Tag - rom

Teatro per l'identità e contro i pregiudizi
In comunicazione telefonica con Najed, presidente dell'Associazione New Romalen, abbiamo parlato del Festival Internazionale di Teatro Rom, che si svolgerà a Roma durante novembre per far sentire la voce della comunità rom e sinti. Con lui abbiamo parlato di cosa significa essere rom e sinti in Italia e di come sarà il festival che comprenderà espressioni teatrali ma anche musicali.
Slovenia, quando la paura diventa politica
Quando la paura diventa politica, mina lo Stato di diritto: la reazione della Slovenia all’omicidio di Aleš Šutar è diventata un monito per l’Europa. Quando la paura sostituisce la ragione, la democrazia inizia a sgretolarsi. La risposta della Slovenia all’omicidio di Aleš Šutar a Novo Mesto ha dimostrato quanto velocemente la giustizia possa cedere il passo alla rabbia e come la ricerca del controllo da parte di uno Stato possa corrodere le sue stesse fondamenta. Quello che era iniziato come un caso penale è diventato uno specchio per l’Europa, rivelando che quando la paura diventa politica, non governa, ma smantella lo Stato di diritto. Un uomo è stato ucciso e un Paese ha perso il suo equilibrio. La morte di Aleš Šutar avrebbe dovuto rimanere nelle mani dei tribunali. Invece, è migrata nelle strade. Nel giro di poche ore, l’identità rom del sospettato ha sostituito le prove come titolo dei giornali. I conduttori televisivi hanno gareggiato per esprimere la loro indignazione, i ministri hanno dato prova di responsabilità dimettendosi e la folla ha intonato slogan come: “Basta con la violenza degli zingari”. Un caso penale è diventato un teatro nazionale. Il dolore è diventato un copione. La paura è diventata politica. Per i rom questa storia non è nuova. Ogni volta che il potere trema, cerca un bersaglio familiare. Nel 1942 i rom della Dolenjska furono deportati nei campi di Rab e Gonars, dove quasi tutti furono uccisi. Nel 2006 la famiglia Strojan fu cacciata da Ambrus mentre la polizia “manteneva l’ordine”. Nel 2009, Silvo Hudorović è stato picchiato a morte; nel 2019, una casa rom è stata bruciata; nel 2022, alcuni adolescenti sono stati aggrediti a Murska Sobota. Ogni decennio lascia una cicatrice e un silenzio. La paura è una politica a buon mercato. Costa meno delle riforme e garantisce più visibilità mediatica della competenza. Novo Mesto, l’epicentro di questi disordini, si trova in una regione dove la presenza dei rom è antecedente allo Stato che la mette in dubbio. Documenti del XV secolo descrivono commercianti e artigiani rom nei mercati della zona, che collegavano le città molto prima che la Slovenia avesse dei confini. Da queste stesse valli, nel 1942, quasi tutti i rom furono deportati nei campi fascisti. Pochi tornarono. I loro discendenti hanno ricostruito la stessa economia che ora li esclude. Quando la Jugoslavia è crollata, i rom – che avevano costruito le sue fabbriche e riparato le sue strade – sono diventati cittadini di frontiere che non li volevano più. La Slovenia è entrata in Europa con ambizioni democratiche e ansia per la propria identità. Ha trasformato quell’ansia in amministrazione. Tre piani nazionali di “inclusione dei rom” dal 2010 hanno promesso uguaglianza, istituzionalizzando al contempo la sorveglianza. Gli insediamenti rom sono elencati come “rischi per la sicurezza”. I budget per l’inclusione passano attraverso la polizia e gli uffici di assistenza sociale. L’uguaglianza è gestita come una minaccia. Pochi giorni prima dell’omicidio, la Slovenia ospitava il vertice MED9 sotto la sua presidenza dell’UE, presentandosi come progressista, innovativa e inclusiva. Ursula von der Leyen e re Abdullah II hanno elogiato la sua diplomazia di apertura. Una settimana dopo, le sue strade si sono riempite di canti di odio e violenza. Il contrasto non è una contraddizione, è una coreografia. Cosmopolitismo per l’esportazione, capro espiatorio per uso interno. In un’Europa dove i rom superano gli sloveni in un rapporto di sei a uno, il trattamento