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Incontro “Felicità e disubbidienza. La proposta di Danilo Dolci
Martedì 9 dicembre 2025 alle 18:30 Arci Bellezza, via Bellezza 16, Milano Nel corso della serata verranno presentati la nuova edizione del primo libro scritto da Danilo Dolci “L’ascesa alla felicità” e il documentario ‘Inchiesta su Danilo Dolci” scritto e diretto da Alberto Castiglione. Produzione Danilo Dolci – Gesellschaft (CH). Intervengono: * Giuseppe Barone e Daniela Dolci, Borgo Danilo Dolci * Nicola Macaione, SCE Spazio Cultura Edizioni * Giorgio Schultze, architetto * Rappresentanti delle associazioni promotrici * Coordina Duccio Facchini, direttore Altreconomia Promotori: Borgo Danilo Dolci, Spazio Cultura Edizioni di Palermo, FuoriMercato, Centro di Nonviolenza Attiva, Arci Milano, Altreconomia, Libera.  L’ascesa alla felicità – di Danilo Dolci, 1948 Presentazione della nuova edizione di “L’ascesa alla felicità”   A cura di Giorgio Schultze Ci sono momenti della nostra vita in cui irrompono domande molto semplici, come ad esempio: “Che cos’è per me la felicità?”, a cui non sempre si riesce a dare risposte intimamente e profondamente soddisfacenti. Domande che ci scuotono e ci spingono nella ricerca di “senso” e contemporaneamente ci costringono a rallentare, se non addirittura a fermarci, per riflettere. In questo accidentato e, molto spesso buio, cammino, può accadere che una lettura, un evento, un incontro ci inviino quel segnale, quell’indicazione, quella parola, quella luce, carica di significati che tanto aspettavamo. Come è stato il fortunato incontro con L’ascesa alla felicità, il primo libro di Danilo Dolci, scritto nel 1948, di cui vale la pena ricordare il concatenarsi di eventi che l’hanno determinato. Andiamo in ordine cronologico. A maggio del 2024, in vista delle Celebrazione del Centenario della nascita di Danilo Dolci (28 giugno 1924), la mia cara amica Anna Polo mi ha invitato a fare un viaggio a Palermo, per visitare, insieme a Daniela Dolci, il Borgo “Danilo Dolci” di Trappeto e la Scuola Primaria “Mirto”, di Partinico. Questa scuola primaria, voluta da Danilo Dolci nei primi anni ‘70,  “destinata a tutte le bambine e i bambini, a cominciare dai più poveri”, era stata progettata e realizzata proprio dai genitori di Anna, gli architetti di Milano Giovanna Pericoli e Giancarlo Polo, quando Anna era poco più che adolescente. Ora, a distanza di 50 anni, “Mirto” è uno splendido esempio di avanguardia educativa, modello per centinaia d’insegnanti e scuole in tutto il mondo, in cui si applica “la maieutica reciproca”. Mentre visitavamo la scuola e il Borgo, parlando con Daniela Dolci, ho sentito l’urgenza di raccontare questi tratti di storia di Danilo e del suo contributo a una visione nonviolenta dell’umanità. Tornato a Milano ne ho parlato con Augusto Vetrallini,  regista e storyteller de Il Cantastorie, di Roma, il quale mi disse: “Per scrivere la storia di quest’uomo dobbiamo risalire a quando, ancora giovane, maturò questa sua straordinaria vocazione di “prendersi cura del prossimo”. Allora abbiamo iniziato a rileggere la sua biografia, fin dai suoi primi momenti fino ad  arrivare ad un passaggio cruciale. Al Danilo giovane insegnante di 24 anni, che nel 1948 per necessità (doveva pagarsi la facoltà di Architettura), insegnava nelle scuole serali di Sesto S. Giovanni, la città-operaia, nella Milano dell’immediato dopoguerra. Tra le varie note biografiche e bibliografiche troviamo riportata una sua citazione “Come puoi essere felice se intorno a te i tuoi fratelli vengono consumati e travolti dalla fame e dalla miseria?”, e una nota a piè pagina: L’ascesa alla felicità, a cura di Danilo Dolci, Stamperia Cesare Tamburini·Milano, 1948. Un testo scritto con uno scopo preciso: “… mettere a disposizione dei giovani operai, affamati di sapere, quanto non era giusto tenessi solo per me” [1]”. Ecco trovato ciò che cercavamo! Ma quel testo dal titolo e dai contenuti così significativi era semplicemente introvabile. Nessuno ne ha traccia.  Soltanto Giuseppe Barone, la memoria storico-letteraria delle opere di Danilo, seppe darci qualche indicazione. “Nel 1948 furono stampate 200 copie destinate agli operai-studenti di Sesto e da allora il libro non è mai più stato ristampato, né ripubblicato, né fotocopiato… Esiste un’unica copia originale, consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Firenze”. Ed è stato proprio così. Esisteva soltanto un’unica copia dell’originale, gelosamente custodita in quella preziosa Biblioteca che nel 1966 difese e salvò, insieme agli “angeli del fango”, centinaia di migliaia di libri “unici”, dall’alluvione dell’Arno. Chiedemmo una copia fotostatica dell’originale, che ci venne consegnata a seguito di accurate verifiche sul “perché la volevamo”. La sua lettura fu come aprire uno scrigno carico di monete e pietre preziose. Accanto alle riflessioni di Danilo, ritrovammo decine di pensatori e filosofi, da Marco Aurelio a Epitteto, da Pietro Verri a Bertrand Russell, citazioni tratte dalla Bibbia e dai Testi Sacri, di altre culture e filosofie orientali, da Ramakrishna al Bhagavad Gita, che parlavano della felicità a cui si giunge dopo “un’attenta e accurata ricerca”. Un’opera che già a partire della stessa strutturazione dell’indice ci offre un percorso, una mappa, le istruzioni che ci spingono a iniziare l’ascesa e contemporaneamente ci costringono a fermarci a riflettere a ogni frase, a ogni citazione. “Fermarci” e “riflettere”. Due atti di ribellione nonviolenta, due atti non tollerabili da un sistema di vita ad alta entropia consumistica, che ci vorrebbe sempre in corsa, sempre in accelerazione e soprattutto privi di un pensiero critico proprio. Un tesoro che, parafrasando Danilo “abbiamo ritenuto doveroso mettere a disposizione di tutti coloro che lottano e sperano in una nuova umanità e che non potevamo tenerci per noi”. Quindi a partire da quell’unica copia, gelosamente custodita per oltre 75 anni, in accordo con Daniela e Amico Dolci e con la collaborazione di un “agitatore culturale”, come Nicola Macaione e la sua Spazio Cultura Edizioni di Palermo, abbiamo deciso di trascrivere il testo, stampare una nuova edizione e ridargli nuova vita, con tre obiettivi: * Costringerci a fermarci e riflettere sulla felicità, come un atto di profonda ribellione nonviolenta. * Mettere a disposizione dei “costruttori di speranza”, nuovi mattoni di conoscenza ed esperienza * Iniziare a prenderci cura, come atto di responsabilità e fraternità, della felicità di noi stessi, del prossimo, dell’umanità, della nostra “Casa Comune”. [1]Lettera di Danilo Dolci, 31 maggio 1986. Giorgio Schultze
Dinknesh, una storia etiope
