Tag - Riflessioni

Il piano “Gaza Riviera”: gentrificare il genocidio israeliano
di Muhammad Shehada,  The New Arab, 16 settembre 2025.   Il piano “Gaza Riviera” usa il linguaggio degli investimenti e della riqualificazione per far passare come innovazione il genocidio dei palestinesi da parte di Israele. Il cosiddetto piano “Gaza Riviera” non è tanto una visione del futuro quanto un necrologio scritto nel linguaggio del lusso. Avvolto in presentazioni patinate e commercializzato come un balzo in avanti verso il progresso, è in realtà il culmine di anni di deliberata devastazione: un piano per cancellare i palestinesi da Gaza e rinominare la loro assenza come innovazione. Ciò che viene presentato come investimento e rigenerazione è, in realtà, il riciclaggio del genocidio in uno spettacolo, una copertura estetica per un progetto politico le cui fondamenta sono le macerie di Gaza e il silenzio dei suoi abitanti espulsi. Perché Israele non ha mai sviluppato un piano postbellico a Gaza Il piano “Gaza Riviera”, pur ampiamente condannato, viene presentato come la trasformazione di un’enclave completamente distrutta in una serie di megalopoli balneari futuristiche e high-tech, ed arriva vestito con il linguaggio degli investimenti e della modernità. Ma guardando oltre i rendering e le presentazioni per gli investitori, emerge una verità più cruda: non si tratta di una strategia diplomatica, ma di un’estetica della scomparsa. Questo spiega perché, per due anni, non ci sia stato alcun piano politico israeliano coerente per Gaza al di là della distruzione di massa, dello sterminio di massa e della fame di massa; la cancellazione di Gaza è stata fin dall’inizio il vero piano. La coreografia politica delle ultime settimane tradisce le priorità di questo piano. Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suo genero Jared Kushner, Tony Blair e gli inviati israeliani si riunivano per immaginare il futuro di Gaza senza un solo palestinese nella stanza, il genocidio continuava, spogliando la Striscia di ciò che resta della sua densità urbana e del suo tessuto sociale. La conclusione è che la cancellazione di Gaza non è un ostacolo al piano, ma la sua condizione preliminare. Il piano di Netanyahu fin dall’inizio I contorni fondamentali del piano Riviera sono venuti alla luce in documenti trapelati di recente che descrivono le proposte di porre Gaza sotto l’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti per circa un decennio, spopolare completamente l’enclave dei suoi abitanti palestinesi e commercializzare la costa come un futuristico polo turistico-tecnologico: “la Riviera del Medio Oriente”. Nulla di tutto questo, tuttavia, è nuovo. Il progetto originale di questo promesso centro fantascientifico, costruito su fosse comuni e città rase al suolo, è stato creato dallo stesso Benjamin Netanyahu diversi mesi prima che Trump fosse eletto. La “Visione Gaza 2035” del primo ministro israeliano, rivelata nel maggio 2024, immaginava l’enclave, da tempo sotto assedio, come una zona industriale e di libero scambio simile a Dubai e utilizzava le stesse immagini generate dall’intelligenza artificiale che vengono ora utilizzate nel piano Riviera. Non è una coincidenza che entrambi i piani abbiano un’introduzione quasi identica. “Da una [Gaza] distrutta a un prospero alleato di Abramo”, recita il piano Riviera, mentre Netanyahu ha sottolineato la “ricostruzione dal nulla”. Sono implicite le stesse due condizioni preliminari: Gaza deve essere completamente rasa al suolo senza lasciare nulla e deve essere svuotata della sua popolazione per trasformarla in una tela bianca da sviluppare partendo da zero. Il piano “Gaza Riviera”, ampiamente condannato, reinterpreta il genocidio come rigenerazione. [Getty] Questo era il piano di Netanyahu fin dall’inizio, quando il primo giorno di guerra ha ordinato alla popolazione civile di Gaza di “andarsene subito” prima che una distruzione senza precedenti colpisse “ogni luogo”. Netanyahu ha poi raddoppiato la posta in gioco quando il suo ministero dell’intelligence ha prodotto un piano dettagliato per l’espulsione di massa e il trasferimento forzato della popolazione di Gaza. Gli israeliani hanno persino convinto l’allora Segretario di Stato americano Anthony Blinken a visitare paesi arabi come l’Egitto e l’Arabia Saudita per promuovere l’idea del “trasferimento temporaneo” della popolazione di Gaza nel Sinai. All’epoca questa impresa fallì e Israele non riuscì a trovare un pubblico disposto ad accettare il futuristico complotto su Gaza. Netanyahu ha continuato ad aspettare il momento opportuno fino all’insediamento di Trump, quando si è precipitato a Washington per convincere il presidente americano a presentare l’idea della pulizia etnica e della conquista di Gaza come se fosse una sua idea. Da allora, Netanyahu ha continuato a riferirsi alla sistematica espulsione di massa da Gaza da parte di Israele come “attuazione del piano Trump” per scaricare sull’alleato la colpa di questa politica genocida. La copertura di Netanyahu – e il pubblico a cui è destinata Gli esperti hanno ripetutamente criticato il Piano Riviera di Gaza definendolo “folle”, irrealistico, impraticabile e pieno di ostacoli legali e morali che renderebbero chiunque lo promuovesse complice di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ecco perché il Boston Consulting Group si è affrettato a sconfessare i propri consulenti senior quando questi hanno elaborato un piano dettagliato per rendere operativo il trasferimento di massa della popolazione di Gaza, includendo scenari modellizzati e fogli di calcolo che quantificavano il costo della pulizia etnica. Chiunque voglia contribuire a questo abominio sarà esposto a cause legali e procedimenti penali per decenni a venire. Ma la fantasia futuristica di Trump sul Mediterraneo potrebbe non essere intesa come un piano serio fin dall’inizio. È semplicemente una storia con un “lieto fine” artificiale al genocidio e alla pulizia etnica che Israele racconta ai suoi complici. La vera utilità per Netanyahu di questa idea stravagante è la gestione della narrativa. Mentre il governo israeliano porta avanti una campagna che riorganizza la geografia e la topografia di Gaza e la rende inabitabile – radendo al suolo quartieri, espellendo in massa centinaia di migliaia di persone nei campi di concentramento, bruciando case e facendo morire di fame i bambini – le diapositive della Riviera forniscono un alibi al futuro. Alla destra di Netanyahu, sussurrano il vecchio sogno di insediamenti esclusivamente ebraici che tornano a Gaza; ai suoi alleati all’estero, offrono un ottimismo su cui si può investire. Alla base di Trump, vendono la favola definitiva del MAGA: “Faremo fiorire il deserto e lo renderemo nostro”. Lo sfarzo è il punto; il piano che circola alla Casa Bianca è persino chiamato formalmente GREAT (abbreviazione di Gaza Reconstitution, Economic Acceleration, and Transformation, ovvero Ricostruzione, Accelerazione Economica e Trasformazione di Gaza). Per il marchio politico di Trump, la promessa di trasformare le rovine in resort è un classico espediente teatrale. La “Riviera di Gaza” non è una deviazione dalle politiche di assedio e massacri degli ultimi due decenni di Israele a Gaza, ma piuttosto il loro culmine. [Getty] I paesaggi urbani patinati aiutano a vendere al mondo MAGA e ai venture capitalist l’immagine di Gaza come una tela bianca in attesa di geni esterni che la dipingano, mentre, sul campo, il genocidio procede ininterrottamente e senza restrizioni verso la sua fase finale. In questo senso, la fantasia della Riviera non è una deviazione dagli ultimi due decenni di politiche draconiane di assedio e massacri a Gaza da parte di Israele, ma piuttosto il loro culmine. È un gioco di parole per camuffare l’indifendibile; la distruzione diventa “preparazione del sito”, lo sfollamento diventa “pianificazione urbana”, lo sterminio diventa un trampolino di lancio verso profitti e opportunità commerciali inesplorate. Questo è ciò che rende le rappresentazioni della Riviera di Gaza un potente strumento di propaganda, perché invertono la realtà. Propongono spiagge senza persone, torri senza inquilini, porti senza politica. Fanno sembrare l’assenza dei palestinesi un progresso. Israele sta promettendo Gaza ai coloni, non a futuristici investitori È illogico che Israele faccia di tutto per compiere un genocidio a Gaza, spenda quasi 90 miliardi di dollari in questa guerra, perda oltre 900 soldati, diventi uno stato paria, solo per poi consegnare Gaza su un piatto d’argento al governo statunitense e ai magnati americani della tecnologia e del settore immobiliare. Yehuda Shaul, cofondatore di Breaking the Silence, ha dichiarato a The New Arab che secondo lui il piano della Riviera di Gaza “non è collegato allo sforzo principale del movimento dei coloni [israeliani]”, che sta spingendo per un ritorno a Gaza. “Il piano originale delle organizzazioni dei coloni, che si adatta anche alla geografia di base di Gaza, è quello di tornare a quello che un tempo era chiamato ‘il recinto settentrionale’, ovvero i tre insediamenti nel nord di Gaza: Elei Sinai, Nisanit e Dugit”, ha aggiunto Yehuda. “Questi sono gli insediamenti che un tempo si trovavano a nord di Beit Lahia. Questo è ciò a cui mirano i coloni”. Shaul ha spiegato che i commentatori israeliani della destra come Amit Segal hanno spinto questa idea sui media mainstream. “Viene venduta come una ‘semplice’ espansione dei confini [di Israele] invece che come un’annessione di parti significative della Striscia di Gaza”. La promessa di grattacieli e porti turistici su una costa spopolata non è un piano di pace, ma un teatro di espropriazione, una storia scritta per gli investitori stranieri, i comizi di MAGA e le fantasie dei coloni. La “Riviera di Gaza” non indica un domani di convivenza o prosperità; rimanda alla più antica logica coloniale di trasformare le vite altrui in ostacoli e la loro cancellazione in opportunità. Muhammad Shehada è uno scrittore e analista palestinese di Gaza e responsabile degli affari europei presso Euro-Med Human Rights Monitor https://www.newarab.com/analysis/gaza-riviera-plan-gentrifying-israels-genocide Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Washington e la sua aperta ostilità verso la Palestina
di Jamal Zaqout,  Sadanews, 2 settembre 2025.   La decisione americana di impedire al presidente palestinese di entrare a New York per partecipare alle riunioni dell’Assemblea Generale dell’ONU non è stata solo una misura procedurale. È una chiara dichiarazione politica che Washington non è affidabile e che non riconosce più nemmeno la minima legittimità dell’esistenza e della rappresentanza palestinese, anche davanti alle Nazioni Unite. Jamal Zaqout Questo comportamento palese non può essere separato dalla natura dell’amministrazione Trump, che ha deciso fin dal primo momento di allinearsi completamente con Israele, non solo come alleato strategico, ma come unica parte autorizzata a determinare il futuro della regione. Una grave violazione degli accordi internazionali Dal punto di vista giuridico, ciò che Washington ha fatto rappresenta una grave violazione dell’accordo sulla sede delle Nazioni Unite firmato nel 1947, che obbliga il paese ospitante a concedere visti a tutti i rappresentanti degli stati membri e agli osservatori, indipendentemente dalle controversie politiche. Ignorare questi obblighi non solo danneggia la Palestina, ma mina anche l’indipendenza delle stesse Nazioni Unite, rendendole ostaggio della volontà del paese ospitante. Se l’organizzazione non è in grado di garantire che il capo di uno stato osservatore possa raggiungere la sua assemblea generale, nonostante la fiducia pubblica riposta in Washington, come può proteggere il diritto di questo popolo all’autodeterminazione e dargli la possibilità di ottenere la libertà e l’indipendenza e di far tornare i suoi rifugiati? Washington: da presunto mediatore a parte coinvolta La decisione di Washington dimostra inequivocabilmente che non si tratta di un mediatore, ma di una parte attiva coinvolta nella liquidazione della causa palestinese. Questa realtà costringerà le altre potenze internazionali a riconsiderare la necessità di rompere il monopolio americano e ad assumersi le proprie responsabilità, incoraggiando i palestinesi a ripristinare la