riservato dalla Slovenia ai suoi cittadini rom non può essere liquidato come provinciale. Rispecchia un’abitudine continentale: governare l’insicurezza proiettandola sui meno protetti. La paura in Slovenia non è spontanea. È gestita come una voce di bilancio. I politici la utilizzano per unire un elettorato diviso; le burocrazie la traducono in proposte di progetti; i media la vendono in prima serata. La paura produce dati: sondaggi, indici di ascolto, finanziamenti. Alimenta l’economia di un piccolo Stato dove l’indignazione costa meno delle riforme. Bruxelles contribuisce a sostenerla. Da vent’anni l’UE misura l’“inclusione” nelle riunioni, non nella sicurezza. I rapporti chiudono il conto morale senza modificare l’equilibrio politico. Un sistema creato per promuovere l’uguaglianza si è trasformato in un sistema che ne sovvenziona l’assenza. Dietro ogni titolo di giornale c’è una casa. A Žabjak, una donna inchioda dei pannelli di compensato alle finestre. A Brezje, un ragazzo cancella la sua foto dai social media. I genitori tengono i figli a casa; gli anziani sentono l’eco di altre notti in cui il silenzio precedeva la violenza. Lo Stato non ha più bisogno di decreti per isolare i rom: l’incertezza fa il lavoro al posto suo. Eppure, proprio in quell’incertezza risiede la più antica abilità dei rom: ricostruire. Ogni volta che l’Europa cerca di cancellarli, essi ricostruiscono la comunità da ciò che rimane. La resistenza non è rassegnazione, è conoscenza, è quell’alfabetizzazione civica che l’Europa ha perso mentre i rom imparavano a sopravvivere ai suoi fallimenti. La giustizia per Aleš Šutar e la sicurezza per i rom non sono rivendicazioni contrapposte. Sono la stessa misura della stabilità della Slovenia. La giustizia richiede prove, non emozioni. La sicurezza richiede pari protezione, non colpa collettiva. Quando la legge diventa selettiva, l’autorità diventa temporanea. Se la Slovenia vuole tornare alle fondamenta su cui è stata costruita la sua democrazia – e agli impegni che ha assunto al momento dell’adesione all’Unione Europea – devono accadere diverse cose. L’omicidio di Aleš Šutar deve essere indagato in modo completo e imparziale, libero da interferenze politiche e pregiudizi etnici. Il governo deve denunciare pubblicamente i discorsi di incitamento all’odio e la colpa collettiva rivolti ai rom e riaffermare che l’uguaglianza davanti alla legge non è negoziabile. La sicurezza dei rom deve essere garantita attraverso una protezione visibile ed efficace ovunque si verifichino minacce o intimidazioni. Questo processo dovrebbe essere accompagnato da una supervisione indipendente da parte dell’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali e della Commissione contro il razzismo e l’intolleranza del Consiglio d’Europa, al fine di garantire che le istituzioni slovene agiscano in conformità con gli obblighi previsti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Infine, la responsabilità deve estendersi a tutti i livelli di governo: i funzionari pubblici che hanno normalizzato l’ostilità o non sono riusciti a impedirne la diffusione devono assumersene la responsabilità politica e giuridica. Non si tratta di misure straordinarie, ma delle condizioni minime di credibilità per qualsiasi Stato membro che affermi di sostenere lo Stato di diritto in Europa. I rom vivono sul suolo sloveno da sei secoli e sono sopravvissuti al fascismo, al socialismo e alla transizione. Hanno imparato ciò che gli Stati non fanno mai: come sopportare il collasso senza riprodurlo. La sopravvivenza dei rom non è folklore, ma memoria politica, la prova che la legge ha importanza solo quando è condivisa. Se l’Europa vuole riscoprire il significato di civiltà, dovrebbe iniziare imparando da coloro che ha più trascurato. Il potere non dura attraverso il controllo, ma attraverso la cura. La Slovenia si trova ora tra la recita e i principi. Può continuare a governare attraverso la paura, oppure può ricostruire la legittimità attraverso la legge. La giustizia