Ieri mi è arrivato un pacchetto a casa: conteneva “Dinknesh, una storia etiope”, un libro scritto da Carlo Presciuttini, un carissimo amico che per le nostre storie personali considero come un fratello maggiore. Carlo infatti ha 70 anni ed è nato nel 1955, esattamente 10 anni più di me e come me ha fatto il servizio civile e l’insegnante. Certo quando lui fece obiezione di coscienza al servizio militare non erano molti a fare questa scelta. Bisognava sottoporsi al giudizio di una commissione esaminatrice, che aveva il compito di verificare l’autenticità della propria dichiarazione di contrarietà all’uso individuale e collettivo delle armi, ovviamente partendo dal presupposto che essere invece favorevoli all’uso delle armi sia la normalità che non ha bisogno di essere indagata e sottoposta a giudizio.  Inoltre, con una forma punitiva abrogata molti anni più tardi dalla Corte Costituzionale, vi era l’obbligo di prestare un Servizio Civile alternativo a quello militare di 20 mesi invece di 12. Carlo svolse quindi il suo servizio civile a Roma, tra la fine del 1977 e la metà del 1979, con il Movimento Internazionale per la Riconciliazione e aderì alla Lega Obiettori di Coscienza.  Si occupò in particolare della produzione e del commercio delle armi, che già allora l’Italia forniva con disinvoltura a feroci dittature e a Paesi in guerra, talvolta, con una buona dose di cinismo, addirittura ad entrambe le parti contrapposte (all’Iran e all’Iraq giusto per fare un esempio).  Carlo si occupava soprattutto allo studio di progetti di fattibilità finalizzati alla riconversione della produzione industriale, dal settore bellico a quello civile, collaborando con la Federazione Lavoratori Metalmeccanici, potente organizzazione sindacale che allora univa gli operai e gli impiegati metallurgici di Cgil, Cisl e Uil. Il principale interlocutore era il sindacalista Alberto Tridente, che in seguito sarebbe diventato europarlamentare per Democrazia Proletaria, partito della nuova sinistra rosso-verde affine alle opinioni politiche di Carlo e alle mie. Tra la fine del 1979 fino al termine del 1980, Carlo venne assunto come responsabile del Centro di Formazione di Trappeto da Danilo Dolci, uno dei maestri del pensiero nonviolento, che fondò e fu per molti anni responsabile del Centro Studi e Iniziative di Partinico; le due località si trovano a pochi chilometri di distanza in provincia di Palermo. I principali interlocutori di Carlo furono la Chiesa Valdese, le scuole elementari e medie del territorio e le realtà politiche e sindacali più sensibili ai temi del disarmo e della difesa dell’ambiente. Carlo seguì inoltre con interesse l’avviarsi dell’esperienza della scuola comunitaria di Mirto, fortemente voluta da Danilo Dolci. Rientrato a Roma fu tra i promotori di Archivio Disarmo, esperienza nata nel 1982 su sollecitazione del senatore Anderlini della Sinistra indipendente (composta da intellettuali eletti come indipendenti nelle liste del Partito Comunista Italiano). I primi anni Ottanta del secolo scorso (nonostante il crescente riflusso politico successivo al lungo Sessantotto italiano, che percorre tutti gli anni Settanta, fino alla sconfitta degli operai della Fiat di Torino del 1980) furono gli anni di un vasto movimento pacifista italiano ed europeo contro l’istallazione dei missili dotati di testate nucleari Pershing e Cruise da parte della Nato e SS20 da parte dell’Unione Sovietica. Il dispiegamento degli euromissili, in un periodo di forte tensione tra la Nato ed il Patto di Varsavia, aumentava esponenzialmente i rischi di una guerra atomica combattuta sul teatro europeo. Soltanto l’avvento di Michail Gorbaciov come Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica portò a una politica di distensione e di disarmo, purtroppo abbandonata in questi ultimi anni, riesumando toni bellicisti finalizzati a far accettare le politiche di riarmo europeo a scapito della difesa delle conquiste dello stato sociale. Nel 1983 anche Carlo partecipò alle lotte per tentare di fermare la conversione dell’Aeroporto “Magliocco” di Comiso in una base militare statunitense dove posizionare i missili Cruise, che peraltro erano montati su veicoli in grado di disperderli nel territorio siciliano, come infatti accadeva durante le esercitazioni. In questa occasione tuttavia possiamo  registrare un vittoria postuma del movimento pacifista poiché l’Aeroporto di Comiso è ora civile e la base militare statunitense è stata smantellata. A quel tempo io e Carlo non ci conoscevamo, ma in qualche modo le nostre vite si intrecciarono: nel 1982 a Varese, mentre frequentavo l’istituto magistrale, ascoltai Danilo Dolci raccontare la storia delle lotte nonviolente in Sicilia, anch’io partecipai a Comiso al movimento pacifista e feci il Servizio Civile tra il 1984 e il 1985 per Pax Christi a Napoli, nel quartiere popolare Ina Casa di Secondigliano.  Infine collaborai a Roma con il Centro Interconfessionale per la Pace, diretto allora da Padre Gianni Novelli, che negli anni Settanta era stato giornalista della rivista COM/Nuovi Tempi (edita dalle Comunità Cristiane di Base e dai Valdesi). Successivamente, nel 1984, Carlo vinse il concorso come insegnante di Italiano, Storia, Geografia ed Educazione Civica di Scuola Media, diventò quindi Preside nel 1993 e, dopo un incarico presso il Ministero degli Affari Esteri alla Farnesina, andò a lavorare, a partire dal 2002, ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia come Direttore della Scuola Italiana. La Scuola Italiana di Addis Abeba è tuttora una delle numerose istituzioni scolastiche statali che operano all’estero per i dipendenti delle ambasciate e per i figli degli italiani che vogliono mantenere un più stretto contatto con la madrepatria. La Scuola Elementare e la Scuola Media di Addis Abeba avevano tuttavia la caratteristica di essere frequentate da un buon numero di bambine e bambini etiopi. Durante questa sua esperienza Carlo fece il possibile e l’impossibile per favorire l’inserimento di questi alunni etiopi e soprattutto per impedirne l’allontanamento per cause economiche, arrivando a pagare di tasca propria la retta alle famiglie più povere, con le quali strinse rapporti di sincera ed intensa amicizia. A circa 1 km dall'Università statale di Addis Abeba: moschea in costruzione (nel 2015). Sui lati sinistro e destro del corso d'acqua (maleodorante) vi sono abitazioni simili a quella di Shiromeda, dove Dinknesh, la protagonista del racconto e narratrice, ha vissuto per diversi anni. Foto di Carlo Presciuttini Un mercato etiope molto distante da Addis Abeba (2011), Foto Carlo Presciuttini Addis Abeba - Palazzina primo Novecento in legno e muratura nei pressi della scuola statale italiana. In basso: vecchie Lada (Fiat 124 prodotte in Russia) adibite a taxi. Foto Carlo Presciuttini Donne manovali in zona agricola. Foto di Carlo Presciuttini. Addis Abeba, Shiromeda, verso la chiesa, di domenica. Foto di Carlo Presciuttini Rientrato quindi a Roma nel 2010, sempre come Dirigente Scolastico, negli ultimi tre anni del suo lavoro approdò  alla mia scuola di allora, la Lola di Stefano, dell’Istituto Comprensivo Crivelli a Monteverde Nuovo. Io ero stato eletto come RSU della FLC CGIL, condividevamo principi di massima trasparenza ed equità nell’assegnazione del Fondo di Istituto (spesso invece utilizzato con grande disinvoltura a beneficio della ristretta corte di zelanti e fedeli collaboratori di Dirigenti Scolastici autoritari). Soprattutto ricordo l’impegno di Carlo (mio e di alcune altre insegnanti) per favorire l’inserimento nella nostra scuola delle bambine e dei bambini rom di origine rumena e bosniaca del Campo di Via Candoni, peraltro assai distante dalla nostra scuola, come atto di solidarietà nei confronti delle scuole più limitrofe (come quella in cui insegno attualmente al Trullo) che non potevano assumersi da sole questo compito gravoso ma fondamentale. Ricordo una visita che facemmo io e Carlo al campo di via Candoni per incontrare le famiglie di alcuni nostri alunni: non è facile trovare dirigenti scolastici così aperti e disponibili. Dopo essere andato in pensione nel 2016, Carlo è tornato per un anno nella sua amata Etiopia. Da anni divorziato e padre di tre figli ormai grandi (curiosamente due dei suoi quattro figli hanno lo stesso nome di due dei miei quattro figli: Irene e Francesco), si sposò con Alem, una donna etiope, anzi più precisamente tigrina, ma per ragioni di salute della moglie che necessita di cure specialistiche, è rientrato in Italia e vive ora a Terni, con la moglie e la sua quarta figlia Betty (a questo punto, per non farle un torto scrivo che l’altra figlia si chiama Chiara).  