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Le Dita Nella Presa - Tecnologie e rispetto delle tradizioni: app e caste in India
Iniziamo segnalando un articolo da Logic che ci aiuta a riconoscere il sistema di caste indiano nella struttura di alcune delle applicazioni di "gig economy" destinate a quel mercato. Con una compagna in studio facciamo delle riflessioni su un testo pubblicato sul sito di hackmeeting. A proposito, il prossimo hackmeeting è 12-14 Giugno al Csa Next Emerson a Firenze. Notiziole: * Il treno a idrogeno non lo vuole neppure la Francia. Alstom chiude la sua unità di sviluppo su questa tecnologia, e l'Italia è rimasta l'unico acquirente di questo treno * No, il ChatControl non è ancora stato approvato * Sì, Elon Musk è più forte di Gesù, almeno secondo Grok Ascolta il podcast sul sito di Radio Onda Rossa
[Le Dita nella Presa] Tecnologie e rispetto delle tradizioni: app e caste in India (1/4: Puntata completa)
Iniziamo segnalando un articolo da Logic che ci aiuta a riconoscere il sistema di caste indiano nella struttura di alcune delle applicazioni di "gig economy" destinate a quel mercato. Con una compagna in studio facciamo delle riflessioni su un testo pubblicato sul sito di hackmeeting. A proposito, il prossimo hackmeeting è 12-14 Giugno al Csa Next Emerson a Firenze. Notiziole: * Il treno a idrogeno non lo vuole neppure la Francia. Alstom chiude la sua unità di sviluppo su questa tecnologia, e l'Italia è rimasta l'unico acquirente di questo treno * No, il ChatControl non è ancora stato approvato * Sì, Elon Musk è più forte di Gesù, almeno secondo Grok  
Combustibili fossili in India: proteste a Delhi contro l’inquinamento
La Cop 30 di Belém appena conclusa è l’ennesimo passo indietro rispetto agli accordi di Parigi. Il compromesso raggiunto attorno all’accordo Mutirao vede una netta divisione tra paesi del Nord e del Sud globale, con il raggiungimento di un accordo che continua a far discutere per il suo essere centrato sui fondi di adattamento climatico per i paesi in via di sviluppo, cioè su compensazioni per le emissioni fossili. Scompaiono dal documento finale i riferimenti ai combustibili fossili, facendo emergere le critiche di un gruppo di trentasei paesi – tra cui Francia e Colombia – che reputano il documento finale un passo indietro, su cui pesano il ruolo di Paesi emergenti come India, Cina, Russia, Arabia Saudita e Nigeria. La posizione del governo indiano è tra le più critiche. Il subcontinente è il paese che ha accresciuto di più le proprie emissioni di gas climalteranti nel 2024, un dato da soppesare sì in base alla popolazione di oltre 1.4 miliardi di persone e al crescente ritmo di sviluppo economico, su cui grava l’irresponsabilità del governo nel delineare una strategia di phase out dai combustibili fossili. La dipendenza energetica dal carbone, da cui dipende il 75% della produzione di energia nazionale, è tra i fattori di maggiore criticità. > Nonostante l’implementazione di energie rinnovabili, a oggi 236 GW di energia > fotovoltaica prodotta, la strategia di produzione energetica resta ancorata al > carbone. Il dato è suffragato dall’aumento di concessioni di estrazione di > carbone in aree forestali e dall’accresciuto afflusso di gas e petrolio, anche > grazie agli accordi con Russia e petrostati del golfo arabico. Sono ancora > lontani gli obiettivi di riduzione di dipendenza da fonti carbonifere ad > almeno il 19% del totale del computo energetico necessario per rispettare > l’obiettivo di fermare il riscaldamento globale a 1,5°. Invertire la rotta della dipendenza energetica dalle fonti fossili per l’India è fuori dagli obiettivi economici del Paese in ascesa come potenza economica globale; anche se i dati della produzione di energia da fonti rinnovabili segnano un importante incremento di produzione, queste si inseriscono in uno schema di addizione energetica. Nell’India che vuole affermarsi come potenza economica di prim’ordine, con un governo alla stregua di oligopoli direttamente coinvolti nella produzione di energia fossile e rinnovabile, la prima necessità è accrescere la produzione energetica totale per sostenere la crescita del settore delle infrastrutture, edilizia, industrie ad alta intensità tecnologica e in ultimo data center di nuova generazione – come confermato dagli investimenti proposti da Google e da Tata Consultancy Services. Su questi ultimi due settori, governo e aziende hanno cominciato a sondare il mercato globale per la costruzione di centrali nucleari di nuova generazione e mini centrali nucleari, da costruire nei pressi degli stabilimenti produttivi per garantire continuità e sufficienza energetica degli impianti. Il contraltare di COP 30 e strategia energetica indiana sta nelle condizioni climatiche dell’India, toccata da temperature altissime nelle sue stagioni secche ed esponenziale crescita di eventi climatici disastrosi nella stagione umida. In un report presentato dal dipartimento meteorologico dell’India sui primi nove mesi del 2025, sono 4064 i morti registrati a causa di eventi climatici estremi e ingenti le perdite di raccolti che hanno colpito 9,47 milioni di ettari coltivati. Nella stagione umida appena passata, i danni causati dagli effetti di alluvioni e frane sono aumentati nelle regioni sub-himalayane e a valle. Le immagini di Dharali del 5 agosto scorso, in cui una bomba d’acqua ha causato una frana che ha travolto un intero villaggio, sono emblematiche della situazione in cui versa l’India trainata da costruzioni di infrastrutture e di edilizia turistica selvaggia in aree vulnerabili, della voluta negligenza governativa in materia per favorire la crescita economica a tutti i costi. Simili esempi si possono trovare nelle regioni del Nord-Est indiano come in Kashmir, con fenomeni di simile intensità più o meno accentuati dalla maggior frequenza di bombe d’acqua; o a valle, nelle regioni a forte vocazione agricola dove le alluvioni distruggono raccolti annuali e vite. Basti citare in questa sede le alluvioni nel Punjab indiano dove 1400 villaggi sono stati inondati dall’acqua e trenta persone sono morte, anche a causa delle piogge più forti degli ultimi 25 anni nel mese d’agosto: 253,7mm d’acqua, il 74% più forti rispetto alla media. L’ARIA IRRESPIRABILE DI DELHI Dimensione della crisi climatica che arriva a toccare anche le città. La capitale Delhi è esemplificazione delle contraddizioni che l’India si trova ad affrontare su più fronti: eventi climatici disastrosi, inquinamento delle acque e dell’aria e assenza di efficaci politiche di prevenzione. Nelle scorse settimane sono stati presentati i dati sull’inquinamento urbano, dove al solito troviamo in cima alla classifica delle città più inquinate al mondo megalopoli indiane e pakistane. In questa classifica e dai dati della qualità dell’aria raccolti da IQAir, Delhi si conferma la capitale mondiale più inquinata al mondo. Tra le cause