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La morbida durezza del tatami. Come affrontare la differenza della disabilità
Quando il tatami diventa un luogo di cura, crescita e inclusione per bambini e adolescenti Oggi utilizziamo la giornata internazionale delle persone con disabilità per parlare di un’iniziativa che riflette molto bene l’attività quotidiana del lavoro sul territorio campano, un fare costante e continuo che avvicina la fragilità e le neurodivergenze. In particolare, ci riferiamo al progetto Katautism appena partito all’interno dell’Istituto Comprensivo “De Amicis” a Succivo. Il paese campano accoglie la proposta della Federazione Nazionale Fijlkam (Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali) e osa un percorso innovativo e sperimentale avvalendosi di interventi psicologici specialistici: la disciplina judoka offre, quindi, alla comunità l’arte di alimentare, all’interno dell’individuo, una mentalità solidale e attenta al senso dell’essere giusti e del diritto alla libera scelta, tenta lo sviluppo della capacità di simbolizzare psichicamente la pratica dello stare in relazione con l’altro, creando, gradualmente e attraverso la guida dei maestri, un cambiamento nell’individuo e nel suo mondo interno, una trasformazione nel suo sé che, ad un certo livello, può definirsi profonda e strutturale. Il judo, in questo senso, ha molti punti in comune con la cura psicologica. La lotta sul tatami, tappeto da combattimento utile come superficie sicura per l’allenamento e le competizioni, è la conquista di un’esperienza di fiducia e di incontro con l’altro e insegna che imparare a cadere può diventare un vissuto di valore. La caduta, cioè, viene colta nel suo significato intrinseco dell’imparare-a-cadere-per-rialzarsi e, in tal senso, l’arte marziale del judo esprime la capacità di sollevarsi dalla caduta attraverso lo sguardo dell’altro avversario che tiene vivo l’atleta messo al tappeto condividendo con lui il vissuto di impotenza, in questo modo lo aiuta in un momento di sconcerto e fragilità. Potremmo pensare che il tatami, come base sufficientemente morbida su cui cadere, esprime la forza, il coraggio e il senso del giusto, insomma, con il judo c’è la possibilità di vivere un’esperienza di morbida durezza, ossimoro che ci porta ad immaginare il rapporto stretto che questa disciplina ha con l’essere umano e la sua comunità. Soprattutto, il progetto mette in evidenza molto bene la forte relazione tra l’Arte Marziale, la Psicologia e la Politica come rete necessaria affinché si possa creare un ambiente stabile, solido e affidabile, fonte di sviluppo e vera crescita nei bambini e negli adolescenti. L’obiettivo è di poter pensare, dentro un microcosmo qual è la scuola, ad esempio il dojo, luogo della “pratica marziale” come crescita e miglioramento personale, una modalità nuova di stare in relazione con l’altro e fare in modo che l’individuo possa esprimere le regole valoriali, apprese nella tecnica judoka, all’interno della società e dell’ambiente in cui vive. Lo scopo più lungimirante è provare a sviluppare, in ciascuno, il senso della cura per l’altro e, contemporaneamente, per sé. Manifestare, insomma, la necessità di proteggere i diritti dei più deboli e sentirne l’impegno e il dovere, e costruire una comunità in cui la vera forza è sentirsi meno spaventati ed esprimere, perciò, la libertà delle differenze nella loro molteplicità. Il progetto ricorda, e sottolinea, che il divertimento e il piacere sono ingredienti fondanti per poter imparare a vivere e a lottare per la conquista del diritto dello stare insieme in pace che non è assenza di conflitti, ma, al contrario, è renderli vivi e animati. Antonella Musella
“L’infanzia nel mirino”: dal Festival dei Diritti Umani la memoria di Sarajevo
Dal docufilm “Sniper Alley – To My Brother” la testimonianza viva del dolore, della resilienza e della memoria collettiva dell’assedio di Sarajevo “Un cecchino ha ucciso mio fratello. Ha ucciso anche la mia infanzia” è la frase di Dzemil Hodzic, segnato in modo indelebile dal momento in cui ha visto un proiettile attraversare il petto del fratello maggiore a soli 12 anni, che meglio riesce a condensare il dolore conosciuto da lui e da milioni di altri bambini che hanno vissuto e vivono storie simili alle sue. Il teatro degli orrori allestito durante la guerra civile in Bosnia ed Erzegovina nella prima metà degli anni ‘90, di cui Dzemil è uno dei sopravvissuti, è magistralmente raccontato dal docufilm Sniper Alley – To My Brother (2024), presentato per la prima volta a livello nazionale nella serata di sabato 29 novembre presso lo Spazio Comunale Piazza Forcella a Napoli, in occasione del XVII Festival del Cinema dei Diritti Umani partenopeo. Il lungometraggio, insignito del prestigioso premio per il miglior documentario al Glocal DOC 2025 di Varese, nasce proprio dal progetto di Hodzic “Sniper Alley Photo”, il quale si propone, grazie alle fotografie scattate da importanti reporter di guerra, di tenere viva la memoria della crudeltà quotidiana sperimentata dai cittadini di Sarajevo durante l’Assedio perpetuato dalle forze armate serbo-bosniache tra il 1992 e il 1996. Un quadriennio di sofferenza atroce per il popolo bosniaco musulmano, il cui bilancio è di oltre 11mila vittime, di cui 1.601 bambini. Era uno di questi ultimi Amel Hodzic, fratello maggiore di Dzemil, assassinato all’età di 16 anni da un cecchino la mattina del 3 maggio 1995. Il progetto del lungometraggio è dedicato a lui e a tutto il popolo bosniaco, di cui vuole essere celebrato lo spirito indomito dimostrato nel superare i traumi lasciati da quella ferita che rappresenta la guerra civile, come spiegato dai registi della pellicola Cristiana Lucia Grilli e Francesco Toscani, presenti alla prima insieme a Dzemil. A completare la cornice anche volti autorevoli come Mario Boccia, fotoreporter e autore delle immagini originali inserite nel film, e Nicole Corritore, giornalista di Osservatorio Balcani Caucaso Transeuropa, introdotti alla platea da Maurizio del Bufalo, coordinatore del Festival del Cinema dei Diritti Umani. Per ospitare l’evento non esisteva luogo migliore dello Spazio Comunale di Piazza Forcella, la cui sala principale è intitolata ad Annalisa Durante come fortemente desiderato dal padre Giannino. Le vite di Amel e di Annalisa, uccisa nel marzo 2004 da un proiettile ballerino esploso durante un agguato a un boss locale, trovano il loro epilogo per lo stesso motivo, se ce n’è uno: essere lì, trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le loro morti amaramente contingenti ci ricordano che il dolore, che esso sia prodotto da una faida criminale o da una guerra civile, non possiede etnia, religione o bandiere. Annalisa e Amel sovrappongono le coordinate di Napoli e Sarajevo, avvicinando spiritualmente due luoghi geograficamente distanti ma accomunati da una storia gloriosa avvelenata dai loro uomini, ambiguità difficile da tollerare persino da coloro che hanno ricevuto i natali da queste città. Un sentimento evocato nella pellicola dallo stesso Dzemil, il quale, come racconta, spesso è tornato a visitare la collina su cui era appostato il cecchino che ha sparato al fratello, non riuscendo quindi a godere della bellezza, ora macchiata, della vista della città. Parole che certamente risuoneranno condivisibili da ogni cittadino partenopeo. “Sniper Alley – To My Brother” fa le veci di tutti quei bambini che hanno imparato a temere uno sparo d’arma da fuoco prima dello scoppio di un palloncino e parla a coloro che, persino da adulti, non hanno mai conosciuto e probabilmente conosceranno un fardello tale. Le immagini dell’Assedio di Sarajevo offrono la possibilità di essere maggiormente consapevoli della crudeltà scritta in una pagina estremamente buia della storia europea, rimossa con fin troppa facilità dalla nostra memoria collettiva. Le voci dei protagonisti mantengono fervido il ricordo dell’accaduto per i posteri e si inseriscono in un messaggio di speranza, unico strumento per costruire un futuro in cui la vita prevale