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Sul piatto della Shangai Cooperation Organization, innanzitutto, la sicurezza collettiva
Si è svolto ieri a Tianjin, non molto lontano da Pechino, il vertice dei ministri degli Esteri dei paesi membri della Shangai Cooperation Organization (SCO), una delle organizzazioni ‘regionali’ che ha assunto ormai un ruolo centrale negli equilibri del mondo multipolare. Fosse anche solo per il fatto che, pur con […] L'articolo Sul piatto della Shangai Cooperation Organization, innanzitutto, la sicurezza collettiva su Contropiano.
Un viaggio a Balau Jati: dove antiche mani intrecciano storie nel deserto
A volte i viaggi più profondi iniziano con i momenti più semplici. Il mio è iniziato durante una tranquilla passeggiata serale al Khan Market di Nuova Delhi con il mio amico Saransh, il tipo di vagabondaggio senza meta che chi vive in città conosce bene. Ma da qualche parte tra il familiare caos dei venditori e la tiepida aria notturna di Delhi, abbiamo preso una decisione che avrebbe cambiato qualcosa di fondamentale nel mio modo di vedere il mondo. “Andiamo a Jodhpur per incontrare il signor Jairoopa Rao?” Saransh disse, quasi distrattamente. Mi ci buttai subito. Perché? Pura curiosità. Come lavorano queste persone dietro le quinte? Che tipo di vita conducono in quella zona deserta? Queste domande mi ronzavano in testa mentre prenotavamo i biglietti aerei lì sul posto, impegnandoci a visitare i tessitori di un villaggio a 80 chilometri da Jodhpur, dove le temperature raggiungono i 45 °C e l’antica arte sopravvive contro ogni previsione. La storia di come siamo venuti a conoscenza di questo posto parla della magia del viaggio autentico. Durante il COVID-19, Saransh e la sua compagna Cici avevano guidato da Dharamshala al Tamil Nadu con una sola missione: trovare persone che potessero ispirare in tempi difficili. Quando chiese a un perfetto sconosciuto dove potesse trovare questi artigiani, quell’incontro casuale lo portò a Jairoopa Rao. A volte le scoperte migliori accadono quando si è semplicemente aperti all’inaspettato. L’aeroporto di Jodhpur funge anche da base dell’aeronautica militare indiana, e scendere dall’aereo alle 14:00 è stato come entrare in un altro pianeta. Il caldo secco ha annunciato immediatamente che eravamo entrati in territorio desertico, di quelli che ti fanno capire la geografia in modi che le mappe non potrebbero mai fare. Le due ore di taxi per incontrare Jairoopa Rao mi hanno dato il tempo di riflettere sulle mie domande. Cosa avremmo trovato? Come saremmo stati accolti? Il paesaggio che scorreva oltre i finestrini offriva indizi: sabbia infinita, vegetazione rada e una vastità che ti fa sentire insignificante e profondamente vivo. Quando ho visto Jairoopa Rao per la prima volta, ho capito che incarnava tutto ciò che non mi aspettavo: folti baffi, il tradizionale dhoti-kurta e un sorriso che faceva sentire subito a proprio agio anche uno sconosciuto. Ma è stato quello che è successo dopo a cogliermi di sorpresa. Appena scesi dall’auto, bambini sono comparsi da ogni dove. Non solo qualche bambino curioso, ma un’intera schiera di volti eccitati che raramente avevano visto un’auto da vicino. C’erano persone emarginate economicamente, spesso emarginate dalla società dominante, eppure dotate di competenze che avrebbero umiliato qualsiasi artigiano moderno. L’ambiente sembrava mitico: sabbia che si estendeva ovunque, pavoni che si pavoneggiavano in paesaggi ricchi di flora e fauna perfettamente adattate a condizioni estreme. Per Saransh, era familiare. Per me, era come entrare in un modo diverso di esistere. Mentre il sole iniziava a tramontare, i bambini mi hanno portato a fare un giro nel villaggio, che è diventato una di quelle esperienze che si portano dentro per sempre. Mi hanno tempestato di domande, mi hanno preso in giro con delicatezza (cosa che ho adorato) e mi hanno mostrato una cosa rara: i bambini che vivono appieno il momento. Quando li ho sfidati a correre verso un albero lontano, sono esplosi di gioia. Questi bambini non erano incollati allo schermo: stavano creando il loro divertimento, le loro connessioni. Questi bambini correvano, saltavano, litigavano, giocavano insieme, assaporando appieno la vita senza la mediazione degli schermi. Quando li ho sfidati a correre verso un albero lontano e tornare indietro, sono esplosi di gioia ed energia. Erano intelligenti, persino brillanti, ma non avevano bisogno di telefoni. Avevano qualcosa di più raro: una presenza totale nelle loro vite. Guardarli mi ha ricordato quanto abbiamo perso nel nostro mondo digitale. Questi ragazzi non erano incollati agli schermi o a intrattenimento artificiale. Si creavano il loro divertimento, i loro giochi, le loro connessioni. Erano, semplicemente, pieni di vita. Dopo che Saransh ebbe finito il suo pisolino e dopo aver condiviso il tè – quel gesto universale di ospitalità – Jairoopa Rao e suo fratello ci condussero al loro laboratorio. Ciò a cui assistetti mi rese profondamente umile. Ogni tappeto, ogni durrie, è creato interamente a mano su telai tradizionali. Nessuna macchina, nessuna scorciatoia, solo mani umane guidate da generazioni di sapere. I costi di manodopera sono inevitabilmente elevati perché ogni pezzo rappresenta ore, giorni, settimane di lavoro umano individuale. Quando Jairoopa ci ha detto che ci vogliono dai 7 ai 10 giorni a seconda della metratura, ho iniziato a capire perché il loro lavoro incute rispetto. Una donna della loro famiglia ha mostrato il procedimento, muovendo le mani con una sicurezza che tradiva anni di esperienza nella padronanza di quest’arte. Vedere quei motivi intricati emergere filo dopo filo è stato ipnotico: tecniche antiche che creano un’arte destinata a sopravvivere a tutti noi. La cena mi ha fatto conoscere una cucina che non avrei mai immaginato. Sangri di verdure, fatto con fagioli secchi dell’albero khejri, originario delle regioni desertiche del Rajasthan, abbinato al bajre ki roti (focaccia di miglio perlato). Jairoopa mi ha spiegato come questi cibi non fossero solo preferenze culturali, ma saggezza di sopravvivenza: il bajre ki roti aiuta la digestione e rinfresca il corpo, adattandosi perfettamente al caldo estremo. L’albero khejri, ho imparato, è come un’ancora di salvezza in questo ambiente ostile, fornendo sia nutrimento che medicine. Ogni aspetto della loro dieta rifletteva una profonda comprensione di come prosperare dove altri potevano solo sopravvivere. Eravamo profondamente grati per questo pasto, non solo per i sapori ma anche per la generosità nel condividere con degli sconosciuti le loro risorse, sapientemente adattate. Quella che seguì fu una di quelle serate magiche che accadono solo quando si è completamente aperti all’esperienza. Sotto un cielo stellato più luminoso di quanto qualsiasi abitante di città possa mai vedere, ci ritrovammo a partecipare a un improvvisato incontro musicale. Saransh suonava il flauto, Jairoopa