loro unità politica di fronte ai piani che mirano alla cancellazione della Palestina? Se molti paesi sono sinceramente intenzionati a riconoscere lo stato di Palestina, consentendo al suo popolo di determinare il proprio destino e incarnare la propria sovranità, come potranno affermare la credibilità delle loro recenti posizioni e dimostrare che non stanno semplicemente cercando di assolversi davanti all’opinione pubblica dei loro paesi? Tra Gaza e New York: l’obiettivo è la liquidazione Il pretesto israelo-americano a Gaza è “sradicare Hamas”, mentre la realtà sul campo è un genocidio che prende di mira sia le persone che le proprietà. A New York, la “scusa procedurale” sembra servire principalmente ad escludere la Palestina, compresa l’esclusione dalla piattaforma delle Nazioni Unite della leadership cronica dell’AP che dipende da Washington. Ciò conferma che la Palestina è l’entità presa di mira, in tutte le sue componenti, sia che si tratti dell’Autorità la cui unica scelta è quella di placare Washington e Tel Aviv, sia che si tratti della resistenza contro i loro piani. Il fallimento della politica della disperazione e l’opzione della pacificazione È giunto il momento che la leadership dominante dell’AP, che controlla le decisioni e il percorso nazionale, riconosca di aver intrapreso una strada che ha portato solo disastri nazionali e che inseguire il miraggio dell’accordo con Washington e Tel Aviv ha portato a un’ulteriore frammentazione. Affidarsi a Washington non è stata solo una scommessa persa, ma è stato distruttivo, poiché gli USA non sono mai stati un mediatore, ma una parte principale nel progetto di liquidazione della Palestina. Un’opportunità per l’unità e la rinascita nazionale globale Il crollo dell’illusione di affidarsi al ruolo americano potrebbe essere un momento cruciale che apre le porte alla rivitalizzazione della condizione palestinese, se le leadership palestinesi lo interpretano correttamente e ne traggono insegnamento attraverso tre meccanismi: Primo: lavorando immediatamente per attuare l’accordo di Pechino per ripristinare il ruolo e lo status dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e ricostruirla come fronte nazionale che unisce tutti i palestinesi. Secondo: elaborando un programma nazionale basato sulla liberazione e sui diritti, non sulla gestione delle crisi o sull’attesa di “benevolenze o sovvenzioni americane”. Terzo: attivando strumenti di forza popolare e diplomazia in alleanza con le forze internazionali e i popoli che rifiutano il genocidio così come rifiutano di trasformare le Nazioni Unite in un’appendice della Casa Bianca. L’intera comunità palestinese si trova di fronte all’imperativo urgente di chiudere il capitolo della divisione e affrontare i pericoli imminenti che minacciano il destino nazionale nel suo complesso. Ciò richiede la formazione immediata di un governo di unità nazionale autorizzato ad affrontare tutte le conseguenze del genocidio e ciò che ha afflitto il sistema politico nei suoi noti mali, per affrontare i rischi maggiori, compresa una seria preparazione per elezioni generali complete entro un lasso di tempo concordato per ripristinare la fiducia del popolo, che può essere affidata solo a loro. Siamo seri nel trarre insegnamenti? Non è più possibile continuare la narrativa israeliana secondo cui il problema risiede in “Hamas” o nell’“Autorità”. L’obiettivo americano-israeliano comprende l’intera comunità palestinese. Questa realtà dovrebbe essere il punto di partenza per superare la divisione e ristabilire la dignità della grande lotta per la libertà e la liberazione dall’occupazione. Trasformare lo scandalo americano in un’opportunità nazionale La decisione della Casa Bianca può sembrare un’altra sconfitta diplomatica per la politica della leadership dominante nell’AP, ma in realtà è uno specchio rivelatore di quanto sia pericoloso il ricorso a Washington. Questa decisione scandalosa può trasformarsi in un’opportunità se questa leadership avrà il coraggio di tornare al suo popolo e chiudere il capitolo dell’illusione, partendo dal presupposto che la Palestina non sarà riconquistata grazie alla Casa Bianca, ma solo attraverso la volontà del suo popolo, la sua fermezza e la sua capacità di resistere, rendendo necessaria la formazione di una coalizione internazionale che metta la giustizia al di sopra degli accordi e delle estorsioni. L’essenza della legittimità è la legittimità nazionale e l’entità della mobilitazione popolare attorno alla sua leadership, verso la libertà e la liberazione dall’occupazione. Quale piano diplomatico vogliamo? È chiaro che la strategia di dipendenza dal sostegno esterno a scapito della rinascita interna non ha alcun valore nella realtà e che qualsiasi piano diplomatico che non derivi dagli elementi di forza interna, specialmente nella fase di liberazione nazionale contro il progetto sionista e il suo sostenitore, la Casa Bianca, deve essere parte integrante di una strategia di lavoro basata sui punti di forza del popolo palestinese che metta in campo tutti gli elementi della sua resilienza. Dovrebbe concentrare le sue alleanze internazionali sulle forze progressiste e umanitarie che hanno protetto i suoi movimenti nelle capitali mondiali e hanno persino costretto molte di queste capitali a cambiare posizione, poiché il crimine è troppo grande per essere sopportato dall’umanità. Questa lezione e altre segnalano che il mondo, che vive su un sottile filo di giustizia, rispetta solo i forti che dedicano la loro vita a preservare la dignità dei loro popoli. Se non fosse stato per la forza dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina e per il sostegno schiacciante di cui gode da parte del suo popolo in patria e in esilio, l’Assemblea Generale non si sarebbe affrettata a trasferirsi nella sua sede europea a Ginevra quando al presidente Arafat fu impedito di rivolgersi al mondo dalla sua tribuna a New York nel 1988. Dobbiamo chiederci: come mai lo status dell’organizzazione è regredito nonostante l’intifada globale che sostiene la Palestina e il suo popolo? Dobbiamo trarre insegnamento da questo confronto. La recente posizione americana dimostra inequivocabilmente che Washington, impegnata a manipolare la questione palestinese secondo i piani israeliani, non solo si è accontentata di sostenere l’occupazione, ma è diventata parte principale e palese della cospirazione volta a cancellare la Palestina dalla geografia e dalla storia, non solo dalle piattaforme internazionali. Pertanto, la risposta palestinese deve essere unitaria e basarsi anche sul rilancio di tutti gli elementi di forza propria, preservando l’unità nella rappresentanza per ripristinare lo status dell’OLP e rafforzare il suo ruolo di casa inclusiva per tutti i palestinesi e di ampio fronte nazionale per guidare la liberazione nazionale. Dovrebbe inoltre esserci un’ampia rete di alleanze che investano nel diritto internazionale e nelle coalizioni globali, trasformando lo scandalo aggressivo di Washington in un’opportunità per ripristinare la dignità dell’unità palestinese, le Nazioni Unite come piattaforma inclusiva e la causa palestinese come causa di liberazione e di diritti che non possono essere cancellati. https://www.sadanews.ps/en/articles/226357.html Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Basta con l’idea di uno stato simbolico: il mondo deve riconoscere l’apartheid israeliano
di Alaa Salama,  +972 Magazine, 29 agosto 2025.   La spinta a riconoscere uno stato palestinese crea l’illusione di un’azione, ma ritarda i veri rimedi: sanzionare e isolare il regime di apartheid israeliano. Vista dei graffiti di artisti di diversa provenienza a sostegno dei palestinesi, dipinti sul muro di separazione nella città cisgiordana di Betlemme. 21 ottobre 2024. Foto di Wisam Hashlamoun/Flash90 Mia nonna ha 90 anni. Due volte esiliata, prima da Israele durante la Nakba, poi dal regime di Assad in Siria, la sua memoria non è più integra. Della sua vita odierna in Svezia, conserva solo gli ultimi minuti. Dei suoi lunghi decenni, solo dei flash. Eppure la sua infanzia a Kfar Sabt, un villaggio palestinese in Galilea spopolato nel 1948, è ancora viva nella sua memoria. Sorride, quasi maliziosamente, mentre ricorda di aver giocato nei campi, di aver corso con gli altri bambini e di aver spiato un contadino ebreo il cui improvviso arrivo nel villaggio – e il rumoroso trattore che lo accompagnava – aveva suscitato curiosità e sospetti. Sono nato rifugiato, la famiglia di mia nonna era di Kfar Sabt, quella di mio nonno del vicino villaggio di Lubya. Oggi, nella mia casa a Ramallah, mi sveglio ogni mattina con la vista della bandiera israeliana nel vicino insediamento di Beit El, un chiaro promemoria del regime di apartheid che detta ogni aspetto della mia vita. Gli ebrei israeliani che vivono lì a Beit El votano per un governo che determina dove io posso vivere, lavorare e viaggiare, quanta acqua ricevo e quali regole e leggi mi si applicano e quali no. Come milioni di palestinesi, dalla Cisgiordania a Gaza, sono governato da un sistema che mi vede solo come un ostacolo alla sua espansione etnica e statale. Questa è una realtà che è diventata impossibile da ignorare per milioni di persone in tutto il mondo, specialmente negli ultimi due anni. Eppure, negli ultimi mesi, invece di riconoscere l’apartheid israeliano o di intraprendere azioni significative per fermare le atrocità a Gaza, un numero crescente di stati ha deciso di riconoscere qualcos’altro: uno stato palestinese. La prima svolta è avvenuta nel maggio 2024, quando Norvegia, Spagna e Irlanda hanno riconosciuto lo stato di Palestina, questi ultimi due tra i critici più accesi della guerra di Israele a Gaza. Ora sta emergendo una seconda ondata, guidata da un’iniziativa di Francia e Regno Unito in risposta ai piani di Israele di prolungare la guerra, a cui si sono presto uniti Australia, Canada, Portogallo e Malta. Attivisti solidali con la Palestina alla marcia annuale del Primo Maggio a Oslo. 1° maggio 2024. (Ryan Rodrick Beiler/ActiveStills) Sebbene sia indicativo del crescente isolamento internazionale di Israele, il teatro politico globale del “riconoscimento dello stato palestinese” è impossibile da prendere alla lettera. Con Israele che procede all’annessione di vaste aree della Cisgiordania e mentre a Gaza avviene un genocidio che ha ucciso più di 60.000 palestinesi, è assurdo continuare a sostenere la soluzione dei due stati come un compromesso ragionevole o pratico. Ancora più strano è l’insistere sul fatto che questa sia l’unica risposta possibile a quello che, 77 anni dopo la Nakba, non fa nulla per affrontare la questione fondamentale: un regime aggressivo e militarista che esige la supremazia nazionale, legale ed economica di un popolo su un altro. Non sprechiamo altri 30 anni di vite palestinesi sul paradigma della divisione, una “soluzione” coloniale a un problema coloniale. Israele ha da tempo chiarito che non accetterà mai uno stato palestinese; aggrapparsi alla soluzione dei due stati è un inganno su scala straordinaria, che ci ha portato solo disperazione. Ora più che mai, i gesti simbolici sono peggio che inutili, poiché fanno guadagnare tempo al regime che commette i crimini e sottraggono urgenza agli unici rimedi che contano: porre fine al genocidio, sanzionare il responsabile, isolare il sistema di apartheid e insistere senza scuse sulla parità dei diritti e sul diritto al ritorno. Questo non è estremismo. È il minimo indispensabile per la giustizia. C’è già uno stato, ed è uno stato di apartheid Una “soluzione” che non è né giusta né possibile non è un piano di pace, ma un alibi per l’inazione che permetterà a Israele di continuare i suoi massacri, accelerare la sua espansione e approfondire il regime di apartheid. È davvero così che puniamo un regime che ha commesso un genocidio? Offrendogli il dominio completo sulle sue vittime mentre diamo loro la falsa speranza di poter ottenere uno stato su meno del 23% della loro patria ancestrale? E dove sono i palestinesi in tutto questo? Quando è stata l’ultima volta che siamo stati rappresentati democraticamente, o anche solo interrogati su quale soluzione avremmo accettato? Come nel 1947, quando il Piano di Partizione delle Nazioni Unite fu elaborato senza il nostro consenso, l’ultima spinta verso una soluzione a due stati