del 2024 lo zoo gli dedica una lapide. «Ci sono voluti/ trent’anni/ per nutrirsi del corpo/ lacerarti la carne/ la vita>>. Nell’attesa della tua scheletrizzazione/ rinchiudiamo un altro gorilla/ per poi occultarne il corpo/ in un eterno gioco a nascondino post-mortem. Riù semmai continua a vivere nei disegni di Alessandra Antonini, efficace nello schizzare corpi e volti animali che fuggono le nature morte della segnaletica zoologica, scegliendo l’indistinzione dell’immagine sfocata a significare la distorsione della tragica realtà che la questione animale impone. Per citare Bacon, il pittore, le persone si sentono offese, quando un artista è in grado di sbatterti in faccia la cruda verità dei fatti, l’orrore del pianto e del dolore al posto del sorriso compiacente. > Ecco, la poeta Mastrototaro e la disegnatrice Antonini, ci rendono coscienti > di quanto la violenza sugli animali sia patologica. L’uccisione dell’orsa Daniza avvenuta l’11 settembre 2024 a seguito di un’ordinanza di abbattimento emessa dalla Provincia Autonoma di Trento oppure la lapidazione di una cagnolina avvenuta il 25 gennaio 2024 in quel di Corigliano Calabro hanno in comune la gratuità manifesta dell’orrore. Come scrive Arendt in Sulla violenza la distinzione tra potere e violenza consisterebbe nel fatto che il potere ha costantemente bisogno di numeri – la conta di vite che non contano – …laddove la violenza fino a un certo punto può farne a meno perché si affida agli strumenti di cui dispone (H.Arendt, Sulla violenza, Guanda 1996, p.44). Premesso che l’equivalenza tra potere e violenza sia un concetto piuttosto ambiguo e non sostenibile politicamente, il carattere strumentale che Arendt assegna alla violenza è di fatto un cosciente esercizio della forza nei confronti di tutto quel vivente che è messo nella condizione di non poter reagire o non essere in grado in quel particolare momento di difendersi. Così è per Oliver, uno degli orsi “cinesi” della luna a cui viene prelevata bile per ricavarne farmaci….distillati goccia a goccia dall’addome/ come la prima stilla di pioggia che ammazza l’estate, ammazzati o per il cinghiale investito a Firenze …isolato dalle transenne/ il cinghiale/ per lavori (di morte)/ in corso, la differenza si fa sempre più labile in quanto il progresso civile senza limiti agognato da Marx come fine della Storia dello sfruttamento non contempla la violenza come rapporto di forza non paritario e strutturato semmai sulla moltiplicazione della forza in campo. OPERE AL NERO Presto, occultiamoci dentro/la spazzatura/ il colpo di carabina/ la paura. Il lavoro di Mastrototaro è un varco tra una tragica visibilità – visibilità generalmente mediata dai vari dispositivi di comunicazione – e quelle zone oscure, quelle opere al nero in grado di illuminare proprio là dove solitamente non guardiamo. Apparizioni miracolose di un ordine delle cose diverso dal nostro eppure così seducente da meravigliare. Forse è per questo che guardiamo gli animali, come chiede Berger? Un tempo, prima della Storia, gli animali erano visti oltre orizzonte, ovvero, pur soggiogati e uccisi, erano anche venerati e nutriti. La differenza tra potere e violenza allora era data dalla relazione tra uomo e animale; in altre parole ciò che era loro comune era anche ciò che li differenziava. Nel momento stesso in cui gli animali hanno cominciato a sparire da quell’orizzonte di prossimità sensuale per diventare meri ingranaggi della macchina produttiva chiamata sviluppo, la differenza tra potere e violenza si è fatta sempre più sfumata e i due termini hanno assunto una sinonimia finora impensabile. > Essendo stati cooptati nella famiglia e nello spettacolo, la sopravvivenza dei > corpi animali dipende dalla loro invisibilità esistenziale. Quando gli altri animali non entrano nelle categorie che ne permettono la sopravvivenza e ne tollerano l’esistenza o vengono sfruttati e abbattuti come merce o vengono torturati e uccisi come cose. Inoltre, e qui Berger fornisce una lectio magistralis sulla questione animale, più conosciamo gli animali e li studiamo e più la distanza tra noi e loro diverrà incolmabile, mentre l’amministrazione della violenza (di un mattatoio o di un laboratorio) sarà sempre più indistinguibile da uno stupro o da un linciaggio (J. Berger, Sul guardare, B. Mondadori, 2009). In questo senso la lingua adottata da Mastrototaro non solo è la “metrica” con cui prendere le giuste distanze dalla corruzione del mondo contemporaneo, ma anche verso,ovvero direzione da intraprendere per cambiarlo. Il verso impone l’ascolto a discapito di ogni presunta interpretazione, come un raglio, un latrato, un mugghio o un barrito. O come un umano balbettare e il suo gridare alla luna, quanto un lupo.  Per l’orso il gelo/ dura il tempo di un sogno/ ma ora il suo sonno/ somiglia alla neve. Come dice Bianca Nogara Notarianni nella sua prefazione, alla violenza dei corpi animali esposti «vi si potrà sfuggire soltanto attraverso la creazione di spazi inediti, impensati, durassero anche il tempo di un verso, di una strofa». Il cielo stellato scompare/ quando all’orizzonte/ si ferisce il mare. La copertina è di Schneeknirschen (Pixabay) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Sulla crudeltà: un inventario poetico proviene da DINAMOpress.
I lupi, la caccia, la guerra
SI MOLTIPLICANO IN MOLTE PARTI DEL MONDO LE PRESSIONI PER LA LIBERALIZZAZIONE COMPLETA DELLA CACCIA. IN ITALIA, IL DDL SULLA CACCIA ORA IN DISCUSSIONE AL SENATO, UN’AGGRESSIONE SENZA PRECEDENTI ALLA FAUNA SELVATICA, SI INSERISCE IN QUESTO CONTESTO GENERALE DI ASSALTO ALLA NATURA. FORSE NESSUN ALTRO ANIMALE È STATO TANTO ESECRATO E DEMONIZZATO DALL’UNIVERSO DEI CACCIATORI COME IL LUPO. SCRIVE BRUNA BIANCHI: “NELLA VISIONE PATRIARCALE DELLA VITA FONDATA SULLA VIOLENZA, LE RISPOSTE AI PROBLEMI CAUSATI DALL’INTERVENTO UMANO SULLA NATURA – ESTRATTIVISMO, DEFORESTAZIONE, DEFAUNIZZAZIONE – SI PRESENTANO SEMPRE NELLA FORMA DELLA DISTRUZIONE E INNALZANO IL GRADO DELLA VIOLENZA… L’ANALOGIA TRA CACCIA È GUERRA NON È UNA SEMPLICE CORRELAZIONE TRA ATTIVITÀ SIMILI, ESSE SONO LEGATE DALLA STESSA VISIONE DELLA VITA E DELLA NATURA COME TEATRO DI LOTTA, CONQUISTA E AFFERMAZIONE DI POTERE… LA LIBERALIZZAZIONE DELLA CACCIA È UN ASPETTO DEL PROCESSO DELLA MILITARIZZAZIONE VOLTO A PROMUOVERE E RAFFORZARE UN MODELLO DI MASCOLINITÀ EGEMONICA…”. unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- [I lupi, la caccia, la guerra1] Mentre la perdita di habitat, il cambiamento climatico, l’inquinamento, e non da ultimo le guerre decimano la fauna selvatica, si moltiplicano in molte parti del mondo le pressioni per la liberalizzazione pressoché completa della caccia infrangendo le barriere erette grazie all’impegno di tanti attivisti e attiviste e al sostegno di gran parte dell’opinione pubblica. Ciò sta avvenendo in Europa, in Svezia, negli Stati Uniti, in Australia. In alcuni stati africani sono stati eliminati i divieti alla caccia all’elefante per il commercio dell’avorio e dei trofei e in Tanzania la popolazione Masai viene espulsa dalle sue terre con lo scopo di trasformarle in riserve di caccia. Contemporaneamente in molti paesi i progetti di reinserimento di lupi e orsi, che a partire dagli anni Novanta avevano favorito il ripristino del naturale equilibrio tra prede e predatori, sono stati interrotti, i loro scopi ripudiati, i loro risultati compromessi o annientati. In Italia il Ddl ora in discussione al Senato, contro il quale si sono schierate 55 associazioni, mai ascoltate nelle fasi di elaborazione del provvedimento, si inserisce in questo contesto generale di aggressione alla natura. Esso prevede la possibilità di cacciare ai valichi montani per abbattere gli uccelli migratori diretti verso i luoghi di nidificazione, nelle zone protette, in aree demaniali e lungo i fiumi; si potranno prendere di mira uccellini di pochi grammi, utilizzare richiami vivi e della loro cattura fare commercio. Se approvata, una tale liberalizzazione avrà gravissime ripercussioni sulla biodiversità, accelererà processi di estinzione, aumenterà l’inquinamento da piombo, richiamerà sul territorio italiano i cacciatori di altri paesi, rafforzerà il potere dei produttori di armi e la loro influenza politica2. Le conseguenze più gravi saranno quelle sul piano morale poiché il Ddl favorisce un modo di intendere il posto dell’umanità nel mondo improntato alla violenza, alla sopraffazione, all’avidità; induce a sopprimere sentimenti di empatia e legittima la crudeltà come fonte di piacere. Per quanto riguarda i grandi predatori, anche in Italia i progetti di reinserimento, che negli ultimi decenni avevano consentito loro di riabitare