Rao l’armonium e io, pur non conoscendo la musica classica indiana, provai a recitare i raga. I bambini si unirono a noi, canticchiando e suonando strumenti, creando questa meravigliosa cacofonia di connessioni che trascendeva qualsiasi barriera linguistica. La musica divenne il nostro linguaggio universale, colmando qualsiasi lacuna esistesse tra i nostri mondi diversi. Era spontanea, imperfetta e assolutamente meravigliosa. Dormivamo sui khatiya (charpai in alcune regioni), letti tradizionali in corda, veri e propri capolavori di design e praticità. La struttura in legno con corde in fibra naturale offre una ventilazione perfetta per i climi caldi, una soluzione semplice che è rimasta invariata per generazioni perché funziona. Ma dormire sotto il cielo aperto del deserto portava con sé le sue sfide. La notte era ventosa, e la sabbia ci entrava negli occhi e in bocca, mentre i cani abbaiavano in lontananza. Ci siamo svegliati verso le 5 del mattino con suoni e sensazioni completamente estranei alla vita urbana. La routine mattutina prevedeva una passeggiata fino ai bagni del villaggio, costruiti a 10-15 metri dalle case, senza tubature, ma solo con secchi d’acqua e il tradizionale metodo di pulizia delle mani che, onestamente, ha una sua logica e pulizia se eseguito correttamente. La nostra passeggiata mattutina con Jairoopa Rao ha rivelato la dura realtà dietro la bellezza. Mentre il sole dipingeva il cielo di splendide tonalità arancio-rossastre e il vento fresco offriva sollievo dal caldo di ieri, Jairoopa ha condiviso storie che mi hanno sconvolto nel profondo. Mancanza di acqua pulita e servizi igienici. I servizi moderni di base sono ancora assenti dopo 75 anni di indipendenza. Ci ha mostrato un ritaglio di rivista degli anni ’90 e ci ha spiegato che anche adesso, nel 2025, il 90% dei loro guadagni viene destinato all’acqua potabile. Trentacinque anni dopo, nulla è cambiato. I funzionari governativi vengono qui per scattare foto con questi talentuosi artigiani, ma le soluzioni concrete non si materializzano mai. Ci sono persone che preservano antichi mestieri, creano bellezza con le proprie mani, e non hanno accesso a qualcosa di così fondamentale come l’acqua pulita. Questa conversazione ha cambiato qualcosa nel modo in cui percepivo la loro realtà quotidiana. Non si trattava solo di sopravvivere alle condizioni del deserto, ma di una negligenza sistematica che li costringe a spendere quasi tutto ciò che guadagnano per i bisogni umani fondamentali. Alle 7 del mattino, abbiamo fatto visita a un parente di Jairoopa che ci ha subito offerto tè e afeem (oppio), un rituale tradizionale che non mi aspettavo. L’anziano ci ha spiegato che era la loro usanza per dare il benvenuto ai visitatori. Saransh rifiutò, ma la mia curiosità ebbe la meglio. Volevo capire la loro realtà, e per queste persone che lavorano sotto il sole cocente, l’afeem fornisce l’energia necessaria per continuare a lavorare senza sfinimento. Non è un’attività ricreativa, è un adattamento funzionale a condizioni di lavoro difficili. Abbiamo scalato dune di sabbia per godere di una vista panoramica della zona, avvistando alberi khejri e pavoni lungo il percorso. Da quel punto di osservazione, si potevano ammirare sia l’isolamento che la bellezza del loro mondo: un deserto infinito che si estendeva in tutte le direzioni, il loro villaggio una piccola oasi di persistenza umana. Dopo una colazione a base delle stesse deliziose specialità locali – bajre ki roti e prodotti di khejri tree con latticello salato – Jairoopa ci ha mostrato la sua collezione di tappeti. La complessità, la tessitura dettagliata, la precisione dei dettagli mi hanno completamente sorpreso. Alla fine ho comprato un tappeto in misto lana e juta, mentre Saransh ne ha comprati due e una borsa in pelle. Ma abbiamo anche chiesto a Jairoopa di farci dei campioni, un modo per creare un legame e un supporto duraturi. L’unica persona in famiglia che sapeva usare uno smartphone era Mahendra, nipote di Jairoopa. Gli abbiamo chiesto di fotografare i tappeti e di inviarci i dettagli, unendo la loro arte tradizionale alla comunicazione moderna. Anche ora, mentre scrivo questo blog da Shillong, Mahendra continua a inviare foto: un legame che mantiene viva l’esperienza. La nostra ultima sessione fotografica con Jairoopa Rao e tutti i bambini è stata come catturare qualcosa di prezioso: volti e sorrisi che avevano già cambiato il mio modo di vedere il mondo. Poi siamo partiti per l’aeroporto, portando con noi molto più di tappeti e ricordi. Questo viaggio mi ha insegnato la resilienza, l’autenticità e le complesse realtà che si celano dietro la bellezza dell’artigianato. Mi ha mostrato bambini che hanno imparato l’arte di essere pienamente presenti, famiglie che si sono adattate con ingegno ad ambienti difficili e artigiani le cui capacità meritano riconoscimento e un giusto compenso. Ma ha anche messo in luce scomode verità sulla disuguaglianza, la negligenza e la facilità con cui trascuriamo le persone che creano bellezza mentre lottano per i beni di prima necessità. La decisione spontanea presa al Khan Market ha portato a qualcosa di molto più profondo del semplice turismo. È diventata un promemoria del fatto che alcune delle esperienze più profonde della vita accadono quando seguiamo la curiosità ovunque ci porti, quando siamo disposti a dormire su letti di corda sotto le stelle del deserto e quando ci apriamo a vite completamente diverse dalla nostra. A volte i viaggi migliori non riguardano la destinazione, ma le persone che incontri e il modo in cui cambiano il modo in cui vedi tutto il resto. Fino ad allora, Khamma Ghani, Kumno e Namaste. Ashutosh Kumar e Saransh Sharma   Pressenza IPA
[Da Roma a Bangkok] Il Complesso Disinformativo Industriale Statunitense in Asia
Dalla guerra fredda a oggi, quello che possiamo chiamare il complesso disinformativo statunitense, ossia l'operato di agenzie che lavorano per il governo Usa, quali Usaid, cioè l'agenzia responsabile dell’amministrazione degli aiuti allo sviluppo, Ned, National Endowment for Democracy, e media quali Radio Free Asia, Radio Free, Voice of America... ha lavorato per influenzare i addirittura determinare la politica di molti Stati nel mondo. Qui vi proponiamo una carrallata di quello che è successo in alcuni Stati dell'Asia fino a quando, nel gennaio scorso, il neopresidente Donald Trump e il suo tagliagole Musk hanno deciso di togliere i fondi a tutte queste agenzie. Cosa ne sappiamo noi in Occidente? Le notizie che ci arrivano sull'Asia sono credibili o sono costruite con i dollari americani? Quando ci dicono che il comunismo è finito e Cina, Laos e Vietnam non sono comunisti ci dobbiamo credere o è propaganda Usa? La nostra credulità come si collega all'"orientalismo" (E. Said) che sempre ha forgiato la lettura dell'Occidente sull'Asia?
Bill Gates donerà 200 miliardi all’Africa fino al 2045. Nuova filantropia o nuove violazioni dei diritti umani?