per Aleš deve essere piena ed equa, e la protezione per i rom altrettanto reale. Non si tratta di percorsi paralleli, ma della stessa strada che riporta alla democrazia. Gli Stati non crollano a causa delle invasioni, ma si sgretolano dall’interno, quando scompare la fiducia tra i cittadini e la legge. Questo sgretolamento ha già un volto, quello dei rom, che hanno portato il peso delle promesse non mantenute dell’Europa, eppure rimangono la prova più duratura della sua resilienza. La loro sicurezza deciderà se la Slovenia, e con essa l’Europa, ricorderanno ancora cosa significa essere civili. Mensur Haliti, fondatore di Roma for Democracy Foundation https://www.facebook.com/share/1BeV9Uxmsn/?mibextid=wwXIfr Redazione Italia
L’Italia razzista e securitaria che mette i rom alla gogna
In seguito al tragico incidente che ha visto dei minori investire Cecilia De Astis i media si sono scatenati, incoraggiati da un governo intollerante. di Vincenzo Scalia da l’Unità Il recente tragico evento di Milano, in cui ha trovato la morte la 71enne Cecilia De Astis, investita da una macchina con 4 minorenni a bordo, […]
Firenze: commemorazione del genocidio di Rom e Sinti
Oggi 2 agosto presso il Giardino dei Giusti  a Firenzesi è svolta la cerimonia di ricordo del genocidio dei Rom e dei Sinti da parte dei nazisti durante la seconda guerra mondiale. Alla cerimonia, presenziata dal presidente del Consiglio Comunale Cosimo Guccione, hanno assistito cittadini e rappresentanti delle associazioni rom e dell’ANEP, Associazione Nazionale ex deportati. La cerimonia ricorda che il 2 agosto 1944  fu liquidato il “campo zingari” di Auschwitz-Birkenau: oltre 4.000 persone  furono sterminate nelle camere a gas. Per ricordare quella tragedia da alcuni anni si celebra il Roma Genocide Remembrance Day, la Giornata in memoria del genocidio dei Rom e dei Sinti durante la Seconda guerra mondiale. In lingua romanì, questo sterminio viene chiamato Porrajmos o Samudaripen  e causò complessivamente la morte di circa mezzo milione di persone appartenenti a questa popolazione. E’ stata presentata recentemente alla Camera dei Deputati una Proposta di Legge per far dichiarare il Samuradipen Giorno della Memoria; gli atti della conferenza stampa, il testo di legge e vari interventi storici sono stati pubblicati quest’anno, a cura di Andrea Vitello,  da Multimage sotto il titolo Il Samudaripen: genocidio dei rom e sinti nella Seconda guerra mondiale. Redazione Toscana
La mostra “Testament” a Mitrovica e la condizione dei Rom in Kosovo
Il Museo Civico di Mitrovica (Museum of Mitrovica, MoM), in Kosovo, conferma la sua vocazione di “museo di partecipazione”, attento alla fruizione del patrimonio e alla promozione dei diritti, con l’inaugurazione di una mostra di grande impatto civico e sociale, la mostra “Testament”, realizzata in collaborazione con la ONG Voice of Roma, Ashkali and Egyptians. La mostra ha un tema conduttore chiaro sin nel titolo: rappresentare e mettere in luce le storie, la memoria e la dignità delle comunità Rom, Ashkali ed Egyptians (Egizi) del Kosovo, manifestando e illustrando, indirettamente, la pluralità e la ricchezza straordinarie del tessuto etnico e sociale della regione. Il Kosovo è infatti una delle regioni a maggiore intensità interetnica dell’intero spazio post-jugoslavo: non solo Albanesi (oltre il 90%) e Serbi (circa il 5%) del Kosovo, con le loro caratteristiche e le loro specificità, ma anche Bosgnacchi (slavi musulmani), Turchi, presenti soprattutto nell’area di Prizren, a Sud, Gorani, la cui regione di principale insediamento è l’area di Gora, a cavallo tra Kosovo, Albania e Macedonia del Nord, e appunto le comunità definite nell’insieme R.A.E., vale a dire i Rom, gli Ashkali e gli Egyptians. Come indica la presentazione della mostra, Testament è un invito alla riflessione, alla consapevolezza e all’ispirazione per le generazioni future, compiuto attraverso l’arte: non solo un’espressione essenziale dell’ingegno, della fantasia e della creatività