Tag - cittadinanza

Cittadinanza e riconoscimento: dal Sahara Occidentale ai municipi italiani, il valore politico di un gesto simbolico
Ius soli, ius scholae: cittadinanza negata, confini di classe La questione della cittadinanza in Italia non è soltanto un tema giuridico o identitario: è un tema profondamente politico e, soprattutto, sociale. La normativa vigente — basata sullo ius sanguinis — riflette una visione arretrata e selettiva di appartenenza nazionale, che si traduce in una vera e propria discriminazione di classe. Chi nasce da genitori stranieri, pur crescendo in Italia, vivendo in italiano, studiando nelle scuole pubbliche e contribuendo alla comunità, rimane a lungo privo di cittadinanza. Ma non tutti subiscono questo vuoto in egual misura. In un sistema formalmente neutro, sono le condizioni socio-economiche a determinare le possibilità di accesso ai diritti. Serve tempo, serve stabilità economica, servono documenti, una casa, un reddito minimo. E serve anche familiarità con la burocrazia italiana, una lingua che spesso è ostacolo più che ponte. Così, la cittadinanza diventa il traguardo di pochi e non il punto di partenza per tutti. È una cittadinanza per ceti agiati, per famiglie stabili, integrate, con tempo da dedicare ai procedimenti e risorse per affrontarne i costi. Per tutti gli altri — precari, disoccupati, donne sole, famiglie numerose in affitto — il diritto a diventare italiani resta sulla carta. Questa distorsione produce un effetto perverso: la cittadinanza non è solamente negata a chi non ha il sangue “giusto”, ma anche a chi non ha il reddito “giusto”. Una cittadinanza su base patrimoniale che tradisce lo spirito stesso della Repubblica, nata sui valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale. È in questo contesto che lo ius scholae — la proposta di riconoscere la cittadinanza ai minori stranieri che abbiano completato un ciclo scolastico in Italia — si configura non semplicemente come un atto di civiltà, ma soprattutto come uno strumento di riequilibrio democratico. La scuola è il luogo in cui si costruisce il senso di appartenenza, di responsabilità, di cittadinanza attiva. Ed è proprio da lì che dovrebbe partire una nuova definizione dell’essere italiani. Tuttavia, anche questa proposta moderata e ragionevole viene bloccata da anni da chi cavalca paure identitarie e da una retorica dell’invasione sempre più pervasiva. Una retorica che ignora deliberatamente il fatto che il vero problema non è chi arriva, ma chi viene tenuto ai margini. In risposta, molte amministrazioni locali hanno scelto di agire. La concessione simbolica della cittadinanza onoraria a studenti e studentesse straniere nate o cresciute in Italia è un atto politico che denuncia l’ingiustizia del sistema nazionale e allo stesso tempo rivendica un’idea diversa di appartenenza: inclusiva, concreta, vissuta. Popoli invisibili: il Sahara Occidentale tra esilio e oblio La battaglia per la cittadinanza e per il riconoscimento non riguarda solamente chi vive in Italia: ci sono popoli interi per i quali la cittadinanza è un diritto negato da decenni. È il caso del popolo saharawi, costretto dal 1975 a vivere esiliato in campi profughi nel sud-ovest dell’Algeria, nella regione desertica di Tindouf. Dopo la fine del colonialismo spagnolo, il Sahara Occidentale è stato occupato dal Marocco con il sostegno degli Stati Uniti e della Francia. Da allora, il popolo saharawi — rappresentato dal Fronte Polisario — ha combattuto per l’autodeterminazione, ottenendo parziali riconoscimenti internazionali, ma restando sostanzialmente ostaggio di un conflitto congelato. Le promesse di un referendum per l’autodeterminazione non sono mai state mantenute, mentre i territori sono ancora occupati militarmente da Rabat, in violazione del diritto internazionale. Nel frattempo, oltre 170.000 persone vivono da oltre cinquant’anni nei campi di rifugiati di Tindouf, in condizioni climatiche estreme, con risorse scarse e prospettive di vita limitate. Una generazione intera è cresciuta senza patria riconosciuta, senza documenti ufficiali, senza futuro. La proposta spagnola: riconoscere la cittadinanza ai saharawi In questo quadro drammatico, una recente proposta politica ha riacceso il dibattito sul destino del popolo saharawi: il partito spagnolo Sumar ha proposto di riconoscere la cittadinanza spagnola a tutti i saharawi nati nel Sahara Occidentale durante il periodo coloniale (fino al 1975) e ai loro discendenti diretti. La proposta si fonda su un principio giuridico e storico: la responsabilità della Spagna come ex potenza coloniale, che ha abbandonato il territorio senza assicurare un percorso di decolonizzazione. In realtà, già oggi vi sono saharawi con passaporto spagnolo, ma si tratta di casi isolati o frutto di ricorsi giudiziari individuali. Con questa proposta, invece, si riconoscerebbe un diritto collettivo, un atto di giustizia storica. Ma non si tratta soltanto di un tema giuridico: si tratta di dare un’identità, una protezione, un passaporto e un futuro a decine di migliaia di persone, finora condannate all’apatridia. Le reazioni non si sono fatte attendere: da una parte il Marocco ha condannato duramente la proposta, vedendola come una minaccia alla sua occupazione; dall’altra, numerose organizzazioni per i diritti umani, insieme a settori della sinistra iberica, l’hanno accolta come un segnale forte, necessario, a lungo atteso. Ambasciatori di Pace: l’Italia accoglie, i Comuni riconoscono Ogni estate, diverse associazioni italiane accolgono nelle loro città gruppi di bambine e bambini saharawi provenienti dai campi profughi. Il progetto, fortemente voluto dalla Rappresentanza in Italia del Fronte Polisario e dalla Rete italiana di solidarietà col popolo sharawi, dei “Piccoli Ambasciatori di Pace” ha una valenza umanitaria — offrire cure mediche, sollievo dal caldo estremo, esperienze educative — ma anche fortemente politica: è un grido di attenzione lanciato alle nostre coscienze. Negli ultimi anni, molte amministrazioni locali hanno scelto di conferire a questi bambini la cittadinanza onoraria simbolica. È accaduto a Sesto