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La Life Support salpa da Siracusa con la Global Sumud Flotilla
La Life Support, la nave di EMERGENCY, è in partenza dal porto di Siracusa insieme alla delegazione italiana della Global Sumud Flotilla. La nave di ricerca e soccorso dell’Ong fondata da Gino Strada sarà l’ultima a partire delle barche italiane dirette a Gaza, avrà il ruolo di nave osservatrice e offrirà supporto medico e logistico alle navi che dovessero averne necessità. EMERGENCY insieme alla flotta italiana si incontrerà poi con la delegazione internazionale, composta da tutte le barche partite dalla Spagna e dalla Tunisia e lungo la rotta anche con quelle partite dalla Grecia. La Life Support offrirà assistenza sanitaria ai partecipanti in caso di necessità, garantirà assistenza per riparare attrezzature tecniche danneggiate e contribuirà al rifornimento di acqua e viveri alle barche della flotta. “EMERGENCY ha deciso di aderire a questa iniziativa promossa dalla società civile perché ha visto direttamente le condizioni della popolazione nella Striscia – dichiara Anabel Montes Mier, capomissione della Life Support di EMERGENCY. Lo staff, che lavora nella Striscia in due centri sanitari nel governatorato di Khan Younis, riporta una situazione gravissima, mai vista prima. Di fronte al silenzio e all’inazione dei governi, l’ampia partecipazione dei cittadini alle manifestazioni a sostegno di questa cordata umanitaria è segno di una volontà di pace e giustizia che condividiamo e vogliamo sostenere.” La Life Support, nave di ricerca e soccorso di EMERGENCY, è operativa dal dicembre 2022 e da allora ad oggi ha soccorso un totale di 3.001 persone con 36 missioni nel Mediterraneo Centrale. Per la Flotilla partirà domani chiudendo la delegazione italiana con un equipaggio di 29 persone formato da medici, infermieri, logisti, mediatori culturali, soccorritori e marittimi. EMERGENCY è a Gaza da agosto 2024 e attualmente lavora nella sua clinica nella località di al-Qarara, nel governatorato di Khan Younis. Qui offre primo soccorso, assistenza medico-chirurgica di base per adulti e bambini, attività ambulatoriali di salute riproduttiva e follow up infermieristico post-operatorio, stabilizzazione di emergenze medico-chirurgiche e trasferimento presso strutture ospedaliere. Nella clinica dall’apertura, a gennaio 2025, a fine luglio ha visitato in media 241 persone al giorno con picchi anche di 400. Su un totale di oltre 23 mila visite effettuate nello stesso periodo, oltre la metà sono state su minori. Prosegue inoltre il lavoro dell’Ong per offrire assistenza sanitaria di base alla popolazione nella clinica di medicina di base allestita dall’associazione locale CFTA (Culture & Free Thought Association) ad al-Mawasi. Dall’inizio delle attività, a novembre 2024, a fine luglio, in questo presidio sanitario ha effettuato oltre 19 mila visite. Qui i pazienti possono ricevere cure di base, farmaci e le medicazioni necessarie in seguito a interventi chirurgici.       Emergency
Global Sumud Flotilla smentisce la presenza di barche non autorizzate
In merito alle recenti dichiarazioni di Claudio Locatelli sulla sua presunta partecipazione alla missione Global Sumud Flotilla con un cosiddetto “vascello stampa”, la delegazione italiana del Global Movement to Gaza smentisce categoricamente l’aggregazione alla missione di barche non precedentemente autorizzate. “La barca “press” di Claudio Locatelli non è mai stata formalmente autorizzata a far parte della Global Sumud Flotilla, men che meno a raccogliere fondi a nome della Flotilla. La nostra è una missione seria. Le persone e le imbarcazioni che ne fanno parte hanno affrontato e superato un lungo e rigido processo di controllo e formazione, oltre a un percorso di condivisione di valori e pratiche di pacifismo e nonviolenza”, afferma la portavoce italiana Maria Elena Delia, membro del comitato direttivo della Global Sumud Flotilla. Le uniche due barche autorizzate, non strettamente facenti parte della Global Sumud Flotilla, sono quelle di Emergency con il vascello di ricerca e soccorso Life Support, e della Freedom Flotilla Irlanda, che accompagnerà la flotta con un team di osservatori legali. Altre imbarcazioni, come il “vascello stampa”, non sono mai state autorizzate né a unirsi né a raccogliere fondi a nome della Global Sumud Flotilla. “Questo non è un gioco. Il rumore che abbiamo generato collettivamente sulla missione può avvicinare anche persone o organizzazioni con cui non abbiamo condiviso valori e pratiche, ma nessuno deve avere altri interessi che non siano quelli di rimanere in ogni momento al fianco della popolazione palestinese. Questo deve essere sempre messo al centro; non c’è bisogno di eroi ‘combattenti’, la nostra unica arma è la nonviolenza”, conclude Delia. Come già annunciato, il Global Movement to Gaza ribadisce che le notizie ufficiali sulla missione verranno fornite esclusivamente tramite interviste alla portavoce, comunicati stampa, canali social ufficiali e dichiarazioni degli attivisti autorizzati in precedenza dal comitato direttivo. Redazione Italia
La Flotilla dell’umanità è in viaggio sotto un cielo stellato; le stelle, però, sono droni