una piccola parte delle terre che avevano percorso per secoli, sono sotto attacco. Il numero attuale dei lupi, valutato in 20.000 in tutta Europa, è stato considerato insostenibile. La recente direttiva approvata dal Parlamento europeo, e riconosciuta dal governo italiano come conforme all’interesse nazionale, ha già declassato il lupo da specie “strettamente protetta” a specie protetta, primo passo verso la caccia indiscriminata. Viziata da una visione antropocentrica e dalla logica del dominio, la direttiva lamenta l’aumento delle aggressioni a greggi e armenti e ignora alcune delle sue cause più rilevanti, ovvero la riduzione delle prede naturali dei lupi in conseguenza di caccia indiscriminata e bracconaggio. Nel “nostro” mondo non c’è posto per il lupo né per gli orsi che, reintrodotti nel Trentino, ora si vorrebbero ancora una volta sradicare. Se i grandi predatori minacciano gli allevamenti, ostacolano l’agricoltura, l’espansione edilizia e della viabilità, se si avvicinano alle abitazioni, sottraggono le prede ai cacciatori, occupano spazi destinati al turismo, la guerra aperta è dichiarata, una guerra che in un contesto di gravissima crisi ecologica non può che tendere all’estinzione. Caccia ed estinzioni Quando la Caccia inizia non c’è futuro per nessuno di noi perché il mondo [dell’animale] che si restringe è anche il nostro. (Visionary Night) Così ha scritto in una lunga poesia dedicata all’orso Sara Wright, ecofemminista, etologa e psicoanalista junghiana. La caccia – per divertimento o commercio – spinge sull’orlo del collasso interi ecosistemi e aggrava costantemente processi di estinzione. L’estinzione di una specie animale, risultato di millenni di evoluzione, è al contempo estinzione dell’esperienza umana nella natura, una alienazione che affligge in particolare i bambini e i ragazzi3. Con l’estinzione di una delle creature che abitano la Terra, il suo modo di vivere e sentire, la sua presenza, la sua voce, una parte del mondo scompare. “Ogni sensazione di ogni essere vivente, ha scritto Vinciane Despret, è un modo attraverso il quale il mondo vive e percepisce sé stesso e attraverso il quale esiste”. Questo senso di dolorosa perdita è stato così espresso dall’ornitologo statunitense William Beebe in un passo posto ad esergo a L’ultimo dei chiurli, un’opera dedicata all’uccellino europeo migratore: La bellezza e il genio di un’opera d’arte possono essere ricreati, anche se la sua prima espressione materiale è andata distrutta; un’armonia svanita può ancora ispirare il compositore, ma quando l’ultimo esemplare di una specie di esseri viventi cessa di respirare, un altro cielo e un’altra terra devono passare prima che uno così possa esistere di nuovo4. Dal chiurlo dal becco sottile, al piccione migratore, dal giaguaro alla tigre della Tasmania, dalla foca dei Caraibi, al lupo delle Falkland, al canguro notturno, all’aquila di mare, l’elenco degli esseri che non rivedremo mai più si allunga di giorno in giorno e la caccia ne è in molti casi la principale responsabile. La guerra al “nemico animale” e il suo sterminio – insetti, lupi, bisonti, volpi volanti, orsi, linci, e molte altre specie – condotta come ogni guerra in nome del diritto all’“autodifesa”, ha trascinato sull’orlo del collasso interi ecosistemi che sostengono la vita umana e non umana. Già Rachel Carson nel 1962 in Primavera silenziosa aveva ammonito sulle “disastrose conseguenze cui si va incontro quando si tenta di sconvolgere gli ordinamenti della natura”. La biologa statunitense non si riferiva solo agli insetti insensatamente sterminati con i pesticidi, un “elisir di morte” che stava compromettendo la rete della vita, ma anche ai cervi kaibab dell’Arizona che in seguito alla eliminazione di lupi, coyote e puma, si erano moltiplicati a tal punto da non trovare più vegetazione con cui sostentarsi; e mentre i suoli si andavano degradando, i cervi “cominciarono a morire in numero maggiore di quello che nel passato finiva nelle fauci dei predatori”5. A causa dell’incapacità di comprendere la complessità delle interrelazioni tra i viventi, dei processi ecologici ed evolutivi, di sentirsi parte della comunità planetaria, la forza generativa del pianeta si sta esaurendo. L’accelerazione di questi processi non a caso ha coinciso con l’aumento della conflittualità a livello internazionale e con la corsa al riarmo. “La caccia, perfetta immagine della guerra senza colpevolezza”6 Nella visione patriarcale della vita fondata sulla violenza, le risposte ai problemi causati dall’intervento umano sulla natura – estrattivismo, deforestazione, defaunizzazione – si presentano sempre nella forma della distruzione e innalzano il grado della violenza. Come la competizione per l’accaparramento delle ultime risorse sfocia guerre sanguinose e genocidi, così la lotta per l’ultimo animale, per scovarlo e ucciderlo in ogni luogo e stagione, tende a varcare ogni limite. L’analogia tra caccia è guerra non è una semplice correlazione tra attività simili, esse sono legate dalla stessa visione della vita e della natura come teatro di lotta, conquista e affermazione di potere. Cacciare gli animali per divertimento insegna agli uomini a godere del senso della vittoria, a versare il sangue senza sentirsene colpevoli, tanto che si può affermare che la liberalizzazione della caccia è un aspetto del processo della militarizzazione volto a promuovere e rafforzare un modello di mascolinità egemonica e militarizzata, personalità inclini a oggettivare gli esseri viventi considerandoli prede, siano esse animali, donne o ogni possibile “nemico”. Ha scritto Andrée Collard nel suo classico saggio sulla caccia dal punto di vista ecofemminista,Shots in the Dark: Alla base [della] caccia c’è un meccanismo che identifica la preda, la insegue, compete per essa e si impegna a colpirla per primo. Questo avviene in modo palese quando la preda si chiama donna, animale o terra, ma si estende a qualsiasi fobia che si impadronisca e ossessioni una nazione, che si tratti di un’altra nazione o di una razza diversa da quella dei gruppi al potere. La caccia, com’è noto, è stata considerata un eccellente addestramento alla guerra e l’immagine della guerra come impresa sportiva ha una lunga storia. Per indurre i giovani a lanciarsi nell’avventura della morte, occultare le sofferenze, i traumi, le mutilazioni, le ferite, le vite stroncate, la guerra è stata spesso descritta con immagini derivate dalle scene di caccia, una attività piacevole, virile, avventurosa e, soprattutto, eterna, ancestrale e come tale indiscutibile. Questa interpretazione della caccia nelle sue connessioni con la guerra come importante stadio evolutivo, sostenuta da una lunga serie di false teorie sviluppatesi negli anni immediatamente successivi alla Seconda guerra mondiale, ma già da lungo tempo è stata screditata7, negli ultimi anni sta riemergendo. Valga per tutti l’esempio biologo statunitense Jim Heffelfinger, già impegnato nelle agenzie federali per la “conservazione” della fauna selvatica, che nel suo articolo dal titolo La caccia è una questione di sicurezza nazionale, ha scritto: La coevoluzione tra caccia e mentalità guerriera può essere tracciata come un filo ininterrotto lungo tutto lo sviluppo della nostra razza umana. Alcuni hanno ipotizzato che lo sviluppo di un linguaggio complesso e di un pensiero astratto negli esseri umani sia dovuto alla necessità di pianificare strategie di caccia coordinate. Si tratta delle stesse abilità possedute dai migliori guerrieri. Ma anche un semplice contadino abituato a cacciare poteva diventare un buon soldato. A conferma di ciò portava l’esempio di un giovane del Tennessee: Ho eliminato prima il sesto uomo; poi il quinto; poi il quarto; poi il terzo; e così via. È così che spariamo ai tacchini selvatici a casa. Vede, non vogliamo che quelli in prima linea sappiano che stiamo prendendo quelli dietro, così loro continuano ad arrivare finché non li prendiamo tutti. La testimonianza si riferiva ai campi di battaglia della Prima guerra mondiale. Oggi, concludeva il biologo, “con la crescente popolarità delle armi da fuoco, comprese le varianti AR-15 (fucili semiautomatici leggeri), il futuro del nostro esercito e la forza della nostra sicurezza nazionale appaiono ancora più ottimistici”. Se i cacciatori, dunque, rappresentano una informale riserva militare, è importante coltivare le loro abilità, specialmente nell’uso delle armi, e assecondare le loro passioni. In cosa consistono queste passioni? Molto è stato scritto su questo tema e non è possibile affrontarlo qui, neppure per accenni, ma vale la pena richiamare l’attenzione su alcune tesi avanzate dal filosofo e