Fiorentino, Montemurlo, Empoli, Livorno, Grottammare, Fucecchio, solo per citarne alcune. Gesti forti, capaci di trasformare l’accoglienza temporanea in un riconoscimento permanente. In alcuni casi, questi atti si legano a patti di amicizia e cooperazione sottoscritti con le istituzioni del popolo saharawi in esilio, rafforzando una diplomazia dal basso che ha un peso e una dignità propria. Questi bambini non sono considerati ospiti: sono portatori di memoria e di diritti negati. Il loro arrivo, i loro sorrisi, le loro storie, mettono in discussione la nostra idea di cittadinanza. Quando un Comune italiano concede loro la cittadinanza onoraria, sta affermando qualcosa che va ben oltre un gesto cerimoniale: afferma che l’identità non è una formalità, ma una relazione, un riconoscimento reciproco, un’appartenenza. Conclusione: la necessità di un diritto che riconosca la realtà, non il privilegio La cittadinanza non è soltanto un documento. È il diritto ad avere diritti, come scriveva Hannah Arendt. È una protezione giuridica, ma anche una legittimazione esistenziale. È uno strumento che può includere o escludere, valorizzare o discriminare. In Italia è urgente una riforma che riconosca i legami vissuti, i percorsi reali, le appartenenze costruite nella quotidianità, nei territori, nelle scuole, nelle relazioni sociali. Una riforma che abbandoni finalmente la logica classista e patrimonialista che oggi condiziona l’accesso alla cittadinanza: un meccanismo che favorisce chi ha risorse e stabilità e che esclude sistematicamente chi vive ai margini, pur contribuendo alla società. In questo senso, i gesti dei Comuni italiani verso i bambini saharawi — così come verso gli studenti stranieri nati o cresciuti qui — ci mostrano una strada. Sono pratiche di riconoscimento, atti di giustizia simbolica che evidenziano l’ingiustizia sostanziale dell’ordinamento vigente. Concedere la cittadinanza onoraria ai piccoli ambasciatori di pace non è un vezzo retorico, ma una denuncia politica che dà voce a un’idea diversa di appartenenza: si è cittadini dove si cresce, si studia, si partecipa, si costruiscono legami. È tempo che la politica nazionale raccolga il segnale di questa diplomazia dal basso. È tempo di una riforma profonda e coraggiosa, che superi l’arretratezza di una legge classista, inadeguata e discriminatoria, e che restituisca senso e dignità al concetto stesso di cittadinanza democratica. Simone Bolognesi, Presidente di Città Visibili APS Redazione Toscana
Trump minaccia di arrestare il candidato newyorkese Mamdani (e forse di revocargli la cittadinanza USA)
Il 1° luglio Zohran Mamdani ha ufficialmente vinto le primarie del Partito Democratico per correre alla carica di sindaco della Grande Mela. Il sistema di conteggio dei voti è piuttosto complesso e lungo, ma per chiunque era ormai scontato che il giovane, di origini ugandese e indiane, e di religione […] L'articolo Trump minaccia di arrestare il candidato newyorkese Mamdani (e forse di revocargli la cittadinanza USA) su Contropiano.
Lezioni da imparare dal referendum dell’8 e 9 giugno
Le notizie corrono veloci e ci sembra già troppo tardi per scrivere del Referendum. E anche se a due settimane dal voto, con l’attacco di Israele in Iran, il genocidio che non si ferma a Gaza e gli Usa sull’orlo della guerra civile, sembra velleitario domandarsi che cosa non abbia funzionato, allo stesso tempo ci sembra necessario. Il referendum è un grande strumento in mano alla cittadinanza, un modo per imporre nella discussione pubblica grandi temi che la politica partitica e istituzionale continua a ignorare, per cercare di cambiare direttamente le leggi. Non possiamo liquidare così facilmente questa sconfitta, anche perché ha molto da dirci sulle capacità di mobilitazione nel campo della sinistra.  I quesiti referendari erano cinque, i primi quattro su tutele crescenti, licenziamenti nelle piccole imprese, contratti a termine, infortuni sul lavoro proposti dalla CGIL, che ha raccolto le firme, formato il comitato referendario e gestito la campagna referendaria, una battaglia tutta interna tra sindacato e sinistra del PD contro chi nel 2015 propose il Jobs Act. Parallelamente, sono state raccolte le firme per proporre un referendum sull’abrogazione parziale della legge sulla cittadinanza, da un comitato composito di associazioni, dopo decenni di false promesse da parte di tutti i governi di turno. Mentre il quesito sull’autonomia differenziata era stato ritenuto inammissibile mesi fa dalla Corte costituzionale.. NON RAGGIUNGEREMO MAI IL QUORUM Prima grande questione: entrambi i comitati referendari non hanno mai pensato di raggiungere il quorum. E nonostante questo non fosse mai esplicitato in interviste o dichiarazioni pubbliche era una certezza largamente discussa tra le chiacchiere informali negli eventi o dei (pochi) volantinaggi. Ma in che modo si può organizzare una campagna referendaria vincente se si è intimamente convinti di perdere? > Ecco, questa è la prima lezione da imparare, dobbiamo ritornare a credere di > poter vincere alle urne, come nelle altre battaglie che portiamo avanti e, se > lo pensiamo impossibile, significa che dobbiamo cambiare strategia, e tentare > altre strade prima del voto.  Evidentemente la storia delle ultime campagne referendarie abrogative non gioca a favore dei SÌ. I referendum proposti dalla Lega sulla giustizia nel 2022 non superarono il 20% di partecipazione e quello sulle trivelle si attestò intorno al 30%. Eppure i due referendum confermativi delle riforme costituzionali del 2016 e del 2020 hanno entrambi superato il quorum (che pure non era necessario in quei casi), nel primo vinse il NO alla riforma costituzionale proposta da Renzi, e il SÌ al taglio dei seggi in Parlamento. In ogni caso, nel nostro Paese, l’astensione è sempre più alta e preoccupante: alle politiche del 2018 andarono a votare quasi il 73% degli aventi diritto e nel 2022 neanche il 64%, in meno di cinque anni più di 4 milioni e mezzo di votanti non sono tornati alle urne. E nelle elezioni europee, amministrative e regionali le percentuali sono anche peggiori. > Ma, seppur l’astensionismo è un fenomeno di lungo periodo e va a braccetto con > la crisi della democrazia rappresentativa in tutta Europa, le ultime elezioni > in Francia e in Germania ci ricordano che quando la competizione elettorale è > percepita come importante e il proprio voto viene considerato come decisivo, > le persone tornano al voto e decidono anche di votare a sinistra.  