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Un trattore per At-Tuwani
di AssopacePalestina,  Progetti, giugno 2025.   Salviamo Masafer Yatta! L’altopiano di Masafer Yatta (Grande Yatta) si trova in Area C, è situato nella parte più meridionale della Cisgiordania: un gruppo di 15 villaggi tra la città di Yatta e la linea verde. Copre un’area semidesertica di circa 36 Km2, la casa di circa 4000 abitanti che vivono prevalentemente di pastorizia e agricoltura. Nei primi anni Ottanta, per volontà dell’allora ministro dell’Agricoltura Ariel Sharon, viene deciso che nell’area sorgerà una zona di esercitazione militare, la “firing zone 918”, estesa su una superficie di circa 30 Km2 che include 12 villaggi. I residenti continuano a vivere senza particolari interferenze fino all’ottobre del 1999, quando l’Amministrazione Civile emana ed esegue ordini di espulsione per 700 residenti, con la motivazione che stavano vivendo illegalmente in una zona di tiro. Alle famiglie di 12 villaggi vengono date 24 ore di tempo per lasciare case e terreni; il giorno dell’esecuzione, i soldati rimuovono forzatamente i residenti e sequestrano tutto ciò che è stato lasciato. Le immagini terrificanti di quella tragica vicenda fanno il giro del mondo e smuovono l’opinione pubblica. Col sostegno di associazioni legali israeliane, 200 famiglie avviano un ricorso presso l’Alta Corte di Giustizia israeliana. È il 2000 quando la Corte emette la prima ingiunzione: le famiglie possono fare ritorno alle loro case e coltivare la loro terra. Ma è una misura provvisoria che, peraltro, nega agli abitanti di costruire abitazioni e infrastrutture. Viene data la possibilità di tornare, ma non di crescere e sviluppare una vita sul territorio. Così, nel corso del processo arbitrale, durato 22 anni, i residenti dell’area vivono nella minaccia di demolizione, espulsione e spoliazione, senza poter costruire abitazioni o infrastrutture. L’Amministrazione Civile risponde con ordini di demolizione: tra il 2006 e il 2013 demolisce 66 abitazioni, lasciando 553 persone senza casa. Solo tra 2012 e il 201332 demolisce 32 strutture non residenziali. A marzo del 2022, la Corte respinge le petizioni delle famiglie ricorrenti, accettando tutte le argomentazioni dello Stato israeliano: permette l’espulsione dei residenti con la motivazione che non possono vivere in una zona di tiro. Segui la campagna Save Masafer Yatta: https://savemasaferyatta.com/en/ L’altra faccia della violenza di Stato: la violenza dei coloni. Accanto ai palestinesi per i quali è proibito costruire e prosperare, proliferano le colonie israeliane: sin dalla loro fondazione nell’area negli anni ’80, hanno continuato a espandersi e seminare terrore. Secondo i dati Bt’Selem, l’88% dei residenti palestinesi ha subìto o assistito a violenza da parte dei coloni; come, ad esempio, il blocco delle strade e l’impedimento dell’accesso ai campi, i danni alla proprietà (che aumentano nella semina e nel raccolto), tra cui la distruzione dei raccolti e il furto di pecore e capre in particolare, intimidazioni e violenza fisica. Mentre si demolivano anche solo le tende dei palestinesi, l’avamposto illegale della comunità israeliana ad Avigail si collegava all’acqua, all’elettricità, a una strada asfaltata, e prosperava sulla terra dei palestinesi. Youth of Sumud (Giovani della Resilienza) è stata fondata nel 2017 proprio in risposta alle aggressioni e violenze dei coloni e dei militari. L’associazione si è impegnata nella rinascita del villaggio di Sarura, abbandonato negli anni ’90, a causa dei crescenti attacchi dei coloni di Havat Ma’On; le antiche case rupestri sono state successivamente danneggiate o demolite. Dal 2017, Youth of Sumud ha ricostruito le grotte e, da allora, vi ha stabilito una presenza permanente: il Sumud Freedom Camp. L’associazione è anche responsabile della sicurezza dei bimbi del vicino villaggio di Tuba che frequentano la scuola di At-Tuwani: il percorso dei bambini viene interrotto e reso sempre più pericoloso dai coloni dell’avamposto israeliano Havat Ma’on. Inoltre, accompagna i pastori che pascolano le loro greggi e gli agricoltori mentre raccolgono nella raccolta delle olive anche nella valle del Giordano e in tutta la Cisgiordania. Youth of Sumud assieme a una rete di solidarietà internazionale, anche israeliana ed ebraica, è impegnata nella resistenza non violenta all’occupazione. https://youthofsumud.org