sociologo José Ortega y Gasset in Discorso sulla caccia, l’opera più letta e influente sulla natura di questa attività, che possono in parte spiegare la ferocia con cui sono stati perseguitati i grandi predatori, in primo luogo i lupi che oggi sono tornati nel mirino dei cacciatori. Lupicidio e genocidio Siamo le ombre dei boschi sussurri argentati che si dissolvono […] prima del mattino. Voci solitarie si uniscono in un canto, nel gemito del vento. La nostra eredità, solo una manciata di echi morenti. (Wolves of Sorrow di Kathleen Malley). La caccia, nella sua essenza, scriveva Ortega nel 1942, è un’affermazione di potere su un essere inferiore, l’animale, il quale non ha una vera vita, ma si “lascia semplicemente vivere”. Stroncare quelle vite non ha quindi alcuna rilevanza sul piano morale. Più oltre nella sua trattazione definiva la caccia una presa di possesso” e “la morte [della preda] è il modo più naturale di possederla”8. Se potere e possesso sono alla base della forza seduttiva ed eccitante della caccia – e per descriverla in molti hanno usato analogie con la sessualità, altro tema che meriterà un’analisi attenta –, quale potere più grande di quello di sentirsi arbitri della vita e della morte di un grande predatore nell’illusione di impadronirsi della sua forza, del suo coraggio, della sua intelligenza, della sua bellezza riducendolo a un mucchio di pelliccia insanguinata? Forse nessun altro animale è stato tanto esecrato e demonizzato come il lupo. Dagli Stati Uniti, alla Russia, all’Europa, all’Asia, la guerra al lupo, perseguita per secoli, a partire dall’Ottocento, con lo sviluppo dell’allevamento e dell’agricoltura, ha assunto i caratteri dello sterminio. Da allora i lupi sono stati uccisi con il fucile, nei boschi, dagli elicotteri e dagli aerei, con i veleni, le tagliole; sono stati feriti e lasciati morire, finiti con il bastone, soffocati per le pelli e i trofei, torturati per odio. I cacciatori cosiddetti “sportivi” sono stati determinanti nello sterminio del lupo. Lo confermano le parole di Aldo Leopold, ecologo, cacciatore, fautore di progetti volti a favorire l’incremento di quelle specie animali che i cacciatori amano uccidere e che convinse i cacciatori “sportivi” a collaborare con i progetti statali di sterminio del lupo e del leone della prateria. Ricordando l’incontro e l’uccisione di una lupa, scrisse: “pensavo che un minor numero di lupi significasse abbondanza di cervi e che zero lupi fosse il paradiso dei cacciatori”. In quel paradiso un predatore sarebbe stato sostituito da un altro, ben più nefasto perché non uccide per la propria sussistenza, ma per il piacere di farlo, e pertanto tendenzialmente senza alcun limite. La caccia non ha solo spinto alcuni tipi di lupi nella “nera notte dell’estinzione” – come quelli originari di alcune isole giapponesi – e ridotto altri a poche decine di individui, come quelli del lupo arabo e del Messico, non ha solo messo in moto un processo di degradazione ecologica e di estinzione a catena di altre specie animali e vegetali, ma è stata anche strumento del genocidio. È quanto accadde a partire dal 1870 con lo sterminio dei bisonti che percorrevano le Grandi pianure americane, le antiche prede dei lupi e fonte di sostentamento per i popoli nativi. Lupi, bisonti e “indiani” furono sterminati con la stessa determinazione e spietatezza, obbedendo alla stessa logica del “o noi o loro” che non lascia spazio per la coesistenza e la reciprocità. Nelle terre che i bisonti attraversavano fertilizzandole, una volta che furono “liberate” per l’agricoltura e l’allevamento, il dissodamento eccessivo causò l’erosione dei suoli all’origine delle terribili tempeste di sabbia (Dust Bowls) che negli anni Trenta devastarono le regioni centrali degli Stati Uniti, prima manifestazione della crisi ecologica globale che ci affligge oggi. Un esempio più recente è quello dello sterminio dei “cani da slitta” (qimmiiq) – cani discendenti dal lupo bianco artico per il quale il 23 novembre 2024 il governo canadese ha porto le sue scuse alla popolazione Inuit. Al fine di annientare la cultura dei nativi, costringerli ad abbandonare le loro terre, strapparli alla condizione nomade e impiegarli come mano d’opera a basso costo nelle industrie e nelle installazioni militari, tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta nelle regioni artiche del Canada furono uccisi – prevalentemente dalla polizia, ma anche da tanti volonterosi cacciatori, insegnanti, missionari, impiegati governativi – migliaia cani che, trainando le slitte, consentivano agli Inuit di spostarsi per la caccia di sussistenza distruggendo anche un profondo legame affettivo e spirituale con gli animali. Ne offrono una testimonianza toccante le memorie raccolte dalla Commissione di inchiesta promossa dalla comunità Inuit e riprese nel documentario Echo of the last Howl9. Le parole degli anziani rievocano il dolore per la perdita dei loro compagni animali, membri di una famiglia allargata, collaboratori che con la loro impareggiabile conoscenza del territorio erano in grado di valutare lo spessore del ghiaccio, ritrovare la strada di casa in condizioni atmosferiche estreme quando la vista umana era completamente offuscata. Una cultura millenaria, un modo di vita olistico, in cui “gli umani, la neve e i cani” erano “un insieme unico”, sono stati spezzati per sempre dal potere coloniale. Nella visione coloniale e patriarcale della vita biocidio e genocidio sono strettamente connessi, rispondono alla stessa logica: sradicare l’altro da un luogo definito come “proprio”, rimuoverlo dalla realtà al fine di creare un mondo migliore, “a misura d’uomo”. L’uccisione di massa viene quindi immaginata come una “distruzione creativa”, per eliminare gli inutili, i superflui, gli inferiori, i dannosi. Sottesa a questa distruttività è la svalutazione della vita dell’altro, una concezione della natura come cattiva, imperfetta, ostile di cui il lupo è l’emblema temuto e odiato. Da dove deriva il piacere di uccidere? Quali sono le motivazioni che hanno spinto tanti uomini a farsi esecutori dello sterminio? Quali le giustificazioni che hanno addotto? Su questo tema, a cui sarà dedicato un prossimo articolo, si sono soffermati numerosi studi di orientamento ecofemminista che hanno indagato il rapporto tra maschilità e caccia, analizzato scritti e raccolto le testimonianze dei cacciatori sulla loro esperienza e il loro sentire (Andrée Collard, Marti Kheel, Lisa Kemmerer, Brian Luke). Qui mi limito a citare le parole di Jody Emel in un suo saggio sullo sradicamento dei lupi negli Stati Uniti: Si può uccidere per essere un animale, selvaggio, indomito. Esiste anche l’idea che uccidere, con padronanza e maestria, può rendere un uomo più uomo secondo la tradizione del codice venatorio […]. Si può uccidere per calpestare qualcosa che si odia o si invidia: la libertà, la differenza, un posto nel mondo, “essere allo stato selvaggio”. Si uccide anche per depravazione. […]. Uccidere è un modo per mantenere il controllo […] o per obbedire ad un modello di eliminazione metodico, razionale e tecnologico in cui chi se la cava bene è abile, lodevole o, chissà, un cavalleresco avventuriero. È la congiuntura di questi fattori, di queste sovrastrutture a rendere possibile [lo sterminio]. Chi parla per il lupo? Quando, nel 1995, apparve per la prima volta il saggio di Jody Emel, avevano appena preso avvio i programmi di reintroduzione dei lupi. In Idaho, a Yellowstone, i progetti di più vasta portata e di maggior successo, e in generale negli stati dell’Ovest, così come in Canada, coloro che si sono assunti la responsabilità del reinserimento del lupo, sono stati in gran parte i nativi. In Idaho, come scrive Marcie Carter, biologa appartenente ai Nez Perce, essi hanno accompagnato i lupi nelle nuove terre, hanno seguito i processi di adattamento e riproduzione, pubblicato rapporti, dato vita a progetti educativi, una missione intesa come una rinascita spirituale, una occasione per riaffermare e diffondere i propri valori culturali e il loro ruolo nella difesa della biodiversità. “Si camminava con lo zaino in spalla e si ascoltava. È stato fantastico”. Il primo lupo introdotto in Idaho è stato battezzato da una bambina Nez Perce con il nome di “Chat Chaaht”, “fratello maggiore”. Ha scritto Suzanne Stone, impegnata in vari progetti di reintroduzione del lupo in Oregon ispirandosi alla visione dei nativi: Ho seguito le tracce dei lupi, ho ululato con loro, ho pianto la loro scomparsa e ho festeggiato la loro espansione in Oregon, Washington e California. Continuo a pensare che non ci sia niente di più magico in natura del sentire il canto di una