In caso di escalation: appunti sul conflitto indo-pakistano tra politica interna ed esteraL’escalation diplomatico-militare tra India e Pakistan mostra alcuni elementi di
comprensione degli attriti tra Stati nazione nella contemporaneità segnata da
continue avvisaglie di guerra convenzionale. Escalation progressiva, quasi
lineare, partita dall’attacco terroristico nella località turistica di Pahalgam,
nel Kashmir controllato dall’India, dove un commando terroristico ha ucciso 26
persone, tutte hindu a eccezione di uno stalliere kashmiro, e culminati con
attacchi oltre-confine degli eserciti regolari indiano e pakistano. Nel mezzo
una rapida escalation diplomatica tra i due governi che hanno visto deteriorare
significativamente i rapporti, mettendo già in atto attriti premonitori del
conflitto militare tra le forze convenzionali. L’Operazione Sindoor è un punto
di ristrutturazione del rapporto tra Stati nazione, delle logiche di deterrenza
e polarizzazione politico-sociale, nelle dinamiche regionali e globali che
sostengono le parti.
LA QUESTIONE DEL KASHMIR
«Il Kashmir occupato dal Pakistan è il gioiello della corona dell’India e il
Jammu e Kashmir è incompleto senza di esso». Così il Ministro della Difesa
indiano Rajnath Singh ha definito la regione divisa tra India, Pakistan e Cina,
in un suo comizio del gennaio di quest’anno. La definizione è ricorsiva nelle
parole dei leader del partito della destra hindu-nazionalista Bharatiya Janata
Party, spesso usata per ricalcare come il compimento del divenire nazione
dell’India sia ancora incompiuto.
Nazionalisti islamisti in Pakistan e destra hindu-nazionalista in India, vedono
nel Kashmir l’oggetto da incorporare nella propria sfera di sovranità. A
contornare le rispettive pretese fattori storico-culturali, uso selettivo della
storiografia e colonialismo interno; tutti elementi essenziali per la
polarizzazione governativa necessaria a creare enfasi nella militarizzazione
della regione irredenta e legittimar le istanze di guerra convenzionale.
Tra i fuochi incrociati del Pakistan nato come nazione islamista e l’India
sempre meno secolare, cadono nel silenzio le istanze di autodeterminazione della
regione montuosa. Negazione dell’autonomia che si è costruita gradualmente, in
un esercizio di storia orale che si fa storiografia, di tradizioni artefatte per
legittimare con la religione il diritto di essere maggioranza etnica sul
territorio.
Ne è un esempio il pellegrinaggio hindu Amaranath Yatra, le cui origini si
rinvengono a metà Ottocento, quasi in contemporanea all’acquisto della regione
da parte della famiglia hindu di Dogra, siglata nei trattati di Amritsar del
1846 con cui il Maharaja Gulab Singh ottenne popolazione, terre e bestiame del
Kashmir per soli sette milioni e mezzo di rupie. Il pellegrinaggio è per certi
versi esemplificativo di come i tentativi di nazionalizzazione della regione
passino per traiettorie culturali, religiose ed economiche; tra l’attaccamento
mitico costruito con le tradizioni, e la legittimazione del colonialismo interno
in termini di sviluppo economico.
Far partire la ricognizione della nazionalizzazione delle masse prima della
concessione dell’indipendenza, o partizione fra India e Pakistan nel 1947, è
necessario a comprendere come quella che si vuole come una questione a due tra
gli Stati dell’ex-Raj non tiene conto del terzo soggetto essenziale: il Kashmir,
schiacciato tra i fuochi di guerra tra e negli Stati-nazione, impossibilitato a
far sentire la voce della propria popolazione.