Betty frequenta l’Università di Terni, dove ha ritrovato due studentesse etiopi della Scuola Italia, e dove collabora in particolare, come sempre con paziente spirito unitario, con i giovani di Potere al Popolo. Nel suo libro, con grande affetto Carlo mi ringrazia di averlo spinto a scrivere la sua straordinaria storia di educatore, militante nonviolento e dirigente di un’istituzione scolastica della Repubblica Italiana fedele ai valori della Costituzione più che ai desiderata dei vari governi. Una persona estremamente gentile e pacata nei modi, capace di dialogo, ma al tempo stesso di idee radicali. Un uomo sensibile e capace di empatia, di ascolto e di condivisione con le famiglie povere ed emarginate della capitale etiope per aiutarle a dare un futuro alle loro bambine ed ai loro bambini. . Dal fiume al villaggio, portatrici d’acqua, Foto Carlo Presciuttini Il suo libro è sicuramente uno strumento utilissimo per avvicinarsi alla cultura e alla vita quotidiana di un popolo, quello etiope, verso il quale peraltro l’Italia ha un debito storico per gli efferati crimini contro l’umanità commessi durante l’occupazione fascista. Soprattutto ci aiuta a capire perché molte donne e uomini rischiano di essere imprigionate, torturate e violentate e sfidano la morte attraversando il deserto ed il Mar Mediterraneo per sfuggire alla guerra e alla fame, pur restando intimamente legate alla propria terra e alla propria cultura. Buona lettura dunque. Dalla prefazione: Una giovane donna etiope racconta la propria vita e quella della sua famiglia a un amico italiano, dando voce a chi solitamente è costretto al silenzio. Emergono scene di un’infanzia difficile, lotte quotidiane per sopravvivere, speranze riposte nel futuro dei figli. E’ un racconto di precarietà endemica, ma anche di coraggio, solidarietà familiare e dignità. E’ il ritratto di un popolo che resiste e sogna, che non teme di guardarsi in uno specchio ove anche noi, lettori d’Occidente, possiamo osservarci, accorgendoci dell’indifferenza e superficialità che dimostriamo nel giudicare chi vive ai margini senza conoscerne la storia. “Laddove è sofferenza, non voltiamoci dall’altra parte: ciascuno di noi ha momenti difficili da affrontare e necessita del conforto di una persona amica.” Carlo Presciuttini Il libro può essere acquistato contattando ILMIOLIBRO seguendo questo link: > Dinknesh, una storia etiope Etiopia villaggio rurale. Foto di Carlo Presciuttini Capanna Barche di pescatori a Wenchi (2004), Foto ddi Carlo Presciuttini Chiesa Tewahedo (cristiano-ortodossa di rito etiope) a Wenchi. Foto di Carlo Presciuttini Mauro Carlo Zanella
“Vincenzina, mi chiamo Vincenzina”: Libera Dolci, figlia di Danilo, racconta sua madre e la sua famiglia
Danilo Dolci, sociologo, poeta, educatore e attivista della nonviolenza italiano, è conosciuto anche oltre frontiera e in questo mondo che avanza speditamente lungo le strade della tecnologia e della digitalizzazione, le sue intuizioni sulla maieutica quale metodo pedagogico, contributo alla prevenzione della distruttività umana, diventano un lascito che accresce di anno in anno l’interesse. In special modo oggi con l’avvento di Internet, dell’intelligenza artificiale, con il pericolo di una grande platea sempre più disinformata, acquiescente e controllabile, la diversità che Dolci sottolinea tra il “trasmettere” e il “comunicare” si rivela sostanza e non forma. In parole povere Danilo Dolci è stato un maestro che ha cercato un mezzo perché si imparasse a pensare con la propria testa; in un mondo dove il potere autoritario omologa, questo significa andare controcorrente. Tanti conoscono inoltre le battaglie antimafia, anche rischiose per l’incolumità personale, che lui e i suoi collaboratori hanno fatto sul piano pratico. La figlia Libera Dolci nel libro corale e autobiografico edito da “Libreria Dante e Descartes”, dal titolo “Vincenzina, mi chiamo Vincenzina” risponde a una domanda che fino ad ora era stata inevasa: il ruolo di moglie accanto a un uomo dalla personalità così carismatica poteva essere sostenuto da qualsiasi donna? Sappiamo che Vincenzina Mangano è stata la compagna con la quale Danilo ha vissuto più a lungo, che lo ha affiancato nelle stagioni più intensa della vita, che gli ha dato cinque figli. Come e perché si sono incontrati questi due caratteri? Come si sono scelti? Com’era la loro vita privata? Domande che, al di là dell’immagine pubblica di Dolci, scendono nel privato e approfondiscono la figura di Vincenzina Mangano, finora rimasta in ombra, completando anche quella del marito negli aspetti più intimi e non per questo meno importanti. Sposa a quattordici anni, madre di cinque figli, prima ancora dei cinque di Danilo, vedova a trenta. Vincenzina veniva dal luogo e dalle esperienze che Danilo aveva scelto per dare senso al suo passaggio. Alto, occhi azzurri e gravi, guardandoti serio Danilo sapeva incutere soggezione, ma non poteva non rivelare quella tenerezza, quella capacità di capire ed empatizzare, che ne ha fatto un grande uomo.  Dal libro di Libera Dolci questo sentimento traspare come sintesi dell’amore nella coppia: da una parte colui che ha aiutato Vincenzina a crescere, dall’altra lei che gli ha dato tutta sé stessa: in una parola reciproca abnegazione. Bisognava essere personalità particolari? Si. Bisognava dedicarsi l’uno all’altro, cosa che non sempre accade. Per essere sicura di aver scelto il sostantivo giusto specifico che abnegazione vuol dire: “La disposizione spirituale di chi rinuncia a far prevalere istinti, desideri, interessi personali, per motivi superiori“. Il libro di Libera Dolci è importante perché illustra la vita dei protagonisti, a partire da sua madre, nel quotidiano, senza quel tanto di agiografia e retorica che purtroppo è il limite di molte biografie. Persone vive, normali, inconsapevoli di quello che oggi viene chiamato “grande” che, non senza sofferenza, hanno cercato il modo di avere rapporti umani migliori, non sempre riuscendoci, ma sempre aspirandovi con onestà. “Vincenzina, mi chiamo Vincenzina” – parole della madre dell’autrice per sottolineare, a chi la chiamava signora, la sua vicinanza affettiva – è lo specchio di una donna che ha vissuto in maniera straordinaria nel dolore e nella gioia, la storia di una famiglia che ha cercato di valorizzare la vita. Libera Dolci Vincenzina, mi chiamo Vincenzina Libreria Dante e Descartes Euro 18 Bruna Alasia
Puntata del 1/11/2025
Danilo Dolci, noto come il “Gandhi della Sicilia”, fu un instancabile attivista, educatore e intellettuale engagé. Il libro di Antonio Fiscarelli pubblicato per i tipidi Castelvecchi ne ripercorre la vita,...