sulla morte, rivolto a chiunque abbia visto l’orrore della guerra con i propri occhi. A tal proposito è fondamentale sottolineare l’aderenza ai tempi correnti delle tematiche trattate nel docufilm, come spiega Maurizio Del Bufalo. “Il richiamo esercitato dal massacro dei bambini di Gaza non può non richiamare alla mente la crudeltà di Srebrenica o il disumano impegno dei cecchini di Sarajevo a cui, oggi lo sappiamo con certezza, si accompagnò la caccia all’uomo alimentata anche da gruppi di assassini italiani. Sono storie di crimini che dimostrano quanto i genocidi siano la strategia preferita di tutte le guerre moderne e che nasconderne l’esistenza o rifiutarne le definizioni serve solo ad alimentare orribili complicità”. Le più che mai attuali parole del direttore Del Bufalo, che cita con prontezza non solo il parallelismo tra l’Assedio di Sarajevo e il disastro a Gaza ma anche la follia dei cosiddetti “cecchini del weekend” (vedasi la recente indagine della Procura di Milano riguardo il famigerato Safari di Sarajevo), accendono un faro sulla banalità del male che si palesa nella cornice bellica e sulla crudeltà dell’operato di quelli che si potrebbe troppo facilmente definire mostri, quando si tratta in realtà uomini normali che, tanto in guerra quanto nel quotidiano, si macchiano di gesta mostruose. Redazione Napoli
Napoli, 25 novembre: la violenza si combatte molto prima della violenza
Arte, scuola, istituzioni, cultura e testimonianze. Un’unica direzione: educare alla libertà. Le notizie arrivano così fitte che i volti delle donne sembrano quasi sovrapporsi, uno sull’altro, senza il tempo di essere riconosciuti. Quando pensiamo di aver trovato le parole giuste per l’ennesimo femminicidio, arriva sempre un nuovo giorno che ci costringe a riformularle. Riaffiorano allora immagini che l’Italia non riesce a dimenticare. La pancia di Giulia Tramontano, spezzata insieme al figlio che portava in grembo. Il volto giovane di Giulia Cecchettin. La vicenda di Tiziana Cantone, divorata dalla violenza digitale. La vita interrotta di Martina Carbonaro, a soli quattordici anni. La storia di Roua Nabi, uccisa nonostante il braccialetto elettronico al marito. Storie diverse, lontane tra loro, eppure accomunate dalla stessa radice: la cancellazione della libertà altrui. E ancora una volta, la cronaca recente ci obbliga a fermarci. A Qualiano, vicino Napoli, un uomo già denunciato, già sottoposto a codice rosso e ai domiciliari con braccialetto elettronico, ha manomesso il dispositivo, ha raggiunto l’ex compagna e l’ha colpita più volte con un coltello. È viva per miracolo, dicono i medici. Ma quante volte ancora dovremo affidarci alla parola miracolo dopo che tutto il resto non ha funzionato? Questo episodio, come altri, mostra che la repressione, pur necessaria, non basta. Spesso arriva dopo, quando è già tardi. La violenza sulle donne non si esaurisce nelle storie che finiscono in prima pagina, con un nome, una fotografia e una sentenza. Esiste un territorio sommerso, silenzioso e ostinato, fatto di manipolazione, controllo, dipendenza affettiva, svalutazione e isolamento. È una violenza che non lascia lividi sulla pelle, ma scava dentro, corrode lentamente la voce, l’autostima, la libertà interiore. È quella che ti convince che sei tu il problema, che stai esagerando, che forse te la sei cercata. È fatta di parole trattenute, telefoni controllati, amori che diventano confini, e di una casa che, invece di proteggere, diventa prigione emotiva. È una violenza domestica non perché avviene tra quattro mura, ma perché mette la paura dentro la vita. Ha un effetto farfalla. Genera altre fragilità, altre bambine cresciute nella sudditanza, altri bambini educati all’idea del possesso. Perché in un contesto dove non si è liberi non si può insegnare la libertà, e nessuno può trasmettere ciò che non ha il permesso di vivere. I dati ci obbligano a non voltare lo sguardo. In Europa una donna su tre subisce violenza fisica o sessuale. In Italia il 31,5 per cento delle donne tra i sedici e i settant’anni ha subito violenza. Tra le ragazze più giovani quella psicologica raggiunge il 35 per cento. Nei primi sei mesi del 2024 sono stati denunciati 8.592 atti persecutori, e nel 74 per cento dei casi le vittime erano donne. Il 75 per cento delle italiane ritiene che la violenza psicologica non venga riconosciuta come tale. La prevenzione autentica comincia molto prima della violenza. Prima dei tribunali, delle misure cautelari e dei braccialetti elettronici. Comincia nell’infanzia, nelle famiglie e soprattutto nelle scuole. È un’educazione quotidiana quella che serve, fatta di rispetto, limite, empatia, consenso e libertà. In questa direzione si muovono anche alcuni provvedimenti oggi in discussione in Parlamento: il Disegno di Legge S 979, che propone di introdurre in modo strutturato l’educazione affettiva e sessuale nei programmi scolastici, e due proposte alla Camera, l’AC 2278, che riguarda l’educazione alle relazioni e al riconoscimento dell’identità di genere, e il C 2271, che disciplina le attività scolastiche sui temi dell’affettività e della sessualità prevedendo il consenso informato delle famiglie. È un segnale chiaro. Non è più possibile rimandare. Anche Napoli risponde, e lo fa attraverso linguaggi diversi: l’arte, la cultura, la memoria, l’esperienza, la cura. In Piazza Municipio, la ASL Napoli 1 Centro ha trasformato la riflessione in un’esperienza. All’interno di un grande cubo nero, simbolo del buio e dell’isolamento, si attraversa un labirinto sonoro fatto di voci, rumori, testimonianze e dati. Ogni passo è un frammento di paura, fragilità, controllo, ma anche resistenza. L’uscita è una Porta Rosa, luminosa, simbolo di rinascita. Fuori, operatori e volontari informano sui Percorsi Rosa attivi nei Pronto Soccorso cittadini, offrendo orientamento e protezione. La Direzione regionale Musei nazionali Campania ha diffuso il suo impegno lungo un’intera settimana, dal ventidue al ventinove novembre, trasformando musei e luoghi culturali in spazi di consapevolezza. A Montesarchio, la mostra fotografica Per Lei di Michele Stanzione racconta la presenza femminile attraverso luce, assenza e memoria. A Santa Maria Capua Vetere, l’Anfiteatro Campano si accende di arancione al crepuscolo, in un gesto collettivo che invita a dire insieme: accendiamo il rispetto. A Benevento, il Teatro Romano ospita studenti, psicologi e musicisti per riflettere sull’impatto invisibile della violenza. A Pontecagnano, una serata tra mito, danza e parola prova a immaginare relazioni libere da ruoli imposti. A Eboli, con Clitennestra o del crimine, il mito diventa voce contemporanea, che chiede ascolto e non solo giudizio. Anche il Teatro Trianon Viviani contribuisce a questo percorso. Il 25 novembre, dalle ore 10 alle 13, la Fondazione Campania dei Festival, insieme alla Regione Campania, promuove un incontro dedicato a studenti e famiglie, con interventi di istituzioni, associazioni e realtà impegnate nella tutela dei diritti e nella costruzione di una cultura del rispetto. È previsto anche un breve contributo artistico, con testimonianze e monologhi curati dall’Associazione Forti Guerriere, come forma di narrazione civile e restituzione della voce. Questi sono solo alcuni degli appuntamenti che Napoli e la Campania dedicano, lungo tutta la settimana, non a una celebrazione, ma a un impegno diffuso. Perché la consapevolezza non si costruisce in un giorno, e soprattutto non si costruisce da soli. Il venticinque novembre non è una data. È una domanda. A ciascuno di noi. E Napoli risponde mettendo al centro non solo la tragedia, ma la prevenzione. La cultura, l’ascolto, il linguaggio, la scuola, l’arte, la relazione. Perché la violenza si combatte molto prima della violenza. Nei gesti quotidiani. Nei bambini che imparano a rispettare. Nelle bambine che imparano a non abbassare gli occhi. Se vogliamo cambiare davvero questo tempo, dobbiamo ricominciare da lì. Dalle radici. Lucia Montanaro
Arte contro le pene capitali – Nel giorno dei morti, l’arte per la vita.