Appunti di un pacifista israeliano
di Guy Ben-Aharon, The Atlantic, 14 luglio 2025.   Troppo israeliano per essere una vittima e troppo resistente per essere un patriota: sono in esilio, anche quando sono a casa mia. Foto-illustrazione di Akshita Chandra / The Atlantic. Fonti: Philip Brunnader; Getty. Dal 7 ottobre vivo in un posto strano. Non un luogo fisico, ma una condizione: un limbo tra due mondi che mi dicono entrambi “Non appartieni a questo posto”. In Israele sono odiato perché mi oppongo a una guerra che molti dicono di non sostenere, ma che continuano a combattere, difendere o giustificare come necessaria. All’estero non sono più il benvenuto tra coloro che dicono che tutti gli israeliani sono colonizzatori. Sono troppo israeliano per essere una vittima e troppo resistente per essere un patriota. Sono in esilio, anche quando sono a casa mia. Ho parlato pubblicamente contro questa guerra fin dall’inizio. Come regista teatrale, ho messo in scena spettacoli teatrali troppo politicamente impegnati per essere rappresentati in Israele, nonché la prima in lingua inglese di un’opera teatrale sull’assedio di Gaza. Ho rifiutato di prestare servizio nell’esercito e da anni mi batto contro l’occupazione. Niente di tutto questo sembra avere importanza. Sono israeliano, e questo è diventato un verdetto. Durante una cena di Shavuot [ricorrenza ebraica] con la mia famiglia allargata, una parente si è lamentata dei fattorini arabi che consegnano cibo a domicilio. “Questi arabi sanno fare solo due cose con i pacchi”, ha detto. “Rubarli o farli saltare in aria”. Le ho detto che sembrava una razzista. Tutta la tavolata è esplosa in un dibattito sulla guerra, a cui tutti dicevano di essere contrari, anche se un membro della famiglia è un medico militare e un altro si sta arruolando. “Cosa ci fai qui?”, mi ha detto il padrone di casa. “Che diritto hai di parlare? Non hai prestato servizio militare”. Mio padre ha cercato di difendermi: “Mio figlio è un cittadino. È un pacifista. A volte faccio fatica ad accettare le sue opinioni, ma le rispetto. Questa è una democrazia. Ha il diritto di esprimersi”. “Se fossimo a casa tua”, ha ribattuto il padrone di casa, “me ne andrei. Ma questa è casa mia”. In altre parole: Vattene. Il viaggio in auto da Gerusalemme a casa è durato più di un’ora. Nessuno di noi ha parlato: né io, né mia madre, né mio padre. Il silenzio regnava sul sedile posteriore, trattenendo tutto ciò che non sapevamo come dire. Qualche giorno dopo, uno dei miei familiari mi ha mandato un messaggio dicendomi che, con le opinioni che ho, dovrei rinunciare alla cittadinanza israeliana. Trovo difficile giudicare questo membro della mia famiglia. Si sente intrappolato in una posizione impossibile: è il padre di un soldato che combatte una guerra che lui stesso non sostiene; è traumatizzato dagli eventi del 7 ottobre. La sua rabbia non è astratta, è personale, autoprotettiva, reale. Una settimana dopo, sono andato a un concerto a Tel Aviv con mio padre. Un gruppo femminile chiamato Ha’Ivriot, le donne ebraiche, ha eseguito le canzoni con cui sono cresciuto, le canzoni con cui è cresciuto mio padre. Tutto il pubblico ha cantato insieme. Anch’io. E poi, nel bel mezzo di una strofa, ho iniziato a piangere. Cosa ne sarà di questa lingua? Mi sono chiesto. Cosa ne sarà di questa cultura? Siamo riusciti a rovinare tutto. All’inizio della primavera ho partecipato a una conferenza in Europa per leader culturali di tutto il mondo. Quaranta partecipanti si erano riuniti per immaginare un futuro comune. Sono arrivato pieno di speranza. Sono partito con un senso di vuoto. Tre partecipanti non mi hanno mai rivolto la parola, non hanno mai incrociato il mio sguardo. La mia opposizione alla guerra, la mia carriera artistica, il mio attivismo: niente di tutto questo sembrava contare. Poi, il penultimo giorno, uno di loro ha parlato durante una sessione pubblica dicendo di sentirsi psicologicamente a disagio durante l’incontro perché, secondo le sue parole, “l’assassino è nella stanza”. Ho capito immediatamente. L’assassino ero io. Non ho risposto. Cosa avrei potuto dire? Che sono “uno dei buoni”? Non c’è frase che possa ammorbidire la decisione di una persona che ti considera irredimibile. Qualsiasi risposta