umana, ma anche un ponte tra passato e presente, capace di connettere con il passato, fare riflettere sulle condizioni del presente, ispirare e, quando grande arte, orientare verso l’avvenire. Testament, in particolare, usa il linguaggio della fotografia e riflette sui Rom e la loro condizione, nello specifico della realtà kosovara. Qui, Rom, Ashkali e Egyptians non costituiscono un’unica comunità. Ad esempio, i Rom del Kosovo parlano il serbo o il romanì come prima lingua; la maggior parte è di religione cristiana ortodossa, tuttavia alcuni sono musulmani. Sono un gruppo disperso, con un numero significativo di sfollati dopo le violenze legate alla guerra e all’aggressione della Nato contro la Jugoslavia del 1999 e poi ai pogrom del 2004, dispersi principalmente in campi in Kosovo e Serbia. L’European Roma Rights Centre ha stimato la popolazione Rom prima del 1999 a circa 120 mila unità. Nel censimento del 2011, che tuttavia non comprende il Kosovo del Nord, si stimava un totale di 8.824 Rom, sebbene le stime Osce del 2010 indicassero 34 mila Rom ancora residenti in Kosovo. Ashkali ed Egyptians parlano invece prevalentemente albanese come prima lingua e vivono comunemente con gli Albanesi nelle aree urbane e nei villaggi. Gli Egyptians, infine, differiscono dai primi per la loro asserita discendenza egiziana. Come detto, i Rom parlano il romanì o il serbo e tendono a vivere in villaggi o enclavi miste Serbi/Rom o talvolta monoetnici. La mostra offre uno spaccato visuale di questa realtà così complessa: presenta venti ritratti di venti rappresentanti di queste comunità, fotografati da Arben Llapashtica, con la curatela di Eliza Hoxha. Per tornare alle cifre, secondo il Rapporto Osce sulla “Panoramica delle comunità Rom, Ashkali ed Egyptians in Kosovo” (2020), gli ultimi dati ufficiali sulla rappresentanza di tali comunità in Kosovo risalgono al censimento del 2011, e le cifre esatte indicano che in Kosovo vivono 8.824 Rom, 15.436 Ashkali e 11.524 Egyptians. I Rom sono quindi lo 0,51% della popolazione del Kosovo, gli Ashkali lo 0,89% e gli Egiziani lo 0,66%. Questi dati, tuttavia, non forniscono un quadro demografico accurato, per diversi motivi, poiché non tutti i membri delle rispettive comunità hanno partecipato al censimento e poiché il censimento stesso non è stato condotto nel Kosovo del Nord, dove la presenza Rom pure è significativa. Inoltre, sono spesso disponibili stime informali del numero di abitanti di ciascuna comunità e le discrepanze numeriche, a loro volta, possono fare riferimento, ad esempio, ai movimenti delle persone legati alla migrazione verso l’Europa occidentale o anche alle conseguenze dei rimpatri nella regione dall’Europa occidentale, specie negli anni tra il 2014 e il 2016. La maggior parte dei membri delle tre comunità vive spesso ai margini della società, alle prese con alti tassi di disoccupazione e bassi livelli di istruzione. Vivono spesso in insediamenti, in alcuni casi informali, con infrastrutture carenti, e le abitazioni versano spesso in condizioni gravi. Inoltre, i membri delle comunità Rom, Ashkali ed Egyptians del Kosovo, in particolare le donne, si trovano ad affrontare ostacoli che li escludono da una piena ed effettiva partecipazione. Molti membri delle comunità ricevono assistenza sociale da Pristina o Belgrado. Per di più, quando i membri delle tre comunità trovano lavoro, si tratta spesso di lavori poveri o stagionali, sebbene alcuni lavorino nel settore pubblico, principalmente come insegnanti o impiegati, una composizione sociale erede del passato jugoslavo, quando le condizioni sociali e lavorative delle comunità Rom erano decisamente incomparabili con la drammaticità della situazione attuale. Si capisce dunque l’importanza di questa mostra: conferma la vocazione del Museo civico di Mitrovica come spazio in cui l’arte si fa uno strumento di dialogo e rispetto reciproco e getta una luce su una delle realtà più complesse e problematiche, ma anche più marginali e sconosciute, del Kosovo, alimentando un’ispirazione positiva che va nel senso della pace positiva, dell’inclusione, di «tutti i diritti umani per tutti e per tutte». Riferimenti: Minority Rights Group, “Roma, Ashkali and Egyptians in Kosovo”, 2018: https://minorityrights.org/communities/roma-ashkali-and-egyptians Organization for Security and Co-operation in Europe, “Overview of Roma, Ashkali and Egyptian communities in Kosovo”, 2020: https://www.osce.org/mission-in-kosovo/443587 Minority Rights Group, “The Roma – Kosovo’s forgotten victims”, 2004: https://minorityrights.org/the-roma-kosovos-forgotten-victims Gianmarco Pisa