famiglia di lupi echeggiare nelle foreste. È una voce che risuona nel profondo del mio essere. Nel corso degli anni ho lavorato a fianco di allevatori, ricercatori, capi tribù, biologi e altri ambientalisti per aiutare tutti noi a imparare a convivere con i lupi e altri animali selvatici. Se siamo riusciti a riportare i lupi, possiamo e dobbiamo ripristinare altre specie autoctone che arricchiscono la biodiversità del mondo. Meritano i nostri migliori sforzi per proteggere il loro futuro come nostri anziani selvatici e hanno ancora tanto da insegnarci sul nostro legame con la terra. Gli stessi sforzi sono stati messi in atto nella protezione degli orsi. Sempre negli anni Novanta, ad esempio, sono stati i capi spirituali di una riserva indiana nel Montana a proibire per primi la caccia e ad acquistare terreni dove gli orsi potessero vivere e riprodursi. Lo racconta David Rockwell, negli anni Ottanta guardia forestale nella riserva che, per favorire forme di convivenza, ha raccolto dalla viva voce dei nativi le storie tramandate per secoli sui loro rapporti con il grande predatore, “il nonno” onorato per almeno 100.000 anni10. Tutte queste storie non sono retaggi di un mondo ormai tramontato, ma rispecchiano una visione che guida ancora l’azione, ispira progetti educativi, storie che hanno ancora molto da insegnarci. Storie per reimparare a vivere sulla Terra “Noi (Piedi Neri) abbiamo un detto: l’arma che spara a un lupo o a un coyote non sparerà mai più dritto” (cit. in Brandy R. Fogg et al., p. 272). Tornare a intendere noi stessi come parte di una comunità ecologica, rispettare gli spazi delle altre creature, provare gioia nell’osservare il loro amore per la vita – l’unica cosa che davvero ci unisce – rallegrarsi dell’ululato del lupo, percepire la fugacità della sua presenza e cogliere la fierezza del suo sguardo, richiederà la capacità di ascoltare e il coraggio di opporre alle scelte inaccettabili fondate sul “o noi o loro”, il principio del “noi e loro”, “noi con loro”, come ci hanno insegnato le visioni dei popoli indigeni e le loro storie. I nativi nordamericani – Navajo, Hopi, Cherokee, Seminole, Oneida, Nez-Perce, Piedi Neri, Apache – riconoscevano negli animali individui dal valore intrinseco e nei lupi una nazione sovrana delle Grandi pianure e se ne consideravano i discendenti, membri della comunità planetaria. “Abbiamo imparato dal lupo come sopravvivere e come essere più umani. Come onorare i nostri anziani, proteggere e provvedere per le nostre famiglie e abbiamo imparato dai lupi la lealtà necessaria per appartenere a una tribù”. Sono parole di un’artista nativa riportate da Brenda Peterson11. Le storie che per secoli hanno trasmesso questa sapienza di vita parlano del profondo legame spirituale tra umani e lupi, di ammirazione, collaborazione, rispetto, onore e riconoscenza. Il lupo, oltre a essere un maestro di caccia, insegna pazienza, tenacia e capacità di sopportazione; è un compagno dotato di poteri terapeutici, l’animale soccorrevole che nutre e protegge gli umani in difficoltà, adotta i piccoli abbandonati, si prende cura delle donne maltrattate, sperdute o scacciate; procura loro il cibo, offre il calore del suo corpo e infonde il coraggio della libertà. Il più delle volte la protagonista della storia è una lupa, come ha scritto Teresa Pijoan, custode delle storie dei nativi, nella sua raccolta White Wolf Woman (Little Rock, 1992). Vivendo con i lupi – narra una storia Sioux a proposito della donna fuggita da un marito violento – “ella divenne forte, sentì la forza dei lupi dentro di sé, imparò da loro” (ivi, p. 69). Questa storia si avvicina ad alcune di quelle raccolte in Donne che corrono coi lupi da Pinkola Estés (1993) che celebrano l’intima vitalità racchiusa nell’animo femminile. Il tema del rapporto tra lupi e umani è al centro di una storia tradizionale Oneida tradotta in inglese da Paula Underwood, Chi parla per il lupo, una storia per imparare12 che ascoltò dal padre quando aveva tre anni e che si impegnò a diffondere. Elaborata nel corso di molte generazioni, questa storia è stata oggetto di riflessione in vari progetti educativi per adulti e bambini; è stata utilizzata nelle scuole, nei corsi di ecologia, nei laboratori sulle modalità decisionali e sulla costruzione della pace incoraggiando le persone a “pensare, comprendere, ricordare”. Di seguito, la riassumiamo e ne riportiamo alcuni brani. *** Ai margini del cerchio di luce proiettato dal fuoco al centro del villaggio, Lupo fissava le fiamme. Lo guardava affascinato un ragazzo di otto anni e si chiedeva perché non avesse paura. Poi, dalla vicina collina una lupa iniziò a ululare; a lei si unirono via via altri lupi. “La canzone parlava di come la Terra fosse un buon luogo dove vivere” e di come tanta bellezza si possa facilmente vedere nella Luna e nel Fuoco”. Poi il canto cessò e il lupo si allontanò dal fuoco. “Continuo a non capire, chiese al nonno il bambino. Perché lupo fissa il fuoco? Perché si sente a casa così vicino al luogo dove viviamo? Perché Lupa inizia la sua canzone su una collina tanto vicina a noi che non siamo lupi?”. “Ci conosciamo da tanto, tanto tempo, disse il nonno. Abbiamo imparato a vivere uno vicino all’altro”. Era una vecchia storia, e il nonno iniziò a raccontare. TANTO, TANTO, TANTO TEMPO FA Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli.Il nostro Popolo crebbe di numero, così che il luogo dove eravamo non era più sufficiente Molti giovani furono mandati a cercare un nuovo posto […] Ora, IN QUEL TEMPO C’era uno tra il Popolo che era fratello del Lupo Si sentiva così tanto fratello del Lupo che cantava la loro canzone e loro gli rispondevano Si sentiva così tanto fratello del Lupo che i suoi piccoli a volte lo seguivano nella foresta e sembrava che volessero imparare da lui […] Come HO DETTO La gente cercò un nuovo posto nella foresta. Ascoltarono attentamente ciascuno dei giovani mentre parlavano di colline e alberi di radure e acqua corrente, di cervi, scoiattoli e bacche Ascoltarono per capire quale posto potesse essere più asciutto sotto la pioggia più protetto in inverno e dove le nostre Tre Sorelle, Mais, Fagioli e Zucca potessero trovare un posto di loro gradimento. […] Ascoltarono ognuno di loro finché non raggiunsero un accordo […] Qualcuno chiese: Dov’ è il fratello del lupo? CHI, ALLORA, PARLA PER il lupo? MA IL POPOLO ERA DECISO e le prime persone furono mandate a scegliere un sito per la prima Casa Lunga e per liberare uno spazio per le nostre Tre Sorelle […] E POI IL FRATELLO DI LUPO TORNÒ Chiese del Nuovo Luogo e disse subito che dovevamo sceglierne un altro: “Avete scelto il Luogo al centro di una grande comunità di Lupi”. […] “Badate, scoprirete che è un posto troppo piccolo per entrambi […] MA LE PERSONE SI TAPPARONO LE ORECCHIE e non ci ripensarono. […] Questo Nuovo Posto aveva estati fresche, protezione invernale, corsi d’acqua impetuosi e foreste tutt’intorno piene di cervi e scoiattoli c’era spazio persino per le nostre Tre Amate Sorelle E LA GENTE VEDEVA CHE QUESTO ERA BELLO e non vide un lupo che osservava nell’ ombra! Ma con il passare del tempo iniziarono a vedere. Videro che le prede che gli uomini cacciavano sparivano e che i lupi si facevano sempre più audaci, ed entravano nel villaggio spaventando le donne e i bambini. All’inizio pensarono di offrire del cibo ai lupi, poi cercarono di scacciarli. Si accorsero anche che avrebbero potuto sterminarli. MA VIDERO ANCHE che un simile compito avrebbe cambiato il Popolo: sarebbero diventati Uccisori di Lupi Un Popolo che toglieva la vita solo per sostenere la propria […] NON SEMBRAVA LORO DI VOLER DIVENTARE UN POPOLO DEL GENERE FINALMENTE Uno degli Anziani disse ciò che tutti avevano in mente: “Sembra che la visione del Fratello del Lupo fosse più acuta della nostra”[…]. DA QUESTO IL POPOLO HA IMPARATO UNA GRANDE LEZIONE È UNA LEZIONE CHE NON ABBIAMO MAI DIMENTICATO […] IMPARIAMO ORA A CONSIDERARE IL LUPO! E così fu che le Persone escogitarono un modo per porsi domande a vicenda ogni volta che si doveva prendere una decisione su un Nuovo Luogo o una Nuova Via. Cercammo di percepire il flusso di energia attraverso ogni nuova possibilità e quanto fosse abbastanza e quanto fosse troppo. FINCHÉ FINALMENTE qualcuno si alzò e pose la vecchia, vecchia domanda per ricordarci cose che non vediamo ancora abbastanza chiaramente per poterle ricordare. “Ditemi ora, FRATELLI MIEI, DITEMI ora, SORELLE MIE CHI PARLA PER IL LUPO?”