Partita da Barcellona per Gaza, la Global Sumud Flotilla affronta sorveglianza militare, minacce e sostegno internazionale . Il 2 settembre, le prime barche della Global Sumud Flotilla erano partite da meno di 48 ore da Barcellona, quando, intorno alle 22:30 ora italiana, mentre navigavano a circa novant miglia nautiche dall’isola di Minorca, sono state intercettate da tre droni. Ma cos’è la Global Sumud Flotilla? È un’azione civica, nata dal basso, nell’ambito del Movimento Globale a Gaza, composta da circa cinquanta imbarcazioni civili, con a bordo attivisti provenienti da quarantaquattro paesi del mondo. L’obiettivo è creare un corridoio umanitario per Gaza, sotto assedio israeliano da mesi. Sulla flottiglia è puntata l’attenzione di quella parte di mondo che riconosce i diritti umani e il valore della vita; purtroppo, però, non soltanto di quella. La presenza dei droni sulla flottiglia è stata comunicata dall’attivista Thiago Avìla attraverso una diretta lanciata sul profilo Instagram del movimento @globalmovementtogaza. Thiago è ormai un volto noto per chi segue la causa palestinese: climattivista e militante per i diritti umani, è stato protagonista di una precedente spedizione della Freedom Flotilla, membro dell’equipaggio della barca Madleen, bloccata illegalmente dall’IDF, sempre attraverso droni e quadcopters (quadricotteri militari). Nella diretta, Thiago ha evidenziato, mettendo in allerta il resto dell’equipaggio, che i droni potevano essere lì per una ricognizione di sorveglianza ordinaria dell’autorità marittima competente su quelle acque; oppure per un attacco militare. A chi non abbia seguito attentamente gli ultimi sviluppi dell’invasione di Gaza potrebbe sembrare un’affermazione forte. Invece, la seconda ipotesi è molto plausibile. Infatti, come chi scrive sottolineava poco prima, all’enorme e commovente solidarietà che è giunta da ogni parte del globo (è notizia recente che anche Emergency sosterrà la flotta e affiancherà le imbarcazioni con natanti di supporto logistico e medico), si sono contrapposte le dichiarazioni del governo israeliano: sul Jerusalem Post di tre giorni fa, il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, annunciava che stava per presentare un piano al governo secondo cui «tutti gli attivisti arrestati saranno trattenuti in detenzione prolungata, a differenza della precedente prassi, nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon, utilizzate per detenere i terroristi in condizioni rigorose tipicamente riservate ai prigionieri di sicurezza. Non permetteremo a chi sostiene il terrorismo di vivere nell’agiatezza». Tale piano è stato considerato illegittimo da vari giuristi esperti di diritto internazionale. La relatrice speciale Onu per i territori palestinesi, Francesca Albanese, ha definito l’azione della Global Sumud Flotilla «pienamente conforme al diritto internazionale». Secondo Albanese, «ogni tentativo di fermare o intercettare le imbarcazioni nelle acque internazionali costituirebbe una violazione della libertà di navigazione sancita dal diritto marittimo». È questo il clima in cui naviga oggi la flotta per Gaza, la flotta dell’umanità. Ma torniamo ai droni, ai quadricotteri. Tutti e tutte ne abbiamo sentito parlare. Vengono usati come regalo per i bambini al compleanno, dai fotografi per i matrimoni, dalla protezione civile per la prevenzione degli incendi. Eppure, facendo una ricerca su AI Overviews, leggiamo che sono “piccoli aerei a pilotaggio remoto, utilizzati per ricognizione, sorveglianza e attacchi mirati, che offrono una maggiore protezione delle forze armate grazie alla fornitura di dati in tempo reale e riducendo la necessità per i soldati di accedere ad aree pericolose. Dotati di sensori e telecamere avanzati, questi droni possono operare di giorno e di notte e alcuni modelli sono dotati di funzionalità sull’intelligenza artificiale per l’edge computing e la navigazione avanzata. Le loro dimensioni ridotte e laità rapida di impiego li rendono ideale per le unità di fanteria, sebbene la loro proliferazione, in particolare nei conflitti come quello di Gaza, abbia sollevato anche significative preoccupazioni etiche riguardo all’impatto sulla popolazione civile e al potenziale uso improprio”. Non bisogna essere esperti di ingegneria aerospaziale per capire, quindi, che i droni sono l’esempio perfetto delle tecnologie dual use, cioè di quell’insieme di dispositivi e sistemi operativi che, nati per scopo pacifico, sono oggi largamente utilizzati nelle attività belliche. Un tema che solo di recente è giunto alla ribalta della cronaca, soprattutto per l’uso che se ne sta facendo in Palestina. Che la questione sia delicata lo dimostra il fatto che l’unica base giuridica che prova a disciplinare la materia sia il Regolamento (UE) 821/2021, attraverso cui le produzioni di questi dispositivi vengono supervisionate dall’Unione Europea. I primi droni, però, da ciò che ci dicono le fonti, sono stati impiegati già nel XX secolo, in particolare dagli Inglesi nella Prima guerra mondiale. Non è un po’ tardi arrivare, solo nel 2021, all’adozione di un regolamento europeo per questa materia? Sì, lo è: se, nel secolo scorso, a Sarajevo, durante l’assedio, per sparare alla popolazione civile in mezzo alle strade venivano assoldati mercenari che si posizionavano sui tetti dei palazzi o sulle colline circostanti, nel terzo millennio il