Quando la creatività diventa impegno sociale.   Torna a Napoli Arte contro le pene capitali . Giunta alla sua quarta edizione, la manifestazione è in programma sabato 2 novembre negli spazi dell’ex OPG “Je so’ pazzo” di Materdei, dalle 15:30 fino a notte inoltrata. L’iniziativa, promossa e portata avanti dall’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario insieme alla cooperativa editoriale e di ricerca sociale Sensibili alle Foglie , curata da Nicola Valentino e attiva nelle indagini sul mondo delle istituzioni totali come carceri e ospedali psichiatrici giudiziari, è organizzata in collaborazione con Napoli Monitor , testata web che si occupa di giustizia, partecipazione e povertà. L’evento intreccia arte, memoria, giustizia e diritti umani, trasformando un luogo simbolico della reclusione in un laboratorio di riflessione collettiva. È un appuntamento artistico, ma anche politico e partecipazione, per ripensare la giustizia e immaginare alternative alla logica del castigo. C’è il desiderio di riflettere, attraverso l’arte e la cultura, sul significato della pena di morte e dell’ergastolo come strumenti di punizione sociale. In Italia la pena di morte è formalmente abolita, ma l’ergastolo non rappresenta un’alternativa: esso stesso costituisce una pena “fino alla morte”. Il luogo che ospita l’evento, l’ex Ospedale Psichiatrico Giudiziario, si trasforma da spazio di sofferenza a centro pulsante di vita, solidarietà e cultura, riconosciuto come simbolo cittadino di resistenza civile e di costruzione dal basso di politiche alternative. Ambulatori popolari, doposcuola, scuola di italiano, attività artistiche e sportive formano qui una rete di solidarietà concreta, un argine di resistenza e di speranza. È l’esempio di come la società civile possa generare soluzioni alternative. In questo luogo carico di storia e di significati, attraverso l’arte, si apre uno spazio per riflettere, agire e sentire. Non è solo un momento culturale, ma un richiamo concreto all’impegno civile per la giustizia, la dignità e l’umanità. L’arte, in tutte le sue espressioni, diventa veicolo per dare voce a chi è escluso e per stimolare una riflessione collettiva su carcere e diritti civili. UN’ARTE CHE DENUNCIA LA “MORTE SOCIALE” Il filo conduttore di questa edizione è la condanna e l’abolizione della pena di morte e dell’ergastolo, considerato come pena “fino alla morte”. L’approccio multidisciplinare dell’evento pone l’accento sulla sofferenza individuale, sul silenzio collettivo e sulla “morte sociale” a cui l’ergastolo condanna: una morte lenta e silenziosa che priva l’individuo della propria umanità. Attraverso performance, teatro, musica, poesia e arti visive si vuole dare voce a ciò che spesso resta nell’ombra del sistema penale: sofferenza, isolamento e marginalità. L’obiettivo è rendere visibile ciò che il carcere tende a nascondere, restituendo dignità e parola a chi vive la condanna. ERGASTOLO BIANCO E GIUSTIZIA COME CURA L’edizione 2025 apre inoltre una riflessione sul cosiddetto “ergastolo bianco”, espressione che indica la trasformazione della diagnosi psichiatrica in una pena senza fine, una condanna mascherata da cura. È un tema delicato che interroga il rapporto tra malattia mentale, istituzioni e libertà individuale, e che l’arte affronta come strumento di consapevolezza e critica sociale. LA SCELTA SIMBOLICA DEL 2 NOVEMBRE La data del 2 novembre, giorno della commemorazione dei defunti, non è casuale: assume un valore fortemente simbolico. Nel giorno dedicato alla memoria dei morti, l’iniziativa denuncia la pena perpetua come una forma di lutto sociale, riaffermando il diritto alla vita, alla dignità e alla possibilità di rinascita. PROGRAMMA E PARTECIPAZIONI Oltre cinquanta artisti saranno coinvolti tra performance dal vivo e opere in esposizione: letture, mostre, momenti di musica e danza, performance teatrali, tutti incentrati sul tema della pena, della detenzione e della vita condannata. L’apertura è prevista alle ore 15:30, quando si aprirà il cancello dell’ex OPG di Materdei, oggi centro di cultura, promozione sociale e accoglienza. Comincerà così un cammino fisico e simbolico che si snoderà tra le stanze dell’ex manicomio, le celle ei cortili. Dalle 16 alle 19:30 il pubblico potrà partecipare a un percorso guidato all’interno dell’ex area detentiva, attraversando spazi angusti che evocano in modo potente la condizione di reclusione e la “morte sociale” cui si ispira la manifestazione. Nelle vendite saranno esposte opere pittoriche e sculture realizzate da persone detenute all’ergastolo, insieme a lavori di altri artisti sul tema della pena di morte e della detenzione. Nel chiostro si terranno performance artistiche, musicali, reading, proiezioni e installazioni. Numerosi contributi resteranno visitabili per tutta la serata. Alle 17:00 due momenti di performance teatrale sui temi della pena e della detenzione: Gli Arrevuot’ — Chi Rom e chi no , gruppo misto di artisti di strada, con Muort che parla , e il Teatro dell’Oppresso con lo spettacolo Le voci di fuori . Alle 18:30 Portateci nel cuore , letture di lettere di condannate a morte nella Resistenza europea, a cura della Kalamos APS. Alle 19:00, con un pensiero al genocidio e alle sofferenze della Palestina, il Teatro Popolare dell’ex OPG rappresenterà Stanotte morirò a Gaza di Andrea Carnovale, un potente urlo contro la morte. Dalle 19:30 fino a mezzanotte si animerà l’area del secondo chiostro con Parole capitali : spazi di lettura, musica e poesie, con la testimonianza di Giovanni Farina, interno dell’OPG quando era attivo, e di Michele Fragna. Alle 20:00 è previsto un momento gastronomico con la cena sociale organizzata dalla Casa dei Popoli di Marano. Il ricavato sarà destinato a sostenere le attività sociali quotidianamente svolte nel centro. Dopo la cena, musica struggente con la fisarmonica di Dolores Melodia — canzoni e musiche dal carcere — e l’esibizione del gruppo popolare Terra e Lavoro . A chiudere il programma, Nicola Valentino proporrà Lament di MacPherson , melodia composta da un condannato a morte alla fine del XVIII secolo. Per tutta la durata dell’evento saranno presenti i banchetti informativi di Amnesty International, Antigone Campania, Associazione Yairaiha Onlus, Centro Culturale Handala Ali, Sanabel, Sensibili alle Foglie, U Buntu e A Capo. MEMORIA E RESISTENZA Arte contro le pene capitali vuole essere memoria e resistenza: contribuisce a mantenere vivo il dibattito pubblico su temi spesso rimossi come la pena, la morte legale e la dignità umana. È un modello virtuoso di come cultura, memoria e impegno sociale possono intrecciarsi, offrendo al pubblico uno spazio di riflessione sul significato della libertà e della giustizia. Rappresenta un’occasione per vivere l’arte non come semplice espressione estetica, ma come strumento di partecipazione civile. Restano interrogativi aperti che alimentano il confronto: In che misura l’arte può davvero modificare le percezioni sociali sulla pena di morte, sull’ergastolo e sul carcere? Quali risultati concreti si possono auspicare? Qual è l’impatto che rimarrà dopo l’evento? Come affrontare la continuità tra pena di morte ed ergastolo? Il dibattito è spesso trascurato. L’Italia ha formalmente abolito la pena di morte, ma mantenendo l’ergastolo lo trasforma di fatto in una “morte a vita”. Sono domande che restano aperte, ma l’evento ha già dimostrato in passato come l’arte possa diventare strumento di denuncia, empatia e riflessione collettiva. Attraverso linguaggi come pittura, fotografia, teatro, poesia e musica, artisti e cittadini possono avviare un dialogo profondo sul valore della vita e sulla necessità di difendere i diritti in ogni contesto. Se nel mondo, purtroppo, continua a esistere la pena di morte, iniziative come Arte contro le pene capitali ricordano che la cultura è un potente veicolo di cambiamento, capace di trasformare la sensibilità individuale in coscienza civile e collettiva. Un appello a non restare indifferenti. Gina Esposito
Il sistema Schengen discrimina chi difende i diritti umani