E questo è successo anche nel voto ai referendum in Italia: nel 2020 più del 50% degli aventi diritto è andato a votare, in un referendum in cui non c’era neanche bisogno del quorum, così come nel 2016 più del 64%, e nel 2011 più del 54%. Quindi, le campagne referendarie si possono ancora vincere, ma il voto deve essere percepito come necessario, decisivo, importante. Dal “tanto non cambia niente” al “il mio voto conta e se non vado a votare sarà anche peggio”.  LA CAMPAGNA REFERENDARIA  I giorni precedenti e successivi al voto sono stati attraversati da un dibattito – non del tutto nuovo –  sull’abolizione del quorum, e il 5 giugno è stata anche presentata dal Comitato “Basta quorum! Cittadini per la democrazia”, un’ iniziativa di legge popolare da parte di un gruppo di cittadini e cittadine vicine al Partito Radicale. Dall’altro lato, Forza Italia e Noi Moderati hanno molto insistito su un’altra riforma, l’aumento del numero delle firme, convinti che la possibilità della firma digitale abbia reso troppo facile la presentazione di quesiti referendari.    La rocambolesca raccolta firme del Comitato referendario per la cittadinanza, il cui sito ha subito vari attacchi informatici i giorni precedenti la chiusura della raccolta firme per poi riuscire a raggiungere e superare il numero, con più di 637.487 firme raccolte solo digitalmente, ci spiega come non sia così semplice. La raccolta firme digitale necessità di visibilità, il comitato in quel caso ha puntato su una campagna online molto efficace, composta da diverse voci di influencer e content creator e una chiara call to action. Eppure la stessa capacità non è stata dimostrata in seguito per la costruzione della campagna referendaria.  > Lo sdoppiamento dei comitati referendari, per quanto necessario da un punto di > visto normativo e funzionale in un primo momento, non si è trasformato in uno > strumento efficace, ha raddoppiato le campagne referendarie, i riferimenti, il > materiale e non sempre i quesiti sono stati pubblicizzati tutti insieme. Inoltre, avendo raccolto tutte le firme online – e non avendo dietro la struttura organizzativa della CGIL –il comitato sulla cittadinanza si è trovato sguarnito di gruppi territoriali che, non essendosi formati precedentemente per la raccolta firme, hanno lasciato i territori più periferici sguarniti di materiale, informazione e riferimenti, che si potevano trovare solo online, ma non materialmente in sedi locali.  > E quindi la seconda lezione da imparare è che le campagne elettorali e > referendarie non si possono vincere solo online, è necessario un doppio sforzo > online e offline, con un minuzioso lavoro territoriale. Abbiamo bisogno di > tornare ad avere spazi fisici dove prendere il materiale, volantinaggi nei > quartieri periferici, banchetti nelle province e nelle zone interne. Tornare a parlare con le persone che non la pensano come noi, con chi ha perso completamente la fiducia, con chi pensa che il voto sia inutile. Per fare questo c’è bisogno di lavorare in rete: associazioni, partiti, sindacati, collettivi, gruppi informali, assemblee, come fu per il referendum per l’acqua, i cui comitati lavorarono per anni prima e dopo il voto. E questo vale anche per il comitato referendario sul lavoro, neanche il più grande sindacato italiano è oggi autosufficiente per vincere un referendum.  Dati ministero degli Interni LE FRATTURE POLITICHE E SOCIALI EVIDENZIATE DAL VOTO  In questo referendum è andato a votare il 30,58% degli aventi diritto, non dissimile da quanti andarono a votare contro le trivelle. Ma con variazioni importanti nei vari territori.  Nel 1970 il politologo norvegese Stein Rokkan individuò le fratture sociali (cleaveges) alla base della formazione dei moderni partiti politici. Alcune di quelle fratture sono ancora evidenti e questo voto le conferma, altre sono nuove e stanno emergendo in questi ultimi anni e sono alla base della svolta reazionaria e autoritaria delle società occidentali.  > La prima frattura, individuata già da Rokkan, è quella tra centro e periferia, > cioè tra i territori centrali nella formazione dello Stato e quelli > periferici. Guardando ai dati vediamo subito che le città hanno votato più dei > piccoli centri e piccoli comuni. Secondo i dati dell’Istituto Cattaneo, nei > comuni con più di 350mila abitanti hanno votato il 37% di persone con diritto > di voto e nei comuni con meno di 15.000 abitanti il 28%.  A questa frattura, aggiungiamo la frattura tra Nord e Sud, creatasi con la formazione dello Stato italiano. Anche in questo voto, si è andati a votare generalmente di più nelle regioni del Nord che nel Sud, anche se è il Trentino Alto Adige la regione dove si è votato meno (22,7%), seguito da Sicilia (23,1%), Calabria (23,81%), e Veneto (26,21%), mentre trainano il voto le regioni storicamente rosse la Toscana (39,09) e l’Emilia Romagna (38,1%), comunque lontane dal quorum. E anche per ciò che riguarda i grandi centri urbani, votano più quelli del Nord, che del Sud. La provincia con l’affluenza più alta è Firenze (46,0%), seguita da Torino (39,3%), Milano (35,4%), Roma (34,0%) e Napoli (31,8%). Questa divisione tra territori centrali e periferici, città e campagne, zone centrali e territori interni è stata una questione centrale in tutte le elezioni degli ultimi anni: negli Stati uniti tra il voto delle grandi città urbane e degli Stati interni, in Francia tra le città e le campagne, in Germania tra Est e Ovest. > Una frattura tra chi “ha vinto” e “chi ha perso” dal processo di > globalizzazione, i territori de-industrializzati, le campagne sempre più > spopolate, le grandi periferie marginalizzate nei grandi centri urbani, una > popolazione che si sente sola, isolata, derisa, poco istruita e sempre più > povera, e che vota sempre più a destra.  