cecchinaggio avviene attraverso la tecnologia. Le testimonianze su come l’IDF usi i droni contro la popolazione civile non si contano più, da parte della stampa, dei medici, dei sanitari. La robotizzazione della sparatoria aumenta esponenzialmente la distanza tra la bocca e la vittima e, quindi, trasporta l’atto omicida verso una derivazione di disumanizzazione che non ha precedente. Così, il lavoro delle bombe intelligenti viene coadiuvato perfettamente dai droni killer. La Global Sumud Flotilla, flotta dell’umanità, naviga verso la spiaggia di Gaza che, ricordiamolo sempre, rispetto all’Italia è soltanto dall’altra parte del Mediterraneo; come per i Gazawi, anche per gli attivisti della Sumud il pericolo può arrivare dall’alto, silenzioso e imprevedibile, sotto forma di una piccola lucina nel cielo, che però non è una stella. Non c’è protezione dai droni, per i civili disarmati di Gaza come per gli equipaggi delle imbarcazioni. Forse, però, i nostri occhi possono farsi luce, diventare fari. Tenerli aperti su Gaza e sulla flottiglia può essere una missione, per chi crede che questo massacro vada fermato. La difesa del diritto alla vita dei Gazawi e della permanenza dignitosa sulla loro terra è difesa del diritto internazionale e, quindi, delle nostre stesse esistenze. Ogni cosa è connessa. Da terra, si può e si deve costruire una flotta, che attraversi tutti i paesi e che faccia pressione sui governi, come un’azione internazionalista tra i popoli, a protezione delle barche. È quello che sta facendo il GMTG in tantissime città. Seguiamola, quest’onda, portiamo i nostri corpi nelle piazze e rispondiamo numerosi alla chiamata per le flotte di terra che ci sarà il 4 settembre. Sulle pagine del GMTG ci sono tutti gli appuntamenti: a Napoli, ci vediamo alle 18:00 in Largo Berlinguer. Sosteniamo la Global Sumud Flotilla Fonti Jerusalem Post, 30 agosto 2025 – http://link https://www.jpost.com/israel-news/article-865898 La Repubblica, 1 settembre 2025 Redazione Napoli
Afganistan dopo 40 anni di guerre
EMERGENCY | AFGHANISTAN 15 AGOSTO 2021 – 15 AGOSTO 2025 EMERGENCY ha iniziato a lavorare in Afghanistan nel 1999 e, da allora, ha curato oltre 8 milioni di persone, in un Paese composto da circa 40 milioni di abitanti. Nel 2001 ha aperto il Centro chirurgico per vittime di guerra a Kabul, un punto di riferimento per la popolazione della capitale e delle province vicine. Nel 2003 ha avviato le attività del Centro di maternità di Anabah che offre assistenza ginecologica, ostetrica e neonatale alla popolazione locale e negli anni ha anche attivato sul territorio una rete di oltre 40 Posti di primo soccorso (FAP) e di Centri sanitari di base (PHC). Prosegue inoltre il suo lavoro nel Centro chirurgico per vittime di guerra di Lashkar-gah (Helmand) e nel Centro chirurgico di Anabah. Sono passati quattro anni da quando il 15 agosto 2021 le forze internazionali hanno abbandonato l’Afghanistan e il nuovo governo talebano si è instaurato al potere. In questi quattro anni il Paese ha visto l’inasprirsi di una crisi economica profonda; l’impoverimento della popolazione tra la disoccupazione e il divieto di lavorare per le donne in quasi tutti i settori tranne quello sanitario; il collasso del sistema salute, definanziato e depotenziato. Una situazione che non è destinata a migliorare alla luce del non riconoscimento internazionale dell’autorità de facto, della scelta nel corso del 2025 da parte dall’amministrazione Trump di tagliare i fondi all’Agenzia degli Stati Uniti per lo Sviluppo Internazionale (USAID), e del crescente disinteresse della comunità internazionale. La pace in Afghanistan ha significato la fine della guerra, ma non delle sue conseguenze. Negli ospedali e negli ambulatori di EMERGENCY sparsi nel Paese i postumi di quarant’anni di guerre sono ancora evidenti. Feriti da mina antiuomo, accoltellamenti e sparatorie, attentati continuano ad affollare i reparti dell’ospedale di Kabul; vittime di incidenti stradali hanno reso necessario cambiare i criteri di ammissione dei centri chirurgici di Lashkar-gah e di Anabah; donne incinte in condizioni sempre peggiori raggiungono il Centro di maternità nella Valle del Panshir anche insieme ai loro bambini, sempre più malnutriti. “L’Afghanistan di oggi è la cartina tornasole di cosa resta dopo decenni di guerra: 22.9 milioni di persone, più di metà della popolazione[2] con necessità di aiuti umanitari, infrastrutture danneggiate, accesso alle cure limitato, diritti compromessi – dichiara Dejan Panic, direttore del programma di EMERGENCY in Afghanistan -. Ma nelle nuove generazioni di giovani medici e infermieri e nella formazione vediamo ancora una speranza per il futuro.” Nel suo ultimo report sull’accesso alle cure d’urgenza in Afghanistan (giugno 2025)[3], EMERGENCY ha denunciato ancora una volta il legame diretto tra collasso economico e peggioramento delle condizioni sanitarie. Oltre il 70% della popolazione non ha accesso a cure gratuite o sostenibili. Tre afgani su cinque non possono pagare le cure e per ottenerle spesso si indebitano chiedendo denaro in prestito o vendendo i propri beni. Un afgano su quattro invece deve posticipare o annullare un intervento chirurgico perché non può pagarlo. Tanti sono i nuovi bisogni emersi a seguito della fine ostilità, dalle