Amnesty International ha diffuso un nuovo rapporto, denunciando che il sistema di emissione di visti dell’area Schengen – che include 29 stati europei, la maggior parte dei quali membri dell’Unione europea ma anche Svizzera e Norvegia – ostacola le persone che difendono i diritti umani di varie parti del mondo, impedendo a molte di loro di partecipare a importanti conferenze. Questa prassi contraddice i diritti e i valori che gli stati dell’area Schengen affermano di rispettare. Persone provenienti da 104 stati – per lo più dell’Africa, dell’Asia e del Medio Oriente – verso i quali esistono limitazioni all’emissione di visti, hanno difficoltà nell’ottenere visti brevi per prendere parte a eventi pubblici, fare rete o mettersi a distanza dai pericoli che corrono nei luoghi di origine a causa della loro attività. Nella maggior parte dei casi si tratta di persone razzializzate, nere, asiatiche e/o musulmane. Secondo l’analisi di Amnesty International, l’impatto negativo sulla loro libertà di movimento costituisce una discriminazione indiretta. “L’impossibilità di ottenere un visto Schengen significa che le voci e le testimonianze delle persone che difendono i diritti umani nel Sud globale sono escluse dagli incontri in cui vengono prese decisioni che hanno profonde conseguenze sulle loro vite”, ha dichiarato Erika Guevara Rosas, direttrice delle campagne e delle ricerche di Amnesty International. “Gli stati dell’area Schengen hanno sì il potere di decidere chi far entrare nei loro territori, ma l’impatto del sistema di emissione dei visti sulle persone che difendono i diritti umani provenienti da 104 stati è chiaramente incoerente con ciò che, attraverso linee guida e altri impegni, hanno promesso di fare per proteggere i diritti umani”, ha proseguito Guevara Rosas. “Assicurare che le persone che difendono i diritti umani possano avere visti per brevi periodi di tempo nell’area Schengen in modo rapido, certo e trasparente è indispensabile per garantire, senza discriminazioni, a queste persone il diritto di difendere i diritti”, ha sottolineato Guevara Rosas. Tutti gli stati dell’area Schengen sono tenuti ad applicare il Codice dei visti dell’Unione europea, che consente la richiesta di visti, da valutare e accettare caso per caso, anche da parte di chi non ha tutti i requisiti per ottenerli. Ma coloro che ricevono ed esaminano richieste del genere sembrano spesso essere ignari di questo criterio flessibile: di conseguenza, molte richieste di visti vengono respinte persino prima di arrivare alla fase decisionale. Una delle prime barriere è capire dove e a chi presentare una richiesta di visto. Molti stati dell’area Schengen non hanno rappresentanze diplomatiche o accordi in ciascuno dei 104 stati sottoposti alle restrizioni sui visti. Questo comporta che le persone che difendono i diritti umani debbano viaggiare in altri stati per fare la richiesta, con costi proibitivi o rischi per la propria sicurezza. Altri ostacoli sono il tempo necessario per fissare un appuntamento o attendere una decisione e la durata della validità del visto. In alcuni casi, i visti sono emessi troppo tardi o per un periodo troppo breve per viaggiare da un posto a un altro o per rimediare a eventuali ritardi dei voli. Inoltre, a coloro che chiedono i visti viene spesso chiesto di fornire un lungo elenco di documenti, soprattutto di natura economica come un contratto di lavoro, estratti conto o certificati di proprietà. Ciò risulta particolarmente difficile a coloro che subiscono le più acute forme di marginalizzazione e di discriminazione. Una difensora dei diritti umani della comunità dalit del Nepal ha raccontato: “Chiedono ricevute bancarie. Immagina cosa voglia dire per una persona che non riesce neanche a vivere alla giornata. Alcune persone che difendono i diritti umani lo fanno su base del tutto volontaria”. Gli ostacoli sopra descritti costituiscono discriminazione indiretta nei confronti delle persone che difendono i diritti umani, in quanto le norme dell’area Schengen colpiscono in modo sproporzionato le persone razzializzate che chiedono i visti. Sebbene in apparenza tali norme siano neutrali dal punto di vista razziale, in quanto non menzionano esplicitamente la razza o l’etnia come cause che giustifichino un trattamento differente, c’è una forte correlazione tra gli stati con limitazioni sui visti e persone razzializzate come le nere, le asiatiche e/o le musulmane. Nel giugno 2024 la Commissione europea ha pubblicato una versione rivista del Manuale dell’Unione europea sui visti: si tratta di una serie di linee guida che spiegano come applicare il Codice dell’Unione europea sui visti, che include esempi pratici su come facilitare le richieste di visti da parte delle persone che difendono i diritti umani.  Amnesty International ha apprezzato questo sviluppo e chiede ora agli stati dell’area Schengen di assicurare che il Manuale sia diffuso in modo ampio e pienamente applicato in modo da assicurare che le persone addette a ricevere ed esaminare le richieste di visti siano del tutto formate su come facilitare i viaggi delle persone che difendono i diritti umani. L’organizzazione per i diritti umani chiede agli stati dell’area Schengen anche di raccogliere dati disaggregati sulla razza e sull’etnia per porre fine alla discriminazione nel sistema dei visti e sviluppare e attuare una procedura facilitata di emissione dei visti per le persone che difendono i diritti umani, compresa una corsia preferenziale. Infine, gli stati dell’area Schengen dovrebbero emettere con maggiore regolarità visti per lunghi periodi e a ingresso multiplo: sono strumenti fondamentali per proteggere le persone, permettendo loro di viaggiare quando necessario, senza dover passare ogni volta attraverso lungaggini burocratiche. Ai fini della stesura del suo rapporto, Amnesty International ha parlato con 42 organizzazioni internazionali che hanno sede in stati dell’area Schengen e in stati che subiscono limitazioni all’emissione di visti e che in questi anni hanno facilitato il viaggio di centinaia di persone che difendono i diritti umani. L’organizzazione ha anche raccolto le testimonianze di 32 persone che difendono i diritti umani che hanno avuto esperienza diretta delle procedure di richiesta di visti. Amnesty International
Genocidio palestinese e dissenso in Italia: le piazze per la Palestina sono scenario di repressione?
Dal boicottaggio dei consumi alle manifestazioni di piazza: cresce in Italia il movimento di solidarietà con il popolo palestinese, mentre si moltiplicano episodi di repressione e dibattiti sulla libertà di espressione. Nel nostro paese stiamo assistendo a imponenti manifestazioni contro l’occupazione israeliana e il genocidio palestinese, attraverso l’attraversamento fisico dello spazio pubblico (presidi di piazza e cortei nelle strade) e anche mediante altri strumenti, come il boicottaggio dei consumi e delle strutture considerate coinvolte nelle violazioni dei diritti umani. Il tema “Palestina” attraversa le nostre coscienze: a partire da un moto di empatia umana, le posizioni di tante e tanti diventano politiche, poiché non piangiamo solo le persone uccise e, soprattutto, i tanti bambini, ma iniziamo a reclamare giustizia per il popolo palestinese e rispetto del diritto internazionale. Il che, tradotto in parole semplici, significa condannare l’intero progetto sionista e le azioni atroci che gli organi governativi che oggi lo portano avanti stanno perpetrando ai danni del popolo palestinese. Forse non sempre si è consapevoli di questo, ma è di questo che si tratta: quando scendiamo in piazza per la Palestina oppure acquistiamo Gaza Cola invece di Coca-Cola, lo facciamo per condannare il genocidio ma anche, necessariamente, per combatterne i presupposti. Vi è un nesso storico tra ciò che è accaduto cento anni fa con l’insediamento dei primi coloni attraverso il “primo aliyah”, “il primo ritorno”, cioè l’immigrazione dei primi coloni sionisti che avvenne tra il 1882 e il 1903, portando migliaia di ebrei in Palestina, e ciò che accade oggi con il colonialismo di insediamento iniziato nel 1948 in Cisgiordania, che ha portato sempre più persone a comprimersi dentro lo spazio della Striscia di Gaza per sfuggire all’apartheid e alla violenta sottrazione delle terre e del diritto di abitarle in modo dignitoso e sicuro. Senza infilarci in complicate ricostruzioni storiche, salta all’occhio che il fulcro della questione sia sempre la terra: la terra dei padri ma, soprattutto, la terra dei figli e per i figli. Il sionismo getta le basi per un’economia giorno dopo giorno sempre più fiorente, fuori e dentro Israele, e sempre più strettamente legata, purtroppo, anche alle operazioni militari. Uno sviluppo basato su un modello di investimento neoliberale, che ha consentito alle aziende israeliane di diventare dei colossi mondiali in alcuni settori; un esempio eclatante è il caso di TEVA, azienda farmaceutica che più volte ha dimostrato di non attenersi ad alcuna regola di controllo sulla produzione dei farmaci né sul divieto di fare cartello per imporre i propri prodotti al mercato. Il suo profilo etico (per quanto dichiarino i suoi siti ufficiali) è ampiamente compromesso dalle sanzioni dell’Unione Europea, che nell’ottobre del 2024 l’ha multata per 462 milioni di euro per concorrenza sleale e abuso di posizione dominante. Inoltre, di recente, la multinazionale sembra essere coinvolta, insieme ad altre realtà, in gravissime azioni contrarie al codice etico sanitario: “Rapporti inquietanti suggeriscono che il Ministero della Salute israeliano avrebbe permesso a grandi aziende farmaceutiche nazionali di testare prodotti sui prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Questa affermazione, fatta dalla professoressa Nadera Shalhoub-Kevorkian e da Mohammad Baraka, capo dell’Alto Comitato di Follow-up per gli Arabi in Israele, solleva serie preoccupazioni etiche. Nel 1997, l’ex politica israeliana Dalia Itzik riferì che oltre 5.000 test erano stati eseguiti su questi prigionieri. Inoltre, storicamente, le autorità israeliane restituiscono sempre con grande ritardo i corpi dei prigionieri deceduti e questo alimenterebbe i sospetti di sperimentazioni mediche.” Fonte: BDS Italia. TEVA, ancora, effettua forniture dirette all’esercito israeliano e finanzia campagne di immagine a sostegno delle azioni belliche a Gaza. Per tutti questi motivi, BDS, il movimento globale per i diritti del popolo palestinese, è attivo da vari anni con una campagna massiva contro TEVA. A tal proposito è bene precisare cosa dice BDS: il boicottaggio combatte la complicità, non l’appartenenza. Può sembrare una precisazione banale, ma è meglio non dare spazio ad equivoci. È necessario