principali l’uso di mezzi di trasporto – pubblici ma soprattutto privati –, gli incendi di sterpaglie agricole negli Stati limitrofi, l’inquinamento delle attività produttive e l’uso di combustibili a uso domestico per cucinare o riscaldarsi. Cause imposte dalle condizioni di impoverimento generalizzato della popolazione indiana che rendono impossibile la diminuzione delle emissioni, soprattutto a fronte dell’assenza di un intervento pubblico atto a sovvenzionare la transizione. Le conseguenze della crisi climatica sono pagate soprattutto dai subalterni e in particolare dalle donne. Dal report sulla qualità dell’aria e della vita del 2025 dell’Istituto per le politiche energetiche dell’Università di Chicago, emerge che l’inquinamento dell’aria ha ridotto l’aspettativa di vita degli indiani di circa tre anni e mezzo; da un altro report dello Stato di Delhi fatto sugli standard dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’aspettativa di vita nelle condizioni di inquinamento in cui versa la capitale indiana si abbassa di 8.2 anni. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista scientifica “The Lancet Planetary Health“, a dicembre 2024, sono quasi 1,7 milioni le persone morte tra il 2009 e il 2019 in India a causa dell’esposizione a livelli di PM2.5 superiori a 40 μg/m3. A essere più esposte e vulnerabili sono le donne. Allarmante il dato arrivato da Ahmdebad, capitale del Gujarat, dove le donne esposte a combustibili da biomassa –legname, carbone, ecc. spesso utilizzati in attività domestiche – durante la gravidanza avevano il 50% di probabilità in più di aborto spontaneo. di Ninara (Flickr) LE PROTESTE CONTRO L’INQUINAMENTO Nel mese di ottobre la città di Delhi ha toccato livelli record d’inquinamento in concomitanza con la festività del Diwali. Nonostante il divieto del governo di Delhi di uso di fuochi d’artificio, l’inquinamento dell’aria ha toccato i livelli record di 1000 µg/m³ – ben oltre la soglia limite di 40 µg/m³ fissata dall’organizzazione mondiale della sanità. La situazione è aggravata dal malfunzionamento delle stazioni di monitoraggio della qualità dell’aria. Stando ai dati raccolti dalla testata indiana “Hindustan Times” solo il 23% delle stazioni di monitoraggio funziona a pieno nella capitale, tra queste molte sono disattivate automaticamente nella notte o al raggiungimento del valore di 1000 µg/m³. Una situazione insostenibile e prolungata oltre il mese del Diwali, dove i valori sono scesi continuando a restare tra i 300 e i 600 µg/m³. La difficile situazione dell’inquinamento dell’aria di Delhi è causata da più fattori, tra cui inquinamento da traffico urbano, combustione di biomasse per uso domestico, centrali a carbone vicine alla città, incendi di rifiuti, inceneritori urbani e arrivo di fumi tossici dagli incendi di sterpaglie da Stati limitrofi. Un’emergenza permanente nella quale vi è un sostanziale immobilismo delle istituzioni nell’invertire la rotta. A nulla è servito l’uso di oltre mille camion con idranti e 140 cannoni d’acqua per ridurre i livelli d’inquinamento dell’aria. Nemmeno l’avveniristica mossa di inseminazione delle nuvole per stimolare piogge naturali condotta da governo di Delhi e Istituto Indiano di Tecnologie di Kanpur ha migliorato la situazione. Irrespirabilità dell’aria e non gestione dell’emergenza da parte delle istituzioni hanno causato proteste di piazza da parte dei giovani della capitale. Al grido di «vogliamo respirare» in centinaia sono scesi in piazza da inizio novembre per rivendicare il proprio diritto a respirare un’aria pulita, richiedendo alle istituzioni un piano credibile per fronteggiare l’emergenza inquinamento nella capitale arrivata a livelli ingestibili. Una protesta organizzata dal Delhi Coordination Committee for Clean Air, e animata da giovani studenti della capitale e cittadini accorsi nella zona turistica di Delhi gate per prendersi la scena uscendo dal perimetro designato dalle istituzioni locali per le manifestazioni della più periferica Jantar Mantar. La risposta delle istituzioni non si è fatta attendere. Con la zona blindata da jester e pattuglie della polizia, le forze dell’ordine hanno caricato i manifestanti su pullman diretti alle stazioni di polizia con la motivazione dell’assenza di autorizzazioni necessarie per la manifestazione. Repressione che non ha fatto demordere i manifestanti dal riscendere in piazza, che a distanza di due settimane hanno riconvocato un presidio statico a Delhi gate con le stesse rivendicazioni fronteggiando una più forte repressione. > Ventitré gli arrestati con accuse di offesa a pubblico ufficiale, > disobbedienza agli ordini di polizia, e cospirazione contro i poteri dello > Stato. Uno dei manifestanti arrestati ha dichiarato alla testata indiana “The > Wire”: «Chiedevamo forse qualcosa di illegale? Chiedevamo l’impossibile? > Stavamo semplicemente ricordando al governo il nostro diritto alla vita. > Eppure, siamo stati trattati come se stessimo incitando la gente a far > crollare il Paese». Hanno fatto scalpore le immagini di uno degli arrestati, il ventiquattrenne Akshay E R, studente della Delhi University, scaraventato a terra dalla polizia, con l’accusa di aver scandito slogan maoisti, aver rotto le barricate e aggredito poliziotti. Tra le motivazioni delle accuse a suo carico il suo attivismo nell’organizzazione Bhagat Singh Chhatra Ekta Manch, tra i collettivi promotori del coordinamento della capitale per l’aria pulita, che ha denunciato sui social le cause dell’inquinamento «aumento delle tariffe del trasporto pubblico, diminuzione del numero di autobus, mancata applicazione degli standard governativi per prevenire l’inquinamento atmosferico in oltre il 70% dei cantieri e l’esenzione concessa a una grande quantità di industrie pesanti all’interno della regione NCR di Delhi sono le ragioni di questa emergenza.» Gli esponenti del Bharatiya Janata Party non hanno risposto nel merito alle proteste cercando di spostare il focus sulla legittimità delle modalità di protesta. Un classico dell’India governata da Modi, dove il diritto al dissenso viene sempre più negato con esplicite motivazioni politiche e anche grazie a nuove norme atte a criminalizzare ogni atto di protesta. La copertina è di Peter Addor da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Combustibili fossili in India: proteste a Delhi contro l’inquinamento proviene da DINAMOpress.
Il Kerala comunista è il primo Stato dell’India a sradicare la povertà
Lo Stato indiano del Kerala è diventato il primo del Paese a sradicare la povertà estrema, con un anno di anticipo rispetto al previsto, grazie a un programma “meticolosamente pianificato” guidato dal Partito Comunista Indiano (Marxista).  Il primo ministro Pinarayi Vijayan ha annunciato il risultato raggiunto il 1° novembre. “Questa […] L'articolo Il Kerala comunista è il primo Stato dell’India a sradicare la povertà  su Contropiano.