malattie non trasmissibili, tra cui malattie croniche che necessitano di lunghe terapie, alle patologie acute spesso trascurate per mancanza di mezzi economici e di trasporto. Le strutture di EMERGENCY restano tra le poche a offrire assistenza gratuita e di qualità. Nell’ospedale di Kabul il 50% dei pazienti sono ancora considerati vittime di guerra: arrivano al pronto soccorso con ferite da arma da fuoco, da taglio (sono la metà del totale dei feriti), da esplosioni o da mina. Violenza e criminalità sono conseguenze di una guerra che è terminata negli scontri, ma ha lasciato armi in quantità, mine antiuomo disseminate soprattutto in aree remote, povertà. “Vediamo vittime di rapine e aggressioni, liti famigliari, sparatorie – spiega Panic –. Tra i feriti da mine antiuomo, nel 2025, nei nostri Centri chirurgici di Kabul, Lashkar-gah e Anabah il 75% sono bambini che stavano solo giocando.” Il Centro chirurgico di Lashkar-gah è l’ospedale che accoglie il maggior numero di feriti a causa di traumi civili (circa l’80% dei pazienti ammessi), in particolare incidenti stradali causati dalla cattiva manutenzione delle strade e dell’aumentata mobilità quasi inesistente prima del 2021. Nel Centro di maternità di Anabah l’impatto delle limitazioni imposte alle donne da un punto di vista dell’istruzione, del lavoro e degli spostamenti è evidente nelle pazienti che raggiungono l’ospedale in gravi condizioni. “Le donne – racconta Keren Picucci, ginecologa del Cento di maternità di EMERGENCY ad Anabah – spesso esitano a rivelare i propri problemi di salute fino a quando la situazione non diventa grave e la preferenza o l’obbligo di essere trattate da personale medico femminile riduce ulteriormente le opzioni disponibili. Continuiamo a vedere mamme morire al parto perché non raggiungono l’ospedale in tempo o a causa di gravi complicanze che si sarebbero potute evitare. Molte donne incinte soffrono di carenze nutrizionali gravi che compromettono il buon esito della gravidanza e del parto.” La mancanza di reddito e di sicurezza alimentare ha causato l’aumento dei casi di malnutrizione. In quelli più critici, la malnutrizione materna e neonatale si traduce in neonati sottopeso, infezioni ricorrenti e difficoltà nello sviluppo psicofisico, con conseguenze a lungo termine. Nel 2025 il 20% dei bambini ammessi nei reparti del Centro pediatrico di EMERGENCY ad Anabah sono malnutriti. EMERGENCY continua a formare il personale sanitario locale, anche femminile. A oggi oltre il 97% dello staff medico, infermieristico e non sanitario impiegato nelle strutture EMERGENCY è afgano. Il 23% sono donne. “Le nuove generazioni sono la nostra unica speranza concreta. Vogliamo continuare a formare giovani uomini e donne, capaci di prendersi cura del proprio Paese. Per fare ciò è fondamentale che tutti, donne comprese, possano tornare ad avere il proprio spazio nella società, e che la comunità internazionale non abbandoni l’Afghanistan, né definanziandolo né silenziandolo” – conclude Panic. Storie dai Centri di EMERGENCY in Afghanistan – Farid, 10 anni, vive a Kabul con la sua famiglia. Oltre ai genitori ha una sorella più piccola e tre fratelli più grandi. Un giorno i genitori decidono di portare tutta la famiglia fuori città, in una zona arida vicino a un fiume. Dopo pranzo si allontana e mentre cammina vede un vecchio pezzo di ferro, di colore bianco. Decide di colpirlo con un sasso, per gioco, ma l’urto provoca un’esplosione che lo ferisce alla mano sinistra. Era una mina antiuomo. Il padre lo porta direttamente all’ospedale di Kabul dove viene operato per rimarginare le ferite alla mano. – Rohullah è arrivato con una profonda ferita all’addome provocata da un coltello da cucina. L’accoltellamento è avvenuto durante una lite familiare a causa di un prestito non restituito. Vive a Kapisa, in Panshir, è sposato e ha quattro figli. A causa della profonda crisi economica non lavora. Immediatamente dopo l’incidente è stato portato in un pronto soccorso poco distante dalla sua abitazione, è stato stabilizzato e poi riferito al Centro chirurgico di EMERGENCY (un’ora di viaggio con la macchina) di Anabah dove ha subito una laparotomia per suturare le ferite. – Samir viene dalla provincia di Ghazni e all’età di 18 anni si è trasferito a Kabul per studiare da infermiere. Ha due mogli e un figlio con disabilità. Dopo la laurea ha lavorato per 10 anni in un ospedale governativo e 5 anni fa ha saputo che l’ospedale di EMERGENCY cercava infermieri così ha fatto richiesta ed è stato assunto. Quando gli hanno detto dell’assunzione è stato felicissimo. Per lui lavorare in questo ospedale è molto importante perché ha standard sanitari alti, offre un servizio gratuito alla popolazione. “Ciò che mi ha colpito di più è la formazione che ho ricevuto per i primi due anni. È molto importante continuare ad imparare anche quando termini il tuo percorso universitario.” – Zahra 9 mesi, è arrivata al Centro pediatrico di EMERGENCY ad Anabah in stato di malnutrizione acuta, con una grave polmonite, e problemi al cuore. Con lei c’era la zia, la madre infatti è morta dopo il parto, avvenuto a casa, a causa di una eccessiva perdita di sangue. La famiglia proviene da un remoto villaggio nella valle del Panshir, a qualche ora di distanza dall’ospedale. Una volta tornata a casa ha contratto un’infezione: il sistema immunitario dei bambini malnutriti e il loro sviluppo psicofisico sono infatti gravemente compromessi. Emergency
