Cittadinanza e riconoscimento: dal Sahara Occidentale ai municipi italiani, il valore politico di un gesto simbolico
Ius soli, ius scholae: cittadinanza negata, confini di classe
La questione della cittadinanza in Italia non è soltanto un tema giuridico o
identitario: è un tema profondamente politico e, soprattutto, sociale. La
normativa vigente — basata sullo ius sanguinis — riflette una visione arretrata
e selettiva di appartenenza nazionale, che si traduce in una vera e propria
discriminazione di classe.
Chi nasce da genitori stranieri, pur crescendo in Italia, vivendo in italiano,
studiando nelle scuole pubbliche e contribuendo alla comunità, rimane a lungo
privo di cittadinanza. Ma non tutti subiscono questo vuoto in egual misura. In
un sistema formalmente neutro, sono le condizioni socio-economiche a determinare
le possibilità di accesso ai diritti. Serve tempo, serve stabilità economica,
servono documenti, una casa, un reddito minimo. E serve anche familiarità con la
burocrazia italiana, una lingua che spesso è ostacolo più che ponte.
Così, la cittadinanza diventa il traguardo di pochi e non il punto di partenza
per tutti. È una cittadinanza per ceti agiati, per famiglie stabili, integrate,
con tempo da dedicare ai procedimenti e risorse per affrontarne i costi. Per
tutti gli altri — precari, disoccupati, donne sole, famiglie numerose in affitto
— il diritto a diventare italiani resta sulla carta.
Questa distorsione produce un effetto perverso: la cittadinanza non è solamente
negata a chi non ha il sangue “giusto”, ma anche a chi non ha il reddito
“giusto”. Una cittadinanza su base patrimoniale che tradisce lo spirito stesso
della Repubblica, nata sui valori dell’uguaglianza e della giustizia sociale.
È in questo contesto che lo ius scholae — la proposta di riconoscere la
cittadinanza ai minori stranieri che abbiano completato un ciclo scolastico in
Italia — si configura non semplicemente come un atto di civiltà, ma soprattutto
come uno strumento di riequilibrio democratico. La scuola è il luogo in cui si
costruisce il senso di appartenenza, di responsabilità, di cittadinanza attiva.
Ed è proprio da lì che dovrebbe partire una nuova definizione dell’essere
italiani.
Tuttavia, anche questa proposta moderata e ragionevole viene bloccata da anni da
chi cavalca paure identitarie e da una retorica dell’invasione sempre più
pervasiva. Una retorica che ignora deliberatamente il fatto che il vero problema
non è chi arriva, ma chi viene tenuto ai margini.
In risposta, molte amministrazioni locali hanno scelto di agire. La concessione
simbolica della cittadinanza onoraria a studenti e studentesse straniere nate o
cresciute in Italia è un atto politico che denuncia l’ingiustizia del sistema
nazionale e allo stesso tempo rivendica un’idea diversa di appartenenza:
inclusiva, concreta, vissuta.
Popoli invisibili: il Sahara Occidentale tra esilio e oblio
La battaglia per la cittadinanza e per il riconoscimento non riguarda solamente
chi vive in Italia: ci sono popoli interi per i quali la cittadinanza è un
diritto negato da decenni. È il caso del popolo saharawi, costretto dal 1975 a
vivere esiliato in campi profughi nel sud-ovest dell’Algeria, nella regione
desertica di Tindouf.
Dopo la fine del colonialismo spagnolo, il Sahara Occidentale è stato occupato
dal Marocco con il sostegno degli Stati Uniti e della Francia. Da allora, il
popolo saharawi — rappresentato dal Fronte Polisario — ha combattuto per
l’autodeterminazione, ottenendo parziali riconoscimenti internazionali, ma
restando sostanzialmente ostaggio di un conflitto congelato. Le promesse di un
referendum per l’autodeterminazione non sono mai state mantenute, mentre i
territori sono ancora occupati militarmente da Rabat, in violazione del diritto
internazionale.
Nel frattempo, oltre 170.000 persone vivono da oltre cinquant’anni nei campi di
rifugiati di Tindouf, in condizioni climatiche estreme, con risorse scarse e
prospettive di vita limitate. Una generazione intera è cresciuta senza patria
riconosciuta, senza documenti ufficiali, senza futuro.