Amma darà il suo Darshan a Piancenza il 11-12-13 novembre: l’amore che unisce
> “Un flusso continuo di amore scorre da me a tutta la creazione. Questa è la > mia natura innata. Il mio dovere è consolare coloro che stanno soffrendo.” > > – Sri Mata Amritanandamayi (Amma) Amma in Italia Il programma di Amma non è solo un evento ma un’opportunità per vivere in prima persona un’esperienza di amore e compassione incondizionata. Inoltre Amma condivide insegnamenti che incoraggiano gentilezza, il servizio agli altri e la tolleranza. Le sue parole e le sue azioni ispirano molti a vivere una vita più consapevole e altruista. Questo evento rappresenta anche l’occasione per la raccolta di fondi a favore delle opere umanitarie di ETW. Grazie al servizio di volontariato di centinaia di persone riusciamo a mantenere l’evento gratuito. Amma lavora da sempre per la pace e per alleviare la sofferenza dei più bisognosi. Ha creato ospedali, università, posti di lavoro e portato speranza a milioni di persone. Dopo 6 anni di assenza, Amma torna finalmente in Italia: un’occasione unica per incontrarla di nuovo. Incontrare Amma è un’esperienza che molti descrivono come trasformativa. Il suo esempio ha ispirato migliaia di persone in tutto il mondo a impegnarsi, sia a livello individuale che collettivamente, mettendo a disposizione i propri talenti per rendere il mondo un posto migliore. Amma sarà in Italia dall’11 al 13 novembre 2025 presso Piacenza Expo. Per anni Amma ha visitato l’Italia con programmi gratuiti e aperti a tutti, offrendo il dono del suo abbraccio: un momento unico di amore e pace che molti ricordano con gioia. Ora, dopo la lunga pausa dovuta alla pandemia, Amma torna di nuovo: un incontro speciale, atteso da tanti.     Biografia della “santa degli abbracci” Mātā Amṛtānandamayī, nota come Amma [madre] è una yogi e guru indiana, guida spirituale e umanitaria , riconosciuta in tutto il mondo per le istituzioni e servizi umanitari che ha ispirato e sostenuto nell’arco di tre decenni. Viene spesso chiamata “la santa degli abbracci”. Mata Amritanandamayi è originaria di Parayakadavu (ora conosciuto parzialmente come Amritapuri), Alappad Panchayat, Distretto di Kollam, stato del Kerala. Nata da una famiglia di pescatori nel 1953, terza figlia di Sugunanandan e Damayanti. Ha sei tra sorelle e fratelli. Quando Amritanandamayi aveva nove anni sua madre si ammalò. Fu ritirata dalla scuola affinché si occupasse della casa e dei sette fratelli e sorelle. Quando andava nelle case del vicinato per raccogliere gli avanzi per le mucche di casa, si trovava di fronte all’estrema sofferenza e povertà degli altri. Quando Amritanandamayi veniva a sapere che qualche famiglia soffriva la fame, prendeva il denaro direttamente dalla piccola riserva di sua madre per acquistare il necessario. Se ciò non era possibile, insisteva ostinatamente con suo padre finché non otteneva un po’ di denaro. Quando questi due espedienti non andavano a buon fine, prendeva alimenti crudi dalla modesta dispensa di famiglia e li donava ai bisognosi. Per questo motivo, la sua famiglia che non era affatto ricca, la rimproverava e la puniva. Amritanandamayi cominciò anche ad abbracciare spontaneamente le persone per confortarle dal loro dolore. Nonostante la reazione avversa dei genitori, Amritanandamayi continuò: “Non li vedo come uomini o donne. Non vedo nessuno diverso da me stessa. Un continuo flusso di amore scorre da me verso tutta la creazione. Questa è la mia innata natura. Il dovere di un medico è di curare i pazienti. Allo stesso modo il mio dovere è consolare chi soffre”. Malgrado i numerosi tentativi da parte dei genitori di organizzare il suo matrimonio, Amritanandamayi respinse sempre le loro proposte. Mata Amritanandamayi, 4 aprile 2009 Inizio delle attività umanitarie Nel 1981 ha fondato il Mata Amritanandamayi Math (MAM), una fondazione internazionale impegnata in attività spirituali e umanitarie in tutto il mondo. Nel 1987 i devoti occidentali la invitarono negli Stati Uniti e in Europa. Da allora viaggia in tutta l’India, Europa, Stati Uniti, Australia, Giappone, Sri Lanka, Singapore, Malesia, Canada, Africa e Sud America. Ripete questi incontri ogni anno. Dal 1987 Amma, leader spirituale e umanitaria indiana, porta in tutto il mondo un messaggio di pace, compassione e tolleranza. Con l’aiuto di innumerevoli volontari Amma ha esteso le sue attività caritatevoli in tutto il mondo, creando così Embracing the World (ETW), una rete internazionale di organizzazioni umanitarie locali ispirate dall’operato di Amritanandamayi. Sotto il nome Embracing the World sono riconosciuti il MAM e le organizzazioni no-profit nel mondo legati ai progetti umanitari di Amritanandamayi. Embracing the World nasce per poter raggruppare le singole organizzazioni nazionali, ognuna con un proprio nome, sotto un’unica identità universale che include tutti i progetti umanitari di Amritanandamayi nel mondo, sostenendo: • i poveri nei bisogni fondamentali (cibo, salute, istruzione, casa, aiuti finanziari); • le vittime di disastri naturali con aiuti immediati e volontari sul campo; • la protezione dell’ambiente e la ricerca scientifica. Il 25 luglio 2005, in riconoscimento dei notevoli lavori di soccorso nei disastri naturali e delle altre attività umanitarie, l’Organizzazione delle Nazioni Unite conferisce al MAM lo Statuto Consultivo Speciale, tramite il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite(ECOSOC), consentendo la collaborazione con le agenzie ONU. Nel dicembre 2008 Il Dipartimento per l’Informazione Pubblica (DPI) dell’ONU ha assegnato al Mata Amritanandamayi Math lo stato di ONG associata per aiutare la sua opera di diffusione delle informazioni e la ricerca di questioni umanitarie. Darshan di Amma Coloro che seguono Amma usano il termine darshan per descrivere i suoi abbracci di massa. Il darshan di Amma è il fulcro della sua vita, infatti ha ricevuto persone quasi ogni giorno dalla fine degli anni ’70. Con l’aumento delle folle che vengono a cercare la benedizione di Amritanandamayi, ci sono volte in cui Amritanandamayi dona i suoi darshan in modo continuo per più di 20 ore. Amritanandamayi ha dato i suoi darshan, cioè gli abbracci, sin dalla sua tarda adolescenza. Descrivendo come ciò sia iniziato, Amma ha affermato: “Le persone erano solite venire da me per raccontarmi i loro problemi. Loro piangevano e io asciugavo le loro lacrime. Quando piangendo cadevano sul mio grembo io li abbracciavo. Così anche la persona dopo voleva lo stesso trattamento … E così è diventato una consuetudine”. Amritanandamayi afferma che abbracciare qualcuno significa donare e che il suo abbraccio ha lo scopo di risvegliare lo spirito di altruismo delle persone. Il Mata Amritanandamayi Math sostiene che Amma ha abbracciato più di 33 milioni di persone in tutto il mondo in oltre 30 anni. Quando le è stato chiesto, nel 2002, fino a che punto pensa che i suoi abbracci abbiano aiutato a risolvere i mali del mondo, Amritanandamayi ha risposto: “Non posso dire di poterlo fare al cento percento. Cercare di cambiare il mondo [completamente] è come cercare di raddrizzare la coda arricciata di un cane. Però la società nasce dalle persone. Così toccando gli individui, è possibile fare dei cambiamenti nella società e, tramite ciò, nel mondo. Non è possibile cambiarlo, ma è possibile fare dei cambiamenti. La lotta nella mente degli individui è responsabile delle guerre. Così se puoi toccare le persone, puoi toccare il mondo.” Il darshan di Amritanandamayi è anche il simbolo delle sue opere caritatevoli. Il suo abbraccio ha ispirato migliaia di volontari ad unirsi alla sua rete di progetti umanitari Embracing the World.   