La bandiera romanì arriva per la prima volta sull’Everest: un giorno storico per i rom e sinti di tutto il mondo
È stato l’abruzzese Gennaro Spinelli, presidente nazionale UCRI, artista, attivista e portavoce della cultura romanì nel Mondo a portare materialmente la bandiera per la prima volta nella storia sull’Everest, la montagna più alta dell’mondo il 27 aprile scorso. La sua forza, la sua determinazione e la sua visione hanno reso possibile questo gesto simbolico e profondo. “Portare per la prima volta nella storia la bandiera romanì sull’Everest è stato un onore immenso!  La nostra bandiera è il nostro simbolo, la nostra forza e il nostro futuro!  Portarla sulla montagna più alta del pianeta è il simbolo della bellezza, grandezza e forza della cultura romanì che dopo migliaia di anni vuole esistere e pretende di farlo con dignità in tutto il mondo.” Oggi è una di quelle giornate che fanno tremare le ossa: la bandiera romanì ha toccato il cielo, là dove l’aria è così fina che manca il respiro – sull’Everest, il tetto del mondo. È un fatto storico, ma è anche un grido: “Ci siamo, ci siamo sempre stati, e oggi siamo più forti che mai.” Dopo 150 chilometri a piedi tra pietre, ghiaccio e vento tagliente come la bora – e con lo zaino pieno non solo di viveri, ma di memoria, orgoglio e sogni – siamo saliti. Più di 5500 metri sopra il mare, a -20 gradi, con le gambe dure ma il cuore acceso: la bandiera dei Rom e dei Sinti ha trovato spazio nel cielo più alto. E non era una bandiera qualsiasi: reca le firme di Rom, Sinti e attivisti per la cultura romanì di tutta Europa, testimonianze vive di una comunità che resiste, che crea, che ricorda.     “Portare la nostra identità lassù è stato come portare il nome di tutte le nonne, i padri, i figli e le figlie che hanno camminato, spesso scalzi, spesso soli, ma mai piegati. Un gesto di resistenza come quello dei partigiani, un gesto di dignità come tutti gli esseri umani.”  L’Impresa ha avuto il patrocinio morale dell’UNAR – Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali presso Palazzo Chigi e la presidenza del consiglio dei ministri, tramite il suo direttore Mattia Peradotto, il sostegno morale dell’ ANPI NAZIONALE tramite il suo presidente Gianfranco Pagliarulo che ringraziamo e della Croatian Romani Union “KALI SARA” ha dato forza e radici a questa impresa. Da anni queste organizzazione si spendono per la cultura romanì, e oggi l’hanno spinta fino al punto più lontano della Terra. L’iniziativa è stata promossa dall’UCRI – Unione delle Comunità Romanès in Italia nel mese dell’orgoglio Rom, con l’obiettivo di unire simbolicamente le voci e le storie del popolo romanì di tutto il mondo. Ma non si è trattato solo di una scalata. È stato un gesto simbolico e potente, un filo teso tra le vette dell’Himalaya e le terre dell’Abruzzo, dei Balcani, del Rajasthan, dell’Europa intera. Un cammino lungo mille anni, fatto di dolore, bellezza e testardaggine. Un ringraziamento importante va agli Sherpa, ai tecnici e alle comunità e a chi – con una parola, un abbraccio, una preghiera – ha sostenuto questa visione. E oggi, lassù, abbiamo piantato il nostro nome e la nostra storia. Oggi i Rom stanno sull’Everest. Oggi siamo fieri. Redazione Italia
Memorie attive, culture vive, Romanes
MEMORIE ATTIVE, CULTURE VIVE, ROMANES 18.01.25 – 31.01.25 VITTORIO VENETO, PATRONATO BORSO DI SERRAVALLE VIA CASONI 45 INGRESSO LIBERO TUTTI I GIORNI