Un annuncio strabiliante quello fatto da Bill Gates ad Addis Abeba, capitale dell’Etiopia, e riportato dalla BBC. Parlando all’Unione Africana il fondatore di Microsoft e patron della Bill&Melinda Gates Foundation ha comunicato di voler donare da qui al 2045 circa il 99% del suo patrimonio, stimabile intorno ai 200 miliardi di dollari. I tre figli di Bill Gates, Jennifer (28 anni), Rory (25 anni) e Phoebe (22 anni), riceveranno dunque il restante 1% del patrimonio del padre. Una volta effettuata, la donazione di Gates sarebbe una delle più grandi mai fatte nella storia. Già il celebre investitore Warren Buffett ha promesso di donare dopo la morte il 99,5% del proprio patrimonio, stimato in 160 miliardi di dollari. La differenza potrebbe però farla l’inflazione e le sue oscillazioni da qui a 20 anni, ovvero quando terminerà l’erogazione annunciata da Gates. La scelta della data non è casuale, essendo prevista per quell’anno la definitiva chiusura della Bill & Melinda Gates Foundation, organizzazione filantropica che veicolerà i finanziamenti verso il continente africano. Un’iniziativa pensata per “poter liberare il potenziale umano dell’Africa”, stando a quello sostenuto dal tycoon miliardario. In questo modo, secondo Bill Gates, “ogni Paese africano dovrebbe essere sulla strada verso la prosperità”. “La filantropia – ha poi spiegato il miliardario americano – non deve durare per sempre. Deve fare il massimo nel minor tempo possibile, soprattutto quando ci sono vite umane in gioco”. “Di recente mi sono impegnato a devolvere il mio patrimonio nei prossimi 20 anni. La maggior parte di quei fondi sarà spesa per aiutarvi ad affrontare le sfide qui in Africa” – ha dichiarato Bill Gates nella sede centrale dell’Unione Africana, provocando l’entusiasmo dei presenti. I settori su cui si concentrerà l’investimento epocale saranno principalmente sanità e istruzione, senza dimenticare dossier strettamente connessi, come agricoltura e cambiamento climatico. Tre gli obiettivi principali perseguiti dalla Bill & Melinda Gates Foundation, come spiega la BBC: “porre fine alle morti prevenibili di madri e bambini, garantire che la prossima generazione cresca senza dover soffrire di malattie infettive mortali e far uscire milioni di persone dalla povertà”. Ma davvero è così entusiasmante questa dichiarazione di Bill Gates? Davvero siamo così ingenui da poterla definire filantropia globale? Davvero crediamo che la “generosa donazione” di Gates sia una innocua donazione senza finalità politico-economiche? Bill Gates,con la sua Fondazione influenza l’agenda sanitaria globale e non nega di avere conflitti d’interessi, è leader di programmi di vaccinazione di massa, agendo come stakeholder ed opinion maker nei media. La verità è che con il potere dei soldi e il filantrocapitalismo (termine esatto), fin dagli anni Novanta Bill Gates è fautore di una ricolonizzazione non solo dell’immaginario ma dell’economia globale. Una ricolonizzazione che è stata ben descritta dalla filosofa, economista, fisica ed ecofemminista indiana Vandana Shiva e ribadita approfonditamente nel libro della ecogiornalista Nicoletta Dentico nel suo libro “Ricchi e buoni, le trame oscure del filantrocapitalismo”. Gates negli anni ha incentivato l’industrializzazione dell’agricoltura su scala globale attraverso monocolture intensive e utilizzo di pesticidi e OGM; ha monopolizzato l’agenda sanitaria globale rendendo l’OMS completamente dipendente dai suoi finanziamenti spesso incentivando soluzionismi tecnocratici (vaccinazioni di massa) a discapito dei sistemi sanitari territoriali, dei sistemi di cura olistici e della prevenzione primaria; ha avuto la capacità di rigenerare la sua immagine di tycoon digitale della Silicon Valley in una “icona green” che propone il fatidico “nucleare di quarta generazione” e la geoingegneria solare come soluzionismi tecnici al cambiamento climatico; ed ha monopolizzato progetti educativi. Ad ora il bilancio delle attività della Gates Foundation non è stata così filantropica come si pensava a partire dalla privatizzazione delle istanze più alte del welfare globale, dal fallimento del Progetto Agra in ambito agricolo sempre in Africa e la devastante “Green Revolution” in India – sponsorizzata insieme alla Fondazione Rockfeller – che indusse al suicidio più di 300.000 contadini indiani in più di 30 anni di attività. Per non parlare della devastante epidemia di paralisi flaccida acuta non-polio (NPAFP) che ha paralizzato 490.000 bambini tra il 2000 e il 2017 in India; il caso delle reazioni avverse su circa 14.000 ragazze trattate con iniezioni di Gardasil della casa farmaceutica Merck nel Distretto di Khammam, nello Stato indiano del Telangana; le proteste popolari del 2021 con l’hashtag #ArrestBillGates in India in critica alle attività dell’Ong statunitense PATH (Program for Appropriate Technology in Health)  – finanziata dalla Gates Foundation – che ha somministrato vaccini antipolio per studi clinici non autorizzati, usando i bambini come cavie e quindi violando qualsiasi norma di codice etico; per non dimenticare il finanziamento della Gates Foundation, nel 2010, dello studio di fase 3 del vaccino anti-malarico sperimentale di Glaxo Smith Kline contro la malaria, che portò alla morte di 151 bambini africani e causando gravi effetti avversi, tra cui paralisi e convulsioni febbrili a 1.048 dei 5.949 bambini. > Bill Gates tra vaccinazioni e violazione dei diritti umani nel Sud del Mondo Innumerevoli altri casi sarebbero da elencare, ma questi bastano per poter affermare che Bill Gates non è stato, non è e non può essere la soluzione per l’Africa, ma al massimo è tra le varie ed innumerevoli cause del suo immobilismo in quanto agente del neocolonialismo contemporaneo occidentale nelle sue più svariate forme. Bill Gates e la sua Fondazione sono sempre stati al centro di violazioni di diritti umani legati alla somministrazione di vaccinazioni, all’industrializzazione dell’agricoltura e al settore agro-chimico-alimentare, conducendo politiche e prassi colonialiste e razziste in giro per il mondo. Il filantrocapitalismo di Gates, aprendo nuovi mercati alle grandi corporations, oltre al rischio di conflitti d’interessi, è un pericolo per i diritti umani e il diritto alla salute sacrificati sull’altare del profitto. Bill Gates, a differenza di come lo fa apparire il suo brand, è un nemico del terzomondismo e delle sue istanze.   Di seguito alcuni approfondimenti che documentano seriamente i crimini della Gates Foundation e del suo filantrocapitalismo: Philanthropic Power and Development – Who shapes the agenda? The Gates Foundation, global health and domination: a republican critique of transnational philanthropy Developing an agenda for the decolonization of global health Gated Development – Is the Gates Foundation always a force for good? Philanthrocapitalism in global health and nutrition: analysis and implications Colonialist Invasive Surgery within the colony; Global Medical Imperialism within the developing world and in Pakistan during COVID Rapporto “Gates to a Global Empire” – Gates verso un Impero Globale “Gates to a Global Empire” Gates verso un Impero Globale – sintesi del rapporto Gates Ag One: The Recolonisation Of Agriculture Bill Gates & His Fake Solutions to Climate Change Bill Gates e le sue false soluzioni ai cambiamenti climatici La spinta delle Lobby verso il cibo sintetico – False soluzioni che mettono a rischio la salute umana e del pianeta Niente di nuovo nei nuovi Ogm. Le multinazionali minacciano la nostra sovranità alimentare Filantropia e sviluppo sostenibile, luci e ombre L’impero filantrocapitalista di Bill Gates Le colonie del nostro tempo e il filantrocapitalismo Da Rockefeller a Gates, l’anima oscura del filantrocapitalismo Bill Gates si mette a fare il contadino. Ora è il più grande proprietario di terreni agricoli d’America   Riferimenti: Nicoletta Dentico, Ricchi e buoni, le trame oscure del filantrocapitalismo, Emi, 2020 JACOB LEVICH, The Gates Foundation, Ebola, and Global Health Imperialism, September 2015   Lorenzo Poli
L’India va allo sciopero generale il 9 luglio