> Guerra sul Kashmir che svetta d’intensità nel più ampio contesto della
> partizione, dramma umanitario-sociale, con episodi di violenza
> inter-comunitaria diffusi in tutto il subcontinente. Violenze acute nella
> regione, dove la tensione comunitarista sedimentata esplode nell’eccidio di
> oltre 200mila persone nel mezzo di una guerriglia diffusa tra fazioni
> islamiste supportate dal governo pakistano e destra hindu-nazionalista.
Il Maharaja Hari Singh, allora a capo del principato che doveva decidere in
quale Stato entrare, chiese supporto militare al governo di Jawaharlal Nehru.
L’intervento militare terminato nel 1948 segna l’accesso definitivo della
regione orientale del Kashmir nella federazione indiana, negando di fatto lo
svolgimento del plebiscito popolare sulla scelta dello Stato di cui far parte.
Da allora la regione non ha conosciuto pace. Le guerre del 1949, 1965, 1999 tra
India e Pakistan, hanno come punto di inizio questioni politiche kashmire e sono
state pretesto per risolvere questioni militari, politiche e ideologiche tra i
due Stati.
La presenza di fazioni terroristiche islamiste, separatiste o filo-pakistane non
è da considerare come eccezione nel lungo periodo ma come continuazione della
conflittualità interstatuale a bassa intensità, in cui anche l’esercito
convenzionale indiano gioca un forte ruolo. Su queste basi di volontà di
sovranità sulla regione si spiegano i tumulti civili ed armati, con la sempre
presente minaccia nucleare sullo sfondo, che hanno delineato la storia politica
del Kashmir, tutt’oggi irrisolta.
L’ATTENTATO TERRORISTICO
L’attentato terroristico di Pahalgam del 22 aprile, in cui militanti del The
Resistance Front – affiliati all’organizzazione terroristica Lashar-e-Tayyiba –
hanno ammazzato 25 turisti/e hindu e una guida kashmira, ha fatto risalire la
tensione riportando alla memoria gli eventi traumatici della guerra del Kargil
del 1999. A differenza dell’attacco terroristico di Pulwama del 2019, con
bersaglio quaranta militari indiani, a Pahalgam le vittime sono tutte civili e
scelte su base religiosa.
Colpire i/e turisti/e non musulmani/e in Kashmir è una strategia che mira a
contestare direttamente la riforma costituzionale del 2019. Con questa legge, il
governo di Narendra Modi ha aperto alla compravendita immobiliare per i non
residenti, una mossa considerata da molti un tentativo di modificare gli
equilibri demografici dell’area. Nella stessa riforma, attuata con conseguente
dispiegamento di 500mila unità dell’esercito indiano, è stato revocato lo status
d’autonomia al Kashmir, tutt’oggi amministrato dal governo federale nonostante
le elezioni dello scorso autunno.
Il massacro di Pahalgam ci restituisce una realtà fatta di militarizzazione
della vita civile, spossessamento delle popolazioni tribali e musulmane e
volontà di hinduizzazione forzata dell’unico Stato indiano a maggioranza di
popolazione musulmana.
La reazione governativa non si è fatta attendere. Appena ricevuta notizia del
massacro, Narendra Modi ha interrotto la visita diplomatica a Jeddah, Arabia
Saudita, per presiedere il consiglio di sicurezza nazionale con i suoi Ministri
dell’Interno, Amit Shah, degli Esteri, Subrahmanyam Jaishankar e della Difesa,
Rajnath Singh. Incontro a cui è seguita la condanna pubblica del Pakistan come
mandante dell’attacco dalla pressoché totalità delle forze politiche
parlamentari indiane.
Responsabilità smentite prontamente dal primo ministro pakistano Shebaz Sharif,
ma non smentite da Khawaja Asif, Ministro della Difesa pakistano, e Asim Munir,
Capo di Stato Maggiore dell’esercito, che hanno anzi rincarato la dose.
Posizioni espresse con ambiguità o in modo estremamente esplicito, arrivando a
suffragare le accuse di Delhi di collusione dell’esercito con i gruppi
terroristici.