Emergency: “ampiamente oltrepassate tutte le linee rosse”
“Un’occupazione totale della Striscia, con un’escalation militare, per liberare gli ostaggi è un obiettivo già fallito, utile solamente a creare altre sofferenze. Sappiamo tutti che invece l’unica strada verso la pace è un cessate il fuoco permanente per fermare il massacro dei civili, corridoi umanitari sicuri, la libera entrata e l’accesso agli aiuti, il ripristino e il rispetto del diritto internazionale.” Così EMERGENCY commenta l’approvazione di questa notte del governo israeliano della proposta del primo ministro Benyamin Netanyahu di conquistare Gaza City, un’operazione che richiederà entro il 7 ottobre 2025 l’evacuazione di un’area in cui attualmente vive circa un milione di persone e che porterà a un assedio militare totale della zona. “Dall’inizio del conflitto l’87% della Striscia di Gaza è già stato occupato dall’esercito israeliano e sottoposto a ordine attivo di evacuazione [1] – prosegue EMERGENCY –. Due milioni di persone vivono già stipate nel poco territorio rimasto, meno del 20%, non attualmente occupato o sotto ordine di evacuazione. Evacuare anche solo la popolazione che si trova a Gaza City, ovvero la metà di questi due milioni, porterebbe sicuramente a un numero altissimo di vittime civili in pochissimo tempo, come EMERGENCY ha già visto per tutto il conflitto. Provocherebbe una massa umana in spostamento, con conseguenze drammatiche, oltre a quelle causate già dai bombardamenti. Le operazioni verosimilmente come sempre accaduto, potrebbero iniziare prima che tutta la popolazione civile sia in salvo portando a ulteriori vittime civili. Un intensificarsi delle operazioni per l’occupazione totale della Striscia vorrebbe dire complicare ulteriormente il lavoro delle organizzazioni umanitarie, la fine di una qualsiasi speranza collettiva per la popolazione gazawi già prostrata da quasi due anni di conflitto che hanno provocato oltre 60.000 morti, quasi 145.000 feriti e 2 milioni di sfollati. Una popolazione affamata con 470 mila persone che affrontano livelli catastrofici di insicurezza alimentare; costretta a vivere in tende e alloggi di fortuna e in continuo movimento a causa dei quotidiani ordini di evacuazione. L’intervento umanitario dipende dall’accesso che il governo israeliano lascia alle organizzazioni umanitarie: da cinque mesi si protrae un blocco dapprima totale e ora parziale all’entrata di aiuti umanitari, con una distribuzione inadeguata e pericolosa da parte della Gaza Humanitarian Foundation che ha dimostrato dalla sua implementazione di non funzionare provocando solo ulteriore morte e afflizione per la popolazione. A fronte di questa decisione la situazione è destinata solo a peggiorare. Sono già state superate ampiamente tutte le linee rosse, ma ogni volta ne viene tracciata una nuova puntualmente superata a sua volta.”  A tal riguardo EMERGENCY ribadisce le richieste avanzate al governo italiano nell’appello “ORA!” firmato in pochi giorni da 250 mila persone: 1. Di non rinnovare come forma di pressione il memorandum d’intesa per la collaborazione militare tra Italia e Israele; 2. Di interrompere la compravendita di armi e sistemi d’arma da e per Israele; 3. Di schierarsi per la sospensione del trattato di associazione tra Unione europea e Israele come già 17 Paesi hanno fatto per le continue violazioni dei diritti umani. [1] OCHA, Reported impact snapshot | Gaza Strip (6 August 2025), https://www.ochaopt.org/content/reported-impact- snapshot-gaza-strip-6-august-2025 Emergency
Naufragio di Cutro, le Ong del soccorso in mare parte civile al processo
EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE, parte civile nel processo sul naufragio di Cutro, soddisfatte per il rinvio a giudizio. Le Ong chiedono che le autorità responsabili, a tutti i livelli, siano chiamate a rispondere della deliberata negligenza nelle operazioni di soccorso. Sollecitano infine il pieno rispetto del diritto internazionale nel Mediterraneo. Una tappa importante nel lungo percorso per ottenere verità e giustizia sui mancati soccorsi al caicco Summer Love, naufragato a Steccato di Cutro il 26 febbraio 2023 causando almeno 94 morti e un numero imprecisato di dispersi. Così EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE, che si sono costituite parte civile nel processo sul naufragio di Cutro, salutano il rinvio a giudizio dei sei imputati deciso dal giudice ieri sera a conclusione dell’udienza preliminare. Considerata la grave serie di negligenze e sottovalutazioni con cui sono state attivate e portate avanti, ma di fatto mai realizzate, le operazioni di soccorso, ai quattro militari della Guardia di Finanza e ai due della Guardia Costiera che andranno a processo la Procura della Repubblica di Crotone contesta i reati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo. Le Ong costituitesi parte civile chiedono che sia chiarita la sequenza di eventi e omissioni che hanno portato a uno dei più tragici naufragi della storia italiana. Proprio il processo potrebbe essere l’occasione giusta per fare luce su tutti i passaggi critici, sulle responsabilità dei sei imputati