non farebbe che rafforzare l’accusa. Qualche giorno dopo sono volato ad Atene per aiutare la mia ragazza, anche lei israeliana, a rifarsi una vita. Aveva lasciato Israele, incapace di convivere con ciò che era diventato il nostro paese. Mi sono unito a lei per un po’, soggiornando nel suo nuovo quartiere, cercando di costruire qualcosa che assomigliasse a una routine. Un amico greco che gestisce una ONG mi ha invitato a un picnic nel parco. Mi sono seduto su una coperta accanto a un giovane artista del Cairo. Abbiamo parlato di Atene, di arte. Il giovane egiziano mi piaceva. Poi mi ha chiesto dove vivessi. “Tra Israele e gli Stati Uniti”, ho risposto. Si è alzato senza dire una parola e se n’è andato. Più tardi quella stessa sera, un regista teatrale greco mi ha detto: “Mi dispiace, ma sono molto turbato dalla situazione nel tuo paese. Dal tuo genocidio”. Gli ho detto che anch’io ero molto turbato. Che la mia ragazza aveva lasciato Israele per questo. Che ho fatto sentire la mia voce e mi sono opposto. Lui ha sbattuto le palpebre. Potevo vedere il meccanismo delle sue supposizioni andare in corto circuito. Sembrava non sapere cosa fare con la tridimensionalità della persona che aveva davanti. Ogni mattina, mentre portavo a spasso il cane della mia ragazza, cercavo di sentirmi normale. Ma i graffiti erano ovunque. Alcuni chiedevano la libertà per la Palestina, cosa che sostengo con tutto il cuore. Ma altri messaggi mi facevano rabbrividire: “Salva una vita. Uccidi un sionista”. E “Quando un israeliano ti chiede un caffè, servigli un caffè”, accanto alla raffigurazione di una tazza bollente che colpisce un viso. In quegli slogan non c’era spazio per qualcuno come me. Anche i muri avevano deciso. Capisco la rabbia. Le atrocità a cui assistiamo, trasmesse in diretta streaming, senza sosta, rendono quasi impossibile provare empatia. In un mondo così pieno di sofferenza, la semplificazione può sembrare una forma di sopravvivenza. Quindi mi chiedo: dove dovrei andare, come pacifista israeliano? I miei stessi parenti mettono in dubbio che io appartenga a Israele, perché critico le truppe a Gaza per l’uccisione e l’affamamento dei palestinesi. All’estero, un collega di teatro una volta mi ha detto di “tornare da dove sono venuto”, che non appartengo alla terra in cui sono nato, ma alle terre dove i miei antenati hanno affrontato i pogrom e l’Olocausto. Le sfumature non hanno alcun valore in un mondo dipendente dagli assoluti. Naturalmente, ci sono tragedie ben più gravi della mia. I palestinesi vengono uccisi a Gaza e gli ostaggi israeliani sono ancora in prigionia. Porto ogni giorno il peso di questi orrori. Non sto paragonando la mia sofferenza alla loro. Ma credo che se vogliamo un futuro diverso, abbiamo bisogno di spazio per esprimerci da qualsiasi posizione ci troviamo, anche da quella scomoda di chi sta in mezzo. Se sia in patria che all’estero si esige fedeltà piuttosto che ricerca, purezza piuttosto che complessità, che spazio rimane a chi difende il diritto sia dei palestinesi che degli israeliani di vivere sulla propria terra? Quando il dissenso viene zittito come tradimento in un luogo e liquidato come irrimediabile in un altro, chi può immaginare qualcosa di diverso da una guerra perpetua? Guy Ben-Aharon è un regista teatrale che divide il suo tempo tra gli Stati Uniti e Israele. È anche fondatore e direttore esecutivo di The Jar. https://www.theatlantic.com/international/archive/2025/07/israeli-pacifist/683507/?gift=c0mUWLzYcACuCXHtbvpTb490VceVW_eN2fCER7WZqxM Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Sotto l’ululato della fame
di Alaa Alqaisi,  Arablit, 23 luglio 2025.   Molto prima che la fame si impadronisca del corpo, essa allenta le fondamenta del linguaggio, cancellando la lucidità, smantellando il ritmo e lasciando dietro di sé i fragili detriti del pensiero. Ciò che inizia come un paragrafo coerente si dissolve rapidamente in frammenti, finché non rimane altro che il tremore involontario di una mente troppo affamata per trattenere il significato. E così, prima che il linguaggio mi abbandoni completamente, scrivo questo, non tanto per essere compresa quanto per rimanere rintracciabile, per lasciare dietro di me la forma del pensiero prima che scivoli nel silenzio. Cerco di perdermi nel lavoro, di dimenticare, anche solo per un momento, questo