è guidata dalle potenze europee, con scarsa considerazione per le persone che vivranno o moriranno in base ai termini di tale decisione. Ebrei di Gerusalemme festeggiano la decisione dell’ONU sulla spartizione della Palestina, sopra a un’auto blindata della polizia. Gerusalemme, 30 novembre 1947. (Hans Pinn/GPO) La Francia rende esplicita la sua arroganza: minaccia Israele con il riconoscimento di uno stato palestinese, ma insiste che sia demilitarizzato, continuando nel contempo a fornire armi a Israele. Posso sognare un mondo libero da armi letali, ma non spetta a un trafficante d’armi dire alle vittime di un genocidio di deporre le armi. Nel frattempo, Israele sbuffa arrabbiato, condannando i riconoscimenti come un “premio al terrorismo” e usandoli come pretesto per attuare misure ancora più estreme. A luglio, la Knesset ha approvato una risoluzione a sostegno dell’annessione della Cisgiordania, mentre l’espansione degli insediamenti continua a ritmo serrato, compresa la recente approvazione del blocco E1 che, secondo gli esperti, renderebbe impossibile la creazione di uno stato palestinese contiguo. Anche se per qualche miracolo Israele dovesse ritirarsi dalla Cisgiordania e da Gaza, cosa garantirebbe la sicurezza dei palestinesi nel nuovo stato? Quando mai la statualità ha protetto qualcuno dall’aggressività e dall’espansionismo israeliani? Il Libano e la Siria sono entrambi stati sovrani con confini riconosciuti a livello internazionale, eppure hanno visto le loro terre occupate e le loro città bombardate. Una bandiera palestinese all’ONU non fermerà la crescita degli insediamenti, non smantellerà il regime militare e non porrà fine alla guerra regionale. Se i paesi desiderano riconoscere uno stato palestinese, che lo facciano, ma non devono fingere che questo cambi la realtà. Il vero cambiamento inizia con il riconoscimento della verità: qui c’è già uno stato, ed è uno stato di apartheid. Partendo da questa constatazione, i paesi devono agire legalmente, diplomaticamente, economicamente fino a quando il costo per Israele di mantenere l’apartheid supererà i suoi benefici. Fino a quando la mia famiglia avrà di nuovo un posto da chiamare casa e fino a quando centinaia di comunità palestinesi sfollate potranno tornare a casa. Il sionismo ha fallito, non solo perché creare una patria ebraica in Palestina a spese dei palestinesi è sempre stato ingiusto, ma perché la pulizia etnica e ora il genocidio sono sempre stati i suoi risultati logici, atrocità che lasceranno lo stato ebraico isolato e insultato. E nonostante gli sforzi di Israele, il sionismo ha fallito anche perché i palestinesi continuano a insistere nel rimanere nella loro patria. Ciò che resiste ora è un grottesco sistema di apartheid, in cui un popolo gode di pieni diritti e sovranità mentre gli indigeni vengono massacrati, divisi e sottomessi. Alla fine potrebbe crollare sotto il peso della sua stessa brutalità, ma non se ne andrà in silenzio, aggrappandosi alla vita con il tipo di violenza che già vediamo scatenarsi oggi a Gaza. Un ragazzo palestinese cammina tra le macerie durante i continui attacchi israeliani, nel campo profughi di Al-Bureij nella Striscia di Gaza centrale. 22 luglio 2025. (Ali Hassan/Flash90) Il riconoscimento comporta delle responsabilità Riconoscere Israele come uno stato di apartheid è il primo passo necessario verso un futuro che superi l’etnonazionalismo e sia radicato nell’uguaglianza, nella giustizia e nella libertà per tutti. E non è solo una cosa simbolica: l’apartheid è un crimine contro l’umanità secondo il diritto internazionale. Lo Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale lo definisce tale, e la Convenzione Internazionale delle Nazioni Unite del 1973 sulla repressione e la punizione del crimine di apartheid obbliga gli stati ad adottare misure legislative, giudiziarie e amministrative per prevenirlo e punirlo. Proprio l’estate scorsa, la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso un parere consultivo storico sull’apartheid israeliano, concludendo che l’occupazione e l’annessione dei territori palestinesi da parte di Israele violano il diritto internazionale e chiedendo un risarcimento. Il riconoscimento ufficiale del sistema israeliano come apartheid, anche da parte di una manciata di stati, metterebbe sul tavolo questi doveri e renderebbe il continuo sostegno militare ed economico a Israele giuridicamente e politicamente indifendibile. Aprirebbe inoltre la strada a sanzioni, al ritiro della rappresentanza diplomatica e al divieto di viaggio per i funzionari che sostengono il sistema. Cambierebbe anche il dibattito pubblico, rendendo inevitabile l’uso del termine “apartheid” nelle conversazioni mainstream su Israele e mettendo sotto pressione le aziende, minacciate di boicottaggio, vergogna pubblica o rivolta degli azionisti, affinché riconsiderino le loro operazioni in o con Israele. Il precedente esiste: nel caso dell’apartheid in Sudafrica, l’attivismo di base combinato con la condanna a livello statale ha gradualmente costretto le aziende a disinvestire, anche se molte hanno resistito per anni. Cambierebbe anche il modo in cui i palestinesi sono visti a livello internazionale. Oggi siamo etichettati come “apolidi” o cittadini di un “stato di Palestina” nominale senza alcun potere reale di proteggerci, privati degli strumenti diplomatici ed economici che la maggior parte delle nazioni dà per scontati. Riconoscere Israele come regime di apartheid ci ridefinisce come vittime di un crimine contro l’umanità, aventi diritto alla protezione, e costringe a fare i conti con l’assurdità di un mondo in cui gli israeliani viaggiano liberamente mentre noi affrontiamo infinite barriere per studiare, lavorare o visitare la famiglia all’estero. Non sarà una soluzione magica. Israele lotterà più duramente del Sudafrica per mantenere l’apartheid, poiché è diventato più radicato, alimentato da miti religiosi e sostenuto dal supporto internazionale. Ma il riconoscimento ci metterebbe almeno sulla strada giusta, sostituendo decenni di finzione con un confronto con la realtà. Quegli anni potrebbero essere spesi per smantellare il sistema invece che per rafforzare le illusioni. Kfar Sabt, il villaggio di mia nonna, non esiste più. Secondo Palestine Remembered, solo “mucchi di pietre e terrazze di pietra” rimangono a testimonianza del fatto che un tempo lì sorgeva un villaggio. La popolazione è dispersa, la terra è inutilizzata, disabitata. Ma Kfar Sabt vive nella mente di mia nonna, nelle storie che racconta e nelle storie che io continuerò a raccontare. Vive nella ferita aperta di un popolo a cui è stato negato il ritorno. La mia patria si estende da Ramallah a Kfar Sabt, dal Naqab a Lubya. Questo non è un appello all’espulsione o alla guerra; abbiamo già sopportato abbastanza di entrambe. È un appello alla giustizia, perché solo la giustizia può portare la pace e garantire un futuro diverso a tutti i popoli di questa terra, un futuro in cui le storie di mia nonna non siano solo reliquie di un mondo distrutto, ma semi di uno ricostruito. Alaa Salama è responsabile del Coinvolgimento del Pubblico presso la rivista +972 Magazine. Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
La bussola morale di Israele è distrutta. L’unico linguaggio dello stato è la forza
di Abed Abou Shhadeh,  Middle East Eye, 30 agosto 2025.   Mentre il governo porta avanti una visione espansionistica di estrema destra, cresce il consenso sociale sul fatto che le sofferenze dei palestinesi non hanno importanza. Un soldato israeliano seduto dietro un mitra montato su un veicolo vicino a Gaza. 1° maggio 2024. (Jack Guez/AFP) Riferendosi alle recenti manifestazioni antigovernative a Tel Aviv, il presidente israeliano Isaac Herzog ha accusato il mondo di ipocrisia: spingere Israele a consentire l’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza senza esercitare pressioni su Hamas. Le sue parole hanno colto non solo lo stato d’animo dell’opposizione, ma anche il successo dell’attuale governo nel creare una nuova etica sionista, basata sulla forza bruta, senza nemmeno la pretesa di una giustificazione morale. Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha fatto eco a questo atteggiamento in un’intervista a i24, quando gli è stato chiesto del concetto di “Grande Israele”. La sua risposta è stata schietta: “Siamo qui”. Queste dichiarazioni riflettono un ampio consenso israeliano: la forza militare è la risposta a ogni sfida, non solo nella diplomazia ma anche nella vita quotidiana. Questo militarismo si è riversato in ambiti diversi come il calcio. Durante una partita in Ungheria questo mese, i tifosi del Maccabi Haifa hanno esposto uno striscione con la scritta “Assassini dal 1939”, riferito alla storia dell’Olocausto in Polonia. Anche l’ambasciata israeliana ha condannato questo gesto. I tifosi dell’Hapoel Be’er Sheva sono andati oltre, srotolando uno striscione con la scritta: “Due cose devono essere distrutte: Hamas e UEFA”, riferendosi all’Unione delle Associazioni Calcistiche Europee. Questo nonostante la UEFA non abbia mai sanzionato Israele come ha fatto con la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. Al contrario, durante la Supercoppa di quest’anno, la UEFA ha approvato uno striscione con la scritta: “Basta di uccidere i bambini. Basta di uccidere i civili”, un messaggio umanitario accuratamente privato di ogni contesto politico. L’indignazione dei tifosi israeliani mette in luce una cultura che vede la forza come l’unica logica. Dominio militare Lo storico Yuval Noah Harari ha descritto questo momento come una svolta spirituale per gli ebrei, forse la più significativa dalla distruzione del Secondo Tempio nel 70 d.C. Gli ebrei, ha sostenuto, sono sopravvissuti a catastrofi su catastrofi, ma non hanno mai affrontato una minaccia spirituale di questa portata. L’attuale percorso di Israele, ha avvertito Harari, rischia di smantellare 2000 anni di pensiero e cultura ebraici. A suo avviso, Israele potrebbe finire per compiere una pulizia etnica dei palestinesi, smantellando le strutture democratiche e sostituendole con un sistema basato sulla supremazia ebraica, il dominio militare e la glorificazione della violenza. Harari ha sottolineato la preoccupante disinvoltura con cui molti suoi colleghi hanno appoggiato l’idea del trasferimento della popolazione di Gaza, recentemente avanzata dal presidente degli Stati Uniti. Quando l’intervistatore ha fatto notare che solo una minoranza di israeliani sostiene politicamente l’estrema destra, Harari ha risposto che la storia è spesso dettata dal 10% che sostiene il cambiamento, mentre la maggioranza rimane passiva. Queste supposizioni dovrebbero essere messe in discussione. Israele non è mai stato così democratico o morale come suggerisce la sua narrazione: la sua fondazione ha comportato l’espulsione di circa 750.000 palestinesi e, per quasi otto decenni, ha costruito un sistema giudiziario che difende la supremazia ebraica. Dal piano di spartizione, Israele non ha mai smesso di espandersi. Ma Harari ha ragione sulla trasformazione dell’ethos ebraico israeliano. Quello che una volta era considerato uno stato che lottava per sopravvivere, ora è uno stato che cerca apertamente l’espansione, senza alcuna giustificazione morale al di là della potenza militare. Questa lotta si sta svolgendo nelle strade. Centinaia di migliaia di persone hanno partecipato a una recente manifestazione per chiedere la fine della guerra. Ma le proteste hanno rivelato qualcosa di più profondo della politica: una frattura all’interno del sionismo. Da un lato ci sono coloro che vogliono tornare al vecchio ethos survivalista, porre fine alla guerra e ripristinare la posizione di Israele come stato che non abbandona i propri prigionieri e si allinea con l’Occidente. Dall’altro lato ci sono coloro che abbracciano un sionismo espansionista che glorifica il potere e la crescita territoriale. La mentalità ipermilitarista all’interno dell’opposizione israeliana suggerisce che il nuovo ethos sionista ha vinto. Contrariamente all’affermazione di Harari secondo cui Israele sta rimodellando l’ebraismo, la vera trasformazione è interna alla politica ebraica. “Hanno bisogno di una Nakba” Fin dall’inizio, Israele si è espanso geograficamente cancellando i palestinesi. All’interno della società ebraica, tuttavia, ha