farlo perché il terreno si fa sempre più scivoloso. In Italia, il 6 agosto scorso, è stato presentato un disegno di legge (S.1627, cosiddetto disegno di legge “Gasparri”) che si ispira, con molta approssimazione, alla definizione di antisemitismo adottata dalla “International Holocaust Remembrance Alliance” il 26 maggio 2016: “L’antisemitismo è una certa percezione degli ebrei che può essere espressa come odio per gli ebrei. Manifestazioni di antisemitismo verbali e fisiche sono dirette verso gli ebrei o i non ebrei e/o alle loro proprietà, verso istituzioni comunitarie ebraiche ed edifici utilizzati per il culto.” Ma l’aspetto innovativo portato nella proposta è un salto, quasi un volo pindarico, di associazione dell’antisemitismo all’antisionismo, nesso che (ci correggano i giuristi) non esiste nel testo della definizione adottata da IHRA. Le domande sono tante. Chi scrive immagina che, tra le persone giuste che attraversano le comunità ebraiche europee e tra le componenti sane della società israeliana, vi sia ampio dibattito per capire come la definizione dell’IHRA possa e debba essere aggiornata alla luce delle recenti accuse mosse dalla Corte Penale di Giustizia e degli avvenimenti storici. Lo testimonia il fatto che il noto storico israeliano Ilan Pappé ha pubblicato un libro che si chiama La fine di Israele e che delinea proprio come la spaccatura interna rispetto al progetto sionista sarà la motivazione del suo annientamento. I fatti sembrano confermare questa visione dello studioso, che forse, ad alcuni, era potuta sembrare poco fondata poiché proiettata in un futuro troppo lontano. È di oggi la notizia della presenza in piazza a Gerusalemme di “una massiccia protesta che ha scosso la città, con la partecipazione di circa duecentomila ebrei ultraortodossi che hanno protestato contro la leva obbligatoria nell’esercito israeliano. Lo riporta il quotidiano Ynet, sottolineando il grande impatto della protesta che ha coinvolto una fetta significativa della comunità haredi locale. La manifestazione, denominata la ‘Marcia di un milione di uomini’, ha purtroppo registrato un tragico incidente: la morte di un ragazzo di 15 anni.” Altro quesito: è necessario un rafforzamento dei dispositivi di legge che puniscono l’antisemitismo nel nostro paese, in tutte le sue forme? Sì, certamente. Purtroppo, la scarsa o distorta conoscenza dei fatti storici porta tutt’oggi ancora troppe persone ad avere una percezione strisciante degli ebrei, considerati, nel pensiero di molti, come entità lobbistica. È ovvio che tale percezione, come tutte le azioni da essa generate, vada contrastata duramente. Ma allo stesso modo, se vogliamo restare in una posizione di correttezza etica e di efficacia giuridica, sono necessarie condanne di tutti i tipi di razzismo ben radicati nel nostro paese: vale per il razzismo anti-nero, l’antiziganismo, l’islamofobia, il razzismo antipalestinese, per tutti i giudizi negativi preconcetti basati su stereotipi riguardo a un gruppo etnico o razziale. Se la vediamo da questa prospettiva, individuando nell’antisionismo, d’emblée, una moderna manifestazione di antisemitismo, il progetto di legge pare promuovere una criminalizzazione del dissenso contro Israele, colpendo anche chi protesta per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi e per l’affermazione della giustizia internazionale. È così? C’è chi, nel mondo dei giuristi democratici, solleva dubbi di incostituzionalità qualora la proposta venisse approvata dalle Camere. E ancora, la proposta si alimenta della deriva reazionaria che una sempre più poderosa parte della società civile sta denunciando, con particolare riguardo al modo con cui le forze dell’ordine agiscono nei confronti degli attivisti e delle attiviste per la Palestina? Fatto sta che, in tutta la penisola, da Milano a Torino, poi a Roma e infine a Napoli, si sono registrati episodi di violenza delle forze dell’ordine contro gli attivisti. Nel capoluogo partenopeo, in particolare, a seguito di una contestazione alla presenza di TEVA alla fiera PharmaExpò alla Mostra d’Oltremare, ci sono stati tre arresti. Dalle ricostruzioni della dinamica, effettuate grazie ai tanti video condivisi da parte di persone presenti, anche non direttamente coinvolte nella protesta, vi sarebbe stato un accanimento di alcuni agenti della Polizia e della Guardia di Finanza, che hanno accerchiato un gruppetto di venti attivisti che si stavano pacificamente avviando all’uscita dalla Mostra, dopo aver aperto uno striscione, minacciandoli e malmenandoli. Dopo tre giorni di detenzione, i fermi sono stati annullati senza che venisse convalidata la richiesta di arresti domiciliari mossa dal PM: solo obbligo di firma per gli attivisti, secondo il GIP. Una mitigazione della pena dovuta all’accertamento degli eventi che presenta una verità più vicina alla versione dei manifestanti che a quella della Questura? I fatti andranno accertati nelle sedi opportune. È però lecita una domanda: c’è reale possibilità di manifestare per una causa giusta come l’immediata sospensione della pulizia etnica dei palestinesi? Oppure, quando si toccano obiettivi sensibili economici (quelli che, tra l’altro, ha individuato la rapporteur delle Nazioni Unite per il popolo palestinese, Francesca Albanese, nei suoi due ultimi rapporti come base per le complicità con il genocidio “ongoing” da parte di imprese presenti in sessantatré Stati, tra cui l’Italia), si rischia di impattare con forme di repressione? * Storia degli insediamenti israeliani in Palestina – Vatican News * Colonialismo e apartheid in Israele – BDS Italia * Proteste in Israele: circa 200mila ultraortodossi in piazza, morto un ragazzo – Alanews * Disegno di legge S.1627 – Senato della Repubblica * DDL “antisemitismo”: il piano Gasparri tra università e propaganda – Domani * Napoli: fermi e abusi della polizia durante la protesta contro l’azienda israeliana TEVA – SiCobas * Scarcerati gli attivisti per la Palestina arrestati a Napoli – Rai News Campania * Rapporto ONU sul genocidio palestinese – Il Fatto Quotidiano   Nives Monda
Sardegna: manifestazione contro l’RWM
In un clima internazionale in cui le guerre in atto paventano l’allargamento delle parti in causa e perfino il rischio di una guerra nucleare, l’industria delle armi va a gonfie e insanguinate vele. E’ stata investita dall’Unione Europea come l’economia portante, assieme a quella di una dissennata occupazione del suolo per nuove costruzioni e per indegne speculazioni legate alla corsa per le energie rinnovabili. Il tutto a discapito soprattutto dell’ambiente, della salute e della cultura. Come si fa allora a resistere alla tentazione di essere onnipotenti? Probabilmente hanno pensato così i vertici della RWM Italia, costola della multinazionale tedesca Rheinmetall, insediatesi nell’ex regione mineraria del Sulcis-Iglesiente nel 2010. Già nota dal 2014 per gli invii di bombe all’Arabia Saudita, usate in Yemen contro civili huthi, con tanto di denunce internazionali. Solo nel 2021 il governo Conte revoca le licenze di esportazione della RWM all’Arabia Saudita, applicando per la prima volta la legge 185 del 1990, che vieta il commercio e il transito di armamenti verso paesi in guerra, o che violino i diritti umani. Proprio come se fosse onnipotente, la imperturbabile RWM, in barba alla legislazione urbanistica e ambientale, a partire dal 2018 e fino al 2021 procede ad ingenti lavori di ampliamento. Ma le nuove costruzioni non hanno avuto la valutazione di impatto ambientale (VIA). Così la società civile si mobilita. Ci sono denunce e ricorsi al TAR e l Consiglio di Stato, che dà ragione ai comitati ambientalisti e disarmisti. Una multinazionale non si ferma e la RWM chiede alla Regione Sardegna una sanatoria sugli abusi edilizi e ambientali perpetrati, tra cui l’interramento di un torrente, in una zona denominata a rischio idrogeologico. La Regione, pressata dalla protesta popolare, decide di prendere tempo e studiare le carte presentate dai tecnici della società civile sarda. La RWM ricorre al TAR, di cui non è ancora nota la sentenza. E’ noto che il governo regionale è però pesantemente condizionato dalle pressioni del governo nazionale, che preme per una sanatoria sugli abusi e un via libera all’aumento della produzione di artefatti mortiferi. Il governo Meloni, militarista e autoritario per vocazione, cercherà di avvallare le tesi dei fabbricanti d’armi. Riparte e continua così la mobilitazione popolare in Sardegna contro la fabbrica d’armamenti del sud ovest sardo, che ora produce droni killer “Hero” con le tecnologie dell’azienda israeliana Uvision, collusa col genocidio a Gaza. Oggi 19 ottobre, un corteo di alcune centinaia di persone ha marciato verso la fabbrica della morte, allo scopo di ricordare la gravità di una situazione che, attraverso il ricatto occupazionale, impone alla Sardegna il ruolo di avamposto nella preparazione delle guerre. Attualmente la fabbrica, in attesa di una sanatoria sul suo ampliamento abusivo, lavora a ritmi sostenuti, con turni estesi agli orari notturni e ai giorni festivi, per stare dietro alle sempre maggiori richieste di proiettili, bombe e droni killer dai teatri di guerra. Il corteo ha di fatto intralciato, in modo creativo e nonviolento, il cambio turno nello stabilimento, costringendo la polizia a scortare le maestranze in un percorso a piedi lungo una stradina secondaria. Non si è verificato alcun incidente, anche perché davanti allo schieramento in tenuta antisommossa, i manifestanti hanno mantenuto i nervi saldi, preferendo sempre il dialogo alla contrapposizione, persino inscenando “su ballu tundu”, frutto della tradizione popolare sarda, davanti ai poliziotti con scudi, caschi e manganelli. Una nuova importante tappa di una lotta per il disarmo, che qui in Sardegna perdura da decenni e non intende fermarsi.   Carlo Bellisai – Redazione Sardigna Carlo Bellisai