Durante un’intervista concessa a Sky News, il Ministro della Difesa Khawaja Asif
ha reso esplicita la collusione del governo pakistano con gruppi terroristici,
agendo nell’interesse delle nazioni occidentali. Nelle sue parole: «Per circa
trent’anni abbiamo eseguito questo ingrato compito per gli Stati Uniti, per
l’Occidente e per il Regno Unito». Il dettaglio non è di poco peso nello Stato
pakistano asservito ai giochi di potere dei vertici militari.
ESCALATION DIPLOMATICA: TRATTATO SULLE ACQUE DELL’INDO E TRATTATI DI SIMLIA
Dalle parole ai fatti è passato poco tempo. Il governo indiano ha mostrato sin
da subito il pugno duro dando ordine di arresti di massa nei confronti di
persone sospette in Kashmir, implementando contemporaneamente le operazioni
delle forze regolari al confine. Repressione che arriva anche con abbattimenti
di case di familiari dei sospetti affiliati a organizzazioni terroristiche,
pratica divenuta ormai distintiva della destra hindu-nazionalista.
Misure drastiche adottate anche in politica estera, dando vita all’escalation
diplomatica tra i due Stati. Da parte indiana, si è assistito al ritiro dal
trattato del 1960 sulle acque dei fiumi Indo, Jhelub e Chenab, alla chiusura del
confine terrestre di Attari e all’ingiunzione per tutti i cittadini pakistani di
abbandonare l’India entro il 27 aprile. Figure chiave come i Ministri pakistani
dell’Aeronautica, dell’Esercito e della Marina, insieme ai funzionari dei
rispettivi ministeri, sono stati dichiarati “persona non grata” e costretti a
partire entro una settimana, mentre gli omologhi indiani a Islamabad e il loro
personale sono stati richiamati immediatamente.
La risposta di Islamabad non si è fatta attendere, concretizzandosi in misure
reciproche come sospensione dei visti ed espulsione di funzionari diplomatici
indiani. A peggiorare il quadro si aggiungono la chiusura dello spazio aereo
pakistano, interruzione degli scambi commerciali bilaterali e denuncia pakistana
degli accordi di Simla del 1972, con cui si definì la Linea di Controllo, di
fatti il confine, in Kashmir. Il quasi collasso delle relazioni diplomatiche è
confermato dalla riduzione del personale delle ambasciate da 55 a 30 membri per
parte.
di Luca Mangiacotti
Jammu, sud del Kashmir
Decisioni che hanno quasi resettato le relazioni diplomatiche tra i due Paesi,
proiettando già governi e società civile in uno stato di fermento per il
preannunciato attacco militare. A svelare le carte ci ha pensato Shebaz Sharif,
che ha sottolineato come l’uscita unilaterale dal trattato di Simla del 1960 è
stata di fatto una dichiarazione di guerra, avendo come bersaglio la popolazione
civile pakistana. L’uscita dalla convenzione bilaterale sull’uso delle acque dei
fiumi Indo, Jhelub e Chenab è un duro colpo per le regioni agricole di Punjab
pakistano e Sindh e per la popolazione civile pakistana tutta dato che lo Stato
dipende per l’80% del suo fabbisogno idrico da questi tre fiumi.
Questa strategia di deterrenza idrica indica come le guerre possano volgere a
proprio favore anche senza sparare un solo colpo d’artiglieria nell’epoca della
crisi climatica, soprattutto in una delle regioni maggiormente afflitta dalle
sue conseguenze.
L’assenza di infrastrutture capaci di deviare i corsi dei fiumi fa tirare un
grosso sospiro di sollievo, ma preoccupa la possibilità di governare i flussi
idrici con l’uso delle infrastrutture esistenti. Qualche prima avvisaglia di
contingentamento delle risorse idriche è stata già messa in atto riempiendo le
dighe già presenti e poi aprendole repentinamente con possibilità di causare
inondazioni massicce; le denunce di deterioramento della qualità delle acque
fanno pensare il peggio nella regione hotspot climatica.