gradualmente ampliato l’uguaglianza fino a includere gli ebrei dei paesi arabi e musulmani, le donne e, infine, le comunità LGBTQ, anche se solo in una certa misura. Tale inclusività, tuttavia, si è fermata ai confini dell’identità ebraica. L’attuale movimento di protesta riflette questa contraddizione. Nella migliore delle ipotesi, ignora la catastrofe che si sta consumando per i palestinesi a Gaza e nella Cisgiordania occupata. Questo silenzio non è un’eccezione, ma una caratteristica costante del sionismo, che ha sempre negato i diritti umani ai palestinesi. Come ha affermato l’ex capo dell’intelligence militare israeliana, il maggiore generale Aharon Haliva: “Per tutto ciò che è accaduto il 7 ottobre, per ogni persona uccisa il 7 ottobre, i palestinesi devono morire… Hanno bisogno di una Nakba ogni tanto per sentirne il prezzo”. L’incapacità dei leader della protesta di comprendere che gli eventi del 7 ottobre 2023, per quanto orribili, non possono giustificare il genocidio e la fame di massa, sottolinea il punto cieco della loro morale. Gran parte del sostegno e della solidarietà internazionale a Israele ha ignorato il contesto più ampio della lotta palestinese prima del 7 ottobre, mentre gli alleati di Israele hanno continuato ad armare e finanziare il genocidio. Non riconoscendo questa dipendenza, il movimento di protesta ha permesso al governo di continuare a perseguire il suo vero obiettivo: rimodellare la politica e la cultura israeliana, con Gaza che rappresenta solo una fase di un progetto più ampio di espansione regionale. A differenza di alcuni dei suoi oppositori, il governo sa esattamente qual è il motivo della guerra: non solo Gaza, ma lo stesso carattere futuro di Israele. E ora, mentre ci avviciniamo a un possibile cessate il fuoco, è importante ricordare a coloro che scommettono sul movimento di protesta per presentare un’alternativa significativa all’attuale governo che rimarranno delusi. Mentre migliaia di manifestanti scendevano in piazza questo mese, da Gaza è emerso un altro video che mostrava un missile israeliano colpire una ragazzina senza alcun motivo apparente. Come per innumerevoli altre immagini provenienti da Gaza, ciò non ha suscitato alcuna critica nei confronti dell’esercito, né alcun riconoscimento delle sofferenze dei palestinesi. Abed Abou Shhadeh è un attivista politico con sede a Jaffa. Abou Shhadeh è stato rappresentante del consiglio comunale della comunità palestinese a Jaffa-Tel Aviv dal 2018 al 2024 e ha conseguito un master in scienze politiche presso l’Università di Tel Aviv. https://www.middleeasteye.net/opinion/gaza-genocide-israels-moral-compass-smashed-states-only-language-force Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la catastrofe
di Jamal Zaqout,  25 agosto 2025.   Sebbene sia ormai chiaro che Netanyahu e il suo governo fascista sono la causa principale del fallimento di tutti i tentativi dei mediatori di raggiungere un accordo ragionevole – anche solo provvisorio, che potrebbe finalmente porre fine al genocidio a Gaza e alla frammentazione in corso in Cisgiordania – alcune voci continuano a chiedere alle fazioni della resistenza a Gaza di rischiare facendo ulteriori concessioni. Alcuni arrivano addirittura a esortarle, apertamente o indirettamente, ad accettare le condizioni di Israele. La strategia di escalation di Netanyahu Netanyahu, che sembra non aver chiuso completamente la porta ai negoziati sulla proposta egiziana accettata senza condizioni da Hamas, pur mantenendo aperti i canali di comunicazione con i mediatori, continua a propendere per l’escalation militare e minaccia di distruggere la città di Gaza come ha fatto a Rafah, nella speranza di ottenere ciò che finora non è riuscito a realizzare. E questo nonostante gli avvertimenti del suo esercito sul pesante prezzo che una tale mossa comporterebbe, non solo in termini di catastrofe umanitaria, ma anche di gravi perdite militari che potrebbe subire se si gettasse incautamente nel pantano di Gaza City, con la probabilità di una crescente guerriglia che potrebbe diventare la forma dominante di confronto. I veri motivi I veri motivi dietro le manovre di Netanyahu risiedono nella natura e nella sostanza della strategia del suo governo di destra che, rafforzata dall’appoggio americano, si estende non solo a Gaza ma anche alla continua annessione e giudaizzazione della Cisgiordania. Non si tratta semplicemente di ragioni tattiche volte a migliorare i termini di un accordo: l’obiettivo è piuttosto quello di avvicinare il risultato a quella che la sua coalizione di destra chiama “vittoria assoluta”, un concetto che, a loro avviso, apre la strada alla liquidazione della causa palestinese, non alla fine della guerra a Gaza. La questione della “sconfitta” La questione fondamentale che richiede una discussione calma e approfondita è questa: il riconoscimento della ‘sconfitta’ da parte della resistenza porrebbe fine alla tragedia o aprirebbe la porta a un massacro ancora più grande? La risposta breve è: la sconfitta non è inevitabile e “riconoscerla” non è una via di salvezza, ma piuttosto una ricetta per ulteriori brutalità. Ciò che può fermare lo spargimento di sangue è modificare l’equazione costi-benefici ed esercitare pressioni politiche e legali sulla macchina della guerra israeliana, oltre a elaborare un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria, non un “riconoscimento del dominio di Israele”, che non sarebbe altro che un assegno in bianco per lo sfollamento di massa. Cosa intendiamo per “sconfitta”? Cosa intendiamo quindi per “sconfitta”? È militare e tattica, una grave battuta d’arresto sul campo di battaglia? Oppure è politica, ovvero il crollo della capacità di garantire anche i diritti minimi? Oppure è la piena accettazione della narrativa del nemico secondo cui un intero popolo non ha alcun diritto nazionale? Dal punto di vista della destra fascista al potere in Israele, qualsiasi dichiarazione di “sconfitta” incarna tutti questi significati combinati e viene interpretata come un via libera per portare il suo progetto all’estremo. Perché dichiarare la “sconfitta” non fermerebbe la tragedia Primo: perché la logica della destra fascista nazionalista e religiosa al potere equipara la “sicurezza” alla sottomissione totale e allo sfollamento forzato. Un messaggio di resa non soddisferebbe il suo appetito, ma la convincerebbe solo che una maggiore brutalità porta a maggiori guadagni. Secondo: perché gli strumenti legali e internazionali, così come le leve popolari ed economiche, perderebbero il loro slancio se il discorso palestinese si spostasse verso la concessione della perdita di diritti. Terzo: perché tale riconoscimento rappresenterebbe una minaccia esistenziale per il popolo palestinese nel suo complesso, facilitando la distruzione delle istituzioni, frammentando il fronte interno e indebolendo qualsiasi capacità di impedire espulsioni di massa su larga scala. Cosa può porre fine alla tragedia? Una soluzione provvisoria potrebbe risiedere in un accordo temporaneo di sicurezza umanitaria: «un cessate il fuoco immediato, lo scambio di prigionieri e detenuti, il ritorno degli sfollati all’interno di Gaza, l’apertura dei valichi e la consegna degli aiuti attraverso le agenzie delle Nazioni Unite con garanzie di monitoraggio internazionale a tempo determinato». Tuttavia, l’attenzione deve concentrarsi maggiormente sull’aumento dei costi per Israele in caso di continuazione della guerra: dal punto di vista legale attraverso procedimenti presso la Corte Penale Internazionale e la Corte Internazionale di Giustizia; dal punto di vista economico attraverso boicottaggi mirati e dal punto di vista politico rafforzando la pressione araba e internazionale sul governo israeliano, sfruttando al contempo quelli che sembrano essere i legami speciali di Trump con alcuni Stati Arabi. La pianificazione del “giorno dopo” e i suoi rischi Per quanto riguarda l’impegno nella cosiddetta pianificazione del “giorno dopo”, che comprende l’amministrazione civile e la fornitura di servizi, essa può offrire una pratica alternativa transitoria al caos della guerra. Tuttavia, comporta il rischio reale di consolidare la separazione di Gaza dall’entità nazionale, pietra angolare della strategia della coalizione di governo in Israele per impedire al popolo palestinese di determinare il proprio futuro e realizzare uno stato indipendente su tutto il territorio occupato nel 1967. Prevenire lo sfollamento Dare priorità alla prevenzione dello sfollamento attraverso sistemi solidi richiede impegni documentati da parte degli arabi e delle Nazioni Unite, zone di protezione umanitaria chiaramente designate, archiviazione dei registri della proprietà e della popolazione, finanziamenti per “rimanere sul posto” e garantire un piano di ricostruzione realistico che dia alla gente la speranza di rimanere, resistere e superare le conseguenze del genocidio e della sua devastazione umanitaria. Tuttavia, tutto ciò richiede necessariamente un governo riconosciuto a livello internazionale, che goda del consenso popolare attraverso un accordo nazionale sui suoi componenti, le sue priorità e i suoi principi operativi, fondato sulla trasparenza, l’integrità e la credibilità, e libero da polarizzazioni partigiane e interessi particolari. Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta”. Evitare la trappola del “riconoscimento della sconfitta” non significa negare la realtà. Riconoscere la catastrofe non equivale a rinunciare alla legittimità dei diritti o ad arrendersi. Il pragmatismo non implica un compromesso sull’essenza, che richiede il coraggio di mobilitare elementi di forza, primi fra tutti l’unità e la legittimità popolare. L’accettazione di accordi di sicurezza transitori non deve scivolare nella resa alla logica israeliana di smantellare ancora una volta l’entità nazionale, una trappola strategica che il governo di occupazione cerca di imporre. Conclusione: l’essenza della lotta La sconfitta non è inevitabile e la resa non fermerebbe la tragedia, ma moltiplicherebbe solo la brutalità. L’essenza della lotta risiede ora nella narrazione e nella legittimità dei diritti, che richiedono sia fermezza nel difendere tali diritti, sia flessibilità negli strumenti impiegati, sia mobilitazione dell’unità per affrontare lo sfollamento. Questo è ciò che può fermare la tragedia e impedire che si trasformi a tutti gli effetti in una nuova Nakba. Ricevuto prima della pubblicazione. Jamal Zaqout è un politico e attivista palestinese. È nato nel campo profughi di al-Shati a Gaza City da una famiglia di rifugiati della città di Asdud a seguito della Nakba del 1948. È stato arrestato più volte dalle autorità israeliane di occupazione e deportato nel 1988 fuori dalla Palestina con l’accusa di aver partecipato alla formazione della Direzione Nazionale Unificata della Rivolta. Anche sua moglie, Naila Ayesh, è stata arrestata più di una volta, insieme al loro bambino, che ha trascorso sei mesi in prigione con sua madre. Zaqout è tornato nella Striscia di Gaza nel 1994 e da allora ha ricoperto una serie di posizioni di leadership politica, tra cui il Ministero della Gioventù e dello Sport, e la Deir-El Balah Disabled Rehabilitation Society. Ha studiato presso l’Alexandria University. Vive a Gaza. Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Bowen: i coloni israeliani intensificano la campagna per cacciare i palestinesi della Cisgiordania