e, auspicabilmente, anche su quelle dei funzionari e delle autorità di livello più alto. “I tempi sono fondamentali per la buona riuscita delle operazioni di soccorso; per questo i ritardi nell’attivare interventi di salvataggio non sono un incidente, ma una negligenza, che non può restare impunita” commentano le Ong. In questo caso specifico le autorità italiane hanno ignorato il loro dovere di soccorso e l’omissione ha avuto conseguenze drammatiche. “Non è accettabile e non si deve più consentire che i responsabili di questo come di altri naufragi restino impuniti mentre le persone continuano ad annegare” dicono ancora le Ong. “Il diritto internazionale, la tutela della vita e il dovere di soccorrere chi è in difficoltà in mare devono essere rispettati sempre, anche nel Mediterraneo”. EMERGENCY, Louise Michel, Mediterranea Saving Humans, Sea-Watch, SOS Humanity e SOS MEDITERRANEE chiedono inoltre di porre immediatamente fine alla criminalizzazione delle persone in movimento e di ripristinare efficaci operazioni di ricerca e soccorso in mare, auspicabilmente anche con una missione europea dedicata.       Redazione Italia
Dare un nome alle vittime della migrazione recuperate nel Mediterraneo centrale
ASGI , EMERGENCY, C e V., e Mem.Med Memoria Mediterranea scrivono alle autorità per tutelare la dignità delle vittime recuperate nel Mediterraneo e il diritto dei loro familiari a conoscerne la sorte. Con una lettera inviata il 4 luglio 2025 e indirizzata alla Procura e alla Prefettura di Siracusa, al Sindaco di Augusta e al Commissario straordinario del Governo per le persone scomparse, le quattro organizzazioni si sono rivolte alle autorità competenti per garantire lo svolgimento di tutte le procedure volte a una corretta identificazione delle due persone decedute recuperate dall’equipaggio dell’imbarcazione Life Support di EMERGENCY in acque internazionali, nella zona SAR libica lo scorso 27 giugno. Il ritrovamento è avvenuto dopo che, nei giorni precedenti, il velivolo Seabird della ONG Sea-Watch aveva già individuato la presenza di sei corpi nella medesima area, e a seguito dell’apertura di un caso SAR da parte del Maritime Rescue Coordination Centre (MRCC) di Roma. Le organizzazioni firmatarie hanno evidenziato come l’inumazione immediata dei corpi impedisca spesso un’identificazione delle persone decedute. Per consentire di restituire un’identità alle vittime anche a distanza di tempo, è necessario lo svolgimento di esami forensi approfonditi, la corretta registrazione delle informazioni raccolte in merito agli oggetti repertati, ai dati fisionomici e agli eventuali segni particolari rinvenuti sulla salma, l’assegnazione di un codice identificativo unico alle salme e la sepoltura in un luogo certo e facilmente rintracciabile. Tali pratiche sono in linea con le raccomandazioni del Consiglio d’Europa del 2024, che invita i pubblici ministeri ad autorizzare sistematicamente indagini conformi agli standard internazionali per la documentazione e la conservazione dei dati. Altresì le organizzazioni firmatarie hanno offerto la propria disponibilità a cooperare con le autorità al fine di favorire il matching tra segnalazioni informali di scomparsa e informazioni sulla persona deceduta. Considerato che ad oggi l’inumazione dei corpi delle persone decedute non risulta ancora essere stata effettuata e che nei giorni successivi all’invio della lettera, l’associazione Mem.Med Memoria Mediterranea ha raccolto la segnalazione del familiare di una persona scomparsa che potrebbe risultare compatibile con l’evento in oggetto, le organizzazioni firmatarie auspicano il pieno accoglimento da parte delle autorità competenti di tutte le richieste avanzate. “Riuscire ad identificare le vittime del Mediterraneo è importante perché è un modo per restituire loro dignità e visibilità, per ricordare i loro nomi e le loro storie, per dare ai loro cari certezze oltre a un luogo e un corpo da piangere” concludono ASGI, EMERGENCY, Sea-Watch e Mem. Med Memoria Mediterranea. ASGI Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione
Afghanistan: nuovo rapporto di Emergency
A due anni dalla pubblicazione del suo primo report sulle barriere di accesso alle cure in Afghanistan, EMERGENCY lancia il nuovo rapporto Accesso alle cure d’urgenza, critiche e chirurgiche in Afghanistan. Prospettive del popolo afgano e degli operatori sanitari di 11 province, dedicato al Paese in cui è presente dal 1999. La ricerca, costruita raccogliendo proprio le voci degli afgani, si concentra sull’accesso della popolazione ai servizi di emergenza, intensivi e chirurgici (Emergency, Critical and Operative – ECO) che includono anche la ginecologica e l’ostetricia. Il quadro che emerge dall’analisi condotta da EMERGENCY e CRIMEDIM (Centro Interdipartimentale di Ricerca e Formazione in Medicina dei Disastri, Assistenza Umanitaria e Salute Globale) è quello di un Afghanistan dove 22.9 milioni di persone, metà della popolazione[1], necessitano di aiuti umanitari e oltre 14 milioni di cure sanitarie. Dove la crisi economica e l’indebolimento del sistema sanitario dopo decenni di guerra hanno reso difficile l’accesso alle cure per la popolazione che affronta oggi nuovi bisogni sanitari tra i quali le malattie non trasmissibili[2], non adeguatamente affrontate. Nel