ESCALATION MILITARE: MEZZI, PROSPETTIVE E OBIETTIVI
L’inevitabile conseguenza di toni e misure adottate è stata l’escalation bellica
convenzionale. Le esercitazioni civili di massa disposte da Rajnath Singh nelle
giornate immediatamente precedenti ai primi attacchi missilistici indiani hanno
avuto funzione di preparazione della popolazione a eventuali attacchi di forze
convenzionali e non.
Preannunciata nelle riunioni di sicurezza nazionale, fomentata nei media e
recepita con clamore nell’opinione pubblica, l’escalation militare iniziata con
gli attacchi missilistici indiani della notte tra il 6 e 7 maggio ha da subito
raccolto i favori di governo e popolazione indiana. Il nome dell’Operazione
Sindoor – polvere vermiglio con cui le donne si tingono la fronte per indicare
di essere sposate – ha avuto appunto la funzione di etnicizzare la questione su
toni di difesa degli hindu, di difesa della nazione dallo storico vicino-nemico.
Il primo attacco missilistico ha avuto come obiettivo nove siti tra Kashmir e
Punjab governati dal Pakistan, individuati dall’intelligence indiana come
avamposti d’addestramento e infrastrutture dei gruppi terroristici
Jaish-e-Mohammed, Lashkar-e-Tayyiba e Hizbul Mujahedeen. Tra i bersagli colpiti
anche la moschea di Subhan Allah, a Bahawalpur, dove i servizi segreti indiani
dichiarano di aver ammazzato Maulana Masood Azhar, leader di Jaish-e-Mohammed,
assieme alla sua famiglia.
Bombardamenti a cui sono seguite veline di abbattimento di cinque jet delle
forze armate indiane sulla stampa pakistana, di cui solo due sono stati
verificati da osservatori internazionali.
Attacchi con armi pesanti a medio-lungo raggio accompagnati dal costante fuoco
leggero tra le forze convenzionali lungo la Linea di Controllo in Kashmir e
sporadici lanci di artiglieria pesante si sono susseguiti per quattro giorni tra
i due eserciti. Nei quattro giorni e notti di attacchi frontali, sono sedici
indiani/e e quaranta pakistani/e le persone civili morte sotto il fuoco, a cui
vanno aggiunti i cento terroristi ammazzati in territorio pakistano dichiarati
dai servizi di intelligence indiani. Il conto dei deceduti è insufficiente a
determinare la gravità del fronteggiamento armato.
L’aumento della già alta insicurezza delle popolazioni civili ai due lati del
confine ha toccato nuove vette con il costante fuoco d’artiglieria a scandire le
ore della notte, facendo sì che molti abitanti del luogo lasciassero le zone di
confine per paura che l’artiglieria colpisse le proprie case. Preoccupazione non
banale dati i rinvenimenti di droni e missili nei dintorni di villaggi, della
capitale estiva del Kashmir indiano Srinagar e la distruzione di una chiesa nel
distretto di Poonch che ha portato alla morte di due persone.
Quattro giorni di fuoco incrociato e conferenze stampa governative; quattro
giorni di minacce di lancio di testate nucleare, fortunatamente mai messe in
atto. Quattro giorni di escalation conclusisi con attacchi mirati delle forze
armate indiane negli aeroporti militari di Nur Khan, Sargodha, Bholari e Rahim
Yar Khan, basi militari pakistane, e nei dintorni delle città di Lahore e della
capitale Islamabad; a cui è seguito un massiccio contrattacco di circa 400 droni
pakistani nelle zone di confine con l’India, in Kashmir, Punjab e Rajasthan.
Scopo dell’ultimo attacco era colpire le infrastrutture nevralgiche
dell’esercito pakistano in una vera e propria prova di forza tra gli eserciti
dei due Stati.