Quindi, sotto questo punto di vista, il voto non è disallineato con le ultime elezioni politiche: chi non ha votato alle scorse elezioni non è tornato a votare, dove si è votato più a destra le persone non sono andate a votare, hanno votato quanti avevano votato il “campo largo” della sinistra, ma non sempre 5 SÌ.  Dati ministero degli Interni LA DIFFERENZA TRA I PRIMI QUATTRO E IL QUINTO QUESITO  Analizzando quel 30% dei voti, emerge un altro dato sconfortante: tra i circa 14 milioni di votanti, più o meno 12 milioni hanno votato SÌ ai primi cinque quesiti (con lievi differenze) e solo 9 milioni hanno votato SÌ al quesito sulla cittadinanza. Quindi, il 30,51% delle persone che si sono recate alle urne hanno votato NO alla riforma della legge 91/1992 sulla cittadinanza.  Anche qui vediamo come sono i centro città ad aver votato più SÌ al quinto quesito: nel centro città di Milano, nella zona ztl, hanno votato più SÌ al quinto quesito che agli altri quattro sul lavoro, ad esempio nella circoscrizione dei Giardini di Porta Venezia si segna una differenza del 21% tra chi ha votato SÌ al quinto quesito sulla cittadinanza e NO al primo quesito sulle tutele crescenti, ma con un’affluenza al voto bassissima (17%). > La situazione si ribalta se invece si va nelle periferie della città e nella > sezione di Lambrate – Ortica la differenza tra chi ha votato più SÌ al primo > quesito e NO al quinto è del 28%, con un’affluenza al voto molto più alta > (42%), ma in altre periferie della città come Quarto Oggiaro l’affluenza è > molto più bassa (26,9%).  Anche a Torino le zone ricche del centro hanno votato più al referendum sulla cittadinanza che a quello sul lavoro, come a Piazza d’Armi, corso Cairoli, e anche altre zone più residenziali come Parco della Rimembranza dove la differenza tra chi ha votato SÌ al quinto quesito e NO al primo è del 12,6%, con un’affluenza al voto del 30%. E anche qui se andiamo nella periferia la situazione si ribalta, ad esempio a Mirafiori-città giardino ha votato il 37% delle persone e la differenze tra i SÌ al primo quesito e il quinto è del 28,7% e, come a Milano, però ci sono periferie che hanno votato molto meno, come Villaretto dove ha votato il 25%.  A Roma, invece, solo il quartiere di Villa Ada ha votato più SÌ al quesito sulla cittadinanza che a quelli sulle tutele crescenti, con una differenza del solo 2%, e a Napoli questa differenza non è riscontrabile in nessun quartiere. Mentre sia a Napoli che a Roma, abbiamo quartieri storicamente operai e rossi che hanno votato quattro SÌ ai referendum sul lavoro e NO al referendum sulla cittadinanza.  > Qui si evidenzia una nuova frattura del mondo contemporaneo: tra centri > (neo)liberali ricchi che votano contro i diritti sul lavoro, ma che si > considerano cosmopoliti e (anche se poco) votano per i diritti civili. E > questo è più evidente nei centri del Nord Italia che del Sud, essendo i centri > nel Nord più ricchi. Mentre le periferie che sono andate a votare si sono > espresse di più contro la riforma sulla cittadinanza e per i diritti sul > lavoro. Cioè la popolazione bianca urbana che vive nelle periferie esprime un voto di paura nei confronti della riforma sulla cittadinanza. E questo dovrebbe aprire un grande spazio di riflessione profonda per le organizzazioni di sinistra: bisogna ricostruire solidarietà antirazzista, popolare e di classe. Un nuovo lessico politico condiviso che crei legami e lotte e sappia rispondere all’odio razzista, fascista e autoritario crescente.  Dati della Banca dati del Comune di Milano LE DONNE HANNO VOTATO PIÙ DEGLI UOMINI  Quasi ovunque in Italia le donne hanno votato più degli uomini e questo è un dato interessante, perché è una novità nel nostro Paese. Alle ultime elezioni politiche del 2022 l’astensione delle donne è stata più alta di quella degli uomini, quando solo il 62,19% delle elettrici si è presentata alle urne contro il 65,74% degli elettori. Anche alle europee del 2024 avevano votato più uomini che donne in 91 province su 106. Bisognerà vedere cosa accadrà alle prossime elezioni per capire se questo trend continuerà, segnando, così, una differenza rispetto agli ultimi decenni della vita politica italiana.  > Ma questo ci racconta di una trasformazione che sta avvenendo anche in molti > Paesi del mondo, dagli Stati uniti alla Corea del Sud, dal Giappone alla > Francia, le donne votano di più per i partiti progressisti. Una tendenza > ancora più marcata tra le giovani donne che votano sempre più a sinistra, > mentre i giovani uomini votano sempre più a destra, come si è notato alle > ultime elezioni sia in Francia che in Germania.  Un successo è stato anche il voto per i e le fuori sede per motivi di studio, lavoro o salute (67.305 richieste), l’89% di chi ne ha fatto richiesta si è poi recato a votare. Il Decreto Elezioni che ha previsto il voto per i fuori sede, ha anche eliminato le file divise per genere ai seggi, che, però, si sono ancora riproposte in moltissime sezioni, dato che i registri sono ancora divisi per genere. Una prassi discriminatoria soprattutto per chi non vuole dichiarare il proprio genere. Questa campagna referendaria, che piaccia o meno, è stata una sconfitta sia per la CGIL che ancora una volta ha presentato una battaglia che non ha saputo parlare a un mondo del lavoro frammentato, precario e sempre più povero. I quesiti sono risultati di difficile comprensione e alle urne si è presentato solo chi già vota il centro sinistra. Purtroppo, è andata anche peggio per il quesito sulla cittadinanza, un quesito di civiltà, che avrebbe migliorato la vita delle persone migranti e dei loro figli e figlie, che non ha convinto neanche tutto l’elettorato di centro-sinistra. Questo ci deve interrogare verso le prossime battaglie elettorali o meno: come torniamo ad avere una presenza sui territori che costruisca legami di solidarietà e sia in grado di costruire un progetto di lunga durata contro il blocco reazionario che abbiamo di fronte? L’immagine di copertina è di Jaken (Wikimedia) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Lezioni da imparare dal referendum dell’8 e 9 giugno proviene da DINAMOpress.