Quel che resta delle strade percorse: a margine di Eirenefest Firenze
Firenze, 24-25-26 ottobre Eirenefest: questo anno è stato “Esperienza” dentro le realtà che animano le periferie nascoste. L’edizione fiorentina ha coinvolto, in continuità con l’edizione di anno scorso, la Biblioteca CaNova e le Baracche Verdi, luogo della Comunità dell’Isolotto, luoghi differenti eppure somiglianti rispetto ad una storia, quella di un quartiere, dove è possibile tenere insieme la cultura, che passa attraverso le letture, e la socialità, che intesse relazioni di accoglienza e di cura; ed è stato proprio tra questi due luoghi che tra venerdì 24, sabato 25 e domenica 26 si sono succeduti momenti di confronto di contenuto socio-educativo, in particolare a partire dalla figura di Danilo Dolci, e proposte laboratoriali, dove sperimentarsi dentro percorsi di educazione alla nonviolenza, fino all’Assemblea della Comunità (domenica mattina) dedicata ad Alex Langer. L’edizione fiorentina ha coinvolto questo anno anche il Centro Sociale Il Pozzo, luogo della Comunità delle Piagge, dove Elisabetta Salvatori (sabato sera) ci ha portato dentro la narrazione teatrale che permette un respiro più alto e profondo sui valori che attraversano le resistenze; continuando nella giornata di domenica, in crescendo di intensità, coinvolgimento e contenuti, attraverso la proposta di campagna per un Medio Oriente libero da Armi nucleari, si è recuperato infine il senso di questi giorni con la storia e la testimonianza di Alex Langer, con la fatica dell’essere uomini e donne che perseguono l’obiettivo della pace che diviene tale nella costruzione di percorsi di nonviolenza, che fa sentire la solitudine; sì, perché anche quando l’essere insieme nelle piazze oggi sappiamo quanta potenza evocativa solleciti e quanto la dimensione collettiva effettivamente sia di sostegno, in realtà non possiamo dimenticarci che questo percorrere strade scomode chieda coraggio, richieda impegno, richieda fatica; non sono già scritti i percorsi, perché li stiamo costruendo insieme, oggi. E c’è bisogno soprattutto di dare continuità alle parole, dare corpo all’impegno assunto, per fare delle occasioni di incontro la possibilità di creare movimenti che dal basso sospingano nel realismo dell’Utopia, nella speranza che non deve tramontare, nella costruzione di prassi nonviolente eppure incisive, nonostante la deriva di misure repressive che sembrerebbero tese a fermare questa corrente; la nostra idea comune di sicurezza esce dai confini dentro cui si vorrebbe incardinare, perché ci sentiamo sicure e sicuri quando viviamo l’appartenenza a quella comune umanità che continua a mobilitare le coscienze, ci sentiamo sicure e sicuri quando sappiamo ancora ritrovarci e com-muoverci insieme. Grazie a chi in questi giorni ha attraversato i luoghi dove abbiamo provato a tenere insieme: luoghi, comunità, cultura e cura di quel Noi e di quell’abitare le strade che vogliamo continuare ostinatamente e coraggiosamente a percorrere, nonostante la fatica e la solitudine. Emanuela Bavazzano Redazione Toscana
Si è conclusa la seconda edizione fiorentina di Eirenefest
Un pubblico attento e numeroso ha popolato prima le Baracche Verdi e poi la Comunità delle Piagge Centro Sociale il Pozzo nella domenica conclusiva delle seconda edizione di Eirenefest, Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza che si teneva per la seconda volta a Firenze. Nella giornata forte l’ispirazione e la presenza di Alexander Langer, una delle due figure importanti della nonviolenza che il festival ha voluto ricordare insieme a quella di Danilo Dolci. Ma anche, alle piagge, sono state presentate due importanti campagne: una per far istituire il Samuradipen, giornata di ricordo del genocidio dei Rom e dei Sinti e quella per far dichiarare il Medio Oriente libero da armi nucleari. Redazione Toscana
Dolci, la maieutica reciproca, l’attualità pedagogica
Le edizioni Mesogea hanno pubblicato recentemente Educare e disobbedire: in dialogo con Danilo Dolci di Tiziana Rita Morgante che di Dolci è stata allieva. Nel panorama attuale di una pedagogia e di una didattica appiattita sulle procedure e sulle nozioni, una situazione della scuola italiana (ma non solo) profondamente in crisi nel suo ruolo e nei suoi obiettivi il libro di Tiziana appare come una luce nell’oscurità. L’autrice parte dalla sua esperienza di conoscenza diretta di Dolci per tracciare non solo i temi della maieutica reciproca che Dolci differenzia dalla maieutica classica socratica, dandole quest’aspetto collettivo ed anche organizzativo ma anche per esaminare e comprendere le relazioni, a volte dirette, altre indirette, che legano il Maestro di Trappeto a Rodari, Lodi, Manzi, Freire, Montessori, Milani. Una interessantissima disamina che cerca di tracciare alcuni elementi di una storia della pedagogia attiva che si stava delineando in quei tempi e non solo in Italia. Un bellissimo momento è la trascrizione di un dialogo a un convegno a Trappeto dove Freire e Galtung parlano insieme a Dolci e ad altri pedagoghi di alcune tematiche cruciali che si stavano discutendo in quei tempi. Ma l’aspetto più interessante del libro è il fatto che esso si intreccia con riflessioni e pratiche che Tiziana, in quanto maestra, svolge con i suoi alunni. Mi ha colpito in particolare quella dove la maestra porta i bambini a confrontarsi con la splendida ma difficile poesia di Danilo Poema Umano dove si esprime il famoso concetto ciascuno cresce solo se è sognato: attività proposte in due momenti (attentato Bataclan e pandemia Covid) dove la violenza si presenta in modo crudo e deciso ma dove il percorso maieutico reciproco porta i bambini a conclusioni e riflessioni di altissimo livello umano. Il libro verrà presentato all’interno di un dibattito su Danilo Dolci a Eirenefest Firenze il prossimo sabato 25 Ottobre alle 16.45 presso BiblioteCaNova. Olivier Turquet
Costruire la pace: una giornata di studio al Borgo di Dio di Danilo Dolci