di Jeremy Bowen,  BBC, 11 agosto 2025 Oren Rosenfeld/BBC Meir Simcha ha accettato di parlare, ma ha voluto farlo in un posto speciale, perché a sua volta per lui questo è un momento speciale. In un luogo in cui la nazione, la religione e la guerra sono inestricabilmente legate alla politica e al possesso della terra, Simcha ha scelto un angolo d’ombra sotto un albero di fico, vicino a una sorgente di acqua fresca. Dalla sua auto polverosa, una piccola Toyota dotata di pneumatici da fuoristrada, ha estratto una bottiglia di succo di frutta e verdura. “Non preoccuparti, non c’è zucchero aggiunto”, ha detto mentre lo versava in bicchieri di plastica. Simcha è il leader di un gruppo di coloni ebrei che stanno trasformando costantemente un grande tratto del terreno collinare a sud di Hebron in Cisgiordania, che Israele ha occupato nella guerra del 1967. Ha spostato due grosse pietre piatte all’ombra come sedili, e ci siamo seduti in una macchia di erba rigogliosa, tenuta in vita nel rigido caldo estivo dall’acqua che gocciolava da un tubo che usciva dalla sorgente. Era una piccola oasi ai piedi di un ripido pendio roccioso e arido, e il luogo, se non la nostra conversazione, sembrava tranquillo in un modo che di questi tempi è raro vedere in Cisgiordania. Il conflitto tra arabi ed ebrei per il controllo della terra tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo è iniziato ben più di un secolo fa, quando i sionisti europei hanno iniziato ad acquistare terreni per stabilire comunità in Palestina. È stata plasmata da importanti punti di svolta. Gli ultimi si sono manifestati a partire dagli attacchi mortali del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e dalla devastante risposta di Israele. Le conseguenze degli ultimi 22 mesi di guerra, e per quanti altri mesi rimangano prima di un cessate il fuoco, minacciano di estendersi attraverso gli anni e le generazioni, proprio come la guerra in Medio Oriente nel 1967, quando Israele conquistò Gaza dall’Egitto e Gerusalemme Est e la Cisgiordania dalla Giordania. L’entità delle distruzioni e delle uccisioni nella guerra di Gaza oscura ciò che sta accadendo in Cisgiordania, che cova sotto la cenere di tensione e violenza. Dall’ottobre 2023, la pressione di Israele sui palestinesi della Cisgiordania è aumentata notevolmente, giustificata come legittime misure di sicurezza. “Il nemico nella nostra terra ha perso la speranza di rimanere qui,” dice Meir Simcha. Le prove basate sulle dichiarazioni di ministri, influenti leader locali come Simcha e i resoconti di testimoni sul campo rivelano che la pressione fa parte di un programma più ampio, per accelerare la diffusione degli insediamenti ebraici nei territori occupati e per estinguere ogni residua speranza di uno stato palestinese indipendente a fianco di Israele. I palestinesi e i gruppi per i diritti umani accusano anche le forze di sicurezza israeliane di non aver adempiuto al loro dovere legale di occupanti nel proteggere i palestinesi e i propri cittadini, non solo chiudendo un occhio sugli attacchi dei coloni, ma addirittura unendosi a essi. La violenza da parte dei coloni ebrei ultranazionalisti in Cisgiordania è aumentata notevolmente dal 7 ottobre 2023. L’OCHA, l’ufficio umanitario delle Nazioni Unite, stima una media di quattro attacchi di coloni ogni giorno. La Corte Internazionale di Giustizia ha emesso un parere consultivo secondo cui l’intera occupazione del territorio palestinese conquistato nel 1967 è illegale. Israele respinge il punto di vista della Corte Internazionale di Giustizia e sostiene che le Convenzioni di Ginevra che vietano l’insediamento nei territori occupati non si applichino, un punto di vista contestato da molti dei suoi stessi alleati e da avvocati internazionali. All’ombra del fico, Simcha ha negato tutte le insinuazioni di aver attaccato i palestinesi, mentre celebrava il fatto che la maggior parte dei contadini arabi che erano soliti pascolare i loro animali sulle colline che aveva sequestrato e coltivare le loro olive nelle valli se ne fossero andati. Ricorda gli attacchi di Hamas di ottobre, e la risposta di Israele da allora, come a un punto di svolta. “Penso che molto sia cambiato, e che il nemico nella nostra terra abbia perso la speranza. Sta cominciando a capire di andarsene.” Questo è ciò che è cambiato nell’ultimo anno o anno e mezzo. “Oggi puoi camminare qui nella terra nel deserto, e nessuno ti salterà addosso e cercherà di ucciderti. Ci sono ancora tentativi di opporsi alla nostra presenza qui in questa terra, ma il nemico sta iniziando a capirlo lentamente. Non hanno futuro qui.” “La realtà è cambiata. Chiedo a voi e alla gente del mondo, perché siete così interessati a quei palestinesi? Perché ti interessano loro? È solo un’altra piccola nazione.” “I palestinesi non mi interessano. Mi preoccupo per la mia gente”. Simcha dice che i palestinesi che hanno lasciato i villaggi e le fattorie vicino alle colline che ha rivendicato si sono semplicemente resi conto che “Dio ha inteso quella terra per gli ebrei, non per loro.” Il 24 luglio di quest’anno, un gruppo di esperti delle Nazioni Unite è giunto a una conclusione diversa. Una dichiarazione rilasciata dall’ufficio dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani ha dichiarato: “Siamo profondamente turbati dalle presunte diffuse intimidazioni, violenze, espropriazione di terre, distruzione di mezzi di sussistenza e il conseguente spostamento forzato delle comunità, e temiamo che questo stia separando i palestinesi dalle loro terre e minando la loro sicurezza alimentare. “I presunti atti di violenza, distruzione di proprietà e negazione dell’accesso alla terra e alle risorse sembrano costituire un modello sistematico di violazioni dei diritti umani”. Simcha ha in programma di scavare una piscina alla base della sorgente dove ci siamo seduti a parlare. Come molti altri che stanno guidando l’espansione degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, è pieno di progetti. Quando l’ho incontrato per la prima volta, non molto tempo dopo che Hamas ha sfondato le difese di confine israeliane il 7 ottobre 2023, viveva in un piccolo gruppo di roulotte isolate su una collina che domina il deserto della Giudea che scende verso il Mar Morto. Da allora, Simcha dice che la sua comunità si è espansa fino a circa 200 persone su tre colline. Faceva parte della fazione del movimento dei coloni noto come Hilltop Youth, una frangia radicale che divenne nota per le violente molestie ai palestinesi. La maggior parte degli israeliani che si sono stabiliti nei territori occupati non sono come Simcha. Ci andavano non per motivi ideologici e religiosi, ma perché la proprietà era più economica. Ma ora uomini come Simcha sono al centro degli eventi, con i loro leader nel gabinetto, che guidano la carica, sposati, più anziani, che pensano non solo alle piscine per i loro figli, ma alla vittoria sui palestinesi, una volta per tutte, e al possesso eterno ebraico della terra. Simcha si presenta come un uomo felice. Crede che la sua missione – attuare la volontà di Dio trasformando la Cisgiordania in una terra per ebrei, e non per palestinesi – stia progredendo bene. Il progetto decennale di Israele Il progetto di Israele di insediare cittadini ebrei nei territori appena occupati iniziò pochi giorni dopo la sua vittoria nel 1967. Nel corso degli ultimi quasi 60 anni, i governi israeliani che si sono succeduti e alcuni ricchi simpatizzanti hanno investito ingenti somme di denaro ed energia per arrivare al punto in cui circa 700.000 ebrei israeliani vivono in Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. Ho osservato la crescita degli insediamenti per circa metà della durata del progetto, da quando ho fatto il mio reportage dai territori palestinesi occupati nel 1991. In quel periodo, il territorio di gran parte della Cisgiordania è stato trasformato. Gli insediamenti più grandi sembrano piccole città, e la Cisgiordania è divisa in sezioni da una rete di strade e tunnel costruiti da Israele che servono tanto a rivendicare una rivendicazione inamovibile sulla terra quanto a gestire il traffico. Sulle remote colline di notte, si possono vedere le luci provenienti dalle carovane dei coloni che si considerano pionieri ebrei. Gli uliveti, i frutteti e i vigneti di proprietà degli agricoltori palestinesi lungo la rete stradale sono spesso ricoperti di vegetazione, a volte punteggiati da cumuli di macerie lasciate dagli edifici demoliti da Israele. Il controllo del territorio intorno alle strade è necessario, dice Israele, per fermare gli attacchi contro gli ebrei in Cisgiordania. Gli agricoltori nelle aree sotto la pressione dei coloni hanno spesso bisogno di un permesso militare per visitare le loro terre, a volte solo una volta all’anno. I contadini palestinesi che si occupavano dei loro affari in furgoni o su asini erano uno spettacolo comune. In molte parti della Cisgiordania, non si vedono più, specialmente in luoghi come gli insediamenti a est di Shiloh sulla strada per Nablus, dove piccoli gruppi di baracche e roulotte in cima alle colline si sono collegati in tentacolari centri residenziali collegati da sinuose reti stradali. Quando ho scritto per la prima volta sugli insediamenti, i leader israeliani dicevano spesso che la sicurezza nazionale dipendeva da loro. I nemici erano in agguato in tutta la valle del Giordano, e spingere oltre la frontiera, costruire la terra, era un imperativo sionista. Proprio come il movimento dei kibbutz delle fattorie collettive negli anni ’20 e ’30 all’interno dell’attuale Israele, gli insediamenti nei territori occupati dopo il 1967 sono stati strategicamente collocati come prima linea di difesa. In questo conflitto, la terra è un bene vitale. Lo scambio della terra presa da Israele nel 1967 per la pace con i palestinesi che la volevano per uno stato è stato al centro del processo di pace di Oslo, che si è concluso con la violenza, ma ha fornito una falsa alba di speranza negli anni ’90. Ci sono stati titoli in tutto il mondo quando, dopo mesi di negoziati segreti in Norvegia nel 1993, ci fu una stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin e il leader palestinese Yasser Arafat. Avevano firmato una dichiarazione di principi che si sperava avrebbe portato alla fine del conflitto. Israele cederebbe la terra occupata ai palestinesi. In cambio, avrebbero rinunciato alle loro pretese sul territorio che avevano perso quando Israele dichiarò l’indipendenza nel 1948. Cynthia Johnson/Liaison La discussione al centro del loro conflitto nel corso del XX secolo, su chi controllasse la terra che entrambi volevano, sarebbe stata risolta dividendola. Dopo un disastroso vertice finale a Camp David nel 2000, le speranze del 1993 sono state sostituite dalla violenza mortale di una rivolta palestinese e da una massiccia risposta militare da parte di Israele. Parte del motivo per cui il processo di pace è fallito è che altre forze, al di fuori dei colloqui, erano all’opera. Hamas non ha mai abbandonato la sua convinzione che l’intera terra di Palestina fosse un possedimento islamico e ha usato attacchi suicidi per screditare l’idea che la pace fosse possibile. Tra i sionisti religiosi in Israele, la vittoria del 1967 aveva alimentato un’ondata di messianismo – la convinzione che stesse arrivando un essere divino che avrebbe redento il popolo ebraico. Ha elettrizzato il movimento dei coloni. Rabin fu assassinato nel novembre 1995 da un estremista ebreo cresciuto a Herzliya, sulla costa mediterranea, che trascorreva i fine settimana negli insediamenti in Cisgiordania. Durante il suo primo interrogatorio da parte del servizio di sicurezza israeliano, lo Shin Bet, chiese da bere per poter brindare al fatto di aver salvato il popolo ebraico da un percorso disastroso che negava la volontà di Dio. Attenzione: questa sezione contiene un’immagine sanguinolenta che alcune persone sensibili potrebbero trovare scioccante. Oggi, l’idea messianica attanaglia più che mai i coloni come Simcha. Credono che la vittoria del 1967 sia stata un miracolo concesso da Dio, che ha restituito al popolo ebraico le terre ancestrali che gli aveva dato nel cuore montuoso della Giudea e della Samaria – l’area che gran parte del resto del mondo chiama Cisgiordania. Alcuni credono che gli eventi successivi al 7 ottobre abbiano prolungato il miracolo. L’estate scorsa, il ministro per gli insediamenti e le missioni nazionali, Orit Strock, l’ha pronunciata in questo modo a un pubblico solidale in un avamposto sulle colline di Hebron, l’area in cui opera Simcha. “Dal mio punto di vista, questo è come un periodo di miracolo”, ha detto. “Mi sento come qualcuno che si trova a un semaforo, e poi diventa verde”. Il ministro Strock ha parlato pochi giorni prima che la Corte Internazionale di Giustizia emettesse il suo parere. Ha fatto le sue osservazioni in un insediamento sulle colline di Hebron che il governo aveva appena “legalizzato”. La legge israeliana distingue tra insediamenti “legali” e avamposti “illegali” – una distinzione che in pratica viene offuscata dalle azioni del governo. Gli avamposti ribattezzati “giovani insediamenti” vengono legalizzati retrospettivamente mentre il governo indirizza i fondi verso di loro. Oren Rosenfeld/BBC