Seppur concentrato in quattro giorni di conflitto armato e in ambito regionale,
quanto successo apre delle riflessioni necessarie su quanto un conflitto ben
delimitato sia costruito al giorno d’oggi su direttrici internazionali. La
guerra tra i due Stati ha dei tratti che potremmo definire propri delle guerre
di nuova generazione: uso ristretto della fanteria, massima efficacia nell’uso
di armamenti altamente tecnologici.
> L’India, che si vuole superpotenza globale, ha negli ultimi anni rafforzato il
> proprio arsenale implementando la produzione industriale nel subcontinente con
> aziende parastatali e joint venture in loco con aziende straniere, necessarie
> per il trasferimento di conoscenze e tecnologie, tra cui vale la pena citare
> FinMeccanica e Leonardo ritornate a fare affari con Delhi a dieci anni dallo
> scandalo corruzione Augusta Westland.
Supremazia militare programmata in un lungo piano di riarmo che ha visto l’India
spendere 86 miliardi di dollari nel 2024 nel settore bellico, deviando la già
carente spesa pubblica nel settore della difesa. Si giovano della spesa le
aziende leader del settore in India Hindustan Aeronautics, Bharat Electronics e
Bharat Dynamics, che nel giro di dieci anni hanno aumentato il proprio fatturato
del 174%, anche grazie alle politiche economiche interne promosse dal governo
Modi come l’iniziativa Make in India. Riarmo funzionale, sul piano della difesa
in senso stretto e sul piano più politico, a implementare la narrazione che
descrive l’India come super-potenza globale in essere.
La logica di autoproduzione convive con la massiccia importazione di armamenti.
Stando al report annuale sul commercio di armi globale dell’Istituto
Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma, l’India emerge come secondo
Paese importatore di armi dietro all’Ucraina, con un volume di entrate pari
all’8,3% globale – dato in calo del 9,3% rispetto al 2015-2019.
Le direttrici del commercio in entrata meritano attenzione a causa di fattori
storici, come la dipendenza dalla Russia, e la nuova strategia diplomatica del
governo Modi che mira a rafforzare i legami con Francia e USA e a intensificare,
come ha fatto negli ultimi dieci anni, la collaborazione con l’industria bellica
israeliana.
Sono altre le traiettorie di commercio del Pakistan, a cui affluisce il 4,6%
delle esportazioni globali di armi. Spiccano le forniture di droni di produzione
turca e il ruolo della Cina come principale fornitore, da cui Islamabad dipende
per l’81% di importazioni.
Elementi che sono nei fatti ricaduti nell’escalation militare di inizio maggio.
Tra le armi impiegate nell’offensiva sono stati utilizzati i missili di
produzione indiana Brahmos, i droni di coprogettazione indo-israeliana e i
caccia Rafale e Mig-21, un segno dell’ampia scelta negli arsenali indiani.
Dall’altro lato, è notevole segnalare il battesimo del fuoco degli aerei di
progettazione cinese J-10, il cui ruolo è stato incisivo nell’abbattimento dei
jet indiani individuati nello spazio aereo pakistano. Cronaca bellica utile per
comprendere come la guerra latente tra Cina e USA si debba testare sul campo in
conflitti regionali, atti a valutare l’efficacia degli armamenti in una
multiforme logica di deterrenza.
LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE
All’escalation bellica è corrisposta un’attivazione della diplomazia
internazionale ondivaga, composta di flebili prese di posizione e consolidamento
dei rapporti diplomatici pre-esistenti. Arabia Saudita e Iran si sono
immediatamente proposti come mediatori tra i due Stati, colmando il vuoto
dell’iniziale indifferenza degli USA sulla questione. Da segnalare le posizioni
di Turchia e Azerbaijan, tra i pochi sostenitori del governo di Islamabad.