 “Quale pace?” c’è scritto sul cartello poggiato a terra davanti al teatro Politeama a Palermo dove, al termine del flash mob “In corsa per la Palestina”, gli attivisti e le attiviste sono state aggredite verbalmente da una donna che contestava la presenza della sola bandiera palestinese negando il genocidio a Gaza. A sentir lei, e le sue urla ininterrotte comprensive di offese, gli arabi non vivono una condizione di apartheid in Israele e Gaza deve essere liberata esclusivamente dalla presenza di Hamas. Impossibile qualunque dialogo fino alla sua decisione di allontanarsi reiterando le offese.  Quale pace, dunque, e soprattutto, come costruirla? Appena ieri, sabato mattina 18 ottobre, al Borgo Danilo Dolci di Trappeto, nell’aprire i lavori della giornata di studi a cura del Centro per lo Sviluppo Creativo Danilo Dolci in collaborazione con l’Università degli Studi di Palermo e con la Rete Università per la Pace, Daniela, figlia del sociologo, poeta e pacifista nonviolento, aveva esordito col dire che no, non c’è una ricetta per la pace, domandandosi, come già il padre in uno dei suoi primi scritti, cos’è pace? Il breve intervento di saluto da parte del prof. Marco Picone a nome della Rete Università per la Pace di Pisa, mette insieme la teoria con le attività dei dottorati negli atenei di gran parte d’Italia, e quello della professoressa Gabriella D’Agostino, docente del corso di Geopolitica della migrazioni, per il Centro Migrare dell’Università di Palermo, ci ricorda la necessità di parlare in modo scientifico della geografia della pace, rendendo l’esotico familiare e familiare l’esotico in una dimensione pragmatica attiva per contribuire ai cambiamenti in atto intesi come rivoluzioni. Andrea Cozzo, docente di Lingua e letteratura greca presso l’Università degli Studi di Palermo, attivista amico della nonviolenza, si e ci interroga sulla reale necessità di chiedersi se, per fare la pace, serva davvero sapere chi ha cominciato, in uno schema dicotomico in cui ai buoni, o presunti tali, si giustifica pure la violenza, polarizzando e radicalizzando il conflitto, o se, piuttosto, bisogna scegliere innanzitutto di stare dalla parte oppressa, dandole maggior sostegno seppur non difesa armata.   Inevitabile il riferimento ai due conflitti in corso alle porte dell’Europa, tra l’abbaiare della Nato e l’invasione di Putin, il mancato rispetto di Israele degli accordi a ritroso fino alla guerra del 1948, di reazione in reazione agli attacchi dell’una e dell’altra parte, ognuna parziale, anche in buona fede, in una storia narrata quasi esclusivamente da un unico punto di vista, politico e militare, anche nei manuali scolastici.  In un paradigma dicotomico non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza dialogo e ascolto reciproco. In tale contesto si inserisce il ruolo delle terze parti nella ricerca della verità che, in nonviolenza, deve fare emergere le ragioni di ciascuno e individuarne i rispettivi bisogni.  Karen Venturini, docente dell’Università degli Studi della Repubblica di San Marino, parlando del credo assoluto, anche in ambito universitario, nel capitalismo, ci dà la misura della difficoltà di parlare di nonviolenza in ambito economico, dominato sin dagli anni ‘80 del ‘900 da un manipolo di economisti assoldati dagli Stati Uniti per rafforzare il neoliberismo e censurare le sperimentazioni di economia solidale.  L’economia neoliberista è violenta perché si affianca al modello militare, guerrafondaia, con i fondi di investimento in imprese belliche. L’iperproduzione sottrae futuro e spinge gli stati verso regimi totalitari. Già Dolci affermava che le scienze economiche confezionate dall’economia del dominio fanno più ricchi i ricchi: è la loro vittoria nella lotta di classe.  L’economia nonviolenta, nell’autodeterminazione delle scelte economiche, aspira invece a costruire  “la città terrestre”, ecosistema che contrappone allo sfruttamento la cogestione delle risorse naturali e umane dell’ambiente. Non iperproduzione, dunque, ma lotta allo spreco, diretta conseguenza del dominio. L’economia nonviolenta è educazione, maieutica, pianificazione organica, adattamento creativo, gestione compartecipativa, come testimoniano le esperienze di Dolci in Belice, nella costruzione della diga sullo Jato.  L’intervento di Charlie Barnao, docente di Scienze psicologiche, pedagogiche, dell’esercizio fisico e della formazione all’Università degli Studi di Palermo, sposta l’attenzione sulla guerra a partire dal genocidio del popolo palestinese trasmesso in mondovisione. Come è stato possibile?, si chiede.  Il modello militarista si è diffuso nella cultura comune attraverso lo sport, lo spettacolo, l’università, la scuola. In una sua ricerca autoetnografica, quella in cui il ricercatore è parte della cultura che studia, a partire dall’esperienza del servizio di leva nella Folgore, di cui tenne un diario, emerge la correlazione tra il modello addestrativo militare, con i suoi rituali formali e informali, e gli episodi di stragi e violenze in cui gli attori mettono in pratica le dinamiche subite, comprese quelle della tortura.  Tutti i militari vengono torturati per imparare a resistere alla tortura. Nella nostra società il militarismo è sia esplicito sia implicito. Esplicito nel finanziamento della guerra, nell’apparato di sicurezza per la gestione dell’ordine pubblico; ma è presente anche in una dimensione implicita: tutti i videogame, per esempio, si basano sul modello pedagogico di condizionamento, base dell’addestramento militare, tanto che le patologie correlate all’abuso di esposizione ai videogiochi sono le stesse da stress post-traumatico riscontrate nei reduci di guerra.  Esplicito nello sport, con le arti marziali miste; nelle scuole, in cui è sempre più pervasiva la presenza di militari in divisa nelle lezioni sul bullismo e sulle questioni di genere, e implicito nella pedagogia dell’umiliazione del ministro Valditara. Implicito ancora nelle politiche sociali, esemplare il rimpallo di responsabilità tra Marina Militare e Polizia a Cutro per il soccorso dei migranti.   Nelle università poi sono sempre più gli accordi con la Leonardo spa, industria bellica, mentre nel consiglio di amministrazione di Med’or compaiono diversi attuali rettori. Anche nel diritto, compare quello che è definito da Ferraioli “populismo penale” o giustizialismo, legato ormai alla cultura di destra come a quella di sinistra, e nel sistema penitenziario sono presenti sistemi di tortura fisica e psicologica propri dell’addestramento militare.  Erika Degortes, attualmente dottoranda presso l’Università di Roma “La sapienza” nel programma di Peace Studies, tra le fondatrici dell’istituto Galtung, ci dice che parlare di pace, parola fragile, abusata, logorata ma necessaria, significa parlare di giustizia ma anche di potere e contrappone alla complicità diffusa dell’università con la militarizzazione il confronto delle visioni pacifiste di Galtung e Dolci.  Il primo, in piena Guerra Fredda, propone di studiare la pace come una scienza, fondando a Oslo il primo istituto per la pace  e non della pace, per conoscere i meccanismi della violenza e ripensare il conflitto, riconoscendo che la violenza del linguaggio e quella culturale ci rendono ammissibile la violenza strutturale di povertà e diseguaglianze. Pace non come esclusiva assenza di guerra ma progetto di trasformazione sociale, politica e culturale, duratura solo se basata su un sistema di giustizia sociale. Sua la formula matematica: pace uguale empatia per armonia su trauma per conflitto. Ma la teoria di Galtung a Dolci non basta. Con lui si agisce nella pratica della “rivoluzione paziente”, dove la nonviolenza è azione creativa e organizzata che costruisce pace dal basso in processi di partecipazione ed educazione maieutica in cantieri collettivi di cambiamento. La pace è relazione, un modo diverso di stare al mondo basato sul riconoscimento dell’altro, unità di pensiero e azione liberi dal dominio.  