report Accesso alle cure in Afghanistan: la voce degli afgani in 10 province pubblicato nel 2023 l’ong aveva sottolineato la difficoltà degli afgani ad accedere alle cure nel Paese rilevando numeri che mostravano chiaramente come barriere geografiche, economiche e sociali rendessero complicato il raggiungimento delle strutture soprattutto dalle aree più remote del Paese, l’acquisto di medicinali, lo svolgimento di esami diagnostici e il reperimento di personale formato adeguatamente. Il nuovo rapporto 2025 conferma le tendenze emerse precedentemente: se già l’accesso all’assistenza sanitaria di base è complicato, ancora di più lo è quello ai servizi ECO che richiedono infrastrutture ed equipaggiamenti dedicati e maggiore specializzazione e formazione per lo staff. Il campione di analisi ha compreso 11 strutture ospedaliere governative oltre ai centri di EMERGENCY nel Paese (i Centri chirurgici per vittime di guerra a Kabul e Lashkar-gah, il Centro chirurgico ad Anabah in Panshir, i centri pediatrico e di maternità ad Anabah, oltre 40 posti di primo soccorso e centri di sanità di base sparsi nel Paese). Sono state considerate le 11 province dove EMERGENCY lavora, che ospitano quasi 16 milioni di afgani (il 39% della popolazione totale). La metodologia di ricerca ha previsto la somministrazione di 1.551 questionari anonimi a pazienti e accompagnatori in 20 strutture di EMERGENCY, 32 questionari compilati da informatori qualificati tra il personale di EMERGENCY, la compilazione di uno strumento di valutazione approvato dall’OMS e 11 interviste semi-strutturate negli ospedali pubblici con i direttori degli ospedali provinciali, i primari di chirurgia e di ginecologia. Tra le necessità che emergono con più forza da parte degli intervistati: disporre di un maggior numero di strutture sanitarie e di migliore qualità[3]; diminuire il costo delle cure e dei mezzi di trasporto per ricevere l’assistenza necessaria; aumentare la presenza di personale femminile. Anche i fattori socioculturali, infatti, limitano l’accesso alle cure. Essere donna è un indicatore di maggiore vulnerabilità nell’accesso alle cure in Afghanistan, soprattutto per quanto riguarda la gravidanza e l’assistenza materna. “Tra le restrizioni principali, a donne e ragazze è stato impedito di frequentare scuole secondarie e università – racconta Keren Picucci, ginecologa del Cento di maternità di EMERGENCY ad Anabah –. Inoltre, per ragioni culturali e sociali, le donne spesso esitano a rivelare i propri problemi di salute fino a quando la situazione non diventa grave e la preferenza o l’obbligo di essere trattate da personale medico femminile riduce ulteriormente le opzioni disponibili.” La crisi economica protratta da anni aggrava ulteriormente la situazione: l’80% degli intervistati lamenta costi troppo elevati dei servizi e la conseguenza diretta è che un paziente su quattro è stato costretto a rimandare almeno una volta un intervento chirurgico, mentre uno su cinque ha mancato un appuntamento di controllo. Tre su cinque hanno chiesto denaro in prestito o venduto beni personali per permettersi il pagamento delle cure. Ciò porta spesso a peggioramenti della salute, spesso fatali: oltre il 33% degli intervistati ha riportato una disabilità o un decesso dovuti al mancato accesso alle cure. Le barriere fisiche, poi, si rivelano una delle più difficili da superare per i pazienti: poco più del 2% degli intervistati ha dichiarato di essere in grado di utilizzare un’ambulanza pubblica per accedere ai servizi sanitari, mentre quasi la metà – la maggioranza della popolazione vive in aree rurali e montuose – ha dovuto spostarsi a piedi. Il 79% degli intervistati ha dovuto viaggiare in un’altra città, provincia o persino un altro Paese per ricevere cure chirurgiche. Due terzi delle donne intervistate sono state costrette a spostarsi per accedere ai servizi di cui hanno bisogno. Quando le strutture vengono raggiunte, poi, spesso non dispongono del personale o delle attrezzature necessarie per fornire cure in sicurezza. Sulla base dei suggerimenti raccolti tra pazienti, familiari e operatori sanitari, il rapporto si conclude con 10 raccomandazioni chiave alla comunità internazionale e alle autorità afgane per migliorare il sistema sanitario del Paese. “A quattro anni dall’abbandono delle forze internazionali e l’instaurazione del nuovo governo il 15 agosto 2021 l’Afghanistan non è più una priorità della comunità internazionale [4] – sottolinea Dejan Panic, direttore programma EMERGENCY in Afghanistan –. EMERGENCY resta al fianco della popolazione afgana perché i bisogni di cure di base e specialistiche persistono e sono i pazienti e i colleghi a chiederlo ancora, 30 anni dopo l’inizio del suo impegno nel Paese. Ma è fondamentale per garantire un futuro alla popolazione che la comunità internazionale e il governo afgano facciano la propria parte, come sottolineato nelle raccomandazioni finali di questo report la cui voce è la voce degli afgani.”   Emergency
Collegio docenti di una scuola di Varese vota contro campagna R1PUD1A di Emergency