La polizia sorveglia una scavatrice che sta estendendo l’insediamento di Carmel vicino a Umm al-Khair, nel sud della Cisgiordania Nell’aprile di quest’anno, durante una cerimonia tenutasi in una colonia nelle colline a sud di Hebron, il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, i cui poteri sulla gestione dell’occupazione lo rendono anche qualcosa di simile al governatore della Cisgiordania, ha donato 19 veicoli fuoristrada ai coloni. Li ha elogiati per “aver conquistato territori enormi”. Un giornalista del Times of Israel ha sottolineato che uno dei coloni presenti alla cerimonia, Yinon Levi, era stato filmato mentre molestava i palestinesi da un fuoristrada. Levi è sanzionato dal Regno Unito e dall’Unione Europea per aver usato la violenza per cacciare i palestinesi dalle loro terre, anche se il presidente Trump ha revocato sanzioni simili imposte da Joe Biden. Levi è un re dei coloni radicali, sposato con la figlia di Noam Federman, un noto estremista. Federman è un ex leader del partito Kach, che è designato come organizzazione terroristica da Israele, Stati Uniti, Unione Europea e altri. Il 28 luglio di quest’anno, Yinon Levi ha sparato un proiettile che ha ucciso Odeh Hathaleen, un attivista e giornalista palestinese, durante una rissa nel villaggio di Umm al-Khair, in Cisgiordania. Levi si è dichiarato legittimato ed è stato rilasciato dopo tre giorni di arresti domiciliari. Quando andammo a Umm al-Khair, il sangue secco di Hathaleen era ancora nel luogo in cui era stato ucciso. Suo fratello, Khalil, mi ha detto che l’uomo morto teneva in braccio suo figlio di cinque anni, Watan, e stava filmando le scene violente con il suo telefono quando è stato ucciso. Oren Rosenfeld/BBC Il movimento per gli insediamenti in Cisgiordania è andato avanti dal 7 ottobre, sotto la direzione dei nazionalisti ebrei intransigenti nel gabinetto, uomini come Itamar Ben Gvir, il ministro della sicurezza nazionale, e Bezalel Smotrich, che è il leader di Strock nel Partito Sionista Religioso. Ben Gvir non è stato arruolato dall’IDF quando ha compiuto 18 anni, a causa delle sue convinzioni estreme. Sostiene di aver fatto campagna elettorale per servire. I due ministri sono persone molto diverse dai politici laici – generali in pensione come Yigal Allon della sinistra israeliana e Ariel Sharon della destra – due uomini che hanno guidato il movimento degli insediamenti nei suoi primi due decenni dopo il 1967. Proprio come Allon e Sharon, credono che la sicurezza richieda potere. Ma per Smotrich, Ben Gvir e i loro seguaci, questo è sostenuto dalla certezza del credo religioso. L’influenza che hanno acquisito in cambio del sostegno a Netanyahu e del suo mantenimento al potere continua a frustrare e far infuriare il lato laico di Israele. Gli oppositori israeliani di Smotrich usano la parola “messianico” come termine offensivo quando parlano di lui. Allon e Sharon sono spietati. Dopo la guerra del 1967, Allon sostenne l’annessione di gran parte della Cisgiordania e della Valle del Giordano. Nessuno dei due credeva di fare la volontà di Dio. Hamas usa la religione per giustificare la sua violenta opposizione all’esistenza di Israele. I sionisti religiosi del movimento dei coloni credono di fare la volontà di Dio. Credere in una connessione diretta con Dio non garantisce la guerra. Ma rende difficile raggiungere i compromessi necessari per la pace. “Ora i coloni sono i militari” Ci siamo organizzati per incontrare Yehuda Shaul all’incrocio stradale vicino a Sinjel. È uno dei più importanti oppositori di Israele all’occupazione. Shaul ha fondato un’organizzazione chiamata Breaking the Silence dopo che, da soldato, ha visto in prima persona la realtà intrinsecamente brutale di un’occupazione militare che dura da quasi 60 anni. I colleghi israeliani hanno bollato molte volte i sostenitori di Breaking the Silence, che lui non guida più, come traditori. La repressione militare israeliana dopo gli attacchi di ottobre ha ridotto la violenza palestinese contro i coloni, mentre gli attacchi dei coloni contro i palestinesi sono cresciuti notevolmente. Shaul dice che la linea di demarcazione tra i coloni e le Forze di Difesa Israeliane (IDF) è diventata sfumata. La guerra a Gaza ha richiesto la più lunga mobilitazione di riservisti militari – la spina dorsale dell’IDF – nella storia di Israele. Per far indossare l’uniforme a un maggior numero di israeliani, le brigate in Cisgiordania hanno formato unità di difesa regionali composte da coloni. “Ora i coloni sono i militari. Nell’esercito ci sono i coloni. Così, quel colono in cima alla collina vicino a una comunità di pastori palestinesi che li ha picchiati e ha lanciato pietre negli ultimi due, tre o quattro anni, cercando di farlo uscire, ora è il soldato o l’ufficiale in uniforme con una pistola responsabile della zona. “Così, quando va da un palestinese e gli dice: ‘Hai 24 ore per fare le valigie e andartene o ti sparo’, il palestinese sa che non c’è nulla che lo protegga”. Oren Rosenfeld/BBC Shaul crede che Israele abbia ancora due scelte. Una direzione, sostiene, è “il vettore che questo governo sta scrivendo, sfollando, abusando e uccidendo, distruggendo la vita palestinese e, in definitiva, scrivendo un vettore per il trasferimento di massa della popolazione”. “Oppure, sono due stati in cui la Palestina risiede oltre a Israele ed entrambi i popoli qui hanno diritti e dignità. Queste sono le uniche due opzioni nelle nostre carte. Ora tu e chiunque ci guardi, dovete scegliere chi sostenere”. Usa un linguaggio sulla condotta di Netanyahu nella guerra di Gaza dal 7 ottobre, che è raro in Israele, ma comune tra i palestinesi e sempre più sentito tra i critici di Israele in Europa. Questo fa parte della nostra conversazione, all’ombra dell’acciaio e del filo spinato tra il villaggio di Sinjel e la strada 60, la principale autostrada della Cisgiordania. Dice: “Penso che mentre vediamo una guerra di sterminio a Gaza… Vediamo una massiccia campagna da parte dello Stato e dei coloni… fondamentalmente per fare quanta più pulizia etnica di palestinesi in Cisgiordania”. Rispondo: “Certo, se Netanyahu fosse qui, uno qualsiasi dei suoi sostenitori direbbe: ‘Che mucchio di stupidaggini. Si tratta della sicurezza israeliana contro il terrorismo e gli attacchi contro gli ebrei”. Cosa ne pensi?” Risponde: “In realtà credo che se il 7 ottobre ci ha insegnato una cosa è che, se ci si preoccupa davvero di proteggere gli israeliani e la vita dei palestinesi, è necessario prendersi cura delle cause profonde della violenza: decenni di brutale occupazione militare, sfollamento dei palestinesi e un conflitto che va avanti da circa 100 anni.” “In definitiva, la protezione della sicurezza, la sostenibilità dell’autodeterminazione ebraica in questa terra, è interconnessa e intrecciata con il raggiungimento dei diritti di autodeterminazione e dell’uguaglianza per i palestinesi”. https://www.bbc.com/news/articles/cj4wwxz12jko Traduzione a cura di AssoPacePalestina Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Crimini di guerra ieri e oggi: da Hiroshima a Gaza
di Peter G. Prontzos,  Informed Comment, 8 agosto 2025.   File: “Operazione Castle”, 1954. National Nuclear Security Administration. Pubblico dominio. Via Picryl Questa settimana ricorre l’80° anniversario dell’uso delle armi nucleari da parte degli Stati Uniti contro la popolazione civile giapponese nell’agosto 1945. In precedenza, gli Stati Uniti avevano iniziato bombardamenti a tappeto sui cittadini giapponesi. La notte del 9 marzo, i bombardieri statunitensi “sganciarono 1.665 tonnellate di bombe incendiarie su Tokyo, scatenando una tempesta di fuoco che incenerì un quarto della città e uccise 85.000 persone. Nei quattro mesi successivi, i raid continuarono e “rasero al suolo quasi tutte le principali città giapponesi”. Nelle tre settimane precedenti il lancio delle bombe atomiche, 26 città furono attaccate dall’aviazione militare statunitense. Di queste, otto, ovvero quasi un terzo, furono distrutte in modo totale o quasi totale (in termini di percentuale della città distrutta) quanto la città di Hiroshima. Alla fine, oltre un milione di civili furono uccisi a seguito dei bombardamenti statunitensi. Ma quello era solo l’inizio. Il 6 agosto 1945, il presidente degli Stati Uniti Harry Truman ordinò all’aviazione militare statunitense di sganciare una bomba atomica su Hiroshima e oltre 78.000 persone furono incenerite nell’esplosione iniziale. Nel corso del tempo, circa “150.000 persone morirono in seguito all’esposizione alle radiazioni. Tre giorni dopo, un altro B-29 sganciò una bomba atomica su Nagasaki… almeno 23.800 persone morirono” solo per l’esplosione. Alla fine, la campagna di bombardamenti statunitense “uccise 330.000 persone, rase al suolo 67 città, distrusse 2,5 milioni di case…” (Alfred W. McCoy. To Govern the Globe: World Order and Catastrophic Change). La maggior parte dei vertici militari statunitensi concordò sul fatto che non vi fosse alcuna giustificazione militare per questo crimine di guerra. L’ammiraglio William Leahy, che presiedeva il comitato congiunto dei capi di stato maggiore di USA-Regno Unito, affermò che: “L’uso di quest’arma barbarica a Hiroshima e Nagasaki non ha fornito alcun aiuto concreto nella nostra guerra contro il Giappone. I giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi”. E il generale che aveva vinto la guerra in Europa mesi prima, Dwight Eisenhower, ricordò la sua reazione quando il segretario alla guerra, Henry Stimson, gli disse che sarebbe stata usata la bomba atomica. “Gli espressi i miei gravi dubbi… sulla base della mia convinzione che il Giappone fosse già sconfitto e che sganciare la bomba fosse completamente inutile”. In effetti, il governo giapponese era già disposto ad arrendersi, per diversi motivi. Oltre al bombardamento delle loro città, c’era anche la sconfitta dell’esercito e della marina nella guerra del Pacifico. Altrettanto importante era il timore del Giappone di attacchi da parte dell’Unione Sovietica, alleata degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale. L’8 agosto, la Russia invase la Manciuria occupata dal Giappone, come promesso. Lo storico Ward Wilson ha spiegato che “non ci voleva un genio militare per capire che, sebbene fosse possibile combattere una battaglia decisiva contro una grande potenza che invadeva da una direzione, non sarebbe stato possibile respingere due grandi potenze che attaccavano da due direzioni diverse. L’invasione sovietica invalidò la strategia militare della battaglia decisiva, così come invalidò la strategia diplomatica. In un solo colpo, tutte le opzioni del Giappone svanirono. L’invasione sovietica fu strategicamente decisiva, poiché precluse entrambe le opzioni del Giappone, mentre il bombardamento di Hiroshima (che non precluse nessuna delle due) non lo fu. «Le forze sovietiche, d’altra parte, potevano raggiungere il Giappone in soli 10 giorni. L’invasione sovietica rese la decisione di porre fine alla guerra estremamente urgente». («Non fu la bomba a sconfiggere il Giappone. Fu Stalin». Foreign Policy. 30 maggio 2013.) Il Giappone si sarebbe arreso in agosto, anche se non fossero state usate le bombe atomiche, e Truman e i suoi più stretti collaboratori lo sapevano. I generali Dwight Eisenhower, Douglas MacArthur, Henry Arnold e gli ammiragli William Leahy, Chester Nimitz, Ernest King e William Halsey hanno dichiarato pubblicamente che le bombe atomiche erano militarmente inutili, moralmente riprovevoli o entrambe le cose. Leahy, che era il capo di stato maggiore di Truman, scrisse nelle sue memorie che “l’uso di quest’arma barbarica a Hiroshima e Nagasaki non fu di alcuna utilità materiale nella nostra guerra contro il Giappone. I giapponesi erano già sconfitti e pronti ad arrendersi… Essendo stati i primi a usarla, abbiamo adottato uno standard etico comune ai barbari del Medioevo“. Gar Alperovitz & Martin Sherwin. 6 agosto 2020. ”Il lancio delle bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki era inutile”. Los Angeles Times. Le vere ragioni per cui il presidente Harry Truman ordinò questo barbaro attacco furono: 1) mostrare al mondo chi comandava; 2) intimidire la Russia; 3) testare l’effetto delle armi nucleari sugli esseri umani. Ecco perché i bombardamenti atomici sono stati crimini di guerra, secondo lo Statuto di Roma della Corte Penale iInternazionale: Articolo 8, Crimini di guerra, 2b. i. Dirigere intenzionalmente attacchi contro la popolazione civile in quanto tale o contro singoli civili che non partecipano direttamente alle ostilità. v. Attaccare o bombardare, con qualsiasi mezzo, città, villaggi, abitazioni o edifici che non sono difesi e che non sono obiettivi militari. (Nota: questi statuti si applicano anche in zone di guerra come Gaza e l’Ucraina). Oggi più che mai, i popoli del mondo hanno bisogno che le potenze nucleari (Stati Uniti, Russia, Regno Unito, Francia, Cina, Israele, India, Pakistan e Corea del Nord) facciano tutto il possibile per eliminare il potenziale uso delle armi nucleari. Peter G. Prontzos , professore emerito al Langara College di Vancouver, ha insegnato scienze politiche per oltre 25 anni. I suoi corsi includevano economia politica internazionale, studi latinoamericani, studi sulla pace e sui conflitti, paesi in via di sviluppo, ideologie politiche, movimenti sociali, relazioni internazionali, psicologia politica e filosofia politica. I suoi articoli sono stati pubblicati su riviste cartacee e online, tra cui Scientific American, The Globe & Mail, Vancouver Sun e CCPA Monitor, e ha lavorato sia alla radio che alla televisione della CBC. Ha tenuto conferenze in Canada, Stati Uniti, Scozia e Grecia. Attualmente conduce tour educativi in Grecia e sta completando il suo primo libro, Remembering Our Humanity: A Better World Is Possible. https://www.juancole.com/2025/08/war-crimes-then.html