Galtung supera il conflitto spostando il terreno dal campo di battaglia alla parola, disinnesca il dialogo. Dolci trasforma il conflitto in collaborazione, sostituisce alla competizione la cura. Così la pace, parola semplice e vertiginosa,  si apprende, si coltiva, si moltiplica. È spessore politico, eresia civile. Presenza di umanità, non assenza di conflitto.  Nella seconda sessione, dopo alcuni interventi che testimoniano l’attenzione e l’ascolto partecipativo del pubblico, Clelia Bartoli, professora associata della Facoltà di Giurisprudenza di Palermo, ideatrice del Metodo dell’Altrimenti, invitandoci a non nascondere l’assurdo che è nel mondo diviso tra onnipotenti e impotenti, ci ricorda che il potere non è il dominio e che, di fronte al dolore inflitto senza minaccia di pena, possiamo scegliere di fermarci e riprenderci il potere, seppur non di onnipotenza, agendo nei limiti del possibile per salvare la nostra umanità. Così confronta le “istituzioni manipolative e conviviali” di IIlich con quelle “parassitarie e simbiotiche” di Dolci.  Le manipolative parassitarie sono giustificate dal fine, pace come sicurezza, in vista del quale chiedono affidamento totale ma in effetti, perseguendo il mantenimento del potere, rendono lo scopo irraggiungibile (è l’inganno del Leviatano). Il mezzo perverso perverte il fine, creando strutture di dipendenza che dividono elargitori e beneficiari. Questi ultimi, percependosi come impotenti, non si mettono in gioco restando dipendenti dagli elargitori.  È il modello dell’assistenzialismo che spesso fa disimparare, come nel Leviatano, anche pratiche già esperite e in cui la codipendenza – anche il sovrano ha bisogno dei sudditi – è celata.  Le istituzioni conviviali e simbiotiche invece ragionano in termini di ciò che accade a cose e persone nel percorso, dando importanza al mezzo. Si determinano così strutture di potere dove l’interdipendenza è manifesta, attraversata dall’educazione maieutica dove tutti potenzialmente sanno. Un ruolo importante gioca il desiderio, spento dalle istituzioni manipolative parassitarie, che generano escalation della dipendenza aumentando le dosi, e mantenuto vivo invece da quelle conviviali simbiotiche durante il cammino nonostante gli ostacoli, quando si accetta la propria impotenza o fragilità senza restare inermi ma continuando a diffondere profumo come la ginestra di Leopardi.  Il maestro di strada Cesare Moreno porta la testimonianza dell’esperienza nei quartieri di Napoli in cui opera, vere e proprie zone di guerra dove non ha senso chiedersi chi ha cominciato nel reiterarsi della violenza da una famiglia all’altra al comando. Lì non ha senso abbracciare tutti i contendenti ma bisogna cominciare a farlo con gli impotenti.  Racconta così dell’abbraccio nelle esperienze di teatro nel riadattamento della Lisistrata, rivisitata, come colei che scioglie gli eserciti, da commedia misogina a dramma collettivo umano con la compartecipazione del pubblico, le donne dei tre quartieri a confronto con i tre clan in guerra. Negli spazi educativi si allentano le maglie della sofferenza e dell’odio per trovare spazi nuovi di pensiero anche dentro i conflitti.  Accade pure nella rivisitazione del Mito di Sisifo di Camus, dove, nel portare per le vie dei quartieri il masso dei dolori, si fa esperienza comune della sofferenza che, resa consapevole, viene lenita tanto da generare il Sisifo felice. Sempre di educazione, stavolta nelle scuole, ci parla Annabella Coiro, attivista e formatrice della nonviolenza che, insieme a docenti, genitori, alunni e alunne e personale tutto delle scuole in cui opera, si chiede se e come l’educazione può trasformare un paradigma dicotomico patriarcale violento in un paradigma collaborativo.  Grazie alla rete Edumana e a tutte le associazioni che la sostengono, l’educazione alla pace non è più solo trasmissione di nozioni attraverso eventi straordinari o vago richiamo ad atti gentili ma pratica quotidiana di didattica e relazioni nonviolente. Pace positiva, dunque, tutta da inventare perché quasi sempre i e le docenti non sono state formate in contesti con pratiche nonviolente ma in contesti prevaricativi, giudicanti, punitivi, competitivi.  Bisogna uscire fuori dalla competizione, presente anche nello sport, dove c’è chi vince e chi perde ed è quindi necessario un allenamento mirato alla vittoria. Bisogna allora imparare ad allenarsi per collaborare, giocare in modo cooperativo, dove nessuno perde e tutti si divertono (Ubuntu).  Per questo bisogna, innanzi tutto,  prendere consapevolezza della modalità competitiva e gerarchica della scuola dove bambini e bambine non possono decidere nemmeno lo spazio per il gioco. Si tratta di una vera rivoluzione nonviolenta, rispondendo a chi obietta che non esistono rivoluzioni non violente con la sperimentazione perché è per tentativi che si può fare quello che non è mai stato fatto.  Rompere la comfort zone, le barriere tra tutti gli attori del sistema scuola, trasformare il conflitto a partire dall’assunto che l’altro non ha nessun obbligo di fare quello che io ho pensato come giusto da fare.  La pedagogia della nonviolenza è apprendimento cooperativo anche nella didattica dei contenuti disciplinari per passare da insegnare la pace ad avere esperienza di pratiche di pace e nonviolenza in classe, soprattutto dove la scuola è l’unica chance per chi vive in contesti familiari e sociali violenti.  E allora decliniamola, questa pace, insieme a Giorgio Gallo, docente di Ricerca Operativa presso l’Università di Pisa, partendo dalla consapevolezza di vivere in tempo di guerra, nel fallimento della speranza di un’Europa fuori dalla guerra, dove sembra necessario ci siano più armi e più soldati. Il relatore ci invita a vivere questo tempo come occasione per capire, ad usare i termini – genocidio, per esempio –  per capire, a partire dalle definizioni. Genocidio è svuotare un territorio uccidendo un popolo.  Passa poi alla definizione di pace. Pace come fine di una guerra con una vittoria. Pace, come quella di Trump, per imporre la violenza del controllo. Pace, pax romana, deserto. E poi pace come shalom, pienezza di vita per tutti e tutte, animali e nemici compresi.  La pace è diversa da cultura a cultura, è la libertà di vivere secondo ciò a cui si dà valore. Bisogna allora ampliare l’orizzonte dei diritti, non considerando universali solo quelli declinati dal mondo occidentale. È lo spazio dell’omnicrazia, di cui parlava Capitini,  dove tutti gli attori sono capaci di partecipare al comando.  