Lo scorso 20 maggio si è svolto in India uno sciopero nazionale contro le riforme del governo Modi e per il rafforzamento delle misure di protezione sociale in tema di lavoro, promosso dalla piattaforma sindacale Central Trade Union (CTU) – che unisce in un unico cartello diverse sigle (BMS, INTUC, AITUC, CITU, AIUTUC tra tutte) – che ha rilanciato come prossima data della mobilitazione il 9 luglio. Lo sciopero (organizzato ogni anno dall’emanazione delle riforme in questione ma quest’anno apparentemente più partecipato) è stato l’occasione per migliaia di lavoratrici e lavoratori di scendere in piazza nelle principali città e nei maggiori centri industriali del Paese per chiedere il ritiro dei quattro codici del lavoro emanati tra il 2019 e il 2020 dal governo nazionalista di estrema destra guidato dal Primo Ministro Modi (Code on Wages, Industrial Relations Code, Occupational Safety, Health and Working Conditions Code e Social Security Code), giustamente definiti dai sindacati “pro-corporate”, cioè che favoriscono le élite imprenditoriali vicine al BJP a scapito dei lavoratori. Sinteticamente queste riforme, sbandierate da Modi come atto di modernizzazione necessaria per attrarre investimenti e creare posti di lavoro, prevedono la flessibilizzazione dei licenziamenti, l’aumento dell’orario lavorativo, la riduzione delle tutele sulla sicurezza e la limitazione del diritto di sciopero. Per fare solo alcuni esempi più specifici: l’Industrial Relations Code alza da cento a trecento il numero di dipendenti oltre il quale un’azienda deve chiedere permessi governativi per licenziamenti o chiusure, aumentando la precarietà e facilitando i licenziamenti, con conseguenze terribili in termini di povertà in un Paese, com’è l’India, con un debole sistema di protezione sociale. L’Occupational Safety, Health and Working Conditions Code, invece, alza a dodici le ore lavorative giornaliere (quattro di straordinario), che in un Paese con un tasso di sindacalizzazione minimo (solo il 6% di chi lavora è oggi sindacalizzato) e con solo un ispettore del lavoro ogni 10.000 lavoratori aumenta notevolmente il lavoro non retribuito. L’Industrial Relations Code a sua volta introduce requisiti più stringenti per organizzare scioperi (come preavvisi di 14 giorni e maggioranze del 75% dei lavoratori per proclamarli), limitando il numero di sindacati riconosciuti per azienda e centralizzando il potere nelle mani di organizzazioni vicine alle imprese (gli effetti disastrosi di questo codice sono stati evidenti nel 2022, quando un ampio movimento di lavoratori portuali fu represso brutalmente proprio perché non aderiva ai requisiti di legalità dell’Industrial Relations Code). Il Code on Wages, che a parole proclama l’introduzione di un salario minimo nazionale, permette ai singoli Stati di fissare soglie più basse, creando disparità regionali e innescando una corsa al ribasso dei salari per attrarre più investimenti delle aziende (si consideri che il salario minimo medio in India è di circa 178 rupie/giorno (2,15€), insufficiente per sopravvivere nelle città metropolitane). Infine, il Social Security Code esclude i lavoratori informali (circa il 93% della forza lavoro) da schemi universali, legando l’accesso a contributi individuali o ad adesioni volontarie delle aziende e lasciando senza copertura milioni di braccianti agricoli, lavoratori domestici e rider, categorie già molto esposte (oltre al fatto che l’imperante informatizzazione delle domande di welfare di fatto esclude milioni di lavoratrici e lavoratori residenti in aree rurali dall’ottenimento dei benefici della protezione sociale). Tutto ciò si inserisce in un’agenda economica fortemente liberista e centralizzante (i quattro codici trasferiscono competenze dagli stati al governo centrale, riducendo la flessibilità degli stati nel legiferare su temi lavorativi) promossa dal governo a guida BJP dal 2014 in poi, la quale in nome della “modernizzazione” e dello “sviluppo” ha spinto per riforme strutturali che attraggano investimenti stranieri e stimolino la crescita economica riducendo la già debole protezione sociale sul lavoro (si pensi solo che l’India è passata dalla 142ª posizione nel 2014 alla 63ª nel 2020 nella classifica sull’”Ease of Doing Business”, cioè la facilità di fare business, della Banca Mondiale). Nonostante gli altisonanti proclami di creazione di posti di lavoro – in India, dove la domanda di lavoro supera di gran lunga l’offerta (l’età media è 28 anni), la difficoltà a trovare lavoro è un problema sociale di fondamentale importanza – i dati mostrano che gran parte dei nuovi incarichi sono precari o a bassa produttività e la realtà è quella di un Paese sempre più diseguale. Tuttavia, le massicce proteste contro le leggi agricole del 2020 (poi ritirate) già hanno dimostrato la capacità di mobilitazione della società civile e questo è anche l’auspicio per il prossimo 9 luglio. Perché solo l’organizzazione di un fronte unito di massa e la lotta pagano. Redazione Italia
In caso di escalation: appunti sul conflitto indo-pakistano tra politica interna ed estera
L’escalation diplomatico-militare tra India e Pakistan mostra alcuni elementi di comprensione degli attriti tra Stati nazione nella contemporaneità segnata da continue avvisaglie di guerra convenzionale. Escalation progressiva, quasi lineare, partita dall’attacco terroristico nella località turistica di Pahalgam, nel Kashmir controllato dall’India, dove un commando terroristico ha ucciso 26 persone, tutte hindu a eccezione di uno stalliere kashmiro, e culminati con attacchi oltre-confine degli eserciti regolari indiano e pakistano. Nel mezzo una rapida escalation diplomatica tra i due governi che hanno visto deteriorare significativamente i rapporti, mettendo già in atto attriti premonitori del conflitto militare tra le forze convenzionali. L’Operazione Sindoor è un punto di ristrutturazione del rapporto tra Stati nazione, delle logiche di deterrenza e polarizzazione politico-sociale, nelle dinamiche regionali e globali che sostengono le parti. LA QUESTIONE DEL KASHMIR «Il Kashmir occupato dal Pakistan è il gioiello della corona dell’India e il Jammu e Kashmir è incompleto senza di esso». Così il Ministro della Difesa indiano Rajnath Singh ha definito la regione divisa tra India, Pakistan e Cina, in un suo comizio del gennaio di quest’anno. La definizione è ricorsiva nelle parole dei leader del partito della destra hindu-nazionalista Bharatiya Janata Party, spesso usata per ricalcare come il compimento del divenire nazione dell’India sia ancora incompiuto. Nazionalisti islamisti in Pakistan e destra hindu-nazionalista in India, vedono nel Kashmir l’oggetto da incorporare nella propria sfera di sovranità. A contornare le rispettive pretese fattori storico-culturali, uso selettivo della storiografia e colonialismo interno; tutti elementi essenziali per la polarizzazione governativa necessaria a creare enfasi nella militarizzazione della regione irredenta e legittimar le istanze di guerra convenzionale. Tra i fuochi incrociati del Pakistan nato come nazione islamista e l’India sempre meno secolare, cadono nel silenzio le istanze di autodeterminazione della regione montuosa. Negazione dell’autonomia che si è costruita gradualmente, in un esercizio di storia orale che si fa storiografia, di tradizioni artefatte per legittimare con la religione il diritto di essere maggioranza etnica sul territorio. Ne è un esempio il pellegrinaggio hindu Amaranath Yatra, le cui origini si rinvengono a metà Ottocento, quasi in contemporanea all’acquisto della regione da parte della famiglia hindu di Dogra, siglata nei trattati di Amritsar del 1846 con cui il Maharaja Gulab Singh ottenne popolazione, terre e bestiame del Kashmir per soli sette milioni e mezzo di rupie. Il pellegrinaggio è per certi versi esemplificativo di come i tentativi di nazionalizzazione della regione passino per traiettorie culturali, religiose ed economiche; tra l’attaccamento mitico costruito con le tradizioni, e la legittimazione del colonialismo interno in termini di sviluppo economico. Far partire la ricognizione della nazionalizzazione delle masse prima della concessione dell’indipendenza, o partizione fra India e Pakistan nel 1947, è necessario a comprendere come quella che si vuole come una questione a due tra gli Stati dell’ex-Raj non tiene conto del terzo soggetto essenziale: il Kashmir, schiacciato tra i fuochi di guerra tra e negli Stati-nazione, impossibilitato a far sentire la voce della propria popolazione. > Guerra sul Kashmir che svetta d’intensità nel più ampio contesto della > partizione, dramma umanitario-sociale, con episodi di violenza > inter-comunitaria diffusi in tutto il subcontinente. Violenze acute nella > regione, dove la tensione comunitarista sedimentata esplode nell’eccidio di > oltre 200mila persone nel mezzo di una guerriglia diffusa tra fazioni > islamiste supportate dal governo pakistano e destra hindu-nazionalista. Il Maharaja Hari Singh, allora a capo del principato che doveva decidere in quale Stato entrare, chiese supporto militare al governo di Jawaharlal Nehru. L’intervento militare terminato nel 1948 segna l’accesso definitivo della regione orientale del Kashmir nella federazione indiana, negando di fatto lo svolgimento del plebiscito popolare sulla scelta dello Stato di cui far parte. Da allora la regione non ha conosciuto pace. Le guerre del 1949, 1965, 1999 tra India e Pakistan, hanno come punto