Perché l’ideologia woke è di destra
L’ideologia woke già da due anni ha perso smalto e innocenza, per diventare
nelle mani delle destre l’insulto ideale con cui screditare ogni lotta contro
razzismo, ingiustizia, oppressione. Il wokismo è diventato il dispositivo
retorico reazionario della destra per criticare chiunque parli di lotta al
colonialismo e all’imperialismo, anche se spesso e volentieri discorsi
apparentemente anticoloniali stanno sullo sfondo dei discorsi woke. Non è un
caso infatti che erroneamente molti autori progressisti vengono definiti woke,
pur non essendolo di fatto. Ciò alimenta ancor di più la confusione sotto il
cielo. L’obiettivo della destra è delegittimare chi parla di colonialismo
occidentale e dei suoi crimini nella storia degli ultimi secoli, continuando a
portare in palmo di mano i presunti “valori occidentali”.
Dall’altra parte le esplosioni di puritanesimo rieducativo scatenato dagli
eccessi della cancel culture hanno alienato chi, pur di opinioni progressiste,
non accettava questo clima di inespressione.
C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione-ossessione, e
c’è chi invece la considera una forma addirittura di “progresso morale e
spirituale dell’umanità”. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste
questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della
cosiddetta “sinistra neoliberal” occidentale? Sebbene sia fondamentalmente presa
di mira dalla destra più reazionaria, davvero è di sinistra? Esistono, oltre
alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice, anche altre più
sensate che mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con
l’attuale sistema-mondo e la sua ideologia di fondo, il neoliberismo?
Il termine Woke,– letteralmente “sveglio” – entra ufficialmente nei dizionari
dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento
anti-razzista Black Lives Matter.
Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme –
spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che,
secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico
preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle
pratiche politiche della sinistra occidentale. La sinistra non di sempre, ma la
sinistra liberal: quella che non critica il capitalismo, ma parla di
“capitalismo inclusivo”; quella che non parla di liberazione dai sistemi di
oppressione, ma di emancipazione nei sistemi stessi; quella che non parla di
mettere in discussione gli attuali rapporti di potere, ma vuole integrare tutti
negli attuali ruoli di potere; infine quella che non parla di socialismo, ma di
“mercato libero” in nome del “neoliberismo progressista”.
L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune
nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato
alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di
autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura
del linguaggio ritenuto scorretto: da qui i grandi temi delle “guerre
culturali”, la polarizzazione radicale dell’opinione pubblica e la lotta per il
politically correct).
Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota
come postmodernismo emersa negli anni Settanta nelle università francesi e poi
diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana da cui poi è stata
pienamente fecondata. Un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New
Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione
socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e
dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste.
A partire dagli anni Ottanta, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle
strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e
ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro
Paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario
politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune
delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria
dello spettacolo e dell’intrattenimento. Dall’altro lato della barricata, ad
avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta
e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata,
si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione
dei ruoli di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta.
Ma al di là del generale Vannacci e dell’estrema destra italiana, in questi anni
anche tanti intellettuali di sinistra hanno preso posizione contro alcune delle
tesi antropologiche e politiche dell’ideologia Woke più superficiali e contro
l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti.
Nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio,
anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova sottocultura.
Maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa
soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati
della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne
sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con
ostilità e sospetto. Come scrive la giornalista Florinda Ambrogio:
“La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli
salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito
parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si
tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.”
Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde.
Nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e
di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei
ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della
miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di
coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono
“diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli
operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della
loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e
prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da
abbattere.
Dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99% quindi, con
l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni
popolari, ritenute come un bacino uniforme di sessismo, razzismo, omofobia.
Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello
spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel
distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”.
Diventa quindi chiaro perché la sinistra liberal appaia sempre più spesso
un’elitè che, demonizzando lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe
imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie convinzioni di
nicchia.
“Categorie della politica” di Vincenzo Costa
Come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire.
“Sceneggiatori, registi, attrici e attori” – scrive il filosofo marxista sloveno
in un articolo chiamato Wokeness is here to stay – “cadono sempre di più nella
tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha
riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove
si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”.
Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, queste
nuove forme di “intellettualismo degenerato” (parafrasando Adriana Zarri, quando
si scagliava sia contro il pensiero unico democristiano sia contro i falsi
intellettuali pronti ad esaltare la società dei consumi), non sembrano
interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle
persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e
discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di
uguaglianza di diritti” – continua Costa in Le categorie della politica –
“rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli
ultimi”.
Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio
inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi
storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e
europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando
di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il
linguaggio è un discorso molto più complesso e non avviene mai per scelte
arbitrarie prese da un momento all’altro.
Mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle
critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione
della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di
distribuzione della ricchezza. Per dirla con una battuta “Ci si emancipa con
successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna
accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Andrea
Zhok. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di “discriminazione” ed
“emancipazione” appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e
neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano
spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia.
Nel wokismo, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo
strapotere della finanza internazionale e la perdita di sovranità democratica
vengono surclassate. Centrale è invece il tema dell’identità e delle narrazioni
identitarie poichè a destare scandalo è la notizia di cronaca, sulle quali si fa
leva per generare consenso. In secondo luogo, il wokismo promuove una politica
dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si
fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una
comunità locale viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si
parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche
dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto
dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da
individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e
legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con,
ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati
della cultura Woke, “l’altro è l’inferno.”
A partire da questo tema, un’altra grande critica all’ideologia woke è stata
mossa dalla filosofa Susan Neiman – statunitense trapiantata in Germania – nel
suo libro “La sinistra non è woke. Un antimanifesto”. Dappertutto sta risorgendo
un nazionalismo feroce e cinico, contrapposto alla globalizzazione e l’elezione
di Donald Trump è arrivata a coronare una rimonta delle destre reazionarie in
tutto il mondo, con punte di neofascismo o addirittura neonazismo. Com’è potuto
succedere? Neiman ha una sua risposta. Non è economica, geopolitica o
tecnologica, ma è una risposta culturale: la destra ha vinto perché la sinistra
non esiste quasi più. Come ha dichiarato Neiman in una intervista a La
Repubblica: «È dal 1991 che la sinistra è allo sbando. Non solo il socialismo di
Stato; ogni forma di socialismo è stata vista come fallimentare. In più, con la
fine del socialismo di Stato è come se si fosse estinto ogni altro ideale e
proprio qui il neoliberalismo, sostenuto dalla psicologia evoluzionistica, ha
sostenuto e propagandato che l’unica forza universalista valida fosse il
desiderio generale per beni di consumo e potere. E quelli a sinistra che non
accettavano di aderire a questa prospettiva, si sono sentiti senza alternative
se non combattere l’oppressione in termini molto particolari: la lotta al
razzismo, al sessismo e all’omofobia. Lotte fondamentali, ma che non si possono
portare avanti senza quei princìpi che proprio il progressivismo woke ha
abbandonato». Dalla seconda metà del Novecento, secondo Neiman, i valori della
sinistra sono stati messi in discussione proprio da certe frange neoliberali e
movimentiste.
Ed è così che molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono
davvero “di sinistra”, ma sono “woke”. Che è una cosa diversa, anzi, in un certo
senso è proprio il contrario: un movimento che vive la modernità in tutti i suoi
aspetti futili, ma diffida delle sue fondamenta spesso senza cognizione di
causa; che vive del mito del progresso economico, ma diffida dei suoi
presupposti; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo
sociale in tribù identitarie in lotta; che rinuncia ai diritti sociali e si
aggrappa esizialmente ai diritti civili. Già alla prima riga, Susan Neiman
dichiara che questo libro non è «una tirata contro la cancel culture», ma è
molto di più: un anti-manifesto, una lucida requisitoria sugli sbagli che la
sinistra ha fatto, in questi decenni confusi. Perché è solo tornando a
costruire, dalle fondamenta dei propri valori, che la sinistra può risorgere.
«Woke fa appello alle tradizionali emozioni liberali e di sinistra: il desiderio
di aiutare oppressi ed emarginati. Per questo motivo si tende a sottovalutare i
vari modi in cui il movimento woke è profondamente minato al suo interno da idee
molto reazionarie: il rifiuto dell’universalismo, la negazione che esista una
distinzione di principio tra potere e giustizia, credere che ogni tentativo di
progresso sia una forma mascherata di sottomissione. Tutte le idee che il woke
tenta di boicottare sono valori fondamentali di sinistra» – ha affermato Neiman
nell’intervista a La Repubblica – «(…) confonde la mente a progressisti e
liberali che non riescono ad agire con chiarezza e, come si vede dalle recenti
iniziative di Donald Trump, consente alla destra di qualificare e attaccare come
woke qualsiasi tentativo di promuovere la giustizia sociale». Secondo la Neiman,
è stata l’ideologia woke, con la sua retorica spesso irragionevole, a spalancare
la strada alla destra più reazionaria.
Il principale merito del pamphlet di Susan Neiman (che sta sbancando negli Stati
Uniti) è di spiegare bene che il wokismo, un’ideologia fondamentalmente di
destra, si è impossessata di ampie frange della sinistra. Neiman documenta
brillantemente lo svilimento delle lotte “umanistiche” in rivendicazioni
identitarie, l’infiltrarsi delle categorie schmittiane “amico-nemico” nel
discorso politico di sinistra, la rinuncia alla concezione progressiva della
storia ereditata dall’illuminismo. Rigettando universalismo, giustizia e
progresso, i woke si sono sostanzialmente uniformati al particolarismo,
all’ideologia del dominio e all’abolizione della speranza. Neiman non ha timore
di dichiararsi socialista e persino illuminista. Se si va a vedere, la sua pars
construens non è lontana da quella offerta da Axel Honneth in L’idea di
socialismo.