Centinaia di Comuni hanno già aderito alla campagna R1PUD1A di Emergency contro qualsiasi guerra. Anche molte scuole, di ogni ordine e grado, stanno aderendo. Ed è su questo che noi dell’ Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università abbiamo da denunciare purtroppo un accaduto sconcertante.  Abbiamo ricevuto una segnalazione riguardo a una scuola di Varese: un collegio docenti davanti alla mozione di adesione alla campagna di Emergency ha bocciato la proposta. Aggiungiamo un dettaglio: prima della discussione e della votazione è intervenuto il/la dirigente scolastic* affermando «La scuola non fa politica, non ritengo opportuno aderire», e questo incredibilmente ha fatto sì che anche chi in principio si era dett* favorevole abbia deciso di non appoggiare la mozione.  Il/la docente che ci ha scritto all’indirizzo osservatorionomili@gmail.com e del* quale manteniamo l’anonimato, ha giustamente commentato «Se richiamarsi all’articolo 11 della nostra Costituzione e chiederne il rispetto è considerato di non competenza della Scuola, siamo messi male».  L’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università ha individuato da tempo ne* dirigenti scolastic* il vettore principale di ingresso o altresì di chiusura degli inviti istituzionali confezionati ad arte da MIM e FFAA e FdO e diffusi attraverso gli Uffici Scolastici Regionali. Conosciamo l’influenza che rivestono avvalendosi delle regole scritte e non scritte nella scuola. Sappiamo bene che anche una parte de* docenti fatichi a pensare una realtà demilitarizzata, e bocci qualsiasi mozione e attività proposta contro le guerre. Spesso quando parlano di pace sottintendono attraverso i conflitti armati. Noi continuiamo a contrastare questo clima militarista che circola dalle istituzioni nel pensiero comune e viceversa.  Ringraziamo chi legge e diffonde i nostri articoli, e invitiamo tutt* voi a partecipare al nostro lavoro culturale e di informazione sul territorio nazionale.  Maria Pastore, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università 
Il festival di Emergency: quinta edizione dedicata al tema “La voce”
Il Festival di EMERGENCY torna a Reggio Emilia, da venerdì 5 a domenica 7 settembre, per far sentire la voce di chi vuole costruire una società più giusta. Sarà proprio “la voce” il tema di questa quinta edizione, che porterà nelle piazze della città emiliana giornalisti, filosofi, scrittori, artisti e operatori di EMERGENCY. Tre giorni di incontri e dibattiti, ma anche di musica e spettacoli, per rispondere ad alcune delle seguenti domande: la nostra voce viene ascoltata? Che risonanza ha la voce delle persone – singoli o gruppi – di fronte a chi governa? Quali lotte e quali rivendicazioni di diritti uniscono più voci? Che eco ha la voce di chi rifiuta la guerra? Protagonisti di queste giornate saranno i giornalisti e gli operatori umanitari che sotto le bombe raccontano la verità della guerra; gli attivisti in lotta nonostante il rischio di carcere e violenze; le persone che vogliono avere il diritto di definirsi; i popoli che si riprendono piazze, strade, vie e porti contro repressione, guerra e povertà; i giovani che occupano gli spazi per rivendicare il proprio diritto al futuro… Da oltre 30 anni EMERGENCY li mette al centro della propria attività, curando le vittime di chi sceglie la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali e di chi alimenta la povertà, impegnandosi perché ciascuna voce venga ascoltata, che siano voci in mezzo al mare o sotto le bombe, nelle periferie o nei lager contemporanei, nelle carceri, nelle campagne o nei nuovi ghetti del nostro tempo. GLI APPUNTAMENTI DEL FESTIVAL. Per tre giorni teatri, piazze e luoghi simbolo di Reggio Emilia ospitano le voci di giornalisti, scrittori, storici, filosofi, registi, artisti e attivisti per riflettere e indagare il presente. In Piazza Prampolini gli incontri cardine del Festival, i Dialoghi, per inquadrare i principali temi del nostro tempo con i grandi protagonisti dell’attualità e lo staff di EMERGENCY. In Piazza Casotti in programma, invece, le Domande per pensare: 20 minuti e un relatore per rispondere a domande su temi chiave. Gli ospiti del Festival tornano poi a Un caffè con… per incontrarli in un’atmosfera più informale. La geopolitica internazionale sarà al centro di un nuovo format a cura del fotografo, giornalista e filmmaker Giampaolo Musumeci nel cortile dell’Università di Reggio Emilia. Il cortile di Palazzo Ancini, sede ANPI, ospiterà il ciclo A lezione con EMERGENCY, in cui lo staff dell’ong racconterà il proprio lavoro quotidiano sul campo, e la rassegna Make art, not war per scoprire le molte forme artistiche impegnate nella denuncia della guerra e nella difesa di pace e diritti umani. Torna anche la rassegna in collaborazione con Il Post nel cortile dell’Università di Reggio Emilia. Due gli appuntamenti serali di intrattenimento e musica in Piazza Prampolini, mentre il Teatro San Prospero ospiterà spettacoli teatrali e la proiezione di film e documentari. Si terranno in Piazza San Prospero gli appuntamenti mattutini Al risveglio, che daranno il via alle giornate di sabato e domenica, e quelli di fine giornata con il dj set. Per i più giovani, ma anche per genitori, insegnanti, educatori, tornano, alla Biblioteca Panizzi, incontri, laboratori creativi e letture animate per affrontare i temi del festival a misura dei più piccoli. Per rimanere aggiornati sulle attività di EMERGENCY in Italia e nel mondo: https://www.emergency.it Emergency