. La storia, come spiegò il padre a Paula Underwood, fu rielaborata, narrata e ricordata per molto tempo, ma non poté essere trasmessa al “Nuovo popolo che arrivò sulle navi di legno”. “Non abbiamo potuto insegnare loro a porre domande al lupo. Non capivano che era il loro fratello. Noi invece sapevano quanto tempo ci è voluto per ascoltare la sua voce”. Non capivano che trascurare od omettere un solo aspetto della realtà può creare gravi difficoltà. “Avrebbero imparato? Chiese Paula”. “A volte la saggezza viene dopo una grande follia” rispose il padre. Questo momento dovrebbe essere arrivato per noi. Se non avremo la forza morale per acquisire una tale saggezza, dovremo riconoscere, come ha scritto Anna Maria Ortese, che quella umiliazione e desolazione cui abbiamo sottoposto tutto ciò che non è l’uomo […], giunta al muro di confine, dove non c’è più distruzione, perché non c’è nulla, sta ora tornando verso di noi, umanità. E ciò che abbiamo fatto, e tuttora freddamente facciamo, lo subiremo. E il conto ci sarà mandato a casa13. Ma allora, probabilmente, non avremo di che pagarlo. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Questo scritto è una versione rivista e ampliata di un mio precedente articolo pubblicato in “Erbacce”, con il titolo Chi parla per il lupo?. 2 Per una analisi puntuale del testo in discussione si veda Linda Maggiori, Caccia selvaggia, in “Terranuova”, settembre 2025, pp. 10-22. 3 Bruna Bianchi, Ecopedagogia, Napoli 2021. 4 Citato in Fred Bodsworth, L’ultimo dei chiurli (1955), Milano 2025, p. 9. 5 Rachel Carson, Primavera silenziosa, Milano 1963, p. 241. 6 In “Illustrated London News”, 6 gennaio 1900, pp. 18-19. 7 Matt Cartmill, A View to a Death in the Morning. Hunting and Nature through History, Cambridge-London 1993. 8 José Ortega y Gasset, Méditations sur la chasse (1942), Québec 2017, pp. 65-66. 9 Dalla Makivik Corporation, rappresentante legale degli Inuit nel Quebec settentrionale; si veda anche Susan McHugh, Love in a Time of Slaughters. Human-Animal Stories against Genocide and Extinction, University Park 2019. 10 Giving Voice to Bears, Lanham 2003. 11 Wolf Nation, Philadelphia 2017, p. 25 12 Who Speaks for Wolf. A Native American Learning Story, San Anselmo 1991. 13 Risposta a Parise sulla caccia, in Ead., Le piccole persone, Milano 2016, p. 140. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI ANNAMARIA MANZONI: > L’ambigua fascinazione della caccia -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo I lupi, la caccia, la guerra proviene da Comune-info.
Rendere obbligatori i test alternativi all’uso di animali, una petizione al Parlamento Europeo. Intervista a Massimo Terrile
Nella primavera del 2024 è stato dato l’avvio ad un Comitato promotore per l’ICE ‘USE NAMs NOT ANIMALS’, coinvolgendo persone dedite alla causa antispecista e ovviamente antivivisezionista. All’ICE  è stata poi preferita una petizione al Parlamento Europeo (P.E), inviata ad aprile 2024 tramite il “Portale delle petizioni al P.E.”, con richiesta di interessarne la Commissione Europea. La petizione fu però accettata troppo tardi, a ottobre 2024, dopo la costituzione del nuovo P.E. e quando la Commissione Europea era ormai sciolta. Per questi motivi – sebbene accettata – la petizione fu archiviata e inviata solo alle commissioni del P.E. competenti, sottraendola così alla pubblicazione sul portale e rendendo impossibile l’accesso ai possibili ‘like’ dei cittadini europei. Sulla base della risposta (incoraggiante) ricevuta – sebbene relativa alle posizioni in merito delle precedenti due istituzioni – le associazioni hanno pensato di proporne un’altra, più precisa e più documentata. Prendendo atto che i metodi alternativi validati dalla UE e dall’OCSE non sono considerati obbligatori nei relativi regolamenti UE, si è ora voluto evidenziare che anche quelli validati nella UE dall’ECVAM di Ispra (centro comune europeo per la validazione dei metodi alternativi, che peraltro costa molti soldi pubblici) non sono inseriti nei rispettivi regolamenti UE per i test di tossicità, ma archiviati in attesa dell’approvazione dell’OCSE (38 paesi), causando in tal modo l’utilizzo, evitabile, di migliaia di animali non umani. Ovviamente, tutto questo, per ragioni commerciali, dato che i prodotti testati utilizzando metodi approvati dall’OCSE, dopo anni, possono essere venduti anche in tali paesi, e non solo nella UE. A questo le organizzazioni promotrici hanno aggiunto la richiesta – precedentemente limitata all’inserimento nelle etichettature dei prodotti della dicitura ‘testato solo su animali’ – che sia indicato se le sostanze chimiche usate siano o meno testate anche clinicamente (sugli umani), cosa che avviene solo per i farmaci (ma non nota al pubblico) per poterne informare i cittadini e consentire loro una maggior possibilità di scelta in relazione alle proprie convinzioni etiche e a salvaguardia della propria salute. Sulla nuova petizione al Parlamento Europeo intitolata TUTELA DEGLI ANIMALI, DELLA SALUTE E DELLA LIBERTA’ DI COSCIENZA, abbiamo intervistato Massimo Terrile, attivista, membro del Movimento Antispecista e coordinatore del Comitato promotore della Petizione presso il Parlamento Europeo. Da dove nasce questa proposta di petizione al Parlamento Europeo? L’iniziativa di predisporre ed inviare la Petizione ‘TUTELA DEGLI ANIMALI, DELLA SALUTE E DELLA LIBERTA’ DI COSCIENZA’ al Parlamento europeo il 24 maggio 2025, tramite il Portale delle petizioni al P.E., anziché promuovere un’I.C.E. (Iniziativa dei Cittadini Europei) destinata quindi solo alla Commissione europea, procedimento molto più complesso, lungo e costoso (richiede almeno 1 milione di firme tra tutti i Paesi aderenti alla UE e non coinvolge direttamente i membri del P.E.), nasce da un gruppo di cittadini italiani, costituitosi come ‘Comitato per le petizioni al Parlamento europeo’. Questo comprendente artisti, biologi, filosofi, giuristi, giornalisti, medici, scrittori, veterinari, ecc., impegnati da tempo contro quella che veniva chiamata ‘vivisezione’. Questa è ora detta ‘sperimentazione animale’ (termine introdotto dalla direttiva CE 2010/63 sulla protezione degli animali usati a scopo scientifico). Il testo della Petizione, per ora non ancora pubblicato, in sintesi, su tale Portale, in attesa della dichiarazione di ‘ricevibilità’ da parte della ‘commissione per le petizioni’ del P.E. che deve verificarne i requisiti per l’ammissibilità, è disponibile in versione integrale sul sito di alcune associazioni, quali il Movimento Antispecista (v. Petizioni) e SOS Gaia. Vale tuttavia soffermarsi sul termine ‘vivisezione’, che trae origini dai crudeli esperimenti effettuati dal vivo, anche pubblici, senza anestesia, effettuati nei secoli passati (dal ‘500 al ‘700 circa), per studiare e dimostrare la biologia degli animali non umani. Lo studio di quella umana si effettuava  di nascosto, sui cadaveri, fino a quando è stata legalizzata; in Italia è avvenuto nel 1961. Dopo la suddetta direttiva, dal 2010 in poi, si sente spesso affermare che intervenire dal vivo su un animale non umano, senza anestesia, non sia più permesso. Questo non è vero. L’art.14 delle direttiva stabilisce infatti le relative eccezioni, ad esempio ove l’anestesia sia ‘incompatibile con lo scopo dell’esperimento’. Inoltre, l’Allegato VIII (VII nel Dlgs n. 26/2014), in particolare, elenca  gli esperimenti (ora detti ‘procedure’), autorizzabili dietro giustificazione col bilancio danni/benefici (naturalmente ipotizzati dal proponente, senza sentire il parere dei ‘diretti interessati’), che possono causare sofferenze classificate anche come ‘gravi’. Ad esempio: gli interventi chirurgici o biologici invasivi (es.  l’induzione di tumori), l’inalazione forzata di agenti chimici in cui la morte è il punto finale, la riproduzione di animali con alterazioni genetiche suscettibili di generare distrofie o nevriti croniche, l’irradiazione o chemioterapia in dose letale, l’uso di gabbie metaboliche con limitazione grave del movimento per lungo periodo, le scosse elettriche, l’isolamento completo di specie socievoli per lunghi periodi, lo stress da immobilizzazione per indurre ulcere gastriche o insufficienze cardiache, o la generazione di anticorpi monoclonali tramite la provocazione di ascessi, il nuoto forzato o altri esercizi fino allo sfinimento, gli xenotrapianti, la somministrazione di sostanze stupefacenti (così dette d’abuso), ecc. Gli esperimenti ‘in vivo’, senza anestesia, sono quindi ancora autorizzabili sia a scopo di ricerca, sia di prove tossicologiche richieste dalle normative Ue, e non si può dire che molti di questi non siano assimilabili a vere e proprie torture o ‘vivisezioni’. Usiamo oggi tuttavia il termine ‘sperimentazione animale’ (s.a.) sia per adeguarci a tale dizione della direttiva, sia in quanto il termine ‘vivisezionista’ è stato considerato