Come il paradosso della “calunnia del sangue” induce l’Occidente a tacere sul genocidio perpetrato da Israele
di Jonathan Cook,  Jonathan Cook Substack, 8 agosto 2025.   Più le azioni di Israele sono depravate, più è antisemita sottolineare la verità. La dolorosa realtà è che, attraverso Israele, l’Occidente può mascherare un tipico colonialismo come un progetto “ebraico”. Esiste un pericoloso paradosso che contribuisce a dissuadere le persone, in particolare i personaggi pubblici, dal parlare apertamente, anche se il genocidio di Israele a Gaza diventa ogni giorno più orribile. Chiamiamolo il paradosso della “calunnia del sangue”. Funziona così. Nel Medioevo, gli ebrei erano accusati di uccidere i non ebrei, in particolare i bambini, per usare il loro sangue nei rituali religiosi. Ogni volta che un ebreo viene accusato di aver ucciso un non ebreo, secondo questo ragionamento, ciò mette in pericolo gli ebrei alimentando proprio quel tipo di antisemitismo che alla fine ha portato alle camere a gas di Auschwitz. Le persone responsabili, o almeno quelle che hanno una reputazione da proteggere, evitano quindi di rilasciare dichiarazioni che potrebbero contribuire a dare l’impressione che gli ebrei – o, in questo caso, i soldati dello stato ebraico di Israele – stiano uccidendo dei non ebrei. Se le critiche a Israele vengono espresse, devono essere formulate con cautela dai politici occidentali, dai media e dai personaggi pubblici, utilizzando un linguaggio che faccia apparire ragionevole l’uccisione di non ebrei – in questo caso, palestinesi musulmani e cristiani. Israele sta semplicemente «difendendosi» uccidendo e mutilando centinaia di migliaia di civili a Gaza dopo l’attacco di un giorno di Hamas del 7 ottobre 2023. Le masse di innocenti morti nell’enclave sono solo il prezzo sfortunato pagato per garantire il «ritorno degli ostaggi israeliani» detenuti da Hamas. L’attivo affamamento dei bambini di Gaza da parte di Israele, che dura da mesi, è una “crisi umanitaria”, non un crimine contro l’umanità. Chiunque dissente da questa narrativa viene denunciato come antisemita, che si tratti di milioni di persone comuni, di tutte le organizzazioni per i diritti umani rispettate nel mondo, compreso il gruppo israeliano B’Tselem, dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, della Corte Penale Internazionale, di studiosi di genocidio come Omer Bartov, egli stesso israeliano, e così via. È un circolo vizioso perfetto, che si autoalimenta, completamente avulso dalla realtà che ci viene trasmessa in diretta ogni giorno. Aiuti come trappole mortali Le scandalose conseguenze del paradosso della “calunnia del sangue” sono state evidenziate a un anno dall’inizio del genocidio israeliano a Gaza da un articolo dello scrittore ebreo Howard Jacobson.  Sulle pagine del quotidiano Observer, ha accusato i media occidentali di “diffamazione” per aver riportato la notizia che a Gaza stavano morendo moltissimi bambini, nonostante gli stessi media avessero cercato di minimizzare il bilancio delle vittime, mettendone implicitamente in dubbio la veridicità e attribuendolo al “ministero della Salute di Gaza gestito da Hamas”, e avessero costantemente giustificato le uccisioni come parte delle operazioni militari israeliane volte a “sconfiggere Hamas”. Jacobson, come altri ferventi apologeti del genocidio, voleva di più. Ha chiesto ai media di distogliere completamente lo sguardo dal massacro. Da allora, i crimini di Israele contro la popolazione di Gaza sono diventati ancora più scioccanti, per quanto fosse difficile immaginarlo quasi un anno fa. Israele ha impedito che il cibo raggiungesse Gaza, tranne che attraverso una forza mercenaria che ha istituito con gli Stati Uniti, erroneamente denominata “Fondazione Umanitaria di Gaza (GHF)”. Il compito della GHF, come ci hanno raccontato alcuni soldati israeliani che hanno fatto da informatori, è quello di attirare i più sani e forti tra le masse affamate – principalmente giovani palestinesi – in trappole mortali con la promessa di cibo. Una volta lì, Israele mette in atto quella che Medici Senza Frontiere definisce “uccisione orchestrata”, sparando loro addosso. Israele ha armato e assunto come sicari a Gaza una banda criminale guidata dal sostenitore dell’ISIS Yasser Abu Shabab. Il loro compito è quello di saccheggiare i camion degli aiuti che cercano di operare al di fuori dell’organizzazione della GHF e rubare gli aiuti alla popolazione, seminando ulteriore terrore e caos e permettendo a Israele di incolpare Hamas per la fame a Gaza. Gli israeliani di estrema destra, cioè le persone che hanno eletto il governo Netanyahu, sono stati filmati mentre fermavano camion di aiuti che cercavano di trasportare dalla Giordania cibo destinato alla popolazione di Gaza, mentre i bambini muoiono regolarmente di malnutrizione. Eminenti medici occidentali come Nick Maynard stanno tornando da Gaza con le stesse storie dell’orrore: come constatare che i soldati israeliani usano bambini palestinesi come bersagli per esercitarsi al tiro. Un giorno le ferite da arma da fuoco dei bambini che arrivano in ospedale sono concentrate alla testa. Il giorno dopo al petto. Il giorno dopo all’addome. Il giorno dopo ai genitali. Il paradosso della “calunnia del sangue” significa che Israele può agire con una depravazione sempre più sfacciata – del tipo documentato sopra – e i leader occidentali e i media continuano a ignorare, minimizzare o razionalizzare questi orrori. È la carta vincente per uscire dai guai. La falsa “nebbia di guerra” Ci sono diversi punti da sottolineare sul perché questa sia una risposta così pericolosa al genocidio di Gaza, ma anche perché sia così utile alle capitali occidentali. In primo luogo, e più ovviamente, Israele non è “gli ebrei”. È uno Stato. Non solo, ma è stato fondato come un tipo di Stato molto specifico: l’ultimo esempio di una lunga e ignobile tradizione di colonialismo sponsorizzato dall’Occidente. Il colonialismo cerca di sostituire una popolazione autoctona con immigrati allineati all’Occidente attraverso una violenza estrema basata sull’etnia. Pensiamo agli Stati Uniti, al Canada, all’Australia e al Sudafrica. Tutti hanno commesso crimini atroci contro le loro popolazioni indigene. Il genocidio dei palestinesi da parte di Israele non è insolito. È la conseguenza logica e fin troppo familiare di un’ideologia colonialista razzista. Ci siamo già trovati molte volte in questa situazione nella storia moderna. Se in quei casi precedenti non si è trattato di una calunnia del sangue, ma piuttosto di un fatto storico accertato, perché il genocidio di Israele dovrebbe essere visto in modo diverso? In secondo luogo, questo genocidio non è di Israele. È dell’Occidente. Si tratta di una coproduzione occidentale. Israele non avrebbe potuto compiere nessuna delle distruzioni di Gaza, il massacro di massa, l’affamamento della popolazione, senza l’assistenza occidentale in ogni fase del processo. Sono state bombe statunitensi e tedesche a cadere su Gaza. Sono voli di spionaggio britannici sopra Gaza dalla base RAF di Akrotiri a Cipro che hanno fornito informazioni a Israele. Sono le capitali occidentali che hanno represso le proteste e hanno reso reato di terrorismo il tentativo di fermare il genocidio. Sono gli Stati Uniti e la Gran Bretagna che hanno sanzionato e minacciato la Corte Penale Internazionale per costringerla a revocare la sua decisione di chiedere l’arresto di Netanyahu per aver affamato la popolazione di Gaza. Sono state le capitali occidentali a rimanere in silenzio mentre i loro cittadini venivano presi in ostaggio illegalmente da Israele in acque internazionali per aver cercato di portare aiuti a Gaza. E sono i media occidentali che prima hanno accettato senza batter ciglio la loro esclusione da Gaza da parte di Israele, poi hanno riportato a malapena l’omicidio di massa senza precedenti di giornalisti locali di Gaza da parte di Israele, e ora utilizzano con entusiasmo la loro esclusione come scusa per non poter esaminare le azioni di Israele in mezzo a una presunta “nebbia di guerra”. Se notare che a Gaza è in atto un genocidio equivale a una “calunnia del sangue”, allora tutti i governi occidentali sono implicati in tale calunnia. Saranno tutti assolti? Sperano vivamente che vorrete assolverli. Polizza assicurativa E, in terzo luogo, sarebbe sorprendente se Israele non stesse commettendo un genocidio a Gaza, dato che ogni suo crimine contro i palestinesi è stato sostenuto per decenni dall’Occidente. Israele è diventato più audace. Il paradosso della “calunnia del sangue” è stata la sua polizza assicurativa contro il controllo e le critiche. L’Occidente ha dato a Israele una licenza permanente per brutalizzare i palestinesi, per sottoporli a pulizia etnica, per rubare la loro terra e per ucciderli. Più si comporta male, più la “calunnia del sangue” entra in gioco per zittire le critiche. Più le azioni di Israele sono depravate, più diventa antisemita sottolineare la verità. Per più di un secolo, generazione dopo generazione, i leader occidentali hanno sostenuto Israele fino in fondo. Perché Israele non dovrebbe concludere che per lui non ci sono linee rosse, che può fare ciò che vuole e che l’Occidente continuerà ad armare e a giustificare i suoi crimini come “difesa” e “antiterrorismo”? La “calunnia del sangue” non protegge gli ebrei da un altro genocidio. Autorizza Israele a distruggere il popolo palestinese e a bombardare selvaggiamente i suoi vicini, con totale impunità, mentre i leader occidentali rimangono in silenzio come non farebbero mai se fossero la Russia, la Cina o l’Iran a commettere atrocità ben meno gravi. Il che, ovviamente, è esattamente ciò che incoraggia l’antisemitismo. Completamente sconcertati da questo stato di cose, alcuni osservatori si lasciano ingannare dall’idea che l’unica ragione possibile sia che Israele controlla l’Occidente, che ha poteri speciali e invisibili per intimidire gli Stati Uniti, lo stato più forte e militarizzato della storia, e che dietro tutto questo ci sono gli ebrei e il denaro ebraico a tirare le fila nelle capitali occidentali. Questa supposizione è una fuga da una realtà molto più difficile e dolorosa: che Israele è il figlio bastardo dell’Occidente. Non c’è nulla di eccezionale o straordinario. È razzismo bianco, occidentale, coloniale, genocida, riproposto come un presunto progetto “ebraico”. Israele può compiere i suoi crimini per promuovere il controllo occidentale sul Medio Oriente ricco di petrolio, e l’Occidente sa che qualsiasi critica al suo controllo imperiale e al suo saccheggio può essere liquidata come antisemitismo. È una situazione vantaggiosa per il colonialismo. È una situazione svantaggiosa per la nostra umanità. https://jonathancook.substack.com/p/how-the-blood-libel-paradox-keeps?utm_source=substack&utm_medium=email Traduzione a cura di AssoPacePalestina Non sempre AssoPacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Un trattore per At-Tuwani