dolore che avvolge la nostra piccola città assediata. Non è solo il dolore dello spirito o il lutto, anche se ce n’è in abbondanza; è una fame fisica, implacabile, che mi divora dall’interno, che sale con un ululato basso e costante che riecheggia nel corpo come un secondo battito cardiaco. Si aggrappa alle mie costole come una maledizione sussurrata troppe volte per poter essere cancellata. Non importa quanto cerchi di distrarmi, piegando di nuovo la stessa camicia, traducendo una frase familiare, mescolando il sale nell’acqua bollente come se potesse cambiare qualcosa, la fame riemerge con silenziosa autorità, come fumo che si insinua attraverso crepe invisibili nel pavimento. Le lettere sullo schermo si confondono. Le parole che un tempo maneggiavo con disinvoltura ora mi sfuggono, scivolando fuori dalla mia portata come se anche loro cercassero di fuggire da questo luogo. Mi alzo per pregare, ma nel momento in cui mi metto in piedi, le vertigini mi assalgono, acute e improvvise, avvolgendo le loro dita intorno alla mia gola. Le gambe mi tremano e mi chiedo se sono diventata troppo vuota per stare davanti a Dio. La fame sviluppa un linguaggio proprio, silenzioso e corrosivo. Non arriva con drammi o rumori, ma si insinua nel corpo e nella mente fino a renderli molli, piegati, logori. Si deposita come polvere: sui pensieri, sui ricordi, sul fragile guscio della pelle. George Orwell, le cui parole una volta sembravano appartenere a un altro tempo e a un altro luogo, ora parla direttamente alla vertigine che mi offusca la vista: “La fame riduce una persona a una condizione di totale mancanza di spina dorsale e di cervello… come se fosse stata trasformata in una medusa”. Quella metafora, un tempo grottesca e astratta, ora mi sembra precisa. Questo è ciò che sono diventata: senza struttura, alla deriva, incapace di ancorare il pensiero all’intenzione. Cerco un’idea e trovo che si dissolve prima che io riesca ad afferrarla, lasciando dietro di sé solo una pallida impressione di ciò che un tempo viveva con chiarezza. Ci sono momenti in cui Gaza sembra meno una città e più il residuo di un incubo che apparteneva a qualcun altro, a uno spettatore lontano che l’ha sognato e poi si è dimenticato di svegliarsi. Non sembra parte del mondo, non nel modo in cui le città sono collegate ai fiumi, alle nazioni o al tempo. Sembra invece che siamo stati cuciti in una sceneggiatura parallela, un mito ripetuto all’infinito a beneficio di chi guarda senza conseguenze. Ma a differenza dei miti, questo non ha un arco morale, né una catarsi. Non c’è fine all’orrore, né dissolvenza in nero. I bambini qui continuano a invecchiare senza mai crescere. Gli anziani parlano del pane come altri parlano degli amori perduti. E da qualche parte, sempre, c’è un pubblico che chiede come finisce questa storia. Ma per noi che la viviamo, non c’è fine, solo il lento svanire delle possibilità con ogni giorno di silenzio. L’assedio pesa molto sul linguaggio stesso. Anche le mie frasi ne soffrono. La sintassi cede sotto la pressione degli stomaci vuoti. La grammatica non può competere con la disperazione. Mi siedo davanti alla tastiera e cerco di evocare ciò che un tempo mi veniva così naturale, ma le parole si disperdono a metà strada, come uccelli spaventati che dimenticano come volare. Non è una questione di dimenticanza, ma di erosione, un costante disfacimento di tutto ciò che credevo mi appartenesse. Eppure io insisto. Parlo. Scrivo. Perché il silenzio sarebbe una forma di sconfitta ancora più profonda. La testimonianza, anche se frammentaria e incerta, è l’unica cosa che posso ancora offrire. Tenerla chiusa dentro di me significherebbe lasciare che questa fame consumi anche la voce che le dà nome. Vivere a Gaza oggi richiede una coreografia dell’assenza. Non camminiamo, andiamo alla deriva. Non mangiamo, cerchiamo. Non dormiamo, restiamo all’erta, con le orecchie tese al rumore che ci farà scappare. La sopravvivenza è un rituale di adattamento in un mondo che non offre nulla. Eppure, in mezzo a queste routine spezzate, incontro ancora momenti che mi ricordano la nostra ostinata umanità. Una donna spezza a metà l’ultimo pezzo di pane e lo offre alla vicina. Un bambino disegna fiori colorati su un muro annerito dal fuoco e dalla fuliggine. Una nonna recita Al-Fatiha sull’acqua bollente, anche se