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” – Gaza tra tregua e illusione
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” Così Publio Cornelio Tacito, storico e oratore romano vissuto tra il 55 e il 120 d.C., nel De Agricola descriveva la pace imposta dai Romani ai popoli conquistati: una pace che, in realtà, era solo una desolazione generata dalla guerra Se la Storia si ripete, annullando ogni arco temporale, riproponendo fatti, eventi, reazioni e sentimenti che – se non fossero datati e contestualizzati – potrebbero appartenere a qualsiasi epoca dell’umanità, allora anche le conquiste più epocali dell’uomo rischiano di essere azzerate. E in questo caso, i parametri per giudicare e analizzare ciò che oggi accade a Gaza non possono più avere un unico denominatore. La diversità delle posizioni apre a scenari in cui ogni opinione può essere legittima. Così, quella che per alcuni è finalmente pace a Gaza, per altri è semplicemente il “deserto”. Esiste un’unica verità? Sembrerebbe di no. Mentre Gaza continua ad essere teatro di una delle più gravi crisi umanitarie del XXI secolo, in un’alternanza continua tra la speranza di ricominciare a vivere – dopo la cosiddetta “pace di Trump” – e il rischio di ricadere nell’abisso da un momento all’altro, al centro del dibattito italiano ed europeo si discutono – con posizioni molto diverse – le proposte di pace e la loro reale portata storica. La pace attuale ha stabilito un cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato da diversi Paesi, che ha portato a qualche risultato concreto: il rilascio di ostaggi, la sospensione dei combattimenti in alcune aree. Accolta con gioia da molti palestinesi perché le armi finalmente tacciono e centinaia di vite sono state risparmiate, è vista con cautela dalla Palestinian Authority, che spera in un accordo completo. Tuttavia, vi è una miscela di speranza e scetticismo: si tratta di un piano che in parte ignora i diritti fondamentali. La pace sembra fragile. Molti punti focali dell’accordo si stanno realizzando, ma i temi strutturali – come il disarmo, il ritiro dai territori occupati, la definizione di uno Stato palestinese – sono ancora poco sviluppati e basati su equilibri temporanei, più che su una vera riconciliazione. C’è un’assenza di fiducia reciproca, un’evidente asimmetria di potere tra le parti, che rende questi accordi estremamente vulnerabili. La pace rischia di essere soltanto una tregua, se non verranno affrontate le questioni centrali: autodeterminazione, sicurezza e giustizia per entrambe le popolazioni. La “Pace di Trump” e il suo significato La cosiddetta “Pace di Trump” legittima un progetto di riassetto della Striscia di Gaza senza la partecipazione attiva dei palestinesi. È questo uno degli aspetti più evidentemente fallaci: l’esclusione dei rappresentanti palestinesi dal processo decisionale. Non sono coinvolte né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), né la società civile, né forze alternative come ONG indipendenti. Le critiche al progetto lo definiscono un paradigma coloniale travestito da accordo. Questa “pace” viene percepita da molti come un diktat unilaterale, perché legittima l’occupazione di ampie porzioni della Cisgiordania, riconosce come permanenti le colonie illegali secondo il diritto internazionale e riduce Gaza a una zona amministrata da attori arabi o internazionali, ma senza alcuna sovranità. Gaza verrebbe così trasformata in una regione gestita esternamente, ma senza alcun potere decisionale per i suoi abitanti. È un modello che ripropone una logica coloniale, simile a quella di un protettorato, più che un autentico piano di pace. I palestinesi sarebbero “gestiti” più che liberati. Invece dei diritti – che non si acquistano – il piano offre compensazioni economiche sotto forma di investimenti e progetti, che resterebbero comunque inaccessibili a chi ormai non ha più nulla. In sostanza, si legittima l’asimmetria tra occupante e occupato. Ma nessuna pace è sostenibile se costruita sopra la testa del popolo coinvolto. Non è pace, ma imposizione e sottomissione. La libertà non si compra, si riconosce. Una pace giusta richiederebbe La partecipazione diretta dei palestinesi, in tutte le loro componenti politiche e civili. Il riconoscimento dei crimini dell’occupazione. Il riconoscimento pieno del diritto di autodeterminazione, senza condizioni economiche imposte da Israele. La condanna chiara delle violazioni del diritto internazionale. Una posizione italiana ed europea coerente con i valori fondativi dell’Unione Europea: rispetto dei diritti umani, del diritto dei popoli alla libertà e alla giustizia. La vera pace non può essere un esercizio geopolitico calato dall’alto, ma deve partire dal riconoscimento del diritto dei palestinesi alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione. Perché allora, per alcuni, è un’operazione straordinaria? Perché, finalmente, c’è stato un cessate il fuoco, una riduzione delle sofferenze civili, il rilascio di ostaggi da parte di Hamas, uno scambio di prigionieri, e un impegno internazionale alla ricostruzione e all’assistenza umanitaria. Inoltre, è stato rilanciato – almeno formalmente – il principio dei “due popoli, due Stati”, sostenuto in molte dichiarazioni europee e mediorientali. L’accordo ha una forte dimensione simbolica: riconosce il dolore dell’altro, alimenta la speranza. Il cessate il fuoco è stato salutato come una “porta verso una pace eterna”, come l’ha definita il Presidente degli Stati Uniti. Questo è l’aspetto che, secondo molti, dà all’intesa un significato che va oltre il semplice armistizio: è un trampolino verso un nuovo assetto regionale. Appoggiato e sostenuto da Qatar, Egitto, Unione Europea, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, l’accordo è esaltato perché interrompe un ciclo devastante di guerra, restituisce libertà a civili e famiglie e rappresenta – per alcuni – un’occasione storica per costruire una stabilità geopolitica nella regione. E l’Italia? L’Italia ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi, pur chiedendo – a parole – il rispetto del diritto internazionale umanitario e la protezione dei civili. Tuttavia, questa richiesta non è mai stata accompagnata da sanzioni concrete verso Israele. Non è stata tra i mediatori della pace, ma ha partecipato agli incontri dell’Unione Europea per sostenere il cessate il fuoco. Dopo l’accordo, il governo italiano ha dichiarato di essere pronto a contribuire alla ricostruzione di Gaza e a programmi di assistenza civile. Ha affermato che la soluzione duratura passa per “due popoli, due Stati”, anche se questo principio non è presente nel piano attuale. Questa tregua tra Israele e Hamas è fragile: ha certamente interrotto un ciclo sanguinoso di violenza e aperto qualche spiraglio, ma non ha affrontato le radici profonde del conflitto. La questione palestinese resta irrisolta e, di fatto, assente dall’accordo. Al momento, tutto ciò sembra solo una tregua temporanea, fragile e minacciata ogni giorno. Non ha ancora tracciato una vera via verso un processo politico concreto. Per alcuni, è il successo di Trump, che avrebbe deciso di mettere fine ai crimini israeliani dopo averli sostenuti per anni con l’invio di armi al governo di Netanyahu. Secondo altri, dietro c’è un piano economico e politico per la ricostruzione dell’area con mire speculative. Il governo italiano, accusato di “complicità” per aver evitato di definire come coloniali le politiche israeliane, per avere appoggiato la “sicurezza di Israele” come valore assoluto, senza pretendere il rispetto concreto del Diritto umanitario internazionale non si è opposto al Progetto che esclude i Palestinesi. “La Palestina sarà riconosciuta più facilmente se il piano verrà implementato”, ha dichiarato la premier italiana al vertice per la pace di Sharm el-Sheikh. Ha dettato condizioni affinché quel riconoscimento sia possibile. Con questa posizione l’Italia prende le distanze da altri Paesi dell’Unione che hanno unilateralmente riconosciuto lo stato della Palestina ritenendo che sia uno strumento di grande portata simbolica ma soprattutto valorizza il diritto all’autodeterminazione palestinese, condizione basilare per un reale processo di pace. Escludere i Palestinesi dalla determinazione del loro stesso futuro rende in partenza precaria e inefficace qualsiasi costruzione di Pace. Redazione Napoli
Dettagliato rapporto sulla repressione internazionale della solidarietà con la Palestina
Pochi giorni fa, la Federazione Internazionale dei Diritti Umani (FIDH, nel suo acronimo francese), ha pubblicato un corposo rapporto dal titolo “Solidarity as a Crime: Voices for Palestine Under Fire“. Parliamo di un raggruppamento di quasi 200 associazioni e ONG di ben 116 paesi diversi, che si occupano di difesa […] L'articolo Dettagliato rapporto sulla repressione internazionale della solidarietà con la Palestina su Contropiano.