di inizio questioni politiche kashmire e sono state pretesto per risolvere questioni militari, politiche e ideologiche tra i due Stati. La presenza di fazioni terroristiche islamiste, separatiste o filo-pakistane non è da considerare come eccezione nel lungo periodo ma come continuazione della conflittualità interstatuale a bassa intensità, in cui anche l’esercito convenzionale indiano gioca un forte ruolo. Su queste basi di volontà di sovranità sulla regione si spiegano i tumulti civili ed armati, con la sempre presente minaccia nucleare sullo sfondo, che hanno delineato la storia politica del Kashmir, tutt’oggi irrisolta. L’ATTENTATO TERRORISTICO L’attentato terroristico di Pahalgam del 22 aprile, in cui militanti del The Resistance Front – affiliati all’organizzazione terroristica Lashar-e-Tayyiba – hanno ammazzato 25 turisti/e hindu e una guida kashmira, ha fatto risalire la tensione riportando alla memoria gli eventi traumatici della guerra del Kargil del 1999. A differenza dell’attacco terroristico di Pulwama del 2019, con bersaglio quaranta militari indiani, a Pahalgam le vittime sono tutte civili e scelte su base religiosa. Colpire i/e turisti/e non musulmani/e in Kashmir è una strategia che mira a contestare direttamente la riforma costituzionale del 2019. Con questa legge, il governo di Narendra Modi ha aperto alla compravendita immobiliare per i non residenti, una mossa considerata da molti un tentativo di modificare gli equilibri demografici dell’area. Nella stessa riforma, attuata con conseguente dispiegamento di 500mila unità dell’esercito indiano, è stato revocato lo status d’autonomia al Kashmir, tutt’oggi amministrato dal governo federale nonostante le elezioni dello scorso autunno. Il massacro di Pahalgam ci restituisce una realtà fatta di militarizzazione della vita civile, spossessamento delle popolazioni tribali e musulmane e volontà di hinduizzazione forzata dell’unico Stato indiano a maggioranza di popolazione musulmana. La reazione governativa non si è fatta attendere. Appena ricevuta notizia del massacro, Narendra Modi ha interrotto la visita diplomatica a Jeddah, Arabia Saudita, per presiedere il consiglio di sicurezza nazionale con i suoi Ministri dell’Interno, Amit Shah, degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar e della Difesa, Rajnath Singh. Incontro a cui è seguita la condanna pubblica del Pakistan come mandante dell’attacco dalla pressoché totalità delle forze politiche parlamentari indiane. Responsabilità smentite prontamente dal primo ministro pakistano Shebaz Sharif, ma non smentite da Khawaja Asif, Ministro della Difesa pakistano, e Asim Munir, Capo di Stato Maggiore dell’esercito, che hanno anzi rincarato la dose. Posizioni espresse con ambiguità o in modo estremamente esplicito, arrivando a suffragare le accuse di Delhi di collusione dell’esercito con i gruppi terroristici. Durante un’intervista concessa a Sky News, il Ministro della Difesa Khawaja Asif ha reso esplicita la collusione del governo pakistano con gruppi terroristici, agendo nell’interesse delle nazioni occidentali. Nelle sue parole: «Per circa trent’anni abbiamo eseguito questo ingrato compito per gli Stati Uniti, per l’Occidente e per il Regno Unito». Il dettaglio non è di poco peso nello Stato pakistano asservito ai giochi di potere dei vertici militari. ESCALATION DIPLOMATICA: TRATTATO SULLE ACQUE DELL’INDO E TRATTATI DI SIMLIA Dalle parole ai fatti è passato poco tempo. Il governo indiano ha mostrato sin da subito il pugno duro dando ordine di arresti di massa nei confronti di persone sospette in Kashmir, implementando contemporaneamente le operazioni delle forze regolari al confine. Repressione che arriva anche con abbattimenti di case di familiari dei sospetti affiliati a organizzazioni terroristiche, pratica divenuta ormai distintiva della destra hindu-nazionalista. Misure drastiche adottate anche in politica estera, dando vita all’escalation diplomatica tra i due Stati. Da parte indiana, si è assistito al ritiro dal trattato del 1960 sulle acque dei fiumi Indo, Jhelub e Chenab, alla chiusura del confine terrestre di Attari e all’ingiunzione per tutti i cittadini pakistani di abbandonare l’India entro il 27 aprile. Figure chiave come i Ministri pakistani dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Marina, insieme ai funzionari dei rispettivi ministeri, sono stati dichiarati “persona non grata” e costretti a partire entro una settimana, mentre gli omologhi indiani a Islamabad e il loro personale sono stati richiamati immediatamente. La risposta di Islamabad non si è fatta attendere, concretizzandosi in misure reciproche come sospensione dei visti ed espulsione di funzionari diplomatici indiani. A peggiorare il quadro si aggiungono la chiusura dello spazio aereo pakistano, interruzione degli scambi commerciali bilaterali e denuncia pakistana degli accordi di Simla del 1972, con cui si definì la Linea di Controllo, di fatti il confine, in Kashmir. Il quasi collasso delle relazioni diplomatiche è confermato dalla riduzione del personale delle ambasciate da 55 a 30 membri per parte. di Luca Mangiacotti Jammu, sud del Kashmir Decisioni che hanno quasi resettato le relazioni diplomatiche tra i due Paesi, proiettando già governi e società civile in uno stato di fermento per il preannunciato attacco militare. A svelare le carte ci ha pensato Shebaz Sharif, che ha sottolineato come l’uscita unilaterale dal trattato di Simla del 1960 è stata di fatto una dichiarazione di guerra, avendo come bersaglio la popolazione civile pakistana. L’uscita dalla convenzione bilaterale sull’uso delle acque dei fiumi Indo, Jhelub e Chenab è un duro colpo per le regioni agricole di Punjab pakistano e Sindh e per la popolazione civile pakistana tutta dato che lo Stato dipende per l’80% del suo fabbisogno idrico da questi tre fiumi. Questa strategia di deterrenza idrica indica come le guerre possano volgere a proprio favore anche senza sparare un solo colpo d’artiglieria nell’epoca della crisi climatica, soprattutto in una delle regioni maggiormente afflitta dalle sue conseguenze. L’assenza di infrastrutture capaci di deviare i corsi dei fiumi fa tirare un grosso sospiro di sollievo, ma preoccupa la possibilità di governare i flussi idrici con l’uso delle infrastrutture esistenti. Qualche prima avvisaglia di contingentamento delle risorse idriche è stata già messa in atto riempiendo le dighe già presenti e poi aprendole repentinamente con possibilità di causare inondazioni massicce; le denunce di deterioramento della qualità delle acque fanno pensare il peggio nella regione hotspot climatica. ESCALATION MILITARE: MEZZI, PROSPETTIVE E OBIETTIVI L’inevitabile conseguenza di toni e misure adottate è stata l’escalation bellica convenzionale. Le esercitazioni civili di massa disposte da Rajnath Singh nelle giornate immediatamente precedenti ai primi attacchi missilistici indiani hanno avuto funzione di preparazione della popolazione a eventuali attacchi di forze convenzionali e non. Preannunciata nelle riunioni di sicurezza nazionale, fomentata nei media e recepita con clamore nell’opinione pubblica, l’escalation militare iniziata con gli attacchi missilistici indiani della notte tra il 6 e 7 maggio ha da subito raccolto i favori di governo e popolazione indiana. Il nome dell’Operazione Sindoor – polvere vermiglio con cui le donne si tingono la fronte per indicare di essere sposate – ha avuto appunto la funzione di etnicizzare la questione su toni di difesa degli hindu, di difesa della nazione dallo storico vicino-nemico. Il primo attacco missilistico ha avuto come obiettivo nove siti tra Kashmir e Punjab governati dal Pakistan, individuati dall’intelligence indiana come avamposti d’addestramento e infrastrutture dei gruppi terroristici Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Tayyiba e Hizbul Mujahedeen. Tra i bersagli colpiti anche la moschea di Subhan Allah, a Bahawalpur, dove i servizi segreti indiani dichiarano di aver ammazzato Maulana Masood Azhar, leader di Jaish-e-Mohammed, assieme alla sua famiglia. Bombardamenti a cui sono seguite veline di abbattimento di cinque jet delle forze armate indiane sulla stampa pakistana, di cui solo due sono stati verificati da osservatori internazionali. Attacchi con armi pesanti a medio-lungo raggio accompagnati dal costante fuoco leggero tra le forze convenzionali lungo la Linea di Controllo in Kashmir e sporadici lanci di artiglieria pesante si sono susseguiti per quattro giorni tra i due eserciti. Nei quattro giorni e notti di attacchi frontali, sono sedici indiani/e e quaranta pakistani/e le persone civili morte sotto il fuoco, a cui vanno aggiunti i cento terroristi ammazzati in territorio pakistano dichiarati dai servizi di intelligence indiani. Il conto dei deceduti è