sa che non c’è nulla da aggiungere. Questi gesti non sono illusioni. Sono atti di resistenza. In un luogo dove le istituzioni e i sistemi sono crollati, è il gesto umano, offerto liberamente, che preserva il sacro. La fame rivela verità che nessuno cerca. Spoglia ogni illusione confortante e mostra ciò che rimane quando non c’è più nulla da perdere. Ho imparato che la dignità non è un possesso, ma una pratica: emerge dal modo in cui si sopporta, non da ciò che si possiede. Ho capito che anche la memoria è una forma di sfida. Dare un nome al proprio dolore, registrarlo fedelmente, significa rifiutare la cancellazione. Non cerco pietà. La pietà appiattisce. Trasforma Gaza in un oggetto, in un monito, in un titolo troppo spesso ripetuto per suscitare una reazione. Quello che cerco, quello su cui insisto, è il ricordo. Non solo della fame, ma delle menti che ha offuscato, delle mani che tremano su un’ultima tazza di tè, degli occhi che scrutano il cielo non alla ricerca di stelle ma di segni di fuoco. Qui le metafore sono spezzate. Anche la bellezza, in questo luogo, arriva con una ferita. Eppure, il cipresso nel nostro vicolo continua a fiorire, rosso di sfida. Eppure, una bambina canticchia mentre salta sulle pozzanghere piene di cenere. Eppure, io scrivo. Perché da qualche parte in questa devastazione, il significato sopravvive. Non il significato come spiegazione – non c’è giustificazione per questo – ma il significato come testimonianza, come presenza, come rifiuto di essere dimenticati. Noi eravamo qui. Abbiamo amato, abbiamo pianto, abbiamo pensato. Abbiamo costruito un linguaggio dalle rovine, abbiamo plasmato storie dalla cenere e ci siamo aggrappati alla memoria anche quando ci scivolava tra le mani come fosse acqua. E quando il mondo finalmente volterà pagina, se mai lo farà, che non si dica che Gaza era silenziosa. Che non si immagini che siamo scomparsi senza dire una parola. Abbiamo parlato con la bocca piena di polvere. Abbiamo cantato, anche con i denti rotti. Abbiamo pregato con le ginocchia fratturate. E anche se il mondo ha distolto lo sguardo, che questo almeno sia ricordato: abbiamo dato un nome alla fame. L’abbiamo sopportata. Abbiamo resistito. Che questo rimanga. Alaa Alqaisi è una traduttrice, scrittrice e ricercatrice palestinese di Gaza, profondamente appassionata di letteratura, lingua e del potere della narrazione di unire le culture e testimoniare le realtà vissute. https://arablit.org/2025/07/23/beneath-the-howl-of-hunger/ Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il movimento BDS compie 20 anni. È un pilastro essenziale nella libertà palestinese
di Omar Barghouti,  The Guardian, 11 luglio 2025.     Il movimento BDS è oggi un pilastro nella lotta per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza dei palestinesi. “Il movimento BDS ha trasformato radicalmente la comprensione globale della questione palestinese”. Vuk Valcic/Zuma Press Wire/Shutterstock Non nuocere, un principio che molti associano alla pratica medica, è diventato un principio etico fondamentale della solidarietà globale che il movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) ha diffuso sin dal suo inizio 20 anni fa. Dal momento che ci troviamo nella fase più perversa del genocidio in diretta streaming contro 2,3 milioni di palestinesi nella Striscia di Gaza occupata illegalmente, il nostro dolore insopportabile rende impossibile esultare per il 20° anniversario del movimento BDS. Lo stato israeliano, abilitato e incoraggiato dalla spudorata e apparentemente illimitata complicità militare, finanziaria, politica e dialettica degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e del Regno Unito, sta cercando di normalizzare ciò che è fondamentalmente anormale e di intorpidire le nostre coscienze con la sua implacabile ferocia. Vede l’ascesa al potere dei suoi alleati naturali, forze di estrema destra, fasciste e autoritarie in Occidente e altrove, come qualcosa che gli fornisce la tanto agognata occasione di sterminare finalmente i sopravvissuti della sua Nakba in corso, non gradualmente come ha fatto per decenni, ma in un colpo solo. Eliminare i nativi, dopo tutto, è una caratteristica, non un piccolo neo, nella storia del colonialismo d’insediamento. Eppure, la nostra rabbia, altrettanto incontenibile, ci costringe a celebrare questa occasione