“Il Veneto deve avere il coraggio di cambiare.” Intervista a Beatrice Verzé
Beatrice Verzé, consigliera comunale di Verona e candidata alle elezioni regionali del 23 e 24 novembre con Manildo (centro-sinistra), racconta la sua visione su ambiente, trasporti e giustizia sociale. La lotta alla crisi climatica non può prescindere dalla giustizia sociale e dalla parità di genere. Ne è convinta Beatrice Verzé, consigliera comunale a Verona per il gruppo Traguardi, consigliera delegata della Commissione Pari Opportunità e ora candidata alle elezioni regionali con la lista di Giovanni Manildo. Un impegno che nasce, racconta, dalla necessità di dare risposte concrete ai cittadini e alle cittadine su temi che toccano la vita quotidiana. Verzé, nel corso del recente Festambiente 2025 lei ha parlato di crisi climatica come di un’urgenza non più rimandabile. Perché, secondo lei, non c’è ancora una risposta adeguata dalla politica? «La crisi climatica è un dato di fatto. Purtroppo, però, non tutte le forze politiche la riconoscono come priorità: c’è ancora chi nega i cambiamenti climatici o, peggio, porta avanti politiche che vanno nella direzione opposta alla lotta contro la crisi climatica. In questi anni la mia generazione e quelle vicine alla mia hanno avuto il merito di far crescere la consapevolezza, di aprire gli occhi a tante persone. Ma non basta. Ora serve che la politica usi la crisi climatica come lente attraverso cui programmare le scelte pubbliche, sia a livello locale che regionale. E serve anche coraggio, perché alcune decisioni non saranno popolari, ma sono necessarie per il futuro del nostro territorio.» Da quale tema partirebbe, se eletta in Regione? «Partirei dai trasporti. Il Veneto è la regione che cofinanzia meno il Fondo nazionale trasporti. Questo significa che regioni come Emilia-Romagna, Lombardia o Piemonte investono nel trasporto pubblico locale il doppio, a volte anche cinque volte tanto rispetto al Veneto. Non si tratta solo di sostenibilità ambientale, ma anche di giustizia sociale: non possiamo chiedere alle persone di usare mezzi pubblici che sono costosi, inefficienti e inaffidabili. È una questione di equità.» Parla di coraggio politico anche per le scelte sul territorio. Cosa intende? «Faccio un esempio molto concreto. Tutti concordiamo sull’importanza di piantare alberi per mitigare l’effetto delle isole di calore nelle città. Ma quando si propone di togliere cinque parcheggi per piantare cinque alberi, allora emergono le resistenze. Qui serve una politica che sappia osare, che abbia la forza di spiegare ai cittadini che alcune scelte, anche se possono sembrare impopolari nell’immediato, sono necessarie per il benessere collettivo. Senza un cambiamento culturale nelle nostre abitudini, anche le politiche pubbliche più efficaci rischiano di non produrre risultati.» Un altro concetto a lei caro è quello di “prevenzione”, non solo di interventi a emergenza avvenuta. Cosa manca oggi? «Manca la programmazione. Oggi le città non dispongono di strumenti adeguati per monitorare quello che accade durante eventi atmosferici straordinari, che ormai straordinari non sono più. A Verona stiamo lavorando su questo fronte, ma serve che la Regione si faccia carico di dotare i Comuni di sistemi che permettano di capire dove intervenire prima che i danni si verifichino. Non possiamo continuare a rincorrere le emergenze: dobbiamo agire prima, con strumenti di prevenzione e monitoraggio.» Altro tema cruciale è quello della transizione energetica. Quali sono, secondo lei, gli ostacoli principali? «Uno degli ostacoli più grandi è la burocrazia. È inutile parlare di transizione energetica se poi progetti come impianti fotovoltaici o soluzioni per il biometano si arenano in procedure infinite. Dobbiamo anche superare certi tabù e paure legate alle energie rinnovabili. Naturalmente serve equilibrio tra i vantaggi di queste soluzioni e l’impatto sui territori, ma non possiamo continuare a rimandare. Il Veneto ha bisogno di una strategia chiara e di regole semplici, che permettano a Comuni e imprese di agire.» Come vede il ruolo del Veneto nella lotta contro l’inquinamento? «Siamo nella zona più inquinata d’Europa, non solo d’Italia. Questo pesa sulla qualità della vita e sulla salute dei cittadini. Credo che la Regione debba fare squadra con altre realtà del Nord Italia per chiedere fondi straordinari all’Europa. Non possiamo affrontare questa sfida da soli: serve una rete forte di amministrazioni che sappiano far sentire la propria voce dove si prendono le decisioni. La vera sfida ambientale è questa: farci sentire, portare la nostra visione e le nostre proposte nei luoghi in cui si decide il futuro del territorio.»  Che tipo di approccio porterà in Regione, se eletta? «Credo che ciò che ci distingue sia lo sguardo con cui stiamo lavorando, sia a Verona sia ora a livello regionale. Uno sguardo che ha tre caratteristiche. La prima è generazionale. È arrivato il momento che la nostra generazione parli con la propria voce, senza che altri parlino al nostro posto. E che non si parli di giovani solo perché conviene in campagna elettorale. La seconda caratteristica è il metodo civico. In molte città del Veneto – penso a Verona, Vicenza, Treviso, Padova – i movimenti civici progressisti stanno mostrando che si può fare politica partendo dall’ascolto diretto dei cittadini e delle cittadine. Questo approccio ha portato a cambiamenti concreti e vogliamo portarlo anche in Regione. Il terzo elemento è la concretezza. Negli ultimi anni ho visto troppi slogan e poche soluzioni. Noi vogliamo parlare con i fatti, lavorando su priorità reali come i trasporti, che non sono solo una questione di spostamenti ma di qualità della vita e di welfare.» Ha citato i giovani: quali sono, secondo lei, le condizioni necessarie perché possano costruire il loro futuro qui, senza dover andare altrove? «Se un giovane o una giovane vuole restare in Veneto, deve poter contare su servizi efficienti e su opportunità concrete. Penso ai trasporti, che devono permettere di muoversi in modo semplice e sostenibile. Ma penso anche al welfare e al tema della casa, che non è direttamente collegato all’ambiente ma è fondamentale per la qualità della vita. Un giovane deve avere la possibilità di scegliere di restare, non essere costretto ad andarsene per mancanza di alternative. Questo significa creare una regione attrattiva, che investa nelle persone e nel loro futuro.» Recentemente ha preso una posizione netta nei confronti del Ministro Tajani sulla situazione a Gaza e a Verona come Consiglio Comunale avete approvato una mozione per sostenere la popolazione palestinese. Cosa l’ha spinta a farlo e quale ruolo possono avere secondo lei le istituzioni locali e regionali su un tema internazionale come questo? «Ciò che mi ha spinto e ci ha spinto è la profonda convinzione che il genocidio a cui stiamo assistendo ci rende tutte e tutti responsabili. La politica, anche quella locale, non può e non deve essere privata di una visione globale. I diritti umani e il diritto internazionale sono universali e vanno difesi sempre e ovunque. Le istituzioni devono scegliere da che parte stare. Per noi, a Verona, abbiamo scelto di stare dalla parte del diritto internazionale e dei diritti umani, che il governo di Israele sta negando a tutti i livelli in un processo di