Senza soffermarsi troppo sul ruolo dell’Iran, desta attenzione l’operato del
principato saudita che consolida anche in questo modo il proprio ruolo di centro
diplomatico globale primario. Diversa invece la postura di Cina e USA.
L’allineamento di Pechino a Islamabad è motivato da elementi storici risalenti
alle guerre cinesi e pakistane contro l’India dello scorso secolo. La percezione
dell’India come nemico ingombrante, connessa alle molteplici contese sui confini
irrisolti a Nord nel Kashmir e Ladakh, a Nord-Est nel Sikkim e nell’Arunachal
Pradesh, sono più volte culminate in brevi conflitti militari.
Vale la pena far riferimento ai recenti attriti in Ladakh iniziati nel giugno
2020 e chiusisi con il riavvicinamento diplomatico nello scorso anno, fatti che
si possono leggere come momento di attrito di una guerra di vicinato di lungo
periodo segnata da sconfinamenti infrastrutturali, parole al veleno sul governo
cinese durante la pandemia da parte degli hindu-nazionalisti e richieste di
sovranità sui territori contesi, come nel caso dell’Arunachal Pradesh.
Alle ragioni più territoriali si accompagnano quelle di ordine economico. Il
Pakistan è uno degli alleati principali di Pechino nell’area, in partnership con
la Belt and Road Initiative sia per il corridoio commerciale sino-pakistano, che
attraversa il Kashmir governato dai due Stati, sia per le linee marittime, di
cui il porto di Karachi nel Sindh pakistano è un nodo cruciale delle rotte
cinesi. Tutti elementi che hanno portato il governo di Pechino a supportare le
condanne da parte di Islamabad dell’offensiva militare indiana, seppur celate
sotto appelli al ripristino della pace tra i due paesi.
di Luca Mangiacotti
Jammu, sud del Kashmir
Diversa la posizione degli USA, storico alleato del Pakistan nel secondo
Novecento in funzione di contenimento delle avanzate comuniste nel confinante
Afghanistan e poi, dal crollo dell’Unione Sovietica, progressivamente
avvicinatosi a Delhi. Avvicinamento provocato da ragioni economiche, effettuato
in conseguenza all’apertura al libero mercato dell’India nel 1991, visto dalle
aziende statunitensi come possibilità di espandere il proprio dominio economico
ed esternalizzare forza-lavoro a basso costo.
Sotto le presidenze Trump e il governo Modi, guidato dalla diplomazia degli
abbracci, l’affinità ideologica tra i due leader di governo si è tradotta in una
stretta relazione per ragioni politiche, di contenimento dell’espansione
commerciale-militare cinese nell’area indo-pacifica, e commerciali, come
testimoniato dai recenti colloqui successivi alle dichiarazioni di imposizioni
di dazi dell’attuale amministrazione statunitense.
L’India di oggi guarda attentamente a occidente, vedendo nell’attuale
conformazione del sistema politico-economico globale le condizioni ottimali per
accreditarsi come sostituto della Cina come fabbrica del mondo. Tale aspirazione
è corroborata dalla crescita economica sostenuta del PIL negli ultimi vent’anni
e dal riconoscimento dell’importanza strategica della penisola indiana per il
controllo militare-commerciale dell’area Indo-Pacifica, tesi ulteriormente
avvalorata dagli accordi di difesa QUAD e I2U2.
La nota di ricognizione delle relazioni statunitensi è utile a comprendere il
ruolo degli USA nel conflitto. Inizialmente in disparte con dichiarazioni di
condanna fini a sé stesse dell’attacco terroristico di Pahalgam e appelli alla
pace all’inizio dell’escalation militare, l’amministrazione Trump ha messo in
atto una strategia diplomatica a tratti caotica. «Fondamentalmente non è un
nostro problema», ha dichiarato il vice-presidente statunitense J.D. Vance in
un’intervista a Fox News, il giorno prima di essere smentito da Trump e dal
segretario di Stato Marc Rubio, corsi il 10 maggio a intestarsi i meriti del
raggiungimento del cessate il fuoco. Dietro l’angolo, gli interessi di
Washington nell’assicurarsi i favori del governo Modi per conto di aziende
statunitensi volenterose di penetrare ulteriormente nel mercato sud-asiatico per
assicurarsi nodi della supply-chain globale.