un reato (v. Corte di Cassazione, 14694/2016), essendo inteso come un insulto, passibile di querela. Il nuovo termine, tuttavia, è in parte corretto, almeno dal lato scientifico, in quanto non tutti gli esperimenti oggi autorizzabili sono assimilabili a vere e proprie ‘vivisezioni’, ma anche in quanto la nuova dizione, meno emotivamente impattante sulla sensibilità umana, consente di non mettere sullo stesso piano chi oggi effettua esperimenti ‘in vivo’ autorizzati, rispetto a chi, nel passato, operava senza autorizzazione e senza alcun controllo. Benché gli effetti possano essere simili. A che punto si trova l’Unione Europea sul tema della vivisezione e della sperimentazione animale? Per cosa vengono ancora usate? Nel quadro internazionale, la Ue si trova in una posizione avanzata, dal lato legislativo,  per quanto riguarda la s.a. grazie alla suddetta direttiva 2010/63, che non trova riscontro in altre legislazioni extra europee. Questa ha posto dei limiti (sebbene contenuti) a tale pratica, stabilendo il principio che gli esperimenti devono essere prima approvati dalle rispettive autorità sanitarie nazionali (leggi Ministeri della salute) in base ai parametri posti da tale direttiva. La precedente, la 86/609 richiedeva infatti solo la comunicazione degli esperimenti in corso, non specificamente condizionati a tali principi. Per contro, la direttiva 2010/63 vieta agli Stati membri di adottare una protezione ‘più estensiva’ degli animali (art. 2), ovviamente allo scopo di livellare la concorrenza tra gli Stati membri, mentre la precedente la auspicava. Il che ha sollevato molte critiche, non potendosi mettere sullo stesso piano etica ed interessi economici. Infine, la direttiva demanda alla legislazione specifica (i ‘regolamenti’ Ue) le prove da effettuarsi per la sperimentazione così detta ‘regolatoria’, ossia quelle approvate  dall’OCSE, di cui la Ue fa parte, anche al fine di poter vendere tali prodotti nei 38 Paesi ad essa aderenti. Nella Ue, peraltro, esiste da tempo l’ECVAM a Ispra, quale Centro Comune di Validazione dei Metodi Alternativi, che invia periodicamente all’OCSE, per la ri-convalida, i nuovi metodi scoperti nella Ue, pur dovendo averne eseguito la validazione nell’osservanza delle apposite Linee guida dell’OCSE stessa. La Commissione europea però non li inserisce nei regolamenti fino all’approvazione dell’OCSE, che richiede circa 2 anni, impedendo così agli Stati membri di utilizzarli subito. Peraltro, non risulta che la legislazione Ue in materia obblighi la C.E. a seguire tale procedura, bensì solo ‘a tener conto’ degli aspetti internazionali al riguardo. A ciò si aggiunge il ritardo nella pubblicazione nei regolamenti Ue di tali metodi da parte della C.E. , che richiede altri 2 o 3 anni. Per cui un nuovo metodo alternativo viene recepito nei regolamenti Ue anche tre o quattro anni dopo essere stato scoperto e validato nella Ue. Inoltre, nei regolamenti Ue tali metodi non sono ancora stati resi obbligatori, lasciando spesso allo sperimentatore la scelta del metodo ‘in vivo’ o ‘in vitro’, se presenti entrambi per una prova specifica (detta end-point). Almeno 1,4 milioni di animali non umani (v. rapporto ECVAM 2025) vengono pertanto ‘sacrificati’ nella sola UE, ogni anno, per le prove tossicologiche regolatorie, mentre moltissimi potrebbero essere salvati se la UE consentisse l’uso dei metodi validati dall’ECVAM nel mercato interno, prima della ri-convalida dell’OCSE. A latere della direttiva 2010/63, esistono pertanto nella Ue diversi regolamenti (obbligatori per i Paesi membri) per effettuare i test ‘preclinici’ sugli animali non umani e quelli ‘clinici’ sugli umani. Negli USA, ad esempio, esistono leggi specifiche per entrambi tali tipi di test, sotto il controllo di due diverse istituzioni, l’FDA per farmaci e alimenti,  e l’EPA per le sostanze chimiche, ma non risulta esista una normativa assimilabile alla direttiva 2010/63 per la protezione degli animali usati a scopi scientifici che imponga dei limiti agli esperimenti. Le finalità per le quali tali prove (o test) possono essere effettuate, nella Ue, riguardano sia la ricerca così detta ‘di base’ a puro scopo scientifico investigativo, sia quella ‘traslazionale’ (prove di efficacia verso gli umani) sia quella ‘regolatoria’ o ‘applicata’ riguardante test di tossicità previsti di routine per nuovi farmaci e sostanze chimiche (v. regolamento REACH) costituiti da 70 e più prove  su mammiferi, pesci e molluschi. In particolare, per i farmaci, la sperimentazione ‘preclinica’ è obbligatoria prima di passare a sperimentarli (davvero) sugli umani nelle 4 fasi della sperimentazione ‘clinica’ (volontari a titolo gratuito ‘rimborsati dalle spese’, ammalati ospedalizzati e pazienti ‘consenzienti’ delle ASL, e infine, in quella commerciale, sui pazienti, quali ‘consumatori’, dove si scopre che i test effettuati (su centinaia di ‘volontari’) spesso non bastano a escludere gravi effetti collaterali. Per le sostanze chimiche, è invece obbligatoria solo la fase preclinica sugli animali non umani (anche per gli ingredienti riguardanti i cosmetici, nonostante quanto si dica), con gravi rischi poi per gli umani nell’utilizzo di tali prodotti, sia per evitare stragi (anche) ecologiche all’atto della commercializzazione, sia infine in quanto non si ha il coraggio di renderne obbligatori i test sugli umani. Non essendo tali prodotti utili a guarire dalle malattie,  ne manca infatti la giustificazione ‘etica’, senza contare che è molto più difficile trovare, come per i farmaci, i volontari. Molti di questi test prevedono la morte dei soggetti, usati a centinaia di migliaia, come l’LD50 o l’LC50, nei quali la tossicità è misurata dal superamento di una determinata soglia di animali morti (50%). Ovviamente senza possibilità di ricorrere ad anestesia. La ragione posta dalle autorità scientifiche della UE e dell’OCSE per i test ‘in vivo’ è che non tutte le prove per testare tali prodotti possono essere effettuate su parti del corpo esposte, come l’epidermide. Alcune (tossicologia acuta, a prove ripetute, tossicità genetica e riproduttiva, farmacocinetica, ecc.), dette ‘a livello sistemico’, richiedono infatti che il test sia effettuato su un organismo animale integro e sano, senza interferenze con altre sostanze (come gli analgesici), al fine di scoprire i ‘meccanismi di azione biologica’ per i quali l’organismo reagisce a determinate  sostanze, ancora molto poco noti. Tali informazioni non sono peraltro riportate sulle confezioni di farmaci, prodotti alimentari o prodotti per uso domestico che contengono tali sostanze, impedendo ai cittadini di mettere in atto le proprie scelte etiche e salutistiche, anche quali consumatori. Una tale consapevolezza può infatti solo provenire dal riportare sulle confezioni di tutti tali prodotti l’informazione di come sono stati testati, sia dal lato clinico (umano) sia preclinico (non umano), essendo il diritto alla salute e all’informazione garantito dai Trattati dell’Unione (Trattato sul Funzionamento dell’Unione e Carta dei diritti fondamentali). Spesso, sul tema della sperimentazione animale, c’è chi afferma ancora che è eticamente ammissibile a condizione che non avvengano maltrattamenti. Siamo sicuri che è così ben delineato il confine tra “maltrattamento” e “sperimentazione animale”? Se la sperimentazione animale implica l’uso di un corpo animale e la sua medicalizzazione, può essere considerata diversa da una condizione di maltrattamento? E’ veramente etico usare gli animali per fini puramente umani? Le gerarchie delle leggi, dal lato giuridico, sono tali per cui una ‘legge speciale’ ha la prevalenza su una ‘legge generale’, e le ‘leggi speciali’ non possono essere in conflitto tra loro in merito al campo di applicazione. Per cui, direttive e regolamenti Ue, essendo normative comunitarie ‘speciali’, sono prioritarie, anche a livello costituzionale (v. art. 117 della Costituzione: “La potestà legislativa è esercitata dallo Stato [70 e segg.] e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”). Di conseguenza una legge nazionale, come la 189/2004 così detta ‘sui maltrattamenti’ che istituisce il Titolo IX bis del c. penale, non è applicabile, salvo dichiarazione esplicita, ad altre leggi ‘speciali’ nazionali, né a quelle ‘speciali’ comunitarie (es. caccia, macellazione, allevamenti, trasporti, sperimentazione animale, ecc.). Il rispetto degli animali non umani, nonostante l’art. 13 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione (T.F.U.) che invita a tener conto degli animali quali esseri senzienti, viene quindi ancora negato (e lo si riscontra paradossalmente anche nelle encicliche papali, v. Papa