di AssopacePalestina,  Progetti, giugno 2025.   Salviamo Masafer Yatta! L’altopiano di Masafer Yatta (Grande Yatta) si trova in Area C, è situato nella parte più meridionale della Cisgiordania: un gruppo di 15 villaggi tra la città di Yatta e la linea verde. Copre un’area semidesertica di circa 36 Km2, la casa di circa 4000 abitanti che vivono prevalentemente di pastorizia e agricoltura. Nei primi anni Ottanta, per volontà dell’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon, viene deciso che nell’area sorgerà una zona di esercitazione militare, la “firing zone 918”, estesa su una superficie di circa 30 Km2 che include 12 villaggi. I residenti continuano a vivere senza particolari interferenze fino all’ottobre del 1999, quando l’Amministrazione Civile emana ed esegue ordini di espulsione per 700 residenti, con la motivazione che stavano vivendo illegalmente in una zona di tiro. Alle famiglie di 12 villaggi vengono date 24 ore di tempo per lasciare case e terreni; il giorno dell’esecuzione, i soldati rimuovono forzatamente i residenti e sequestrano tutto ciò che è stato lasciato. Le immagini terrificanti di quella tragica vicenda fanno il giro del mondo e smuovono l’opinione pubblica. Col sostegno di associazioni legali israeliane, 200 famiglie avviano un ricorso presso l’Alta Corte di Giustizia israeliana. È il 2000 quando la Corte emette la prima ingiunzione: le famiglie possono fare ritorno alle loro case e coltivare la loro terra. Ma è una misura provvisoria che, peraltro, nega agli abitanti di costruire abitazioni e infrastrutture. Viene data la possibilità di tornare, ma non di crescere e sviluppare una vita sul territorio. Così, nel corso del processo arbitrale, durato 22 anni, i residenti dell’area vivono nella minaccia di demolizione, espulsione e spoliazione, senza poter costruire abitazioni o infrastrutture. L’Amministrazione Civile risponde con ordini di demolizione: tra il 2006 e il 2013 demolisce 66 abitazioni, lasciando 553 persone senza casa. Solo tra 2012 e il 201332 demolisce 32 strutture non residenziali. A marzo del 2022, la Corte respinge le petizioni delle famiglie ricorrenti, accettando tutte le argomentazioni dello Stato israeliano: permette l’espulsione dei residenti con la motivazione che non possono vivere in una zona di tiro. Segui la campagna Save Masafer Yatta: https://savemasaferyatta.com/en/ L’altra faccia della violenza di Stato: la violenza dei coloni. Accanto ai palestinesi per i quali è proibito costruire e prosperare, proliferano le colonie israeliane: sin dalla loro fondazione nell’area negli anni ’80, hanno continuato a espandersi e seminare terrore. Secondo i dati Bt’Selem, l’88% dei residenti palestinesi ha subìto o assistito a violenza da parte dei coloni; come, ad esempio, il blocco delle strade e l’impedimento dell’accesso ai campi, i danni alla proprietà (che aumentano nella semina e nel raccolto), tra cui la distruzione dei raccolti e il furto di pecore e capre in particolare, intimidazioni e violenza fisica. Mentre si demolivano anche solo le tende dei palestinesi, l’avamposto illegale della comunità israeliana ad Avigail si collegava all’acqua, all’elettricità, a una strada asfaltata, e prosperava sulla terra dei palestinesi. Youth of Sumud (Giovani della Resilienza) è stata fondata nel 2017 proprio in risposta alle aggressioni e violenze dei coloni e dei militari. L’associazione si è impegnata nella rinascita del villaggio di Sarura, abbandonato negli anni ’90, a causa dei crescenti attacchi dei coloni di Havat Ma’On; le antiche case rupestri sono state successivamente danneggiate o demolite. Dal 2017, Youth of Sumud ha ricostruito le grotte e, da allora, vi ha stabilito una presenza permanente: il Sumud Freedom Camp. L’associazione è anche responsabile della sicurezza dei bimbi del vicino villaggio di Tuba che frequentano la scuola di At-Tuwani: il percorso dei bambini viene interrotto e reso sempre più pericoloso dai coloni dell’avamposto israeliano Havat Ma’on. Inoltre, accompagna i pastori che pascolano le loro greggi e gli agricoltori mentre raccolgono nella raccolta delle olive anche nella valle del Giordano e in tutta la Cisgiordania. Youth of Sumud assieme a una rete di solidarietà internazionale, anche israeliana ed ebraica, è impegnata nella resistenza non violenta all’occupazione. https://youthofsumud.org
Appunti di un pacifista israeliano
di Guy Ben-Aharon, The Atlantic, 14 luglio 2025.   Troppo israeliano per essere una vittima e troppo resistente per essere un patriota: sono in esilio, anche quando sono a casa mia. Foto-illustrazione di Akshita Chandra / The Atlantic. Fonti: Philip Brunnader; Getty. Dal 7 ottobre vivo in un posto strano. Non un luogo fisico, ma una condizione: un limbo tra due mondi che mi dicono entrambi “Non appartieni a questo posto”. In Israele sono odiato perché mi oppongo a una guerra che molti dicono di non sostenere, ma che continuano a combattere, difendere o giustificare come necessaria. All’estero non sono più il benvenuto tra coloro che dicono che tutti gli israeliani sono colonizzatori. Sono troppo israeliano per essere una vittima e troppo resistente per essere un patriota. Sono in esilio, anche quando sono a casa mia. Ho parlato pubblicamente contro questa guerra fin dall’inizio. Come regista teatrale, ho messo in scena spettacoli teatrali troppo politicamente impegnati per essere rappresentati in Israele, nonché la prima in lingua inglese di un’opera teatrale sull’assedio di Gaza. Ho rifiutato di prestare servizio nell’esercito e da anni mi batto contro l’occupazione. Niente di tutto questo sembra avere importanza. Sono israeliano, e questo è diventato un verdetto. Durante una cena di Shavuot [ricorrenza ebraica] con la mia famiglia allargata, una parente si è lamentata dei fattorini arabi che consegnano cibo a domicilio. “Questi arabi sanno fare solo due cose con i pacchi”, ha detto. “Rubarli o farli saltare in aria”. Le ho detto che sembrava una razzista. Tutta la tavolata è esplosa in un dibattito sulla guerra, a cui tutti dicevano di essere contrari, anche se un membro della famiglia è un medico militare e un altro si sta arruolando. “Cosa ci fai qui?”, mi ha detto il padrone di casa. “Che diritto hai di parlare? Non hai prestato servizio militare”. Mio padre ha cercato di difendermi: “Mio figlio è un cittadino. È un pacifista. A volte faccio fatica ad accettare le sue opinioni, ma le rispetto. Questa è una democrazia. Ha il diritto di esprimersi”. “Se fossimo a casa tua”, ha ribattuto il padrone di casa, “me ne andrei. Ma questa è casa mia”. In altre parole: Vattene. Il viaggio in auto da Gerusalemme a casa è durato più di un’ora. Nessuno di noi ha parlato: né io, né mia madre, né mio padre. Il silenzio regnava sul sedile posteriore, trattenendo tutto ciò che non sapevamo come dire. Qualche giorno dopo, uno dei miei familiari mi ha mandato un messaggio dicendomi che, con le opinioni che ho, dovrei rinunciare alla cittadinanza israeliana. Trovo difficile giudicare questo membro della mia famiglia. Si sente intrappolato in una posizione impossibile: è il padre di un soldato che combatte una guerra che lui stesso non sostiene; è traumatizzato dagli eventi del 7 ottobre. La sua rabbia non è astratta, è personale, autoprotettiva, reale. Una settimana dopo, sono andato a un concerto a Tel Aviv con mio padre. Un gruppo femminile chiamato Ha’Ivriot, le donne ebraiche, ha eseguito le canzoni con cui sono cresciuto, le canzoni con cui è cresciuto mio padre. Tutto il pubblico ha cantato insieme. Anch’io. E poi, nel bel mezzo di una strofa, ho iniziato a piangere. Cosa ne sarà di questa lingua? Mi sono chiesto. Cosa ne sarà di questa cultura? Siamo riusciti a rovinare tutto. All’inizio della primavera ho partecipato a una conferenza in Europa per leader culturali di tutto il mondo. Quaranta partecipanti si erano riuniti per immaginare un futuro comune. Sono arrivato pieno di speranza. Sono partito con un senso di vuoto. Tre partecipanti non mi hanno mai rivolto la parola, non hanno mai incrociato il mio sguardo. La mia opposizione alla guerra, la mia carriera artistica, il mio attivismo: niente di tutto questo sembrava contare. Poi, il penultimo giorno, uno di loro ha parlato durante una sessione pubblica dicendo di sentirsi psicologicamente a disagio durante l’incontro perché, secondo le sue parole, “l’assassino è nella stanza”. Ho capito immediatamente. L’assassino ero io. Non ho risposto. Cosa avrei potuto dire? Che sono “uno dei buoni”? Non c’è frase che possa ammorbidire la decisione di una persona che ti considera irredimibile. Qualsiasi risposta non farebbe che rafforzare l’accusa. Qualche giorno dopo sono volato ad Atene per aiutare la mia ragazza, anche lei israeliana, a rifarsi una vita. Aveva lasciato Israele, incapace di convivere con ciò che era diventato il nostro paese. Mi sono unito a lei per un po’, soggiornando nel suo nuovo quartiere, cercando di costruire qualcosa che assomigliasse a una routine. Un amico greco che gestisce una ONG mi ha invitato a un picnic nel parco. Mi sono seduto su una coperta accanto a un giovane artista del Cairo. Abbiamo parlato di Atene, di arte. Il giovane egiziano mi piaceva. Poi mi ha chiesto dove vivessi. “Tra Israele e gli Stati Uniti”, ho risposto. Si è alzato senza dire una parola e se n’è andato. Più tardi quella stessa sera, un regista teatrale greco mi ha detto: “Mi dispiace, ma sono molto turbato dalla situazione nel tuo paese. Dal tuo genocidio”. Gli ho detto che anch’io ero molto turbato. Che la mia ragazza aveva lasciato Israele per questo. Che ho fatto sentire la mia voce e mi sono opposto. Lui ha sbattuto le palpebre. Potevo vedere il meccanismo delle sue supposizioni andare in corto circuito. Sembrava non sapere cosa fare con la tridimensionalità della persona che aveva davanti. Ogni mattina, mentre portavo a spasso il cane della mia ragazza, cercavo di sentirmi normale. Ma i graffiti erano ovunque. Alcuni chiedevano la libertà per la Palestina, cosa che sostengo con tutto il cuore. Ma altri messaggi mi facevano rabbrividire: “Salva una vita. Uccidi un sionista”. E “Quando un israeliano ti chiede un caffè, servigli un caffè”, accanto alla raffigurazione di una tazza bollente che colpisce un viso. In quegli slogan non c’era spazio per qualcuno come me. Anche i muri avevano deciso. Capisco la rabbia. Le atrocità a cui assistiamo, trasmesse in diretta streaming, senza sosta, rendono quasi impossibile provare empatia. In un mondo così pieno di sofferenza, la semplificazione può sembrare una forma di sopravvivenza. Quindi mi chiedo: dove dovrei andare, come pacifista israeliano? I miei stessi parenti mettono in dubbio che io appartenga a Israele, perché critico le truppe a Gaza per l’uccisione e l’affamamento dei palestinesi. All’estero, un collega di teatro una volta mi ha detto di “tornare da dove sono venuto”, che non appartengo alla terra in cui sono nato, ma alle terre dove i miei antenati hanno affrontato i pogrom e l’Olocausto. Le sfumature non hanno alcun valore in un mondo dipendente dagli assoluti. Naturalmente, ci sono tragedie ben più gravi della mia. I palestinesi vengono uccisi a Gaza e gli ostaggi israeliani sono ancora in prigionia. Porto ogni giorno il peso di questi orrori. Non sto paragonando la mia sofferenza alla loro. Ma credo che se vogliamo un futuro diverso, abbiamo bisogno di spazio per esprimerci da qualsiasi posizione ci troviamo, anche da quella scomoda di chi sta in mezzo. Se sia in patria che all’estero si esige fedeltà piuttosto che ricerca, purezza piuttosto che complessità, che spazio rimane a chi difende il diritto sia dei palestinesi che degli israeliani di vivere sulla propria terra? Quando il dissenso viene zittito come tradimento in un luogo e liquidato come irrimediabile in un altro, chi può immaginare qualcosa di diverso da una guerra perpetua? Guy Ben-Aharon è un regista teatrale che divide il suo tempo tra gli Stati Uniti e Israele. È anche fondatore e direttore esecutivo di The Jar. https://www.theatlantic.com/international/archive/2025/07/israeli-pacifist/683507/?gift=c0mUWLzYcACuCXHtbvpTb490VceVW_eN2fCER7WZqxM Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.