Il suo insegnamento spirituale e l’Om Loka Samastah Sukino Bhavantu “Solo quando si raggiunge lo stato dell’amore il bellissimo fiore della libertà e della gioia suprema può schiudere i suoi petali e fiorire” -Amma- Amma dice che la sua religione è l’amore. Non promuove nessuna fede in particolare, lei è “per tutte le religioni e per nessuna”.Chiunque, sia egli indù, musulmano, cristiano o non credente, può avvicinarsi e ricevere il suo darshan. Il suo ashram (centro dedicato alle pratiche spirituali) ha radici nella tradizione indù, ma non è strettamente legato ad essa. Infatti nella zona residenziale di Amma è appesa una foto di Gesù Cristo e nel suo ashram sono benvenuti i visitatori di tutte le confessioni religiose. Amritanandamayi, a differenza di altri guru, non chiede di seguire pratiche e rituali specifici (Delia Gallagher, Guru fights world’s ‘poverty of love,’ one hug at a time, in CNN, 22 agosto 2007) ma accetta le pratiche spirituali e le preghiere di tutte le religioni come metodi per purificare la mente. Afferma infatti in Living in Harmony, pubblicato da Mata Amritanandamayi Mission Trust nel 2004: «L’obiettivo di tutte le religioni è uno solo: la purificazione della mente umana.»  Nel libro The Timeless Path, Swami Ramakrishnananda Puri, uno dei discepoli più anziani di Amritanandamayi, scrive: “Il sentiero [spirituale] insegnato da Amma è lo stesso che è presentato nei Veda e ricapitolato nelle successive scritture tradizionali come la Bhagavad Gita”. Amma afferma: “Karma [azione], jñana [conoscenza] e bhakti [devozione] sono essenziali. Se le due ali di un uccello sono devozione e azione, allora la conoscenza è la sua coda. Solo con l’aiuto di tutti e tre un uccello può raggiungere quote elevate”. Con queste parole, si sottolinea l’importanza della meditazione, del servizio disinteressato [karma yoga] e del coltivare qualità divine come la compassione, pazienza, perdono, autocontrollo, ecc. Amritanandamayi promuove le pratiche spirituali come metodo per migliorare la società, cambiando prima di tutti sé stessi, dicendo: “Figli miei, non provate a cambiare il mondo o le altre persone prima di essere in grado di cambiare voi stessi. Se cercate di cambiare gli altri senza cambiare le vostre attitudini, ciò non avrà alcun effetto. Cambiate voi stessi e il mondo intorno a voi cambierà”. Chi ha avuto l’occasione di partecipare ai programmi di Amma in Italia o nel mondo ha probabilmente notato che c’è un mantra che risuona spesso, negli intensi momenti di meditazione come nei colorati allestimenti del palco, nella descrizione di un progetto umanitario internazionale come nei racconti dedicati alle attività dei gruppi locali. Si tratta del mantra Lokah Samastah Sukhino Bhavantu, che in sanscrito significa: “Possano tutti gli esseri dell’universo essere felici”. È un antichissimo mantra che Amma incoraggia a ripetere spesso, e che racchiude in sé il significato profondo del sogno di Amma, quel sogno che ispira e dà forza a ogni progetto della rete umanitaria di Embracing the World: “Tutti nel mondo possano dormire almeno un giorno senza timore; per un giorno almeno tutti possano mangiare a sazietà; per un giorno almeno giovani e vecchi possano aiutare con tutto il cuore chi soffre”.   I programmi di Amrita Yoga Amrita Yoga è un programma nato e sviluppato sotto la guida di Amma e si basa sui insegnamenti spirituali e sulla filosofia di base di Amma. Ad Amritapuri, sin dai primi giorni dalla nascita dell’ashram, la pratica dello Yoga è sempre stata considerata  parte integrante della sadhana (pratica spirituale). Lo stile di insegnamento ha lo scopo di riflettere la semplicità e l’umiltà di Amma. L’approccio olistico alle posizioni (Asana) mira a condurre chi lo pratica in un profondo viaggio interiore, per imparare l’arte di concentrarsi sul momento presente, sintonizzarsi con il vero sé e connettersi alla propria essenza. In questo modo la mente e i sensi si calmano, si sperimenta uno stato di profonda pace interiore e si ascolta il vero sé con amore e consapevolezza. I ritiri di Amrita Yoga cercano di coltivare e supportare un atteggiamento olistico (mano bhavana) e si focalizzano soprattutto su tre aspetti: sviluppo delle abilità, vita pratica (vedanta pratico) e potenziamento della consapevolezza. Amma sottolinea che è importante saper riassumere e integrare i principali sentieri dello yoga; così, Amrita Yoga integra la pratica delle asana con i quattro sentieri più importanti dello yoga, ovvero Bhakti Yoga (Yoga della devozione), Jnana Yoga (Yoga della conoscenza), Karma Yoga (Yoga dell’azione disinteressata) e Raja Yoga (Yoga della contemplazione, della creatività e della meditazione). Ogni sessione comprende esempi, aneddoti, poesie e citazioni dalle scritture indiane, e si concentra su un tema centrale, come ad esempio la compassione, la concentrazione, l’equanimità, la pazienza, l’entusiasmo, la fiducia in se stessi, la grazia, il lavoro su di sé, e Madre Natura. Lo Yoga non è limitato alle lezioni e alle posizioni. Amma incoraggia una pratica duratura di quella che lei chiama “la via di mezzo”, ovvero una sintesi di tutti e quattro i principali sentieri dello Yoga. Questo tipo di Yoga serve a trasformare la vita all’insegna dell’amore e dell’attenzione consapevole, e a scegliere di vivere in maniera equilibrata, armoniosa e olistica. I praticanti vengono incoraggiati a trasportare gli insegnamenti e le esperienze appresi sul tappetino all’interno della propria vita, guardandosi dalla prospettiva del testimone esterno, accettando le diverse situazioni incontrate e riflettendo sulle proprie azioni. Grazie alle pratiche Yoga è possibile trascendere le polarità e raggiungere così uno stato di connessione che ci permette di esprimere al meglio la nostra vera essenza, intraprendendo un viaggio interiore sempre più profondo, che ci connette alla fonte eterna della Coscienza Suprema.   Il Programma 2025 Il programma di Amma non è solo un evento ma un’opportunità per vivere in prima persona un’esperienza di amore e compassione incondizionata. In un mondo spesso segnato da divisioni, l’abbraccio di Amma rappresenta un gesto semplice ma di potente unità. Inoltre Amma condivide insegnamenti che incoraggiano gentilezza, il servizio agli altri e la tolleranza. Le sue parole e le sue azioni ispirano molti a vivere una vita più consapevole e altruista. Questo evento rappresenta anche l’occasione per la raccolta di fondi a favore delle opere umanitarie di ETW. Grazie al servizio di volontariato di centinaia di persone riusciamo a mantenere l’evento gratuito ma i costi per predisporre tutto sono molto ingenti. Il nostro obiettivo è di riuscire a sostenere le spese del programma attraverso donazioni, così da devolvere le entrate ai progetti umanitari di Amma.   Come sostenere l’evento Le spese organizzative sono ingenti, circa 280.000 euro tra affitto della struttura, attrezzature e materiali. Per questo chiediamo il tuo aiuto: • ogni donazione servirà a coprire i costi dell’evento; • l’eventuale eccedenza sarà devoluta alle opere umanitarie di Amma.   Insieme possiamo rendere unico e speciale questo ritorno in Italia! Info su: https://amritayoga.com/ > Amma in Italia sostenitori.programma2025@gmail.com Lorenzo Poli
India, il Kerala comunista sradica la povertà estrema