Francesco in ‘Laudato sì …’ : la s.a. è giustificabile se contribuisce a salvare vite umane), in funzione dell’umano, perpetuando il mito antropocentrico della filosofia occidentale. Perché ancora oggi la sperimentazione animale trova ancora così tanti sostenitori tra politici e scienziati, nonostante l’avvento dei metodi sostitutivi human-based? Cosa è che fa propendere ancora per l’uso della sperimentazione animale piuttosto che per i metodi alternativi? E’ una questione economica? Da alcuni anni si stanno scoprendo sempre più nuovi approcci metodologici (detti NAMs) che possono condurre a simulare le reazioni di organi animali umani e non umani alle sostanze farmacologiche e chimiche, utilizzando parti di organi fatte sviluppare da cellule staminali o da prelievi ex-vivo inseriti su ‘chips’, o mini organi sviluppati da colture cellulari, detti ‘organoidi’. Negli USA ad esempio è stata modificata a gennaio 2023 la legge per le prove precliniche sui farmaci, rinominate ‘non cliniche’, ammettendo il ricorso a tali nuove metodologie, sebbene manchino le diposizioni per caratterizzarle e validarle, lasciato per ora alla valutazione della FDA. Ad oggi, tali metodi per sostituire le prove ‘in vivo’ a livello ‘sistemico’ sono quindi ancora allo stadio sperimentale. E’ però fondamentale, per garantire il successo delle nuove metodologie, superare un’ultima barriera. Ossia eliminare il ‘paradosso della validazione’ del metodo alternativo stesso. Oggi l’OCSE, nelle Linee guida emesse per regolamentare la validazione dei metodi alternativi alla s.a., stabilisce che questi, per essere convalidati (dalla stessa) e quindi applicati nelle prove ‘regolatorie’ a livello internazionale, devono essere testati ‘sugli animali’ e dare gli stessi risultati delle prove effettuate ‘in vivo’ (o verso i test precedenti) su altri ceppi di animali. pur non essendo vietate le prove di confronto sugli umani, almeno in base al regolamento Ue 2014/536 sui test clinici. In tal modo, è impedito di verificare l’oggetto stesso della ricerca: la validità di tali metodi a fini umani. Occorre quindi, per superare tale ‘paradosso’, che i test dei nuovi metodi siano effettuati (anche) clinicamente, sugli umani. Si dovrebbero quindi studiare metodi human-based separatamente da quelli animal-based, orientandosi a metodi specie-specifici, così come la nuova medicina di genere si orienta a testare e produrre farmaci per sessi diversi, bambini, anziani, donne in gravidanza, e gruppi etnici. Per le popolazioni di colore ad esempio è noto che alcune tipologie di farmaci non sono interscambiabili con quelle per i bianchi. La ‘propensione’ all’uso degli animali non umani è quindi per ora imposta dalle normative internazionali e comunitarie causa l’assenza di metodi sostitutivi (ossia né ‘in vivo’ né ‘in vitro’) validi per le prove a carattere sistemico. E’ quindi sia una questione scientifica e normativa, che coinvolge anche aspetti economici. Perché oggi la ricerca scientifica si ostina ad utilizzare maggiormente i test su animali per farmaci umani, quando l’essere umano è completamente diverso – per esempio – dai murini? E’ una questione economica? La scienza ha ormai riconosciuto che le prove effettuate sugli animali non umani, a fini umani, sono inutili, in quanto le differenze biologiche tra le due categorie sono profonde (es. differenza di DNA, metaboliche, epigenetica, ecc.) e l’alta variabilità dei risultati delle prove effettuate sui non umani impedisce di considerare attendibili i risultati, rappresentando pertanto un inutile dispiego di tempi e risorse, a parte l’aspetto etico. Per di più tali prove non garantiscono i volontari umani dai rischi nelle prove cliniche.  Tuttavia, fino a quando le nuove metodologie non saranno ‘validate’ come sopra descritto, e non solo per alcune prove specifiche, le attuali normative non potranno essere modificate, salvo eccezioni. Peraltro, le prove precliniche dei farmaci e delle sostanze chimiche servono, eccome, anche a fini veterinari. A tali fini non è peraltro applicabile, per disposizione espressa, la direttiva 2010/63 e infatti il relativo regolamento Ue per le prove a scopo veterinario si limita da ‘auspicare’ che vengano utilizzati i metodi alternativi. I metodi sostitutivi human-based sono oggi certificati ed applicati in alcuni ambiti di ricerca? Se sì, che riscontri abbiamo in termini di efficacia e precisione?  Non mi risulta esistano metodi sostitutivi ‘human-based’ validati a fini regolatori, salvo per alcuni specifici test (es. OCSE 458, Androgen Receptor TransActivation Assay using the stably transfected human AR-EcoScreen cell line, o OCSE 431, Skin corrosion). Essendo questi validati, si suppone sia  stata dimostrata la loro efficacia. Purtroppo non sono qui disponibili i risultati. Quale esiti potrebbe avere la vostra petizione al Parlamento Europeo, qualora dovesse  avere consenso? Nel presente, è stato ritenuto opportuno concentrarsi, per ridurre sofferenze e morti, sia umane sia non umane, sulla necessità che i metodi alternativi già validati (dalla UE e/o dall’OCSE) relativi  alle prove in vitro o con nuovi altri metodi senza uso di animali non umani (NAMs), siano sempre realmente applicati, ossia siano resi ‘obbligatori’, ovvero autorizzati nella Ue, a fini del mercato interno, ove validati solo dall’ECVAM, tenuto conto che per le prove a livello sistemico non esistono ancora metodi alternativi. Inoltre, che siano fortemente promosse ad ogni livello le nuove metodologie (NAMs), e che siano riportati, nelle confezioni dei prodotti farmaceutici e chimici, i metodi con i quali sono stati testati, sia a livello preclinico, sia clinico. Gli scopi cui si mira con le richieste effettuate (2) sono quindi essenzialmente: 1. Chiedere ai Membri del P.E. di impegnare la Commissione europea a proporre le modifiche legislative per soddisfare le richieste effettuate nella Petizione; 2. Informare i cittadini europei dei rischi per la loro salute dovuti all’inefficacia degli attuali test regolatori sugli animali non umani per la sicurezza di farmaci e sostanze chimiche, e del loro diritto ad essere portati a conoscenza dei metodi di test utilizzati per la commercializzazione di tali prodotti, onde poter esercitare il loro diritto, anche quali consumatori, ad effettuare le proprie scelte etiche e salutistiche.   Nota 2 1. a) Includere, nei regolamenti riguardanti le prove precliniche di tossicità ed efficacia per farmaci ad uso umano o veterinario, prodotti biosimilari, dispositivi sanitari, cosmetici e sostanze chimiche prodotti nella UE, l’obbligo dell’utilizzo dei metodi alternativi in vitro o senza l’uso di animali accettati dall’OCSE o ritenuti scientificamente validi dalla Ue. 1. b) Includere, nei regolamenti riguardanti le prove precliniche di tossicità ed efficacia per farmaci ad uso umano o veterinario, prodotti biosimilari, dispositivi sanitari, cosmetici e sostanze chimiche prodotti nella UE, i metodi alternativi in vitro o senza uso di animali validati nell’Unione e trasmessi all’OCSE per accettazione, consentendone l’utilizzo in alternativa ai metodi in vivo ai fini della commercializzazione nell’Unione. 1. c) Promuovere fortemente ad ogni livello la ricerca di nuovi approcci metodologici in vitro e/o senza uso di animali, mirando alla qualificazione e standardizzazione di metodi computazionali, tecnologie ‘organo-su-chip’, organoidi e similari basate sulla specifica specie biologica e favorire l’utilizzo a tali fini di materiali provenienti dalla donazione di corpi umani. 1. d) Includere, nei regolamenti riguardanti l’etichettatura dei prodotti di cui ai punti precedenti, ove commercializzati nella Ue, l’obbligo di riportare sulle confezioni le diciture: ‘sostanza testata su animali /non testata su animali’ e ‘sostanza testate clinicamente / non testata clinicamente’, per ogni componente, a seconda delle prove effettuate.   Sigle usate: EPA: Environmental Protection Agency (USA) FDA: U.S. Food and Drug Administration (USA) OCSE: Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (38 Paesi) ICH: International Council for Harmonization of Technical Requirements for Pharmaceuticals for Human Use. REACH: Registration, Evaluation and Authorization of Chemicals (regolamento CE 1907/2006 e successivi).   http://www.movimentoantispecista.org/petizioni/index     Lorenzo Poli
Il cacciatore uccide sempre per giocare