occupazione decennale (gli insediamenti illegali, ndr). Il ruolo delle istituzioni locali e regionali è cruciale: siamo il primo punto di contatto con la cittadinanza e abbiamo il dovere morale di agire come cassa di risonanza. A Verona, siamo passati dalle parole ai fatti, dimostrando che l’impegno non è solo retorica. Tra le azioni approvate in Consiglio Comunale ci sono state: l’approvazione dell’ordine del giorno per il “Cessate il fuoco” (febbraio 2024), l’ordine del giorno per il riconoscimento dello Stato di Palestina e la condanna al genocidio (giugno 2024), con la richiesta esplicita di sospendere la vendita di armi da e verso Israele e sanzioni contro i coloni, l’adesione alla campagna di mobilitazione “50.000 sudari per Gaza” e il supporto alla Global Sumud Flotilla attraverso una lettera del sindaco a Giorgia Meloni. Le istituzioni locali possono e devono essere un pungolo per il governo centrale e un segnale di civiltà per l’Europa, dimostrando che l’empatia e la difesa dei diritti non conoscono confini amministrativi.» Guardando alla politica italiana nel suo complesso, crede che stia facendo abbastanza per affrontare la crisi a Gaza? Che tipo di azioni concrete vorrebbe vedere a livello nazionale e nel suo impegno in Regione? «Assolutamente no, la politica italiana nel suo complesso non sta facendo abbastanza. L’approccio attuale è troppo timido e privo di coraggio diplomatico. È necessario un cambio di rotta netto. A livello nazionale, chiediamo azioni immediate e vincolanti: Stop immediato all’invio di armi e interruzione dei rapporti economici e militari con Israele. Non possiamo essere complici di un genocidio; Riconoscimento ufficiale dello Stato di Palestina. È un passo dovuto, non più rimandabile, per riaffermare il diritto internazionale e la soluzione dei due Stati; Un vero protagonismo in Unione Europea. L’Italia deve smettere di agire come semplice amico degli USA e assumere un ruolo diplomatico all’altezza della sua storia, spingendo per una posizione europea unitaria e decisa. A livello regionale, l’impegno sarà quello di mantenere alta l’attenzione politica e di spingere per atti che vadano nella direzione della pace e del diritto. La Regione può promuovere atti di solidarietà e di diplomazia dal basso, ad esempio rafforzando i legami con la popolazione palestinese e condannando ogni forma di discriminazione e violenza.» Come delegata alle pari opportunità per il Comune di Verona, quali risultati ha raggiunto finora e come pensi di portare questa esperienza su scala regionale se verrà eletta? «Il mio mandato a Verona è partito dalla consapevolezza che il tema delle pari opportunità è complesso e urgente, al di là della retorica. I dati parlano chiaro: una donna ogni tre giorni viene uccisa da un uomo, l’Italia è al 79° posto per gender gap, il 73% delle dimissioni femminili è legato alla difficoltà di conciliare vita professionale e familiare. Il primo obiettivo è stato rendere la parità di genere trasversale a tutti gli assessorati e non un tema isolato. Dal potenziamento del Centro Antiviolenza Petra all’impegno per la formazione e la prevenzione della violenza nelle relazioni. Abbiamo intrapreso un lavoro culturale stabile sul tema della parità di genere e del femminismo, uscendo dalla logica degli eventi spot per le ricorrenze del 25 novembre e dell’8 marzo. Abbiamo poi introdotto le Linee guida per l’utilizzo del genere nel linguaggio amministrativo e stiamo avviando un percorso per introdurre un Atlante di genere per avere una fotografia chiara della condizione femminile nella nostra città a tutti i livelli. In Regione, voglio portare un approccio sistemico e strutturale, agendo su tre assi portanti: 1. Introdurre il Bilancio di Genere regionale è la priorità. Dobbiamo valutare come i soldi pubblici influenzano in modo differente donne e uomini. Significa costruire politiche pubbliche più eque, con dati disaggregati e monitoraggio annuale, estendendo poi le linee guida a Comuni e Province. 2. Aumentare in modo stabile e pluriennale i fondi regionali per i Centri Antiviolenza e le Case Rifugio. Riconoscere i CAV come presidi essenziali, garantendo personale formato e finanziamenti che non dipendano solo dai trasferimenti statali.3. Il Veneto è una delle Regioni con il più alto tasso di obiezione di coscienza (oltre il 70% dei ginecologi). Questo ostacola il diritto all’autodeterminazione. La nostra proposta è netta: piano regionale per la 194 con obiettivi chiari e monitoraggio pubblico, potenziamento dei Consultori: Devono garantire la presenza obbligatoria di personale non obiettore e l’abilitazione alla somministrazione della RU486 e tutela contro l’obiezione organizzativa, con l’introduzione di norme per evitare che interi reparti siano composti solo da obiettori. La parità non è un’appendice, è una trasformazione trasversale che riguarda i diritti, il lavoro, la salute e l’economia del nostro Veneto.» Lei si presenta come una “voce nuova”. Quali valori e quale visione vuole portare in Consiglio regionale e in che modo la sua generazione può portare un cambiamento rispetto alla politica tradizionale? «La retorica del “Veneto Regione modello” ci ha nascosto un malfunzionamento profondo. La nostra generazione non si nasconde più dietro quel velo e chiede che le cose fondamentali tornino a funzionare. ‘Voce nuova’ non è il mio slogan, è un amplificatore per le voci di chi non è ascoltato. I valori che porto sono quelli di una politica che deve garantire i diritti essenziali, non lasciarli alla fortuna o al privilegio: la casa, in Veneto, è diventata una sfida impossibile. Chiediamo un fondo regionale per ristrutturare alloggi sfitti e progetti di social housing. Vogliamo che la casa torni a essere un diritto, non un miraggio. Oggi il Veneto è fanalino di coda nei finanziamenti del trasporto pubblico: serve un piano straordinario che renda il trasporto pubblico così efficiente da essere la scelta più logica per tutti. Dobbiamo poi fare dell’asilo nido per tutti la battaglia principale, restituendo tempo e dignità alle famiglie e alle donne lavoratrici. Ci sono poi temi come la salute riproduttiva, il fine vita, l’inclusione sociale che devono diventare parte integrante di tutte le politiche regionali, non solo ‘belle parole’. La mia generazione porta una capacità di guardare ai problemi con intersezionalità – capendo come casa, lavoro, trasporti e diritti si intrecciano. Ma soprattutto, portiamo l’urgenza di passare dalla discussione all’investimento. Ci parlano di noi, ma raramente con noi. Ci chiedono di restare, ma non investono sugli strumenti che ci permetterebbero di farlo. Il cambiamento che portiamo è questo: non più solo promesse, ma strumenti strutturali e misurabili per un Veneto in cui tutti abbiano la possibilità di costruire il proprio futuro, e dove nessuno sia lasciato indietro.» In chiusura, qual è il messaggio che vuole lanciare agli elettori e alle elettrici? «Credo che la mia candidatura rappresenti la volontà di portare in Regione la voce di una generazione che vuole un Veneto più giusto, sostenibile e coraggioso. Non sarà un percorso facile, ma ora è il momento di agire. Vogliamo costruire insieme il Veneto del futuro, con una politica che ascolta e che sceglie, anche quando questo significa prendere decisioni difficili per il bene comune.»   Heraldo