LA NARRAZIONE INTERNA TRA ESCALATION E CESSATE IL FUOCO
La riuscita del conflitto tra Stati passa per l’annichilimento della
conflittualità interna ai propri confini nazionali, come sublimazione del
processo di nazionalizzazione delle masse. Sin dalle ore immediatamente
successive all’attentato terroristico di Pahalgam, i principali media indiani
hanno fatto da megafono alle dichiarazioni del governo indiano, indicando da
subito la diretta responsabilità di governo e forze armate pakistane.
Ore di trasmissione ossessive, con talk interminabili e ripetizione delle
immagini disponibili, in uno schermo contornato da hashtag inneggianti alla
vendetta contro Islamabad sono state la costante delle settimane di escalation.
Opinioni personali passate come informazioni, veline di governo riprodotte in
modo pressoché integrale dagli anchor man televisivi, reportage degni della
cronaca rosa pomeridiana hanno scandito il tempo televisivo; immagini e
dichiarazioni degli esponenti di governo sono state le uniche interruzioni
ammesse dalle direzioni editoriali.
Il tutto sorretto da una costruzione mediatica intenzionata a sostenere la
supremazia indiana in guerra, con spot degli armamenti prodotti dalle aziende
del subcontinente, seguiti da immagini prese da altri attacchi armati spacciate
per iniziative dell’esercito indiano. Eclatante l’uso di immagini artefatte
della distruzione del porto di Karachi schizzate in televisioni e social, come a
ribadire la supremazia indiana rispetto allo Stato pakistano su ogni fronte,
anche su quello degli attacchi strategici a infrastrutture nevralgiche
dell’altro nemico, la Cina.
In questa infosfera si è consolidato il già forte sentimento nazionalistico,
fondato sul senso comune costruito dalla destra hindu-nazionalista la cui ragion
d’essere può essere riassunta nel cercare di creare una nazione etnicamente
omogenea, progetto speculare alla fondazione del Pakistan. Ricadute immediate
nella società di tale narrazione sono stati gli episodi di violenza comunitaria
nei confronti di kashmiri e musulmani/e registrati/e in molte località del nord
dell’India, dove fazioni hindu-nazionaliste hanno preso di mira studenti,
venditori/trici e lavoratori/trici poveri/e additati/e come complici dei gruppi
terroristi.
Il minimo comun denominatore degli episodi di violenza è il far sentire
musulmani/e e kashmiri come degli infiltrati/e in India, rei di essersi
ritrovati/e o aver scelto di vivere nel subcontinente, la cui espulsione deve
essere promossa con tutti i mezzi a disposizione. La legittimazione
istituzionale lascia ampli spazi di manovra ai gruppi della destra
hindu-nazionalista, impuniti nelle loro azioni intimidatorie o di devastazione
settaria. Rotture che rendono l’India una casa ostile per kashmiri e
musulmani/e. A più di un anno di distanza dal discorso di Banswara in cui Modi
definì in piena campagna elettorale i/le musulmani/e come infiltrati/e possiamo
constatare la penetrazione della definizione nel senso comune di parte della
popolazione hindu in India.