Riportiamo un articolo di DiogeneNotizie sull’eradicazione della povertà estrema nello Stato indiano del Kerala, guidato ormai da anni da un governo comunista. E’ il primo stato indiano a dichiarare sconfitta la povertà estrema. Mentre India e Pakistan si stringono la mano – o meglio, allentano il pugno – con un nuovo cessate il fuoco, e i titoli parlano di tensioni nucleari, equilibri strategici, scenari di guerra, in un angolo meridionale dell’India va in scena una storia completamente diversa. Qui non si mobilitano eserciti, ma dati. Non si schierano droni, ma medici. Non si costruiscono arsenali, ma scuole e ospedali. Benvenuti in Kerala, lo Stato indiano che non alza la voce, ma abbassa la povertà. Il luogo dove il potere si misura non con la forza militare o il dominio mediatico, ma con la capacità concreta di migliorare la vita delle persone. In un Paese guidato da un nazionalismo crescente, il Kerala rappresenta un’anomalia, forse una provocazione, di certo una possibilità. Un altro volto dell’India L’India non è un monolite. È un continente più che uno Stato. Con oltre 1,4 miliardi di abitanti, 22 lingue ufficiali, religioni diverse e forti squilibri tra nord e sud, ricchi e poveri, caste alte e basse. In questo mosaico complicato, il Kerala è sempre stato un tassello particolare. Un piccolo Stato costiero affacciato sull’Oceano Indiano, 34 milioni di abitanti, poco più della Polonia. Ma soprattutto: il più alto tasso di alfabetizzazione del Paese (96%), una delle aspettative di vita più alte dell’Asia, un tasso di mortalità infantile paragonabile a quello europeo, una sanità pubblica funzionante e un’attenzione sistemica al benessere sociale. Sembra poco, ma in un contesto dove anche respirare è spesso una questione di reddito, è rivoluzionario. Contro ogni previsione: comunisti al governo La particolarità più grande? Il Kerala è governato – democraticamente – dal Partito Comunista Indiano (Marxista), in alleanza con altri partiti della sinistra. Un’anomalia globale: comunisti eletti e rieletti in libere elezioni, che governano con pragmatismo e risultati. Non c’è culto della personalità, né nostalgia rivoluzionaria. C’è una visione socialista applicata alla realtà indiana, fatta di riforme agrarie, partecipazione locale, servizi pubblici e lotta alla povertà. Una sinistra amministrativa, attenta, comunitaria, che ha saputo farsi scegliere dai cittadini non per ideologia, ma per risultati. Sradicare la povertà estrema: il piano EPEP Nel maggio 2025, il governo del Kerala ha annunciato che entro l’anno lo Stato sarà libero dalla povertà estrema. Non uno slogan, ma un obiettivo fondato su dati, pianificazione e partecipazione civica. Nel 2021 è partito il Progetto per l’Eradicazione della Povertà Estrema (EPEP). In un Paese dove spesso i dati servono solo a coprire le inefficienze, qui si è fatto il contrario: dati per agire. Sono state identificate, con metodo partecipato, 64.006 famiglie in povertà estrema. L’81% vive in zone rurali. Molte senza casa, senza cure, senza lavoro. “Along the backwaters of Kerala.” by ravalli1 is licensed under CC BY-NC 2.0. Ogni famiglia ha avuto un piano personalizzato: cure mediche gratuite per chi affronta emergenze sanitarie; kit alimentari e aiuti immediati per chi non ha accesso al cibo; alloggi temporanei per chi vive in condizioni abitative precarie; supporto per l’avvio di attività economiche autonome, con il coinvolgimento di cooperative locali; istruzione garantita per i figli, in modo gratuito e pubblico. Il frutto di una storia politica coerente Questo non nasce da un’intuizione recente, ma da decenni di scelte strutturali. Il Kerala ha abolito le grandi proprietà terriere, ha redistribuito la terra, ha investito nella sanità e nella scuola pubblica, ha puntato sulle autonomie locali, ha costruito reti di donne organizzate (come il programma Kudumbashree, con 4,5 milioni di aderenti). Ha fatto tutto quello che si considera “impossibile” nel Sud del mondo – e l’ha fatto con continuità. Il risultato è un modello che non elimina la povertà da solo, ma la combatte davvero. Lo fa con i mezzi della politica, non con le elemosine o gli appalti alle multinazionali. Modi e il Kerala: due idee d’India Nel frattempo, a Delhi, Narendra Modi concentra potere, risorse e immaginario nazionale in un progetto completamente opposto: religione, controllo, grandezze simboliche. L’India ufficiale si racconta con statue colossali, eventi religiosi oceanici, propaganda patriottica. Lo Stato costruisce autostrade e templi, ma lascia indietro milioni di persone. E soprattutto, soffoca il dissenso, taglia i fondi alle università autonome, accentra le decisioni. Il Kerala è tutto ciò che Modi non è. Decentrato, laico, egualitario, popolare. È uno Stato che parla poco, ma che fa. Dove i cittadini votano la sinistra non perché sogna la rivoluzione, ma perché migliora la vita. Il potere del possibile In un mondo in cui il Sud globale viene spesso descritto come destinato all’arretratezza, il Kerala rompe il frame. Dimostra che il cambiamento non dipende dalla ricchezza, ma dalla volontà politica. Che non servono miracoli, ma buone decisioni, partecipazione popolare e continuità amministrativa. E mentre l’India celebra la pace militare con il Pakistan, forse dovrebbe guardare con più attenzione a quella pace quotidiana che il Kerala costruisce tra i suoi cittadini, riducendo le disuguaglianze, proteggendo i fragili, restituendo dignità a chi è stato dimenticato. Il Kerala non fa notizia come un missile o una parata militare. Ma sta vincendo la guerra più importante di tutte: quella contro la miseria. E lo fa senza bisogno di sparare un colpo. “Annual Ritual of Colourful Thanksgiving….. Scene on a Street in Rural Kerala …” by -Reji is licensed under CC BY-NC-SA 2.0. Redazione Italia
Libertà per l’attivista climatico Sonam Wangchuk
Il leader culturale del Ladakh noto per essere uno tra gli attivisti climatici più influenti del pianeta è detenuto nella prigione di Jodhpur. Il Ladakh, o piccolo Tibet indiano, è una terra isolata posta sul tetto del mondo con passi che superano i 5 mila metri di altitudine. Con una popolazione di 300 mila abitanti che ha sempre vissuto di agricoltura in un contesto buddhista di condivisione sociale, è un luogo di elevata spiritualità e organizzazione dal basso che per secoli ha mostrato come la resilienza in condizioni difficili potesse permettere lo sviluppo di una cultura articolata, comunitaria e quasi totalmente priva di violenza.  Dominato dal deserto di alta quota, dai rilievi in cui nasce il fiume Indo, da imponenti ghiacciai e da una copertura nevosa che in inverno impedisce ogni accesso via terra, il Ladakh è anche un luogo di confine, quello tra India, Cina e Pakistan che risulta il più militarizzato al mondo. E’ qui che in un area remota del Paese nasce nel 1966 Sonam Wangchuk, un bambino particolarmente dotato che fugge a Delhi per studiare e che diventerà un brillante ingegnere, inventore, riformatore del sistema dell’istruzione pubblica e attivista ambientale. Progettista di una tecnica ingegneristica (Ice Stupa) in grado di realizzare piccoli ghiacciai artificiali in grado di rilasciare l’acqua nella stagione secca in un’area del pianeta particolarmente colpita dal cambiamento climatico, fondatore del rivoluzionario campus studentesco SECMOL che funziona con energia solare per cucinare, illuminare e riscaldare, progettista e supervisore della costruzione di edifici passivi in terra cruda in Ladakh, Sikkim e Nepal, in modo che i principi del risparmio energetico vengano implementati su larga scala, fondatore dell’Istituto himalayano delle alternative Ladakh, per le sue soluzioni innovative ai problemi locali Sonam Wangchuk ha ricevuto numerosi riconoscimenti internazionali di altissimo livello. Su ripetuti inviti della comunità studentesca nel 2013 ha inoltre contribuito a lanciare il New Ladakh Movement (NLM), un’organizzazione sociale ispirata ai valori dell’istruzione