insufficiente a determinare la gravità del fronteggiamento armato. L’aumento della già alta insicurezza delle popolazioni civili ai due lati del confine ha toccato nuove vette con il costante fuoco d’artiglieria a scandire le ore della notte, facendo sì che molti abitanti del luogo lasciassero le zone di confine per paura che l’artiglieria colpisse le proprie case. Preoccupazione non banale dati i rinvenimenti di droni e missili nei dintorni di villaggi, della capitale estiva del Kashmir indiano Srinagar e la distruzione di una chiesa nel distretto di Poonch che ha portato alla morte di due persone. Quattro giorni di fuoco incrociato e conferenze stampa governative; quattro giorni di minacce di lancio di testate nucleare, fortunatamente mai messe in atto. Quattro giorni di escalation conclusisi con attacchi mirati delle forze armate indiane negli aeroporti militari di Nur Khan, Sargodha, Bholari e Rahim Yar Khan, basi militari pakistane, e nei dintorni delle città di Lahore e della capitale Islamabad; a cui è seguito un massiccio contrattacco di circa 400 droni pakistani nelle zone di confine con l’India, in Kashmir, Punjab e Rajasthan. Scopo dell’ultimo attacco era colpire le infrastrutture nevralgiche dell’esercito pakistano in una vera e propria prova di forza tra gli eserciti dei due Stati. Seppur concentrato in quattro giorni di conflitto armato e in ambito regionale, quanto successo apre delle riflessioni necessarie su quanto un conflitto ben delimitato sia costruito al giorno d’oggi su direttrici internazionali. La guerra tra i due Stati ha dei tratti che potremmo definire propri delle guerre di nuova generazione: uso ristretto della fanteria, massima efficacia nell’uso di armamenti altamente tecnologici. > L’India, che si vuole superpotenza globale, ha negli ultimi anni rafforzato il > proprio arsenale implementando la produzione industriale nel subcontinente con > aziende parastatali e joint venture in loco con aziende straniere, necessarie > per il trasferimento di conoscenze e tecnologie, tra cui vale la pena citare > FinMeccanica e Leonardo ritornate a fare affari con Delhi a dieci anni dallo > scandalo corruzione Augusta Westland. Supremazia militare programmata in un lungo piano di riarmo che ha visto l’India spendere 86 miliardi di dollari nel 2024 nel settore bellico, deviando la già carente spesa pubblica nel settore della difesa. Si giovano della spesa le aziende leader del settore in India Hindustan Aeronautics, Bharat Electronics e Bharat Dynamics, che nel giro di dieci anni hanno aumentato il proprio fatturato del 174%, anche grazie alle politiche economiche interne promosse dal governo Modi come l’iniziativa Make in India. Riarmo funzionale, sul piano della difesa in senso stretto e sul piano più politico, a implementare la narrazione che descrive l’India come super-potenza globale in essere. La logica di autoproduzione convive con la massiccia importazione di armamenti. Stando al report annuale sul commercio di armi globale dell’Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, l’India emerge come secondo Paese importatore di armi dietro all’Ucraina, con un volume di entrate pari all’8,3% globale – dato in calo del 9,3% rispetto al 2015-2019. Le direttrici del commercio in entrata meritano attenzione a causa di fattori storici, come la dipendenza dalla Russia, e la nuova strategia diplomatica del governo Modi che mira a rafforzare i legami con Francia e USA e a intensificare, come ha fatto negli ultimi dieci anni, la collaborazione con l’industria bellica israeliana. Sono altre le traiettorie di commercio del Pakistan, a cui affluisce il 4,6% delle esportazioni globali di armi. Spiccano le forniture di droni di produzione turca e il ruolo della Cina come principale fornitore, da cui Islamabad dipende per l’81% di importazioni. Elementi che sono nei fatti ricaduti nell’escalation militare di inizio maggio. Tra le armi impiegate nell’offensiva sono stati utilizzati i missili di produzione indiana Brahmos, i droni di coprogettazione indo-israeliana e i caccia Rafale e Mig-21, un segno dell’ampia scelta negli arsenali indiani. Dall’altro lato, è notevole segnalare il battesimo del fuoco degli aerei di progettazione cinese J-10, il cui ruolo è stato incisivo nell’abbattimento dei jet indiani individuati nello spazio aereo pakistano. Cronaca bellica utile per comprendere come la guerra latente tra Cina e USA si debba testare sul campo in conflitti regionali, atti a valutare l’efficacia degli armamenti in una multiforme logica di deterrenza. LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE All’escalation bellica è corrisposta un’attivazione della diplomazia internazionale ondivaga, composta di flebili prese di posizione e consolidamento dei rapporti diplomatici pre-esistenti. Arabia Saudita e Iran si sono immediatamente proposti come mediatori tra i due Stati, colmando il vuoto dell’iniziale indifferenza degli USA sulla questione. Da segnalare le posizioni di Turchia e Azerbaijan, tra i pochi sostenitori del governo di Islamabad. Senza soffermarsi troppo sul ruolo dell’Iran, desta attenzione l’operato del principato saudita che consolida anche in questo modo il proprio ruolo di centro diplomatico globale primario. Diversa invece la postura di Cina e USA. L’allineamento di Pechino a Islamabad è motivato da elementi storici risalenti alle guerre cinesi e pakistane contro l’India dello scorso secolo. La percezione dell’India come nemico ingombrante, connessa alle molteplici contese sui confini irrisolti a Nord nel Kashmir e Ladakh, a Nord-Est nel Sikkim e nell’Arunachal Pradesh, sono più volte culminate in brevi conflitti militari. Vale la pena far riferimento ai recenti attriti in Ladakh iniziati nel giugno 2020 e chiusisi con il riavvicinamento diplomatico nello scorso anno, fatti che si possono leggere come momento di attrito di una guerra di vicinato di lungo periodo segnata da sconfinamenti infrastrutturali, parole al veleno sul governo cinese durante la pandemia da parte degli hindu-nazionalisti e richieste di sovranità sui territori contesi, come nel caso dell’Arunachal Pradesh. Alle ragioni più territoriali si accompagnano quelle di ordine economico. Il Pakistan è uno degli alleati principali di Pechino nell’area, in partnership con la Belt and Road Initiative sia per il corridoio commerciale sino-pakistano, che attraversa il Kashmir governato dai due Stati, sia per le linee marittime, di cui il porto di Karachi nel Sindh pakistano è un nodo cruciale delle rotte cinesi. Tutti elementi che hanno portato il governo di Pechino a supportare le condanne da parte di Islamabad dell’offensiva militare indiana, seppur celate sotto appelli al ripristino della pace tra i due paesi. di Luca Mangiacotti Jammu, sud del Kashmir Diversa la posizione degli USA, storico alleato del Pakistan nel secondo Novecento in funzione di contenimento delle avanzate comuniste nel confinante Afghanistan e poi, dal crollo dell’Unione Sovietica, progressivamente avvicinatosi a Delhi. Avvicinamento provocato da ragioni economiche, effettuato in conseguenza all’apertura al libero mercato dell’India nel 1991, visto dalle aziende statunitensi come possibilità di espandere il proprio dominio economico ed esternalizzare forza-lavoro a basso costo. Sotto le presidenze Trump e il governo Modi, guidato dalla diplomazia degli abbracci, l’affinità ideologica tra i due leader di governo si è tradotta in una stretta relazione per ragioni politiche, di contenimento dell’espansione commerciale-militare cinese nell’area indo-pacifica, e commerciali, come testimoniato dai recenti colloqui successivi alle dichiarazioni di imposizioni di dazi dell’attuale amministrazione statunitense. L’India di oggi guarda attentamente a occidente, vedendo nell’attuale conformazione del sistema politico-economico globale le condizioni ottimali per accreditarsi come sostituto della Cina come fabbrica del mondo. Tale aspirazione è corroborata dalla crescita economica sostenuta del PIL negli ultimi vent’anni e dal riconoscimento dell’importanza strategica della penisola indiana per il controllo militare-commerciale dell’area Indo-Pacifica, tesi ulteriormente avvalorata dagli accordi di difesa QUAD e I2U2. La nota di ricognizione delle relazioni statunitensi è utile a comprendere il ruolo degli USA nel conflitto. Inizialmente in disparte con dichiarazioni di condanna fini a sé stesse dell’attacco terroristico di Pahalgam e appelli alla pace all’inizio dell’escalation militare, l’amministrazione Trump ha messo in atto una strategia diplomatica a tratti caotica. «Fondamentalmente non è un nostro problema», ha dichiarato il vice-presidente statunitense J.D. Vance in un’intervista a Fox News, il giorno prima di essere smentito da Trump e dal segretario di Stato Marc Rubio, corsi