Ci rimangono pratiche di vita non addomesticabili
Siamo tutti allenatori dopo la partita persa. Ma una cosa non possiamo fare: far finta di non vedere i gol subiti. Il risultato finale non è modificabile. Da quello, non ti schiodi, e il mondo non si è fermato, nemmeno durante quei novanta minuti nei quali “tutto poteva cambiare”. Non è l’apocalisse, perché innanzitutto nell’apocalisse ci eravamo già prima. Le immagini di Los Angeles con i Marines, mentre noi discutevamo del quorum, sono provvidenziali. La radicalità dello scontro in atto non viene meno, nonostante si abbia ancora la sensazione di poter utilizzare una matita per prendere decisioni collettive che incidono sulla nostra vita, di milioni di persone. Il referendum e i suoi esiti potranno servire ad analisi di vario tipo. Tutte giuste, tutte insufficienti ancora. Una cosa però salta agli occhi: il risultato sul quesito della cittadinanza. Se si fosse raggiunto il quorum, avrebbe vinto il NO. E nel mentre scorrono ancora le immagini di Los Angeles. Le battaglie di minoranza, sono spesso quelle più utili, perché proiettate in avanti. Dentro quel NO, espresso trasversalmente da destra a sinistra, da dentro le fabbriche e dagli uffici del centro, dalle periferie fino ai Parioli, c’è Los Angeles. Siamo pronti alla guerra civile? Siamo pronti a quelle bandiere del Messico, dell’Argentina, del Perù, che sventolano nel cuore delle città santuario attaccate dalla guardia nazionale? Per capire che niente sarà meno che radicale in questo scorcio di tempo, bisogna forse rendersi conto anche della radicale “autonomia” dell’impatto, per niente comodo per noi che lo abbiamo visto arrivare da tempo. Che effetto fa l’intervista della dottoressa di Gaza, con l’unico figlio superstite dopo lo sterminio della sua famiglia, trasmessa ieri al tg1? Fuori solo gli occhi, le mani guantate per poter accarezzare un figlio maschio. Siamo pronti dunque? Dalla nostra rimangono le pratiche di vita, unico approccio sensato ad una radicalità non addomesticabile con le matite e X sulle schede. Se ci crediamo davvero che l’unico modo per affrontare la guerra civile imposta dall’alto, è praticare il suo sabotaggio attraverso atti concreti, dal soccorso in mare alla protezione dei fuggiaschi che rischiano di finire in un lager, dalla costruzione di una accoglienza non autorizzata, alla sperimentazione concreta della convivenza in nuove alleanze sociali, allora facciamolo. Continuiamo a farlo, meglio e di più. Sentendoci minoranza come siamo, ma non per questo minoritari e passivi. Le maggioranze passive saranno quelle che la guerra civile la subiranno in maniera tremenda, da spazzarli via. Redazione Italia
5 si per lavoro e tutele
> REFERENDUM 8 E 9 GIUGNO > UN’OCCASIONE PER TUTELARE LAVORO e DIRITTI Domenica 8 e lunedì 9 giugno i cittadini italiani aventi diritto al voto sono chiamati alla partecipazione a cinque referendum popolari abrogativi (articolo 75 della Costituzione). Si tratta di cinque quesiti in materia di disciplina del lavoro e cittadinanza. Invitiamo i ferrovieri a mettere da parte, per un paio di giorni, il risentimento nei confronti della CGIL, responsabile della sottoscrizione di una nefasta ipotesi di rinnovo del CCNL Mobilità/Attività Ferroviarie, e a concentrarsi sull’importanza del rivendicare diritti per i lavoratori e per i cittadini. Opponiamo ad una politica che va sempre più a destra e favorisce sempre più i grandi poteri economici e finanziari, una società civile che vuole invece diritti, tutele e risorse per i cittadini. Questi referendum non sono sostenuti solo dalla CGIL, ma anche da tutte le forze politiche e sindacali, i movimenti e le associazioni che ritengono che il bene collettivo venga prima dei capricci di pochi privilegiati, che si arricchiscono sempre più sulle spalle di chi lavora. ANDIAMO TUTTI A VOTARE, ANDIAMO TUTTI A SCRIVERE SI! Di seguito una breve presentazione dei quesiti referendari. 1. STOP AI LICENZIAMENTI ILLEGITTIMI Nel primo referendum si chiede “l’abrogazione della disciplina sui licenziamenti del contratto a tutele crescenti del Jobs Act. Nelle imprese con più di 15 dipendenti, le lavoratrici e i lavoratori assunti dal 7 marzo 2015 in poi non possono rientrare nel loro posto di lavoro dopo un licenziamento illegittimo.” Attualmente i lavoratori italiani penalizzati da questa legge sono oltre 3 milioni e 500mila: “Abroghiamo questa norma, diamo uno stop ai licenziamenti privi di giusta causa o giustificato motivo.” 2. PIÙ TUTELE PER LE LAVORATRICI E I LAVORATORI DELLE PICCOLE IMPRESE Il secondo quesito riguarda l’eliminazione del numero minimo di dipendenti per quanto riguarda i licenziamenti, “in quelle con meno di 16 dipendenti, in caso di licenziamento illegittimo oggi una lavoratrice o un lavoratore può al massimo ottenere 6 mensilità di risarcimento, anche qualora una/un giudice reputi infondata l’interruzione del rapporto. Questa è una condizione che tiene le/i dipendenti delle piccole imprese (circa 3 milioni e 700mila) in uno stato di forte soggezione.” 3. RIDUZIONE DEL LAVORO PRECARIO Il terzo quesito “punta all’eliminazione di alcune norme sull’utilizzo dei contratti a termine per ridurre la piaga del precariato.” Si parla allo stato attuale di circa 2 milioni e 300 mila lavoratori italiani con contratti a tempo determinato, i quali “possono oggi essere instaurati fino a 12 mesi senza alcuna ragione oggettiva che giustifichi il lavoro temporaneo.” 4. PIÙ SICUREZZA SUL LAVORO Il quarto referendum riguarda la salute e sicurezza sul lavoro, e punta a prevenire le attuali 500.000 attuali denunce annuali di infortunio sul lavoro e i quasi mille morti. Si intende modificare le norme attuali, “che impediscono in caso di infortunio negli appalti di estendere la responsabilità all’impresa appaltante. Cambiamo le leggi che favoriscono il ricorso ad appaltatori privi di solidità finanziaria, spesso non in regola con le norme antinfortunistiche. Abrogare le norme in essere ed estendere la responsabilità dell’imprenditore committente significa garantire maggiore sicurezza sul lavoro.” 5. PIÙ INTEGRAZIONE CON LA CITTADINANZA ITALIANA Il quinto quesito è invece relativo alla tematica della cittadinanza italiana, si propone di “dimezzare da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana, ripristinando un requisito introdotto nel 1865 e rimasto invariato fino al 1992.” Rimangono invariati gli altri requisiti per ottenere la cittadinanza, quali “la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’incensuratezza penale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica.” Oltre alla CGIL una serie di forze politiche e sindacali, movimenti e associazioni, tra cui la nostra rivista, sostengono a gran voce la partecipazione e il SI ai 5 quesiti. Di seguito, a titolo di esempio, solo alcuni di questi. Alleanza verdi e sinistra sostiene i 5 SI Movimento 5 stelle sostiene 4 SI per il lavoro e lascia libertà di scelta sul quinto quesito USB è per 5 SI CUB sostiene i 5 SI Emergency invita a votare SI al quesito sulla cittadinanza L'articolo 5 si per lavoro e tutele proviene da Ancora in Marcia!.