e dell’ecologismo chiedendo che la popolazione tribale del Ladakh fosse finalmente tutelata dal governo centrale come previsto dalla Costituzione federale indiana. A questo scopo, nel marzo del 2023 ha praticato uno sciopero della fame di 21 giorni contro le lobby indutriali e minerarie che mettono a rischio il fragile ecosistema di questa regione, a cui è seguita nel settembre del 2024 una marcia in puro stile gandhiano verso Dheli che aveva lo scopo di richiamare l’attenzione del governo e del parlamento su questo tema. Dopo pochi giorni la marcia è stata però interrotta dalla polizia che ha arrestato Wangchuck e i suoi sostenitori. In un Ladakh progressivamente deprivato del proprio stile di vita e di un sistema agricolo che garantiva l’autosufficienza alimentare, diventato sempre più dipendente dall’esterno e soggetto a speculazioni immobiliari che lo hanno trasformato in luogo di vacanza per turisti poco attenti, le rivendicazioni dei nativi sono esplose il 24 settembre scorso con una protesta che ha portato all’incendio della sede del partito del primo ministro. Alla manifestazione, dettata dalla frustrazione della gente nei confronti del governo centrale e dalle promesse non mantenute che dopo la separazione del Ladakh dallo stato di Jammu e Kashmir avrebbero dovuto condurre all’autonomia, alla protezione dall’acquisizione di terreni da parte di stranieri e al diritto alla riserva di posti di lavoro per la popolazione locale, si è risposto con una durissima repressione poliziesca che ha causato l’uccisione di 4 manifestanti e il ferimento di altri 80 mentre nel capoluogo Leh è stato imposto il coprifuoco e sono stati oscurati tutti i servizi internet. E’ in questo contesto che Wangchuck viene nuovamente arrestato e questa volta con l’accusa di avere ispirato e fomentato le proteste. Su di lui si sono scatenate varie inchieste governative che lo accusano di avere legami con il Pakistan (per aver partecipato ad una conferenza ONU in quel Paese), che hanno portato al ritiro della licenza per il SECMOL e che riguardano un’inchiesta sull’Istituto himalayano delle alternative. In pratica, una vita di impegno e di dedizione agli altri e alla protezione della terra (che è pure diventata un film di successo in mezzo mondo) è stata distrutta in pochi giorni. Nonostante l’insostenibilità delle accuse e senza che sia stato emesso alcun ordine di detenzione formale alla sua famiglia, Wangchuk è stato allontanato dal Ladakh e trasferito nella prigione di Jodhpur dove non si hanno informazioni sulle sue condizioni di salute. Per quest’uomo geniale e coraggioso che ha messo al centro del suo impegno la salvaguardia dell’ambiente e la tutela dei diritti delle minoranze, è stata presentata dalla moglie J. Angmo una petizione di Habeas corpus alla Corte Suprema: un’atto che segue l’ampia mobilitazione che coinvolge cittadini comuni, accademici, leader dell’opposizione e organizzazioni politiche, voci che si sono levate contro l’arbitrarietà dell’arresto e che sono seriamente preoccupate della tenuta delle garanzie costituzionali nel grande Paese asiatico. Max Strata
India, preoccupazione per gli attacchi contro giornalisti
Press Emblem Campaign (PEC), l’organismo globale per la sicurezza e i diritti dei media, esprime grave preoccupazione per l’aggressione di massa ai danni di alcuni giornalisti, impegnati nel loro lavoro, nell’Assam, nell’estremo oriente dell’India, mentre stavano coprendo una manifestazione di protesta nella località di Baksa il 15 ottobre. Un gruppo di agitatori, che chiedeva giustizia per Zubeen Garg, icona culturale dell’Assam, subito dopo la sua misteriosa morte a Singapore il 19 settembre, ha preso di mira i giornalisti e i videogiornalisti mentre i cinque imputati nel clamoroso caso venivano trasferiti dal carcere di Guwahati a quello di Baksa. Gli agitatori chiedevano giustizia immediata e si opponevano con violenza al trasferimento, lanciando pietre contro il convoglio di veicoli della polizia, che ha reagito con azioni di ritorsione. Numerosi agitatori e agenti di polizia, ma anche esponenti dei media hanno riportato ferite. I giornalisti colpiti sono: Dhruba Bora, Pradip Das e Paragmoni Das (ND24), Rana Deka, Banajit Kalita e Apura Sarma (NK TV), Brajen Taluder e Krishna Deka (News Live),  Abhijit Talukder (DY365), Biricnhi Kr Deka (News 18 Assam/NE), Nokul Talukder (Pratidin Time),  Jintumoni Das (Pratham Khabar), Sourav Dey (Prag News), Akhyendra Deka (Pratibimba Live) e Dilip Kr Boro (ETV Bharat). Inoltre, un veicolo di proprietà di un canale satellitare di notizie con sede a Guwahati (DY365) è stato incendiato da un gruppo di malviventi. > “Condanniamo le aggressioni fisiche ai danni dei giornalisti in servizio, che > stavano semplicemente svolgendo il proprio lavoro. Le autorità dell’Assam > devono prendersi cura di tutte le persone ferite e arrestare i colpevoli per > punirli secondo la legge”, ha affermato Blaise Lempen, presidente del PEC > (pressemblem.ch). Ha sottolineato inoltre la necessità di corsi di orientamento per i reporter sul campo e i videogiornalisti, al fine di proteggerli in situazioni di rischio che potrebbero verificarsi in qualsiasi momento nella regione dell’Asia meridionale. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Nava J. Thakuria
Il profondo messaggio del Satyagraha del Mahatma Gandhi
Con questa riflessione si vuole contribuire ad una riflessione più profonda del messaggio del Mahatma Gandhi che, con gli strumenti della nonviolenza, riuscì a mobilitare il popolo indiano liberandolo da decenni di violento ed oppressivo colonialismo inglese. Le sue teorie politiche e il suo messaggio spirituale si diffusero a macchia d’olio diventano un esempio. In questo articolo si apre uno spiraglio di riflessione su un aspetto poco analizzato: l’asserzione ferma, convinta e determinata della nonviolenza da parte di Gandhi, capendo umanamente l’uso disperato della violenza da parte di tutti questi esseri umani che vivono una condizione di oppressione prevaricante e totalizzante che conduce alla sclerotizzazione umana. L’importante riflessione di Luca Cellini ci conduce, in quanto pacifisti umanisti e nonviolenti, a frenare il nostro impeto giudicante che tende ad elargire sentenze di fronte all’uso della violenza anche da parte di chi farebbe molto volentieri a meno. Laddove sempre si condanna la violenza anche come forma di difesa, è nostro dovere umanamente comprendere e capire la disperazione umana e come può reagire di fronte alla violenza strutturale di un sistema di oppressione. Ciò non ci spinge ad essere neutrali o passivi di fronte alle forme di violenza, ma ad essere giusti con gli strumenti della nonviolenza. Gandhi si è sempre opposto alla guerra, sviluppò e praticò la disciplina della Satyagraha, una strategia di resistenza non violenta per lottare contro le ingiustizie e il colonialismo britannico che dominava e schiacciava l’India e il suo popolo da oltre due secoli. Gandhi, come anche Martin Luther King, non erano pacifisti, bensì credevano che la forza dell’anima e dell’amore nell’azione di una persona dedita alla pace potesse vincere su qualcuno dedito alla violenza e alla guerra. La violenza per Gandhi era vista come inferiore alla non-violenza, ma diveniva  un’opzione da considerare quando non ci fosse stata altra via di resistenza e autodifesa. Gandhi motivò anche perché in una qualsiasi lotta di liberazione considerasse inferiore la violenza: “Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo; mentre il male che fa è permanente.” Il suo ideale e il suo obbiettivo erano la trasformazione del nemico attraverso la forza della verità e della non-violenza: “La pratica della Nonviolenza mira a conquistare il nemico attraverso l’amore e la paziente sofferenza. Per praticare la nonviolenza e la resistenza non violenta ci vogliono molto più coraggio e forza che nel praticare la violenza. La forza non viene dal vigore fisico, viene bensì da una volontà indomabile, e il coraggio non viene dall’assenza della paura, al contrario, viene dalla consapevolezza, dall’altruismo e dalla ferrea autodisciplina.” Ciononostante, sebbene considerasse di gran lunga superiore e molto più coraggiosa la pratica della Nonviolenza, riconosceva la violenza come ultima risorsa in situazioni di estrema necessità. Vediamo meglio quali erano allora i casi in cui Gandhi considerava situazioni di estrema necessità e perché sosteneva che fra scegliere tra la viltà e resistenza e autodifesa violenta meglio comunque quest’ultima: “È meglio essere violenti, se c’è violenza nei nostri cuori, che indossare il mantello della non violenza per coprire l’impotenza, c’è speranza che un uomo violento possa diventare non violento. Non c’è tale speranza per l’impotente e il vile”. In un suo scritto del 1946 Gandhi affermò: “Ci si può e ci si deve difendere anche con la forza, soprattutto se rivolta contro terzi, tuttavia la non-violenza è infinitamente superiore alla violenza. Il perdono è cosa più virile della punizione. La clemenza nobilita il soldato. Ma si ha vera clemenza soltanto quando esiste il potere di punizione; essa è priva di senso quando proviene da una creatura impotente. È difficile che un topo perdoni un gatto mentre viene fatto a pezzi da questo.” Sempre negli stessi scritti definí che: “La viltá è ancora peggiore della violenza, – aggiungendo che – “la viltà è l’assenza di azione, la rinuncia alla lotta e alla difesa.” A proposito dell’autodifesa aggiunse invece: “La violenza, sebbene moralmente inferiore alla non-violenza, è un mezzo di autodifesa che può impedire la sottomissione e l’oppressione.” Disse anche che, qualora ci si trovasse a essere costretti a scegliere unicamente fra viltà e autodifesa anche usando la violenza come ultima risorsa, meglio quest’ultima alla codardia e alla viltà: “La scelta tra violenza e viltà è, in un certo senso, una scelta di coraggio, poiché la viltà implica solo codardia.” In uno scritto del 1947, Gandhi chiari meglio che: “La mia nonviolenza non ammette che si fugga dal pericolo e si lascino i propri cari e le persone deboli privi di protezione. Tra la violenza e una fuga vile, posso soltanto preferire la violenza alla viltà. Non posso predicare la nonviolenza ad un codardo più di quanto non possa indurre un cieco a godere di visioni piacevoli. La nonviolenza è il culmine del coraggio. E nella mia esperienza non ho incontrato difficoltà a dimostrare a uomini allevati alla scuola della violenza la superiorità della nonviolenza. Codardo quale fui per anni, albergavo la violenza. Cominciai ad apprezzare la nonviolenza quando cominciai a liberarmi della viltà.” Sempre nello stesso scritto del 1947 Gandhi affermò che: “Credo che nel caso che l’unica scelta possibile fosse quella tra la codardia e la violenza, io consiglierei la violenza. Ad esempio quando mio figlio maggiore mi chiese quello che avrei dovuto fare se fosse stato presente quando nel 1908 fui aggredito e quasi ucciso, se avesse dovuto fuggire e vedermi uccidere, oppure avesse dovuto usare la sua forza fisica, come avrebbe potuto e voluto, e difendermi, io risposi che sarebbe stato suo diritto di difendermi anche facendo ricorso alla violenza.” Sulla rubrica di un giornale indiano pubblicò la seguente riflessione: “Molti lettori mi chiedono se nella violenza da me “permessa” possano essere incluse varie cose che essi menzionano. Strano a dirsi, tutte le lettere che ho ricevuto a tale proposito sono scritte in inglese! Se gli autori delle lettere leggeranno il mio articolo comprenderanno immediatamente perché non posso rispondere alle loro domande. Non sono in grado di rispondere, probabilmente per il semplice fatto che non ho mai praticato la violenza. Soprattutto non ho mai considerato la violenza come una cosa permessa. Ho semplicemente distinto tra il coraggio e la codardia. L’unica cosa lecita è la non-violenza. La violenza non può mai essere lecita nel senso che io intendo, ossia non rispetto alla legge fatta dalla natura per l’uomo. Tuttavia, sebbene la violenza non sia lecita, quando questa viene usata per autodifesa o a protezione degli indifesi essa è un atto di coraggio di gran lunga migliore della codarda sottomissione. Quest’ultima non reca beneficio a nessun uomo e a nessuna donna. Nella violenza esistono molti gradi e varietà di coraggio. Ciascun uomo deve saperli giudicare da solo. Nessun altro può farlo o ha il diritto di farlo al posto suo” (“Harijan”, 27 ottobre 1946) Gandhi chiari anche ciò che lui considerava come “falsi seguaci della non-violenza”. “Un falso seguace della non-violenza è colui che non rimane in un villaggio che viene assalito ogni giorno da un leopardo. Se ne va e, quando qualcuno ha ucciso il leopardo, ritorna a prendere possesso dei suoi averi e della sua casa. Questa non è non-violenza. Questa è la violenza del codardo. L’uomo che ha ucciso il leopardo almeno ha dato prova di un qualche coraggio. L’uomo che senza rischiare nulla trae vantaggio da tale uccisione è solo un codardo. Egli non potrà mai conoscere la vera non-violenza. Non conoscendo la sostanza di cui è fatta la nonviolenza, molti hanno onestamente creduto che fuggire sempre dal pericolo fosse una virtù paragonabile a quella di opporre resistenza, soprattutto quando questa comportasse pericolo per la vita. Come insegnante di nonviolenza devo, per quanto mi è possibile, mettere in guardia da una credenza così meschina.” Sempre negli stessi scritti del 1947 Gandhi espose in modo ancora più chiaro ciò che lui aveva praticato in  tutta una vita, quando gli chiesero se nella vita di una persona si potesse del tutto eliminare la violenza: “Nella vita è impossibile eliminare completamente la violenza. Si pone il problema di dove deve essere tracciata la linea di demarcazione tra violenza e non-violenza. Tale linea non può essere la stessa per tutti…. Se ad esempio mi chiedete quale sia la mia fede, vi dirò che, la mia fede nella nonviolenza è una forza estremamente attiva. Non lascia posto alla viltà e neppure alla debolezza. Vi è speranza che il violento diventi un giorno nonviolento, ma per il vile non ve n’è alcuna. Perciò ho detto più volte che se non sappiamo difendere noi stessi, le nostre donne, i nostri bambini, e i nostri luoghi di culto con la forza della sofferenza, vale a dire con la nonviolenza, dobbiamo almeno, se siamo uomini, essere capaci di difendere tutto questo combattendo. Rischierei mille volte la violenza piuttosto che la distruzione di tutto un popolo.” Da tempo mi sono domandato, ma se Gandhi fosse vivo oggi, e guardasse alla Palestina, ma soprattutto a ciò che stanno facendo ora al popolo palestinese, da praticante per tutta una vita della Nonviolenza, che direbbe? Ma soprattutto, cosa sceglierebbe, cosa farebbe? Luca Cellini
British Standards Institution: “Allarme jobpocalypse, gravissima crisi nel mondo del lavoro causata dall’AI”