“La sinistra non è woke. Un antimanifesto” di Susan Neiman
Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento
per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali?
Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il
dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a
picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes
– Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello
del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause
progressiste quali l’ambiente (greenwashing e veganwashing), le cause LGBT
(pinkwashing o rainbow-washing), l’antirazzismo (blackwashing), i diritti delle
donne (purplewashing), le azioni umanitarie (bluewashing), i diritti animali
(animal-washing), o addirittura i temi sociali e i diritti del lavoro
(redwashing): dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni
allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità
tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul
matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese,
soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a
diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il
capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”.
L’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di
questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto
ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e
antisociali dei grandi gruppi economici: «È tempo di abbandonare l’idea che le
imprese, in quanto attori principalmente economici, possano in qualche modo
aprire la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile. Il
capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e
politico e per sedare ogni critica. Questo libro è un invito a opporgli
resistenza e a non farsi ingannare».
E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa
selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio,
le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i
primi a praticarla. In qualche modo, Capitalismo woke di Carl Rhodes si sposa
perfettamente con la critica, che fece la giornalista e saggista Naomi Klein in
No Logo, ai processi di rebranding e di rebrandizzazione delle menti da parte
delle multinazionali con il fine di rifarsi una verginità a fini di immagini
pubblicitarie e propagandistiche.
L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era
il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi
come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme
sistemiche di sfruttamento che portano avanti. Dopo aver lottato contro il
moralismo religioso di stampo cristiano di qualunque declinazione, ci troviamo
oggi imbrigliati in una forma rigenerata di moralismo laico che nulla ha di
diverso strutturalmente rispetto al primo se non nei contenuti.
“Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia” di Carl
Rhodes
Il wokismo è un esempio di americanizzazione culturale in nome
dell’individualismo liberale della società dei consumi dove tutto (corpo, idee,
pensiero, identità, linguaggio) finisce per essere frammentato oltre ad essere
poi ridotto a merce o a feticcio.
Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici ante-litteram dell’ideologia woke,
pochi mesi prima di essere ammazzato, aveva capito che sotto la copertura delle
giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una
nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del
consumismo individualistico. Così, a tal riguardo, scriveva sul Corriere della
Sera nel 1975:
“Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli
uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare,
come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue
esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili;
borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo
attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del
più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di
un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”.
Nulla di più vero. Questa società ha un immenso bisogno di diritti civili, che
possono progredire di senso solo laddove sono accompagnati dallo sviluppo dei
diritti sociali, altrimenti rimarranno diritti per pochi. Come direbbe la
filosofa femminista e marxista Nancy Fraser, serve più che mai una ribellione
del 99% della popolazione per pensare ad un mondo di verso in nome della cura,
delle relazioni, della difesa dell’ambiente dalle follie delle nostre società
capitaliste industriali opulente odierne.
Servono alleanze dal basso per capire l’interconnessione di eventi e fenomeni
perché non ci si salva da soli, ma serve capire quali siano i nostri
interlocutori senza farci abbindolare da distrazioni di massa volte solo a
canalizzare la rabbia collettiva per disperderla nel nulla, illudendoci di
essere incisivi mentre i fatti di questo mondo ci ricordano che siamo sempre più
impotenti.
(1) Vi è una sola pecca nel libro: un sostanziale fraintendimento di Foucault,
di cui va di moda dire che è un postmodernista scettico, relativista e
celebratore di una “concezione neutra del potere”. Il grande accusato è
“Sorvegliare e punire”. Ma Foucault va letto fino agli ultimi corsi al Collège
de France, per capire anche le prime opere e la sua critica radicale ad ogni
potere. E Neiman finisce invece per alimentare questo superficiale cliché.
Ulteriori info:
https://www.ondarossa.info/iniziative/2025/02/capitalismo-woke
https://www.futuroprossimo.it/2024/06/dal-blackwashing-al-rainbow-washing-per-le-aziende-impegno-o-facciata/
https://site.unibo.it/canadausa/it/articoli/fenomenologia-della-cancel-culture-tra-woke-capitalism-e-diritti-delle-minoranze
https://www.limesonline.com/rivista/censura-e-wokismo-uccidono-l-universita-tedesca–16365764/
> Capitalismo woke
https://www.globalproject.info/it/in_movimento/cannibalizzazione-e-resistenza-lecopolitica-anticapitalista-di-nancy-fraser/25269
https://www.leftbrainmedia.co.uk/post/the-comfortable-embrace-how-the-woke-left-serves-capital
Lorenzo Poli