[2025-06-08] Black Hopera Is For The People - Giornata per il Referendum sulla Cittadinanza @ CSOA Ex-Snia
BLACK HOPERA IS FOR THE PEOPLE - GIORNATA PER IL REFERENDUM SULLA CITTADINANZA CSOA Ex-Snia - Via Prenestina 173 (domenica, 8 giugno 15:00) BLACK HOPERA IS FOR THE PEOPLE Giornata per il Referendum sulla cittadinanza SI VOTA! DOMENICA 8 GIUGNO LUNEDI 9 GIUGNO La sfida più grande della tornata referendaria è riuscire ad attraversare il mare dell'astensionismo e approdare al quorum, necessario per validare l'esito della consultazione. I beneficiari potenziali della norma sono oltre 2 milioni di persone. Votare e partecipare è importante!!  DIFFONDI IL VERBO Per sensibilizzare chi ancora non ha capito l'importanza dell'argomento e garantire la massima partecipazione al voto, ci vediamo Domenica 8 Giugno! Dopo aver "votato" saremo al Quadrato Ex-Snia per passare insieme un pomeriggio di musica, danza e sport  in uno dei luoghi più iconici e di aggregazione della capitale The Black Hopera Urban Movement of Rome - Dj Set - Open Mic - Street Basket - Street Dance EVENTO LIBERO E GRATUITO ADATTO A TUTT*, SOPRATTUTTO A BAMBIN*!  Quadrato Ex-Snia - Via Prenestina n°175  Dalle 15 alle 21
Darsi del noi. Dieci motivi per votare Sì al referendum sulla cittadinanza
Il referendum sulla cittadinanza propone di ridurre da 10 a 5 anni il periodo minimo di residenza necessario per presentare domanda per lə adultə che vivono stabilmente nel nostro paese. È una modifica parziale, ma potenzialmente molto importante. Può migliorare la vita di moltissime persone e, allo stesso tempo, può riaprire una partita – quella della riforma complessiva della legge sulla cittadinanza – che sembrava definitivamente chiusa. Una vittoria nel referendum può avere effetti di ampia portata anche al di là del tema specifico oggetto del quesito. Perché, dunque, votare convintamente Sì al referendum sulla cittadinanza? 1. Perché rompe il ricatto identitario L’attuale legge impone un percorso lungo, opaco, classista e arbitrario. Costringe chi vive in Italia e ha un background migratorio a dimostrare di “meritare l’inclusione”. L’affermazione del referendum modificherebbe significativamente uno dei pilastri dell’esclusione dalla cittadinanza: gli enormi tempi di attesa. 2. Perché migliora le condizioni materiali delle persone L’accesso alla cittadinanza incide su diritti fondamentali: diritto di voto, stabilità giuridica, accesso al pubblico impiego, libertà di circolazione. Significa concretamente meno precarietà, più possibilità di scelta, maggiore libertà di parola e di azione. 3. Perché riapre un dibattito politico rimosso La cittadinanza è stata, per tre decenni, un tabù per la politica istituzionale. Il referendum ha già prodotto un risultato: ha riportato il tema nello spazio pubblico, costringendo partiti e società a prendere posizione. La vittoria del Sì sarebbe un segnale politico di ampia portata per tutte le forze politiche e sociali: il Paese sarebbe costretto, finalmente, a fare i conti con il nodo della cittadinanza. 4. Perché riconosce che le persone partecipano già Chi vive in Italia senza cittadinanza non è unə potenziale “cittadinə del futuro”: è già parte fondamentale della società. Studia, lavora, cura, crea, lotta. Non è unə soggettə in attesa. Votare Sì significa riconoscere questa dimensione. 5. Perché parla finalmente dellə adultə Negli ultimi anni, il dibattito si è concentrato quasi esclusivamente sullə minorennə esclusə dalla cittadinanza, spesso con toni paternalistici, conditi con la retorica del merito. Ma in Italia, accanto a loro, vivono milioni di adultə da decenni senza cittadinanza. Sono persone invisibilizzate nel discorso pubblico e ai margini dei progetti di riforma recenti. Il referendum parla – finalmente – anche della loro condizione giuridica ed esistenziale. 6. Perché adegua la legge alla realtà sociale La normativa in vigore risale al 1992 e non riflette la composizione attuale della società italiana, che è strutturalmente plurale, molteplice, eterogenea, grazie allo spostamento delle persone attraverso i confini. Il Sì è un primo passo nel lungo percorso di allineamento tra il dato normativo e la realtà effettiva del paese. 7. Perché riapre la partita per una riforma strutturale Questo referendum non è una riforma organica, ma può crearne le condizioni. Può riattivare il dibattito, rimettere la cittadinanza all’ordine del giorno parlamentare, restituire spazio e legittimità a una battaglia collettiva bloccata da troppo tempo. Una riforma organica, oggi, deve affrontare con coraggio la condizione di chi nasce, cresce e vive in Italia, superando il carattere concessorio, classista e radicalmente selettivo che segna l’accesso alla cittadinanza. 8. Perché sostiene una mobilitazione ampia ed eterogenea Il referendum ha attivato un fronte largo e trasversale: associazioni, attivistə, comunità migranti, sindacati, reti studentesche, forze politiche, movimenti. Votare Sì significa rafforzare questa alleanza, che ha riportato al centro la questione dell’appartenenza democratica, e darle una prospettiva di medio periodo. 9. Perché è un atto di opposizione al governo e alla sua idea di cittadinanza L’attuale governo ha fatto di tutto per ostacolare il referendum, delegittimare le mobilitazioni e promuovere un’idea radicalmente esclusiva e identitaria di appartenenza. Votare Sì è un atto politico: per una cittadinanza aperta, egualitaria e plurale a venire. 10. Perché una vittoria può cambiare i rapporti di forza Vincere avrebbe un valore politico profondo: darebbe ossigeno a chi lotta, rafforzerebbe l’autostima collettiva di movimenti, attivistə, organizzazioni. Potrebbe aprire spazio, dare fiato ed energia ad altre battaglie e ad altri temi. Aiuterebbe a superare la rassegnazione e la logica della mera testimonianza, restituendo il senso di un cambiamento non solo necessario ma anche possibile Immagini di copertina di Henryy st da wikicommon SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Darsi del noi. Dieci motivi per votare Sì al referendum sulla cittadinanza proviene da DINAMOpress.