Era il 2020 quando l’ambientalista Sonia Savioli nel suo libro-inchiesta “Il giallo del Coronavirus. Una pandemia nella società del controllo”, metteva in guarda sugli effetti di quella che sarebbe stata la rigenerazione economica del tecnocapitalismo, durante la crisi sanitaria da Covid-19, che avrebbe avuto inizio nel 2021 con il Piano Great Reset del World Economic Forum di Davos (WEF): la Quarta Rivoluzione Industriale. Tra le innumerevoli operazioni di greenwashing spacciate per “sostenibili” (continui finanziamenti alla pesca intensiva e agli allevamenti intensivi, sfruttamento dei mari e degli oceani tramite attività estrattive, l’ingresso della cibernetica nei settori dell’economia, sanità, welfare e finanza), stando ai dati del World Economic Forum – affermava Sonia Savioli – la Quarta Rivoluzione Industriale sarebbe iniziata con l’eliminazione di circa 800 milioni di posti di lavoro nel mondo industrializzato a causa dell’irruzione sistematica dell’Intelligenza Artificiale nel mercato del lavoro. Un numero che, nonostante la grande consistenza, non fece allarmare nessun giornalista mainstream e nessun analista nostrano. A confermare questo dato però, sistematicamente ignorato, è stato il recente report “Evolving Together: AI, automation and building the skilled workforce of the future“ pubblicato dal British Standards Institution (l’ente certificatore nazionale inglese, l’equivalente del nostro Rina) (BSI), basato su interviste a 853 business leader aziendali in 8 Paesi (Cina, Giappone, Australia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Francia e India), svolte da agosto 2025, analizzando anche i report annuali di 123 aziende attraverso strumenti di analisi AI. Secondo i leader globali stiamo vivendo quella che viene definita “jobpocalypse”: un collasso sistemico del modello tradizionale di ingresso nel mondo del lavoro. A darne notizia approfonditamente è stato  The Guardian. L’AI infatti sta cancellando tutte le posizioni di lavoro pensate per neoassunti o personale giovane, con competenze di base e poca (o nessuna) esperienza lavorativa. Perché investire su personale da formare senza competenze specialistiche quando quelle funzioni possono essere svolte da una AI? Secondo il BSI le riduzioni di personale sarebbero già in calo ed in numeri parlano chiaro: * 41% dei leader afferma che l’IA sta consentendo riduzioni dirette del personale; * 50% dichiara esplicitamente che l’AI sta aiutando a ridurre il numero di dipendenti; * 18% delle aziende investe in IA specificamente per ridurre il personale; Se per decenni il paradigma capitalista classico affermava “Il lavoro lo fanno le persone, le macchine aiutano”, oggi si sta invertendo la rotta: “Il lavoro lo fanno i sistemi AI, le persone intervengono quando necessario”. Si sta istituzionalizzando sempre più un diverso modo, da parte delle aziende, di pensare al mondo lavoro e lo studio lo constata senza mezzi termini: * 31% delle organizzazioni oggi esplora soluzioni AI prima di considerare l’assunzione di persone; * 40% prevede che questo diventerà la norma entro 5 anni; * 61% investe in IA principalmente per aumentare produttività ed efficienza; * 49% per ridurre i costi operativi; Il dato più allarmante riguarda anche i lavori entry-level, quelli tradizionalmente destinati a chi inizia la carriera: * 39% delle aziende ha già ridotto o eliminato posizioni junior grazie all’IA; * 43% prevede ulteriori tagli nei prossimi 12 mesi; * 55% dei leader ritiene che i benefici dell’IA compensino le distruzioni sulla forza lavoro; Le mansioni entry-level che l’IA sta eliminando non riguardano solo il “lavoro produttivo”, ma anche lo spazio formativo, dal momento che è proprio nei “primi lavori” che si insegnano competenze che nessuna scuola o università può dare: * Gestire il tempo quando hai troppe cose da fare * Comunicare in modo efficace in contesti professionali * Capire come funzionano davvero le dinamiche aziendali * Riconoscere le priorità vere da quelle apparenti * Reggere lo stress e la pressione * Imparare a sbagliare e correggersi * Costruire relazioni professionali * Navigare la politica aziendale L’IA può fare ricerche, compilare report, gestire agende, rispondere a email routine, ma non può insegnare queste meta-competenze che si sviluppano solo attraverso l’esperienza vissuta. Il report evidenzia dunque la skills latency (“latenza delle competenze”), un pericolo strutturale che fa emergere un ritardo generazionale nello sviluppo delle capacità professionali. Se un’intera generazione non ha accesso ai ruoli formativi entry-level, chi ricoprirà i ruoli senior tra 10-15 anni? Come si formeranno i futuri manager se non potranno fare esperienza sul campo? Le aziende stanno ottimizzando per l’efficienza di oggi, ma stanno creando un problema di talento per il domani. Sono gli stessi business leader globali ad ammettere questa situazione di latenza, dichiarandosi “fortunati” ad essere nati e cresciuti in un mondo pre-AI: * 56% dichiara di essere stato “fortunato” ad aver iniziato la carriera prima che l’IA trasformasse il proprio settore; * 43% ammette che non avrebbe sviluppato le competenze attuali se l’IA fosse stata disponibile all’inizio della carriera; * 28% si aspetta che il proprio ruolo attuale non esisterà più entro il 2030. Dall’analisi AI dei 123 report annuali esaminati dal BSI emerge che il termine “automation” è citato quasi 7 volte più frequentemente di “upskilling”, “training” o “education”. Le aziende comunicano l’IA principalmente come: driver di innovazione, vantaggio competitivo e strumento di efficienza. Di conseguenza c’è molta meno enfasi sulle implicazioni sulla forza lavoro, sugli investimenti in capitale umano, sulla preparazione dei dipendenti al futuro. Solo il 34% delle aziende intervistate ha un programma di formazione strutturato per preparare i dipendenti all’uso dell’IA. In Giappone questa percentuale scende al 16%, mentre in India sale al 64%. A livello geografico, a guidare questa trasformazione drastica e allarmante è l’India con il 50% delle aziende che hanno ridotto ruoli junior. Seguono Australia (57% dichiara che l’AI aiuta a ridurre il personale a livello junior) e Cina (61% prevede riduzioni future). In Italia e in Europa, il fenomeno è in crescita ma ancora meno aggressivo rispetto all’Asia-Pacifico.   Il rischio di questa jobpocalypse però è che si crei una contrazione tale della forza lavoro da portare a una mancata formazione professionale di un’intera generazione. Ancora una volta infatti ad essere penalizzate sono le giovani generazioni. Il report BSI introduce un termine nuovo e inquietante “Generation Jaded” – dall’acronimo “Jobs Automated, Dreams Eroded” (“lavori automatizzati, sogni erosi”), riferendosi a quella generazione che: 1. Ha già subito danni nella formazione scolastica a causa del Covid-19; 2. Si trova ora di fronte a un mercato del lavoro che elimina proprio i ruoli pensati per chi inizia; 3. Rischia di non sviluppare mai le competenze che si acquisivano attraverso l’esperienza entry-level. Gli studenti freschi di diploma o laurea per trovare il primo lavoro oggi non devono solo fare i conti con la concorrenza dei loro coetanei, ma anche e soprattutto con quella dell’Intelligenza Artificiale. Le conseguenze sociali ed economiche della Quarta Rivoluzione Industriale potrebbero essere devastanti, tanto da far ritenere a molti che una jobpocalypse sia solo questione di tempo anche qui in Occidente.   https://www.blog-lavoroesalute.org/sul-great-reset-e-lignoranza-dei-giornalisti-mainstream/ https://www.blog-lavoroesalute.org/il-piano-great-reset-del-world-economic-forum-per-i-profitti-delle-industrie-agro-chimiche-alimentari/ https://www.blog-lavoroesalute.org/il-grande-reset/ https://www.blog-lavoroesalute.org/tecno-bio-capitalismo/ https://documenti.camera.it/leg18/resoconti/assemblea/html/sed0610/leg.18.sed0610.allegato_b.pdf > Secondo una ricerca sta per arrivare la jobpocalypse, cioè una gravissima > crisi nel mondo del lavoro causata dall’AI > Jobpocalypse: è iniziata la rivoluzione del lavoro nell’era della IA   Lorenzo Poli