La proposta spagnola: riconoscere la cittadinanza ai saharawi
In questo quadro drammatico, una recente proposta politica ha riacceso il
dibattito sul destino del popolo saharawi: il partito spagnolo Sumar ha proposto
di riconoscere la cittadinanza spagnola a tutti i saharawi nati nel Sahara
Occidentale durante il periodo coloniale (fino al 1975) e ai loro discendenti
diretti. La proposta si fonda su un principio giuridico e storico: la
responsabilità della Spagna come ex potenza coloniale, che ha abbandonato il
territorio senza assicurare un percorso di decolonizzazione.
In realtà, già oggi vi sono saharawi con passaporto spagnolo, ma si tratta di
casi isolati o frutto di ricorsi giudiziari individuali. Con questa proposta,
invece, si riconoscerebbe un diritto collettivo, un atto di giustizia storica.
Ma non si tratta soltanto di un tema giuridico: si tratta di dare un’identità,
una protezione, un passaporto e un futuro a decine di migliaia di persone,
finora condannate all’apatridia.
Le reazioni non si sono fatte attendere: da una parte il Marocco ha condannato
duramente la proposta, vedendola come una minaccia alla sua occupazione;
dall’altra, numerose organizzazioni per i diritti umani, insieme a settori della
sinistra iberica, l’hanno accolta come un segnale forte, necessario, a lungo
atteso.
Ambasciatori di Pace: l’Italia accoglie, i Comuni riconoscono
Ogni estate, diverse associazioni italiane accolgono nelle loro città gruppi di
bambine e bambini saharawi provenienti dai campi profughi. Il progetto,
fortemente voluto dalla Rappresentanza in Italia del Fronte Polisario e dalla
Rete italiana di solidarietà col popolo sharawi, dei “Piccoli Ambasciatori di
Pace” ha una valenza umanitaria — offrire cure mediche, sollievo dal caldo
estremo, esperienze educative — ma anche fortemente politica: è un grido di
attenzione lanciato alle nostre coscienze.
Negli ultimi anni, molte amministrazioni locali hanno scelto di conferire a
questi bambini la cittadinanza onoraria simbolica. È accaduto a Sesto
Fiorentino, Montemurlo, Empoli, Livorno, Grottammare, Fucecchio, solo per
citarne alcune. Gesti forti, capaci di trasformare l’accoglienza temporanea in
un riconoscimento permanente. In alcuni casi, questi atti si legano a patti di
amicizia e cooperazione sottoscritti con le istituzioni del popolo saharawi in
esilio, rafforzando una diplomazia dal basso che ha un peso e una dignità
propria.
Questi bambini non sono considerati ospiti: sono portatori di memoria e di
diritti negati. Il loro arrivo, i loro sorrisi, le loro storie, mettono in
discussione la nostra idea di cittadinanza. Quando un Comune italiano concede
loro la cittadinanza onoraria, sta affermando qualcosa che va ben oltre un gesto
cerimoniale: afferma che l’identità non è una formalità, ma una relazione, un
riconoscimento reciproco, un’appartenenza.
Conclusione: la necessità di un diritto che riconosca la realtà, non il
privilegio
La cittadinanza non è soltanto un documento. È il diritto ad avere diritti, come
scriveva Hannah Arendt. È una protezione giuridica, ma anche una legittimazione
esistenziale. È uno strumento che può includere o escludere, valorizzare o
discriminare.
In Italia è urgente una riforma che riconosca i legami vissuti, i percorsi
reali, le appartenenze costruite nella quotidianità, nei territori, nelle
scuole, nelle relazioni sociali. Una riforma che abbandoni finalmente la logica
classista e patrimonialista che oggi condiziona l’accesso alla cittadinanza: un
meccanismo che favorisce chi ha risorse e stabilità e che esclude
sistematicamente chi vive ai margini, pur contribuendo alla società.
In questo senso, i gesti dei Comuni italiani verso i bambini saharawi — così
come verso gli studenti stranieri nati o cresciuti qui — ci mostrano una strada.
Sono pratiche di riconoscimento, atti di giustizia simbolica che evidenziano
l’ingiustizia sostanziale dell’ordinamento vigente.
Concedere la cittadinanza onoraria ai piccoli ambasciatori di pace non è un
vezzo retorico, ma una denuncia politica che dà voce a un’idea diversa di
appartenenza: si è cittadini dove si cresce, si studia, si partecipa, si
costruiscono legami.
È tempo che la politica nazionale raccolga il segnale di questa diplomazia dal
basso. È tempo di una riforma profonda e coraggiosa, che superi l’arretratezza
di una legge classista, inadeguata e discriminatoria, e che restituisca senso e
dignità al concetto stesso di cittadinanza democratica.
Simone Bolognesi, Presidente di Città Visibili APS
Redazione Toscana