Verso i referendum dell’8 e 9 giugno: le cause dei bassi salari medi in Italia
Le cause dei bassi salari sono molteplici, a partire da quelle strutturali legate alla tipologia contrattuale, al tempo di lavoro, all’inquadramento professionale, alla dimensione d’impresa, al livello di istruzione e di competenze e, infine, al territorio. Tuttavia, oltre a queste, tra le cause dei bassi salari si può annoverare anche la bassa retribuzione oraria (a livello europeo si identifica con una retribuzione oraria uguale o inferiore ai due terzi della mediana nazionale) che rappresenta uno dei fattori fondamentali nella formazione del salario annuale di un lavoratore. Infatti, il salario annuale di un dipendente è il risultato della combinazione di almeno tre componenti: la retribuzione oraria, l’intensità occupazionale mensile e la durata contrattuale nell’arco dell’anno. L’Ufficio Economia della CGIL Nazionale aveva già indagato tra le cause dei bassi salari medi in Italia il ricorso al part-time, la precarietà contrattuale e la discontinuità lavorativa. Ora con un nuovo recente studio di Nicolò Giangrande, Economista e Responsabile Ufficio Economia CGIL Nazionale, si cerca  di analizzare la questione salariale italiana nel 2023 (ultimo anno per il quale sono disponibili dati consolidati e comparabili a livello nazionale ed europeo), verificando l’incidenza delle basse retribuzioni orarie e valutando il ruolo del salario minimo orario. Nel 2023 il salario lordo annuale medio nel settore privato, esclusi il settore agricolo e domestico, si e attestato a 23.662 euro. Si e trattato di un aumento salariale nominale medio del +3,5% rispetto al 2022, nettamente inferiore rispetto all’inflazione registrata nel 2023 (+5,9%). Osservando il salario medio disaggregato per tipologia contrattuale (tempo indeterminato, a termine) e tempo di lavoro (full-time, part-time) emergono profonde differenze. I dati dimostrano come nel settore privato i lavoratori a termine e quelli a part-time abbiano guadagnato nel 2023 salari lordi annuali medi rispettivamente di 10,3 mila e 11,8 mila euro, nettamente inferiori alla media generale (23,7 mila euro). Si segnala, inoltre, che i lavoratori che cumulano le due condizioni (a termine e part-time) subiscono una doppia penalizzazione che ne abbassa ulteriormente il salario lordo annuale medio (7,1 mila euro). Quindi, il part-time e i contratti a termine, unitamente alla forte discontinuità lavorativa, determinano un complessivo abbassamento del salario lordo annuale medio. Esaminando poi la distribuzione per classi di importo della retribuzione annuale si nota come nel 2023 circa 10,9 milioni di lavoratori dipendenti del settore privato (62,7%) ricada nelle classi inferiori a 25 mila euro lordi annuali (la miglior approssimazione al salario medio di 23,7 mila euro), di cui oltre 6,2 milioni (35,7%) sotto i 15 mila euro lordi annuali. Nel 2023 l’Italia ha registrato un tasso di part-time involontario del 54,8%, il più alto dell’Eurozona ed il secondo dell’Unione europea (EUROSTAT, 2025b), e una forte discontinuità lavorativa come si evince dai dati delle Comunicazioni Obbligatorie: l’83,5% di tutti i rapporti di lavoro cessati hanno avuto una durata inferiore all’anno, di cui il 51,0% fino a 90 giorni (Ministero del Lavoro, 2024). Nel 2023 gli occupati a tempo determinato nell’intera economia hanno registrato un aumento di oltre un milione di unita rispetto al 2004 (primo anno della serie storica, v. ISTAT 2025a). Vanno poi aggiunti i pesanti ritardi nei rinnovi contrattuali, in particolare con alcune controparti datoriali e anche l’alta incidenza delle qualifiche più basse nel mercato del lavoro italiano. Infatti, i dati EUROSTAT mostrano come nel 2023 nell’ambito dell’occupazione dipendente, l’Italia abbia registrato una percentuale di dirigenti e delle professioni intellettuali e scientifiche pari al 15,8%, una quota marcatamente più bassa rispetto alla media dell’UE (26,6%). Inoltre, in Italia si osserva una quota delle professioni non qualificate del 12,4% (pari ad oltre 2,2 milioni di lavoratori dipendenti), nettamente più alta di quella registrata a livello europeo (9,3%). Questa diversa distribuzione dell’occupazione dipendente nel mercato del lavoro italiano rappresenta una parziale spiegazione del differenziale salariale con altri Paesi europei comparabili al nostro, ma soprattutto si tratta di un meccanismo che dura da molto tempo e che è sempre più penalizzante, sia per i lavoratori che per l’economia italiana. Infatti, questa maggior incidenza delle professioni più basse e lo specchio di ùn sistema produttivo fondato sulla micro e piccola impresa e su un modello di sviluppo basato sui settori a basso valore aggiunto in cui le imprese tendono a competere prevalentemente sui costi, in particolare contenendo gli inquadramenti e quindi anche i salari, anziché puntare sulla qualità della produzione. La ricerca avanza la proposta di intervenire su tutti gli elementi che concorrono all’abbassamento dei salari annuali e sottolinea in particolare “l’importanza di una risposta rapida sul salario minimo orario che sulla base, ad esempio, della proposta presentata in Parlamento comporterebbe un immediato miglioramento della condizione economica di oltre due milioni di lavoratori dipendenti. Con l’entrata in vigore di un provvedimento con queste caratteristiche, questi lavoratori e lavoratrici dipendenti avrebbero un  immediato aumento salariale (parametrato in base alla propria condizione di partenza) che contribuirebbe, da un lato, ad un salario dignitoso e a un progressivo superamento dei bassi salari e del rischio di povertà lavorativa e, dall’altro, disincentiverebbe le imprese a continuare a competere tramite i bassi salari”. Qui per approfondire e scaricare la ricerca: https://www.cgil.it/ci-occupiamo-di/economia-e-sviluppo/la-questione-salariale-e-le-basse-retribuzioni-in-italia-o6bwe7km.  Giovanni Caprio