Le opposizioni sono, in parte, silenti davanti all’escalation bellica, pronte a
intonare «Jai Hind!», vittoria all’India, all’unisono con la maggioranza
parlamentare nelle celebrazioni degli attacchi missilistici, e capaci solo di
reclamare uno spazio di discussione condiviso per le decisioni del governo sulle
operazioni militari.
di Luca Mangiacotti
Srinagar, Kashmir
Dietro la ragione di Stato tutti i maggiori partiti rappresentati in Parlamento
hanno chinato il capo, sparute le forze politiche disallineate dalla
salvaguardia dell’interesse nazionale anche nell’area socialista, che poi si
sono lanciate in appelli al cessate il fuoco nelle ultime giornate di conflitto
bellico. Degne e minoritarie forze politiche come il Partito Comunista Indiano
(Marxista-Leninista) e le compagini maoiste, sottoposte a costanti attacchi
militari dell’esercito indiano, hanno espresso fin da subito il loro rifiuto di
parteggiare per l’interesse nazionale.
Il quadro politico-sociale ha influenzato il recepimento dell’accordo di cessate
il fuoco raggiunto nella notte del 10 maggio tra i Ministri degli Esteri dei due
paesi, mediato dall’intervento diplomatico statunitense.
Il cessate il fuoco è stato inizialmente accolto come una sconfitta nella sfera
mediatica indiana perché non giustificato dalla vittoria sul campo, bollato come
un’ingerenza dell’amministrazione statunitense in quella che si vuole come una
questione meramente bilaterale. Cessate il fuoco che, per com’è arrivato, è
suonato come un’imposizione, giustificabile solamente per l’assenso del premier
Narendra Modi, le cui posizioni non sono oggetto di discussione per i media
asserviti agli interessi di suoi partner economici. Come ogni conflitto che si
rispetti sono seguite manifestazioni di festeggiamento nazionaliste tiranga
rally, in tutto il subcontinente, a rimarcare il senso comune della vittoria
dimezzata dalle ingerenze estere.
Sentimento comune che viene ripreso in varie forme istituzionali: dagli
striscioni nell’ambasciata indiana in Portogallo – «L’operazione sindoor non è
ancora finita» -, ai biglietti del treno che riportano il banner
dell’operazione, ma anche le gigantografie di Narendra Modi aviatore e
l’esaltazione a mezzo stampa dei sistemi di difesa aerea indigeni Akashteer. Più
spinta l’enfasi del primo ministro indiano nel suo comizio a Bikaner, Rajasthan,
dove l’attacco è sì definito come «una nuova forma di giustizia», atta a
dimostrare al mondo e ai nemici dell’India «cosa succede quando “sindoor”
diventa “barood” [polvere da sparo]».
Seppur breve, l’escalation tra India e Pakistan mostra traiettorie ragguardevoli
di come si nazionalizzano delle masse, a maggior ragione nell’attuale fase
segnata da conflitti bellici convenzionali su varie aree regionali e crescenti
attriti nelle relazioni diplomatico-economiche tra le superpotenze globali.
> Leggere il conflitto come una guerra per procura è certo pressappochista, un
> punto di vista figlio di una volontà di guardare alle rotture tra gli
> Stati-nazione come marionette delle guerre globali; ma non situare questi
> conflitti all’interno dell’economia mondo, da cui consegue un nuovo assetto di
> potere allineato a Washington o succube di quello che si vuole come il nuovo
> ordine del multipolarismo autoritario, sarebbe miope e riduzionistico.
Giocano un ruolo fondamentale le traiettorie internazionali in cui si costruisce
e legittima lo stato di guerra latente permanente. Nella corsa alla conversione
bellica degli impianti produttivi civili e della risposta alla crisi delle
rendite finanziarie nell’industria bellica, l’internazionalizzazione delle
filiere produttive è uno dei fattori su cui si costruiscono alleanze
tattico-strategiche volte a influenzare la ristrutturazione della produzione
capitalistica globale. Il raggiungimento del cessate il fuoco non deve
ingannare: sulla frontiera irredenta del Kashmir l’escalation è conclusa, il
sempiterno confronto tra governi ed eserciti no.
Immagine di copertina di Luca Mangiacotti, scattata a Srinagar, Kashmir
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politica interna ed estera proviene da DINAMOpress.