con la riflessione, la critica, una certa dose di orgoglio e tanta determinazione ad andare avanti, qualunque cosa accada, fino a quando il genocidio finirà e il regime di oppressione che lo ha generato sarà definitivamente smantellato. Fare il punto su ciò che abbiamo raggiunto collettivamente contro quelli che sembravano ostacoli insormontabili di denigrazione, intimidazione e orribile repressione, significa alimentare una speranza realistica per sollevare il nostro morale collettivo. Si tratta di decolonizzare le nostre menti dagli incessanti tentativi di Israele e dei suoi partner coloniali egemonici in Occidente di instillarvi impotenza e sconforto. Si tratta anche di imparare da questa lunga lotta le lezioni che aiuteranno a illuminare la nostra marcia verso la libertà. Già nel 1923, il leader sionista Ze’ev Jabotinsky scriveva con lucida onestà: “Ogni popolazione indigena del mondo resiste ai colonizzatori finché ha la minima speranza di potersi liberare dal pericolo di essere colonizzata. […] La colonizzazione sionista deve fermarsi, oppure andare avanti indipendentemente dalla popolazione autoctona. Il che significa che può procedere e svilupparsi solo sotto la protezione di un potere indipendente dalla popolazione autoctona, dietro un muro di ferro, che la popolazione autoctona non può violare”. A parte i suoi muri di cemento e hi-tech che circondano i ghetti palestinesi, in particolare Gaza, Israele ha incessantemente tentato di costruire un “muro di ferro” nelle nostre menti, cercando di ridurci a “animali umani”, di isolarci dal nostro ambiente arabo naturale e dal resto del mondo, e di insinuare nelle nostre coscienze, con una violenza indicibile e prolungata, l’imperativo della sottomissione al suo potere indomabile. Nato nel 2005 come un appello che poteva apparire “troppo ambizioso”, ispirato dalle lotte che hanno posto fine all’apartheid in Sud Africa e al Jim Crow negli Stati Uniti, il BDS si è evoluto fino a diventare un formidabile antidoto a questa disperazione indotta e un faro di resistenza, resilienza e rigenerazione. Due decenni fa, la più ampia coalizione palestinese mai esistita, con una rappresentanza di palestinesi in esilio, sotto occupazione, e di cittadini di seconda classe dell’attuale Israele, ha fatto la storia lanciando l’appello al Boicottaggio, al Disinvestimento e alle Sanzioni (BDS), formando un appello mondiale antirazzista, un movimento di solidarietà nonviolento che Israele considera una “minaccia esistenziale” al suo regime di insediamento coloniale, apartheid, occupazione militare e ora genocidio. Come scrive Naomi Klein: “la ragione per cui Israele attacca il BDS con tanta ferocia è la stessa ragione per cui così tanti attivisti hanno continuato a crederci, nonostante questi attacchi su più fronti. Perché può funzionare”. Il BDS sta funzionando. Negli stati in ascesa autoritaria e persino fascista, dagli Stati Uniti alla Germania, dal Regno Unito all’Austria, il movimento BDS si trova ad affrontare sfide senza precedenti, dalla propaganda ben oliata e dalla repressione quasi senza rivali fino al giustizialismo, proprio per la sua comprovata efficacia e il suo impatto ormai inconfutabile. Dalle università che finalmente tagliano i legami accademici e/o finanziari con Israele e le sue università conniventi, fino al Fondo Sovrano Norvegese – il più grande del mondo – che ha disinvestito da obbligazioni israeliane; dai più di 7.000 scrittori ed editori che sostengono il boicottaggio culturale di Israele, fino ai governi del sud del mondo, come la Colombia, che emanano effettive sanzioni commerciali ed embarghi militari o negano il porto alle navi che trasportano merci militari in Israele; fino al ruolo chiave svolto dal BDS nella decisione di Intel di eliminare un investimento di 25 miliardi di dollari in Israele per “cambiare ‘il panorama del commercio globale di Israele’”, come ammesso dal presidente dell’Israel Export Institute, il movimento BDS è oggi un pilastro nella lotta per la libertà, la giustizia e l’uguaglianza dei palestinesi. Con la sua vasta rete globale supportata da sindacati, coalizioni di agricoltori, nonché da movimenti di giustizia razziale, sociale, di genere e climatica, il movimento BDS ha trasformato radicalmente sia la comprensione globale della questione palestinese come una lotta di