il 10 maggio a intestarsi i meriti del raggiungimento del cessate il fuoco. Dietro l’angolo, gli interessi di Washington nell’assicurarsi i favori del governo Modi per conto di aziende statunitensi volenterose di penetrare ulteriormente nel mercato sud-asiatico per assicurarsi nodi della supply-chain globale. LA NARRAZIONE INTERNA TRA ESCALATION E CESSATE IL FUOCO La riuscita del conflitto tra Stati passa per l’annichilimento della conflittualità interna ai propri confini nazionali, come sublimazione del processo di nazionalizzazione delle masse. Sin dalle ore immediatamente successive all’attentato terroristico di Pahalgam, i principali media indiani hanno fatto da megafono alle dichiarazioni del governo indiano, indicando da subito la diretta responsabilità di governo e forze armate pakistane. Ore di trasmissione ossessive, con talk interminabili e ripetizione delle immagini disponibili, in uno schermo contornato da hashtag inneggianti alla vendetta contro Islamabad sono state la costante delle settimane di escalation. Opinioni personali passate come informazioni, veline di governo riprodotte in modo pressoché integrale dagli anchor man televisivi, reportage degni della cronaca rosa pomeridiana hanno scandito il tempo televisivo; immagini e dichiarazioni degli esponenti di governo sono state le uniche interruzioni ammesse dalle direzioni editoriali. Il tutto sorretto da una costruzione mediatica intenzionata a sostenere la supremazia indiana in guerra, con spot degli armamenti prodotti dalle aziende del subcontinente, seguiti da immagini prese da altri attacchi armati spacciate per iniziative dell’esercito indiano. Eclatante l’uso di immagini artefatte della distruzione del porto di Karachi schizzate in televisioni e social, come a ribadire la supremazia indiana rispetto allo Stato pakistano su ogni fronte, anche su quello degli attacchi strategici a infrastrutture nevralgiche dell’altro nemico, la Cina. In questa infosfera si è consolidato il già forte sentimento nazionalistico, fondato sul senso comune costruito dalla destra hindu-nazionalista la cui ragion d’essere può essere riassunta nel cercare di creare una nazione etnicamente omogenea, progetto speculare alla fondazione del Pakistan. Ricadute immediate nella società di tale narrazione sono stati gli episodi di violenza comunitaria nei confronti di kashmiri e musulmani/e registrati/e in molte località del nord dell’India, dove fazioni hindu-nazionaliste hanno preso di mira studenti, venditori/trici e lavoratori/trici poveri/e additati/e come complici dei gruppi terroristi. Il minimo comun denominatore degli episodi di violenza è il far sentire musulmani/e e kashmiri come degli infiltrati/e in India, rei di essersi ritrovati/e o aver scelto di vivere nel subcontinente, la cui espulsione deve essere promossa con tutti i mezzi a disposizione. La legittimazione istituzionale lascia ampli spazi di manovra ai gruppi della destra hindu-nazionalista, impuniti nelle loro azioni intimidatorie o di devastazione settaria. Rotture che rendono l’India una casa ostile per kashmiri e musulmani/e. A più di un anno di distanza dal discorso di Banswara in cui Modi definì in piena campagna elettorale i/le musulmani/e come infiltrati/e possiamo constatare la penetrazione della definizione nel senso comune di parte della popolazione hindu in India. Le opposizioni sono, in parte, silenti davanti all’escalation bellica, pronte a intonare «Jai Hind!», vittoria all’India, all’unisono con la maggioranza parlamentare nelle celebrazioni degli attacchi missilistici, e capaci solo di reclamare uno spazio di discussione condiviso per le decisioni del governo sulle operazioni militari. di Luca Mangiacotti Srinagar, Kashmir Dietro la ragione di Stato tutti i maggiori partiti rappresentati in Parlamento hanno chinato il capo, sparute le forze politiche disallineate dalla salvaguardia dell’interesse nazionale anche nell’area socialista, che poi si sono lanciate in appelli al cessate il fuoco nelle ultime giornate di conflitto bellico. Degne e minoritarie forze politiche come il Partito Comunista Indiano (Marxista-Leninista) e le compagini maoiste, sottoposte a costanti attacchi militari dell’esercito indiano, hanno espresso fin da subito il loro rifiuto di parteggiare per l’interesse nazionale. Il quadro politico-sociale ha influenzato il recepimento dell’accordo di cessate il fuoco raggiunto nella notte del 10 maggio tra i Ministri degli Esteri dei due paesi, mediato dall’intervento diplomatico statunitense. Il cessate il fuoco è stato inizialmente accolto come una sconfitta nella sfera mediatica indiana perché non giustificato dalla vittoria sul campo, bollato come un’ingerenza dell’amministrazione statunitense in quella che si vuole come una questione meramente bilaterale. Cessate il fuoco che, per com’è arrivato, è suonato come un’imposizione, giustificabile solamente per l’assenso del premier Narendra Modi, le cui posizioni non sono oggetto di discussione per i media asserviti agli interessi di suoi partner economici. Come ogni conflitto che si rispetti sono seguite manifestazioni di festeggiamento nazionaliste tiranga rally, in tutto il subcontinente, a rimarcare il senso comune della vittoria dimezzata dalle ingerenze estere. Sentimento comune che viene ripreso in varie forme istituzionali: dagli striscioni nell’ambasciata indiana in Portogallo – «L’operazione sindoor non è ancora finita» -, ai biglietti del treno che riportano il banner dell’operazione, ma anche le gigantografie di Narendra Modi aviatore e l’esaltazione a mezzo stampa dei sistemi di difesa aerea indigeni Akashteer. Più spinta l’enfasi del primo ministro indiano nel suo comizio a Bikaner, Rajasthan, dove l’attacco è sì definito come «una nuova forma di giustizia», atta a dimostrare al mondo e ai nemici dell’India «cosa succede quando “sindoor” diventa “barood” [polvere da sparo]». Seppur breve, l’escalation tra India e Pakistan mostra traiettorie ragguardevoli di come si nazionalizzano delle masse, a maggior ragione nell’attuale fase segnata da conflitti bellici convenzionali su varie aree regionali e crescenti attriti nelle relazioni diplomatico-economiche tra le superpotenze globali. > Leggere il conflitto come una guerra per procura è certo pressappochista, un > punto di vista figlio di una volontà di guardare alle rotture tra gli > Stati-nazione come marionette delle guerre globali; ma non situare questi > conflitti all’interno dell’economia mondo, da cui consegue un nuovo assetto di > potere allineato a Washington o succube di quello che si vuole come il nuovo > ordine del multipolarismo autoritario, sarebbe miope e riduzionistico. Giocano un ruolo fondamentale le traiettorie internazionali in cui si costruisce e legittima lo stato di guerra latente permanente. Nella corsa alla conversione bellica degli impianti produttivi civili e della risposta alla crisi delle rendite finanziarie nell’industria bellica, l’internazionalizzazione delle filiere produttive è uno dei fattori su cui si costruiscono alleanze tattico-strategiche volte a influenzare la ristrutturazione della produzione capitalistica globale. Il raggiungimento del cessate il fuoco non deve ingannare: sulla frontiera irredenta del Kashmir l’escalation è conclusa, il sempiterno confronto tra governi ed eserciti no. Immagine di copertina di Luca Mangiacotti, scattata a Srinagar, Kashmir SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. 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Recuperare l’eredità dei nostri antenati: il percorso di pace tra India e Pakistan