-------------------------------------------------------------------------------- Il 31 maggio, Danilo Baldini, referente LAC Marche (Lega Anticaccia), e da anni attivista animalista, ha trovato nel campo adiacente la sua abitazione a Matelica (MC), la carcassa di una capriola con la testa mozzata. “In un primo momento si era pensato a un incidente – osserva la Lac in una nota – visto che in questo periodo si svolgono le falciature del fieno e dell’erba e siccome i piccoli dei caprioli, per non farli localizzare dai predatori, vengono lasciati dalle loro madri in mezzo all’erba alta, spesso purtroppo finiscono maciullati dalle falciatrici. Ma questa ipotesi è stata subito scartata, sia perché la carcassa della povera bestiola si trovava in un punto dove non vi era stato il taglio dell’erba, sia perché le falciature nei terreni vicini erano avvenute molti giorni prima, mentre la povera capriola era stata uccisa da poche ore, visto che ancora sanguinava e non presentava nessuna altra ferita nel resto del corpo e del tutto priva di morsicature o strappi che potrebbero far pensare ad una predazione da parte di un lupo, il quale non si sarebbe limitato a mangiare la testa. La conferma ufficiale che la decapitazione della capriola fosse opera di mano “umana” è arrivata, poche ore dopo il ritrovamento, da parte del di Angelo Giuliani, responsabile scientifico ed operativo del CRAS Marche, che era stato subito allertato, insieme ai Carabinieri Forestali di Fabriano, poi intervenuti sul posto per un sopralluogo. Peraltro trattandosi di una femmina, è venuta meno anche l’idea che l’animale fosse stato decapitato con lo scopo di tenersi la testa come un “trofeo” di caccia visto che, a differenza del maschio, la femmina di capriolo è priva di corna. Quindi resta solo l’ipotesi dell’atto di intimidazione o di ‘avvertimento’”. L’esame autoptico e le indagini dell’autorità giudiziaria, nei prossimi giorni stabiliranno con precisione la dinamica dei fatti. Danilo Baldini da anni è in prima linea su temi che riguardano la difesa degli ecosistemi, e non è la prima volta che si trova ad essere intimidito e minacciato. Per chi si espone come fa lui, quando si è vittima di certi fatti, non si ha certo bisogno della chiusura delle indagini per sapere chi possa essere stato. Anche perché se per la legge è molto probabile che alla fine si sarà trattato di ‘ignoti’, chi subisce sa ‘a pelle’ chi siano i ‘noti’. Ma quanto è accaduto va letto in un clima generale che nelle Marche, e probabilmente non solo, si respira relativamente all’attività venatoria. Da quando la destra è al governo della Regione, per ragioni di ricerca o consolidamento del consenso, i partiti di governo hanno fatto della questione venatoria uno dei temi operativi e comunicativi principali. C’è quasi una sorta di competizione tra le componenti della coalizione, (FDI, Lega e FI) a chi ‘promette’ di più ai cacciatori. Non che il centrosinistra sia stato meglio negli anni passati, specie in casa Pd e in quel che resta del partito socialista, dove ai voti dei cacciatori ci si è sempre tenuto. Lo sa bene l’ex assessore alla caccia Moreno Pieroni, che fu il primo a inaugurare scambi epistolari diretti con i cacciatori. Ma dalla conquista Regione, avvenuta nel 2020, sarebbe stato difficile aspettarsi qualcosa di meglio, quando l’assessore regionale all’ambiente, Stefano Aguzzi, ex PCI ma da anni in FI, è un irriducibile cacciatore che non si dimentica di fare gli auguri istituzionali di buon anno ai suoi particolari elettori; o quando l’attuale presidente della commissione agricoltura alla Camera, ma assessore alla caccia in giunta regionale fino al 2022, il leghista Mirco Carloni, ha storici rapporti con le associazioni venatorie, e ha fondato l’attività politica grazie al consenso dei cacciatori; tra l’altro la rinomata e storica “Osteria della Peppa di Fano, della famiglia dell’onorevole Carloni, vanta una consolidata proposta gastronomica a base di cacciagione (cinghiale, capriolo, cervo). Una politica regionale spalleggiata e sostenuta da Coldiretti, che ha fatto del problema dei cinghiali la propria missione corporativa, dimenticando i veri e gravi problemi degli agricoltori di questa regione, dovuti alla crisi climatica: la mancanza d’acqua, siccità, ondate di calore a alluvioni. Spiace molto che un sindacato agricolo, che ha fatto la storia del movimento contadino, sia divenuto in questi la claque del ministro Lollobrigida. L’azione  di lobbing politica, spesso trasversale,  quindi da anni soffia eccitando le associazioni venatorie, sempre più alla ricerca di fondi e di cacciatori: un’estrema minoranza di cittadini maschi adulti italiani che è capace di condizionare un governo nazionale, e unitamente a questo i governi regionali. Prendendo come riferimento le Marche, meno di un milione e mezzo di abitanti, i cacciatori sono meno di 17.000, l’1,14% della popolazione. La categoria di cittadini a cui ci stiamo riferendo, di cui oltre il 70% ha un età sopra i 65 anni e solo il 5% ha meno di 35, sono i cacciatori. Mentre, rispetto ai quasi 59 milioni abitanti del nostro Paese, stiamo parlando di circa 470.000 italiani, lo 0,79% della popolazione. Eppure questa corporazione, che si ostina ad uscire di casa all’alba per sparare a degli esseri viventi, a loro detta per passione e divertimento, e autodefinendosi ‘custodi delle biodiversità’, ha un forza di lobbing che difficilmente è riscontrabile in qualsiasi altra categoria. E la politica nazionale e regionale, di destra, centro e sinistra, è disposta a molto pur di ingraziarsi e fidelizzare il voto dei cacciatori e delle loro famiglie. Questo perché la caccia è un affare, un business che riguarda non solo l’attività venatoria in senso stretto, ma l’industria delle armi (non a caso ad esempio Fiocchi Fiocchi uno dei maggiori produttori di armi in Italia, è eurodeputato eletto con Fratelli d’Italia), e quella della ristorazione (dal cinghiale alle specie volatili). Ma il “colpo di grazia”, per usare un’espressione in tema, agli ecosistemi naturali lo darà, se approvato, il disegno di legge presentato dal governo Meloni, che rischia di aggravare la macelleria italiana che ogni anno l’attività venatoria causa in Italia, senza contare l’inquinamento da piombo nell’ambiente (certificato da rapporti ISPRA) e le vittima umane collaterali. Infatti, purtroppo, oltre a sparare a specie animali senzienti, i cacciatori si sparano anche tra di loro, creando gravi incidenti anche a persone estranee. Complessivamente, nel periodo dal 1° settembre 2024 al 30 gennaio 2025, sono stati registrati 62 incidenti, di cui 14 mortali. Sul fronte dei feriti, nel 2024 si è registrato un calo, con 34 feriti rispetto ai 53 dell’anno precedente.  La proposta di legge, che intende stravolgere la L. 157/92, prevede il prolungamento della stagione di caccia all’intero mese di febbraio (per alcune specie a oggi si interrompe a fine gennaio, per poche altre a metà febbraio), nel pieno della stagione di migrazione preriproduttiva di molte specie, mentre altre sono già in riproduzione. C’è la possibilità di cacciare anche in aree dove finora era in larga parte vietato, come le aree demaniali, (ad esempio spiagge, zone umide, praterie), mettendo i cacciatori negli stessi spazi di chi fa trekking, ciclismo, passeggiate, o raccolta funghi. Tra le novità c’è l’autorizzazione per nuovi appostamenti fissi, cioè nuove aree occupate in maniera permanente dai cacciatori, in cui si concentreranno enormi quantità di piombo nell’ambiente, o il fatto che si potrà cacciare anche dopo il tramonto, quando è impossibile distinguere un animale dall’altro (o accertarsi che non ci siano persone in giro). Il governo vuole riaprire gli impianti di cattura dei richiami vivi, cioè gli animali la cui condizione di vita verrà trasformata in modo permanente in esca, eliminando ogni limite nel possesso di uccelli da richiamo provenienti da allevamento. Si vuole riconoscere la licenza di caccia a cittadini stranieri, senza alcuna formazione sulle regole italiane, in un’idea di turismo distorta e coloniale. Si vuole consentire la braccata sui terreni innevati così da poter seguire le tracce degli animali. Insomma, si va verso un ritorno al più greve istinto umano paleolitico. In questi giorni le associazioni ambientaliste e animaliste si stanno mobilitando, considerato che poi in Italia, i cacciatori sono invisi alla stragrande maggioranza della popolazione: dati Eurispes 2024 raccontano di un 73% degli italiani contrario alla caccia. Ma le lobby e il denaro che gira intorno a questo mondo continua a tenere sottomessa la politica. Ed è anche il motivo perché dall’inizio degli anni Novanta del secolo scorso, ogni iniziativa referendaria per abrogare la L. 157/92 è naufragato, ed i migliori boicottatori furono i partiti di sinistra, dal PDS fino al PD.  -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il cacciatore uccide sempre per giocare proviene da Comune-info.