liberazione da parte di un popolo indigeno contro il colonialismo di insediamento, sia l’etica della solidarietà, ponendo come prerequisito più profondo l’obbligo di porre fine alla complicità, di non fare del male. Se “la Palestina è davvero il centro del mondo” oggi, come Angela Davis ha recentemente dichiarato, il BDS è diventato non solo l’epicentro del movimento globale di solidarietà con la Palestina e anti-apartheid, ma anche uno tra i più influenti – e contagiosi– movimenti per la giustizia in tutto il mondo. Quando gli attivisti di tutto il mondo cantano a milioni “La Palestina ci libera tutti”, stanno riflettendo su questo senso di forte sfida, di dire la verità al potere politico e corporativo, di ciò che chiamiamo “radicalismo strategico” che il movimento di solidarietà con la Palestina, e il BDS al suo interno, ha ispirato in diversi movimenti per la giustizia in tutto il mondo. Un’intera giovane generazione che percepisce con precisione Gaza non solo come una scena di distruzione di decine di migliaia di vite palestinesi e di una civiltà di 4.000 anni con una brutalità e un’impunità senza precedenti per mano dell’asse genocida USA-Israele, ma anche, allo stesso tempo, come emblema di un’era distopica in cui “la forza fa il diritto” rappresenta una minaccia per l’umanità in generale che è disastrosa quanto la calamità climatica. John Dugard, un eminente giurista sudafricano ed ex giudice ad hoc della Corte Internazionale di Giustizia, anni fa scrisse che “la Palestina è diventata la cartina di tornasole dei diritti umani”. Oggi, la Palestina è la causa essenziale che anima in modo intersezionale l’indignazione globale per un ordine truccato, oppressivo, coloniale e profondamente razzista in cui gli oligarchi e le grandi multinazionali hanno più potere della maggior parte degli stati, e dove il pianeta e la maggioranza globale sono sacrificati sull’altare dell’avidità insaziabile e della brama di ancora più potere. In questo quadro cupo, il movimento BDS sta mostrando come l’essere allo stesso tempo etico ed efficace, radicale e strategico, possa costruire abbastanza potere popolare da affrontare attraverso una pressione sostenuta, tra cui l’interruzione pacifica del business-as-usual, le società complici più odiose, le amministrazioni universitarie fossilizzate e le ipocrite macchinazioni occidentali – e vincere. In effetti, il BDS viene sempre più riconosciuto come “non solo un imperativo morale e un diritto costituzionale e umano, ma anche un obbligo legale internazionale”, secondo le parole di Craig Mokhiber, un ex alto funzionario delle Nazioni Unite per i diritti umani. Affermando ciò, il Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite ha pubblicato pochi giorni fa un rapporto storico della Relatrice Speciale ONU sui diritti umani nei territori palestinesi occupati, Francesca Albanese, che denuncia come le corporazioni complici “sostengano la duplice logica coloniale israeliana di spostamento e sostituzione volta a espropriare e cancellare i palestinesi dalle loro terre”. Il rapporto esorta “i sindacati, gli avvocati, la società civile e i cittadini comuni a premere per il boicottaggio, il disinvestimento, le sanzioni, la giustizia per la Palestina e la responsabilità a livello internazionale e nazionale”. Nel suo iconico libro Pelle nera, maschere bianche, Frantz Fanon scrive: “Se la questione della solidarietà pratica con un certo passato si è mai posta per me, lo ha fatto solo nella misura in cui mi sono impegnato con me stesso e con il mio prossimo a combattere per tutta la vita e con tutte le mie forze affinché mai più un popolo sulla terra venga soggiogato”. Per combattere l’assoggettamento, specialmente quando il proprio stato o la propria istituzione vi sono implicati, l’obbligo etico più profondo è quello di porre fine a questa complicità, di non fare del male. Niente è più importante. Omar Barghouti è co-fondatore del movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni (BDS) per i diritti dei palestinesi e co-destinatario del Premio Gandhi per la Pace 2017. https://www.theguardian.com/commentisfree/2025/jul/11/bds-movement-palestine-freedom Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Cosa succederà dopo la guerra tra Stati Uniti e Israele contro l’Iran?