Questa pace perciò, lo shalom, non è realizzabile compiutamente nel tempo ma è un orizzonte verso cui tutti ci muoviamo. È il cammino. Pace come ponte di cui non è stato ancora costruito l’estremo opposto a quello in cui ci troviamo.  È la porta di Walter Benjamin, ebreo ateo materialista, da cui può entrare in qualunque momento il messia e il messia è chiunque di noi capace di mettersi dalla parte degli ultimi. È la pace di Toni Negri, quella delle moltitudini che nell’impero tolgono ai potenti il sostegno dal basso. A volte, al contrario dell’immobilismo di gattopardiana memoria, invece di cambiare tutto perché nulla cambi, si tratta di non cambiare nulla perché tutto cambi.  Esempio sono le prime comunità cristiane, assemblee di donne e uomini, che, nel cambiare, hanno trasformato la rappresentatività dal basso, al contrario delle assemblee greche, che erano di soli uomini.  Nel fare riferimento al conflitto israelo-palestinese, chiedendosi se si possano mettere sullo stesso piano aggressore e aggredito, bisogna riflettere sul fatto che non esistono solo gli stati ma anche le popolazioni ed è dalle loro esperienze dal basso, come quella dei combattenti per la pace, persone che si incontrano, che si deve imparare a risolvere in modo nonviolento i conflitti. Ancora il tempo del dibattito è ricco di spunti, critiche costruttive, domande aperte alla riflessione comunitaria, almeno fino all’ora del pranzo condiviso, spazio conviviale della mensa comune.  Il prossimo appuntamento è per l’anno nuovo, quando entro il festival “Palpitare di nessi” si svolgerà il convegno “Legalità e disobbedienza”.   Maria La Bianca
Il messaggio di Goffredo Fofi: resistere, studiare, fare rete, rompere le scatole
Un altro grande maestro ha lasciato oggi il suo corpo. Ma non vogliamo sentirlo lontano da noi o sentirci più poveri senza di lui, perché la sua forza e il suo esempio restano dentro di noi. Perciò riportiamo i ricordi che di lui hanno appena pubblicato i siti del Movimento Nonviolento e del Centro Sereno Regis di Torino Da poche ore è morto Goffredo Fofi, compagno e amico della nonviolenza. Lo piangiamo con i tanti che l’hanno conosciuto, amato o avversato. Goffredo è stato un intellettuale “rompi coglioni” (sua la definizione), anzi di questo necessario “dare fastidio”, faceva proprio una teoria. Aveva elaborato i quattro punti necessari per essere una minoranza attiva ed efficace. “Resistere. Studiare. Fare rete. Rompere le scatole”. Con le sue riviste, fondamentali per la storia dei movimenti critici italiani (Quaderni Piacentini, La Terra vista dalla Luna, Ombre rosse, Linea d’ombra, Lo straniero, Gli Asini), ha messo in atto questo suo programma, che era il programma della sua vita personale: ha studiato, ha fatto rete, ha resistito, e ha rotto le scatole al sistema… Goffredo Fofi, era un figlio spirituale di Aldo Capitini, uno dei giovani che si sono formati ai suoi insegnamenti (con Pietro Pinna, Daniele Lugli, Alberto Tomiolo, altri) e che poi per tutta la vita l’hanno considerato “maestro e compagno”. Fu proprio Aldo Capitini ad indirizzare l’allora diciottenne Goffredo da Danilo Dolci, in Sicilia, per impostare il lavoro sociologico per il riscatto dei più poveri e abbandonati. Fu lì che nacque la “rivoluzione nonviolenta” e per la prima volta in Italia si misero in pratica su larga scala le tecniche della nonviolenza, dallo sciopero collettivo contro la pesca di frodo, allo sciopero alla rovescia contro l’incuria dei beni pubblici. Ma le strade frequentate da Goffredo, qualche anno dopo, lo portarono ad incontrare un altro amico della nonviolenza, Alex Langer, dentro a quel movimento magmatico del ‘68 che era Lotta Continua. Anche in questo caso, maestro e discepolo si mescolarono in modo tale che non si distingueva più l’uno dall’altro, come Goffredo racconta nel suo ultimo libro dedicato all’amico Alex “Ciò che era giusto”. Ci sarà modo, nei prossimi mesi, di ricordare compiutamente il Fofi intellettuale (critico letterario e cinematografico in primis). Qui oggi lo celebriamo e lo ringraziamo come amico del Movimento Nonviolento: lo ricordiamo, felice, alla festa per i nostri 50 anni, a parlarci del “contesto culturale e politico nel quale è nato il Movimento Nonviolento” e a rimproverarci per non essere ancora fautori di una politica di disobbedienza civile. Era burbero nelle sue critiche, ma immediatamente disponibile ad ascoltare le ragioni altrui, e buono nel dimostrarti la sua amicizia. Ora anche Goffredo si è ricongiunto con Aldo, Pietro, Alex, Daniele, e noi rimaniamo senza Maestri. Movimento Nonviolento Verona, 11 luglio 2025 Per Goffredo Fofi, amico – Azione nonviolenta  In memoria di Goffredo Fofi venerdì 11 Luglio 2025 È improvvisamente morto a 88 anni il nostro amico Goffredo Fofi, mentre era ricoverato a Roma per un incidente che gli aveva procurato la rottura del femore a fine giugno. Abbiamo ricevuto la notizia questa mattina presto dagli amici del Centro Gobetti di Torino, poi confermata dagli amici della rivista Gli Asini di Bologna e Roma. Come nonviolenti e studiosi della pace, gli dobbiamo molto. La sua azione educativa e culturale, praticata fin dai tempi in cui a 19 anni dal paese natio, Gubbio, seguì Danilo Dolci a Partinico, e la sua continua volontà di indagine e approfondimento diretto – che lo portò ad accompagnare i “suoi” meridionali migranti a Torino per capire come davvero stessero e quali orizzonti la grande fabbrica e la città industriale offrivano loro – erano le modalità di espressione del suo spirito, appassionato delle vicende umane, di educazione e delle forme di comunicazione culturale libertaria e partecipata. Memorabile il suo lavoro sull’Immigrazione Meridionale a Torino del 1963, censurato dalla FIAT e per questo rifiutato da Einaudi (recuperato e pubblicato poi da Feltrinelli) con conseguente amarissima rottura della mitica redazione di via Biancamano a Torino – dove lavoravano Italo Calvino, Renato Panzieri, Norberto Bobbio, Leone Ginzburg, Giulio Bollati, Massimo Mila, Elio Vittorini, Luciano Foà, Franco Venturi, Delio Cantimori, Natalia Ginzburg, Cesare Cases – sancita dalla fuoriuscita di Renato Solmi per i dissensi, con Mila e Cantimori soprattutto, sull’opportunità e l’urgenza di pubblicare il testo-inchiesta di Fofi. Attraverso le sue riviste, dai Quaderni Rossi, a Linea d’Ombra, La terra vista dalla Luna, Lo straniero, Gli Asini, impegnate per l’analisi sociologica, la critica cinematografica e culturale, l’affermazione dei diritti, la giustizia e l’antimilitarismo, ha raggiunto e dato alimento e spazio di espressione a tutti i migliori giovani scrittori, attivisti, pensatori e artisti italiani degli ultimi 50 anni. Si è ispirato a maestri e amici come Aldo Capitini, Danilo Dolci, Alex Langer, Elsa Morante, Alberto Moravia, Norberto Bobbio, Bianca Guidetti Serra, Carla Gobetti, Benvenuto Revelli, Grazia Cherchi, Francesco Ciafaloni, diffondendo – come ha sottolineato il nostro Enrico Peyretti – una forma di “amicizia pensante”. È stata una gran fortuna e un onore inestimabile averlo conosciuto e aver collaborato con lui e con quell’area intera di persone che continueranno a mantenerlo come riferimento e catalizzatore di pensiero attivo. Lo ringraziamo della sua vita impegnata e dedicata agli altri partendo sempre dai più deboli e indifesi, senza ambizioni alcune di fama, né di profitto. Enzo Ferrara Goffredo Fofi, critico letterario e cinematografico è stato  condirettore della rivista Gli asini e direttore editoriale delle Edizioni dell’asino. Ha collaborato con quotidiani come Avvenire, Il Mattino, Il sole 24ore e con le riviste Panorama, Internazionale e Film TV. Ha pubblicato numerosi saggi da L’immigrazione meridionale a Torino (1964) a Capire il cinema (1977), ai più recenti Elogio della disobbedienza civile (2015), Il racconto onesto. 