> Poche nazioni condividono una storia così intrecciata – o così tragicamente > divisa – come l’India e il Pakistan. Eppure, nella nostra attuale era di > sciovinismo e iper-nazionalismo, abbiamo dimenticato la saggezza degli stessi > leader che hanno plasmato la nostra indipendenza: Mahatma Gandhi, l’icona > globale della nonviolenza, e Muhammad Ali Jinnah, un costituzionalista > pakistano che ha sostenuto la lotta legale e politica contro la forza bruta. Oggi, i media e le piattaforme sociali amplificano l’odio, il sentimento guerrafondaio e la disumanizzazione, molto lontani dall’ahimsa di Gandhi o dalla difesa disciplinata di Jinnah. Nel frattempo, il mondo offre cattivi esempi. Il conflitto tra Israele e Hamas mostra uno stato dotato di armi nucleari che combatte una milizia, senza alcun vincitore emergente, solo sofferenze infinite. La guerra Ucraina-Russia dimostra come anche una “superpotenza” si impantani in un conflitto che non può vincere in modo decisivo. Afghanistan, Iraq e Siria sono la prova che la sola forza militare genera caos piuttosto che stabilità. La guerra non è solo distruttiva: è diventata obsoleta. In un’Asia meridionale nuclearizzata, un conflitto India-Pakistan su vasta scala significherebbe milioni di morti in poche ore, generazioni avvelenate da radiazioni e traumi e nessun vincitore, solo l’annientamento reciproco. Alcuni strateghi sostengono che la forza militare impedisce la guerra, ma la storia dimostra il contrario. La deterrenza fallisce quando la percezione prevale sulla ragione, come si è visto nei conflitti tra India e Pakistan nel 1962, 1999 e 2019. Le narrazioni dell’odio che ritraggono “il nemico come malvagio” giustificano solo un’ostilità infinita, avvantaggiando in ultima analisi i trafficanti d’armi e gli autocrati mentre danneggiano i cittadini comuni. L’alternativa esiste, se scegliamo di perseguirla. Dobbiamo dare priorità al dialogo rispetto ai tamburi di guerra riprendendo i colloqui diplomatici, anche su questioni controverse come il Kashmir e il terrorismo. La diplomazia dei cittadini attraverso scambi di studenti, festival culturali congiunti e un aumento del commercio, come il corridoio di pellegrinaggio senza visto di Kartarpur, può costruire ponti. Lo sport può riconnettere le persone, come si vede quando i tour di cricket e le partite di hockey creano momenti in cui gli applausi trascendono i confini. I media devono assumersi la responsabilità fermando la loro glorificazione della guerra e amplificando invece le voci di riconciliazione. Gandhi e Jinnah hanno combattuto non per le bandiere ma per i principi. Se onoriamo veramente la loro eredità, dobbiamo respingere la follia della distruzione reciproca e scegliere il percorso più difficile ma più gratificante: la pace attraverso il coraggio, la comprensione attraverso l’impegno e la prosperità attraverso la cooperazione. É nostra la scelta tra la continua ostilità e una nuova era di pace. L’autore: Irshad Ahmad Mughal è il presidente della Iraj Education & Development Foundation, con sede a New Chaburji Park, Lahore. Traduzione dall’inglese di Filomena Santoro. Revisione di Thomas Schmid. Pressenza IPA
Notizie dal mondo
Gaza Da mezzanotte di domenica sono 17 i palestinesi assassinati dai bombardamenti israeliani, che hanno colpito Khan Younis e Gaza città. Attacchi indiscriminati contro gente affamata. Nelle 24 ore precedenti, il rapporto del ministero della sanità palestinese informa di 51 uccisi e 115 feriti trasportati negli ospedali. Situazione umanitaria Le organizzazioni umanitarie, tra cui il Programma Alimentare Mondiale e l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi (UNRWA), hanno distribuito le ultime scorte di farina e altre scorte alimentari a decine di mense di beneficenza nella Striscia, che forniscono pasti di base a coloro che non hanno altra scelta. Un responsabile Onu ha affermato: “Ormai non c’è più nulla da dare loro, quindi quando finiranno le ultime scorte, le cucine dovranno chiudere. Al momento le persone stanno resistendo, ma sappiamo da altre crisi che la situazione peggiora molto rapidamente e non siamo lontani da quel punto”, ha aggiunto. Circa due mesi fa, poche ore dopo la rottura del cessate il fuoco, Israele ha bloccato l’ingresso di cibo, carburante, medicine e altri rifornimenti a Gaza. Decine di forni, che fornivano pane a centinaia di migliaia di persone, hanno già chiuso i battenti. Le 47 cucine di beneficenza, che forniscono solo lenticchie, pasta e riso, hanno già ridotto le loro razioni. “Se questa cucina chiude, queste persone che dipendono da noi rischiano di morire di fame”, ha affermato Hani Abu Qasim, della Cucina della “Cucina della Carità di Rafah”. Le Nazioni Unite hanno annunciato di aver individuato a marzo 3.700 bambini affetti da grave malnutrizione, con un aumento dell’80% rispetto a febbraio. Corte internazionale di Giustizia Oggi, lunedì, la Corte internazionale di giustizia inizia le udienze sulla causa intentata da 40 stati membri delle Nazioni Unite contro Israele, per la sua decisione di vietare le attività dell’UNRWA. Alla fine dell’anno scorso, 137 paesi hanno votato a favore del deferimento del caso alla Corte internazionale di giustizia, mentre solo 12 paesi si sono opposti. Le udienze dureranno cinque giorni e i giudici ascolteranno le argomentazioni di tutti i Paesi coinvolti nel caso. Siria/Rojava Il 26 aprile si è tenuto a Qamishli, nel nord est della Siria (Rojava) il congresso per l’unificazione delle prese di posizioni politiche delle componenti curde siriane, verso una trattativa con il nuovo potere a Damasco. Oltre 400 delegati, con la partecipazione di esponenti iracheni e turchi, hanno ascoltato l’intervento di Mazloum Abdi a nome delle FDS. Dopo un’intera giornata di dibattito è stato approvato un documento finale che rivendica una costituzione confederale per la Siria democratica. Iran/USA Il ministro degli esteri dell’Oman, Badr Al-Busaidi, ha annunciato che è atteso un nuovo incontro ad alto livello tra Iran e USA. L’appuntamento è per la prossima settimana e sono previsti incontri tra esperti per definire la base di un accordo. Teheran chiede garanzie per il non ritiro della Casa Bianca da un eventuale accordo per la fine delle sanzioni e la rinuncia all’uranio arricchito. Mosca ha dichiarato la propria disponibilità a stoccare l’uranio arricchito iraniano in caso di un accordo tre le parti. Iran È salito il numero delle vittime dell’esplosione nel porto di Bandar Abbas. 40 morti e oltre mille feriti. Il governo ha dichiarato il lutto nazionale per tre giorni. Il presidente Pezeshkian ha visitato il luogo dell’enorme rogo e ha promesso che il caso sarà chiarito al più presto possibile. La procura generale sta indagando per individuare l’origine dello scoppio. Fonti israeliane parlano dello stoccaggio di carburante solido per missili. Un deputato del parlamento, Mohammed Saraj, ha accusato Israele di aver orchestrato l’incendio. “com’è possibile che un incendio casuale possa partire da 4 punti diversi. È chiaro che è un sabotaggio e dietro l’atto non può esserci che la mano di Israele. Parlano di carburante solido per missili, per coprire il loro crimine”. Libano Israele torna a bombardare Beirut. Un drone di Tel Aviv ha lanciato tre missili contro una costruzione nel quartiere al-Hadath. Il ministero della salute libanese ha informato che ci sono stati 7 feriti. In un altro attacco con droni al villaggio Hala, nel sud, è stato ucciso un allevatore di pollami. Secondo i dati ufficiali di Beirut, Israele ha compiuto dal 27 novembre, data di entrata in vigore del cessate-il-fuoco, 22765 violazioni della tregua, provocando 194 uccisi e 486 feriti. Islamofobia/Francia Abubakr Cissè è stato assassinato venerdì con 50 coltellate in una moschea di La Grand-Comb, nel sud della Francia. L’atroce crimine è stato registrato in un video ripreso dallo stesso assassino, rivolgendo frasi sconnesse di odio verso i musulmani. La vittima è un giovane del Mali ed aveva 23 anni. L’assassino ha spedito il video ad un suo amico che lo aveva pubblicato sui social, ma poi lo ha subito cancellato. L’assassinio è stato ripreso dalle camere di sorveglianza della moschea. L’assassino è stato identificato, ma è riuscito a fuggire prima dell’arrivo degli agenti in casa di un suo parente. Ieri sera si è consegnato a Pistoia, in Italia. È un francese di 21 anni. La procura parla di un crimine su motivazione islamofoba. Il presidente Macron e il primo ministro Bayrou hanno condannato l’atroce crimine motivato da odio verso l’islam. Centinaia di persone si sono riunite domenica a Place de la République a Parigi per una manifestazione contro l’islamofobia. La marcia di solidarietà ha riunito organizzazioni non governative, rappresentanti politici e leader religiosi che hanno denunciato l’atmosfera islamofobica in Francia. In Italia, a quanto ci risulta, la notizia non è stata pubblicata finora da nessuna testata nazionale. Un altro segno di razzismo. A ruoli capovolti, con una vittima un uomo bianco, avremmo assistito ad una copertura da prima pagina. India/Pakistan Terza notte di scontri al confine del Kashmir, tra India e Pakistan. Un rischio altissimo per tutta la regione. Islamabad ha chiesto all’ONU un’inchiesta internazionale imparziale sull’attentato in Kashmir e sulle susseguenti scontri al confine. La crisi si è sviluppata in crescendo con le minacce di New Delhi di deviare il fiume Indo e la risposta di Islamabad è stata di considerare un atto simile come una dichiarazione di guerra. Ricordando che i due paesi sono potenze nucleari, il rischio è abbastanza alto per tutta la regione. Solidarietà/Al-Najdah Israele ha bloccato ieri la rete internet su Gaza. Le comunicazioni sono state difficilissime. Per dribblare il blocco israeliano, abbiamo fatto ricorso all’accesso dalla rete internet egiziana. “La situazione è catastrofica”, ci hanno detto le amiche di Al-Najdah. “Non arrivano più rifornimenti dalle agenzie dell’Onu. La situazione è molto difficile”. ANBAMED