8 – 9 GIUGNO 2025: 5 REFERENDUM ALLA PROVA DEL QUORUM TRA LAVORO E CITTADINANZA. LO SPECIALE DI RADIO ONDA D’URTO
Domenica 8 e lunedì 9 giugno 2025 referendum popolari abrogativi in Italia, su 5 quesiti, 4 sui diritti di lavoratori-trici (promossi in particolare dalla Cgil) e uno invece sulla cittadinanza italiana, con le firme raccolte da un Comitato ad hoc. I seggi saranno aperti domenica 8 giugno dalle ore 7 alle ore 23; lunedì 9 giugno dalle ore 7 alle ore 15. I referendum popolari abrogativi hanno, tecnicamente, queste denominazioni, stando a quanto riportato formalmente dalla Gazzetta Ufficiale del 31 marzo 2025, dopo l’ok della Corte Costituzionale che ha ritenuto ammissibili i 4 quesiti sul lavoro, con oltre 4 milioni di firme, e quello sulla cittadinanza, con 637 mila firme: 1. «Contratto di lavoro a tutele crescenti – Disciplina dei licenziamenti illegittimi: Abrogazione» 2. «Piccole imprese – Licenziamenti e relativa indennità: Abrogazione parziale» 3. «Abrogazione parziale di norme in materia di apposizione di termine al contratto di lavoro subordinato, durata massima e condizioni per proroghe e rinnovi» 4. «Esclusione della responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore per infortuni subiti dal lavoratore dipendente di impresa appaltatrice o subappaltatrice, come conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici: Abrogazione» 5. «Cittadinanza italiana: Dimezzamento da 10 a 5 anni dei tempi di residenza legale in Italia dello straniero maggiorenne extracomunitario (sic, ndRodU) per la richiesta di concessione della cittadinanza italiana». Le realtà organizzatrici hanno organizzato dei brevi testi per illustrare il significato concreto dei quesiti referendari: clicca qui per i 4 relativi al lavoro (testi della Cgil) oppure clicca qui per la spiegazione, nel dettaglio, del referendum sul dimezzamento dei tempi per la richiesta di cittadinanza (testo del Referendum Cittadinanza) Per abrogare le norme contestate dai referendum, è necessario che ogni quesito superi il quorum (50% degli aventi diritto + 1) e che, in questo caso, si ottenga la maggioranza assoluta di sì.   RADIO ONDA D’URTO – Sui referendum popolari abrogativi dell’8 e 9 giugno 2025, Radio Onda d’Urto ha realizzato una serie di approfondimenti tra interviste, analisi, prese di posizione e interviste, casuali e senza filtri, realizzate tra le strade e in diversi luoghi simbolo di Brescia, la città da cui trasmettiamo, e della sua provincia: * Le interviste, causali, realizzate da Radio Onda d’Urto a fine maggio nel centro storico di Brescia sui temi del referendum, commentate da Oiza Queens Day Obasuyi, dottoranda all’Università di Bologna in Sociologia e Ricerca Sociale, sull’area di ricerca della decostruzione del razzismo istituzionale nei confronti delle persone afrodiscendenti, lo studio dei movimenti sociali antirazzisti, i progetti culturali, la partecipazione politica delle persone afrodiscendenti. Ascolta o scarica * L’intervista a Giulio Marcon, del Comitato promotore dei referendum sul lavoro. Ascolta o scarica * Le posizioni di diversi sindacati di base di fronte ai referendum con le interviste a Vincenzo Miliucci (Confederazione Cobas), Pierpaolo Leonardi (Usb), Mattia Scolari (Cub), Arturo Gambassi (Sudd Cobas), Fiorenzo Campagnolo (Adl Cobas), Tiziano Loreti (Si Cobas). Ascolta o scarica. * L’intervista sul referendum dedicato alla cittadinanza con Daniela Ionita, presidente di Italiani Senza Cittadinanza. Ascolta o scarica. * L’intervista a Donatella Albini, di Mediterranea Saving Humans Brescia, a partire da un incontro informativo organizzato in città sui referendum. Ascolta o scarica. * Le interviste, casuali, tra Brescia e Desenzano del Garda, dell’autunno 2024, al superamento delle firme necessarie per il quesito sulla cittadinanza, poi approvato dalla Corte Costituzionale, con il commento di Youssef Moukrim, attivista dello Sportello per i diritti di InfoSpazio 161 di Verona e Stefano Bleggi del Progetto Melting Pot. Ascolta o scarica.    
Sorelle d’Italia votano Sì [Don Pasta]
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Qualche anno fa mi posi la questione della cultura in Italia, di come potesse riemergere un pensiero nuovo di stare a sinistra, Mi era capitato di ascoltare e leggere interventi di alcune intellettuali afrodiscendenti come Igiaba Scego, Djara Khan, Antonella Bundu e tante altre. Trovavo originale il loro modo di scrivere, pensare, l’idea di conflitto che partisse da una storia intima per diventare una questione universale sul concetto di cittadinanza. Nacque con loro un gioco: immaginare un partito fake: “Sorelle d’Italia”, che un giorno avrebbe preso il potere.  A distanza di anni, è infine arrivato il momento in cui ognuno si prenda la responsabilità del concetto stesso di cittadinanza. Che è l’atto più intimamente democratico che si può costruire.  Questo piccolo trailer vuole essere un invito a votare sì a questo e gli altri quesiti.  -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sorelle d’Italia votano Sì [Don Pasta] proviene da Comune-info.