60 scrittori, 60 risposte (2015), Il cinema del no. Visioni anarchiche della vita e della società (2015), e Il Paese della sceneggiata (2017). È stato inoltre per vent’anni direttore della rivista Lo Straniero e negli anni’80 e ‘90 di Linea d’ombra e La terra vista dalla luna. Negli anni ’60 fu fra i fondatori e collaboratori dei Quaderni Piacentini e dei Quaderni rossi. Meridionalista, fautore di un modello culturale costantemente impegnato nel quotidiano e nel sociale, Fofi fu il più attivo catalizzatore in Italia di reti alternative alle pratiche del consumismo e dell’omologazione. Forse anche per questo la sua rubrica di libri su Internazionale è stata una delle più seguite in assoluto. Nei mesi scorsi ha destato scalpore la sua stroncatura del film Dunkirk, di Christopher Nolan considerato da molti un capolavoro moderno e svelato invece come un prodotto pessimo, perché addomestica il tema della guerra usando un approccio che si pretende freddo e disincantato – come quello di Stanley Kubrick, regista che sapeva trattare la guerra con distacco e senza cedimenti stilistici, ma per amplificarne la disumanità – e si rivela invece privo di emozioni e umanità, un formalismo fatto di tecnica e citazioni astratte. La maggiore odiosità di questo genere di film sta – secondo Fofi – nel loro “cosciente o incosciente progetto di abituare i giovani spettatori a una visione della guerra imbecille e retorica e disumana”. Enzo e Danila del Centro Studi Sereno Regis In memoria di Goffredo Fofi – Centro Studi Sereno Regis Redazione Italia
Mozione dei docenti RSU Liceo “Danilo Dolci” di Palermo sulla drammatica situazione di Gaza
Riceviamo e pubblichiamo la mozione approvata all’unanimità dal Collegio dei docenti del Liceo “Danilo Dolci” di Palermo, con l’auspicio che tante altre scuole prendano la parola contro «il crescente rischio di normalizzazione di atteggiamenti discriminatori, razzisti o indifferenti di fronte alla sofferenza umana», sensibilizzando le comunità entro cui operano. Il Collegio Docenti del Liceo “Danilo Dolci” di Palermo, riunitosi in data 13 giugno 2025, considerato che:  * la tutela dei diritti umani è un principio universale sancito dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (1948) e da numerose convenzioni internazionali ratificate dall’Italia, tra cui la Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia e dell’Adolescenza (1989);  * il contesto internazionale attuale e, in particolare, quanto sta avvenendo nella Striscia di Gaza, presenta una drammatica emergenza umanitaria che coinvolge migliaia di civili, tra cui un numero elevatissimo di bambini e bambine, vittime dirette e indirette della violenza;  * l’art. 11 della Costituzione Italiana afferma il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali;  * l’educazione alla pace, alla solidarietà e al rispetto reciproco è parte integrante delle finalità della scuola italiana;  * il crescente rischio di normalizzazione di atteggiamenti discriminatori, razzisti o indifferenti di fronte alla sofferenza umana impone un chiaro posizionamento etico e pedagogico delle istituzioni educative. Delibera quanto segue:  Il Collegio dei Docenti del Liceo “Danilo Dolci” di Palermo:  * esprime ferma condanna verso ogni forma di guerra, violenza indiscriminata contro i civili e violazione dei diritti fondamentali;  * ribadisce il ripudio della guerra e di ogni forma di razzismo, apartheid o discriminazione etnica, religiosa o culturale;  * sostiene il diritto dei bambini e delle bambine, in ogni parte del mondo, a vivere in sicurezza, salute, istruzione e dignità, come previsto dalla Convenzione ONU sui Diritti dell’Infanzia;  * si impegna a promuovere, nell’ambito delle attività scolastiche ed educative, iniziative, percorsi didattici, momenti di riflessione, manifestazioni o eventi che contribuiscano a formare una coscienza civica, critica e solidale, nel pieno rispetto del pluralismo e della missione educativa della scuola,  * invita tutte le componenti della comunità scolastica a partecipare attivamente e responsabilmente a tali iniziative, promuovendo il dialogo, la pace e la cooperazione tra i popoli.  Come Istituzione scolastica impegnata da sempre nella lotta contro ogni tipo di razzismo, discriminazione e segregazione e ispirata, com’è doveroso che sia, ad educare le giovani generazioni ai valori di rispetto, solidarietà, giustizia, spirito critico, propri della nostra Costituzione, con particolare riferimento alla crisi umanitaria in atto nella Striscia di Gaza, esprimiamo lo sdegno per il massacro della popolazione palestinese, chiediamo la fine dei bombardamenti su Gaza, chiediamo che cessino gli attacchi condotti dall’esercito israeliano contro scuole, università, moschee, ospedali e altri edifici civili che, così come documentato da una Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, costituiscono un «attacco sistematico contro le infrastrutture essenziali della vita civile».  Chiediamo che cessi il blocco imposto dalle autorità israeliane che impedisce l’ingresso di aiuti e beni essenziali alla popolazione della striscia di Gaza, in conseguenza del quale il Programma Alimentare Mondiale delle Nazioni Unite e le cucine comunitarie in tutta la Striscia hanno esaurito il cibo e sono stati costretti a interrompere le operazioni. Tale blocco sta determinando, secondo quanto dichiarato da Ahmad Alhendawi, Direttore regionale per Medio Oriente, Nord Africa ed Europa dell’Est di Save the Children, «una catastrofe umanitaria deliberata», con i bambini che «vengono affamati di proposito, sotto l’assedio totale delle autorità israeliane».  La fame come arma di guerra è severamente vietata dal diritto internazionale ed è codificata come crimine di guerra, così come la negazione dell’assistenza umanitaria è una violazione del diritto internazionale umanitario.  Noi, come dichiarato da Ahmad Alhendawi, «non possiamo stare a guardare mentre un’intera popolazione viene affamata sotto gli occhi di tutti».