di Mitchell Plitnick,  Mondoweiss, 27 giugno 2025.   I 12 giorni di combattimenti tra Iran e Israele, insieme all’intervento degli Stati Uniti, hanno lasciato un segno profondo su tutti e tre i paesi. Qual è la situazione attuale ora che i combattimenti sono cessati e cosa succederà? Una foto di Donald Trump nella Situation Room della Casa Bianca il 21 giugno 2025, durante i preparativi per l’attacco statunitense all’Iran. (Foto: The White House) I combattimenti tra Israele e Iran, scatenati da un attacco illegale e del tutto immotivato da parte di Israele, si sono momentaneamente placati. Dopo che gli Stati Uniti hanno fatto ciò che il primo ministro israeliano sperava, bombardando le strutture nucleari sotterranee dell’Iran, compresa quella di Fordow, con armi bunker buster, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha detto a Israele di fermare i suoi attacchi e ha rafforzato questo ordine quando Israele ha inviato decine di bombardieri verso l’Iran poco dopo l’entrata in vigore del cessate il fuoco, sostenendo che si trattava di una risposta a due missili iraniani. L’intera battaglia, combattuta sulla base di una minaccia fittizia che l’Iran fosse vicino all’acquisizione di un’arma nucleare, ha dimostrato come il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu possa manipolare l’intelligence, la politica e l’ignoranza degli Stati Uniti per provocare l’azione americana. Ma ha anche dimostrato che gli Stati Uniti non possono essere costretti ad agire quando non sono disposti a farlo e, cosa ancora più importante, che quando decidono di mantenere una posizione ferma, gli Stati Uniti hanno assolutamente il potere di frenare Israele. Ma i dodici giorni di bombardamenti e scambi di missili tra Iran e Israele, così come l’intervento americano, hanno lasciato la situazione molto diversa da quella precedente all’escalation. Possiamo mettere da parte le rivendicazioni di vittoria di Donald Trump, Benjamin Netanyahu e dell’Ayatollah Ali Khamenei per le loro necessità politiche, ma dobbiamo vedere cosa è cambiato e cosa potrebbe significare per il futuro. Israele Nessuno meglio dei funzionari israeliani sa quanto sia una pura e semplice truffa allarmistica l’intera “questione nucleare iraniana”. Sanno bene che qualsiasi valutazione o preparazione iraniana per un’arma nucleare risale a più di vent’anni fa, e che nel frattempo si è trattato di poco più che passi preliminari mentre la questione era in discussione ai più alti livelli del governo iraniano. Sanno anche che l’unico modo per garantire che l’Iran o qualsiasi altro paese non sviluppi un’arma nucleare è attraverso un accordo diplomatico. Se questa fosse stata la loro preoccupazione, avrebbero appoggiato l’accordo nucleare con l’Iran del 2015, come hanno fatto molti funzionari militari e dell’intelligence israeliana. I politici, ovviamente, non l’hanno fatto. Lo scopo di questa farsa è sempre stato quello di creare a Washington e a Bruxelles un blocco di opinione per il cambio di regime con l’obiettivo di un attacco all’Iran che costringesse la Repubblica Islamica ad abbandonare il potere. Con Donald Trump alla Casa Bianca, l’alba di un’era più attenta alla sicurezza in Europa e il successo di Israele nell’affermare la sua capacità distruttiva in Libano, Siria, Yemen, Iraq e nella Striscia di Gaza, questa era l’occasione che Netanyahu sognava da quando era entrato in politica. Ma ha fallito. Netanyahu si è trovato incapace di trascinare gli Stati Uniti in una guerra per il cambio di regime in Iran. Come con Gaza e il Libano, Israele ha dimostrato senza ombra di dubbio di essere capace e più che disposto a causare distruzione estrema e un numero raccapricciante di morti. Eppure, nonostante tutto quel sangue versato e quelle macerie, Hezbollah esiste ancora in Libano, le milizie sciite e altre milizie alleate con l’Iran continuano a punteggiare la regione, Ansar Allah mantiene la sua posizione nello Yemen e Hamas continua a resistere a Gaza. I cambiamenti politici che Netanyahu cercava non sono arrivati con la guerra, nonostante le sofferenze che Israele ha causato in modo così brutale. Le guerre raramente stimolano il cambiamento e, quando lo fanno, non sono i cambiamenti che i guerrafondai si aspettavano (vedi Iraq e Libia, per esempio). Invece, almeno per il momento, la considerevole opposizione alla Repubblica Islamica all’interno dell’Iran è stata messa a tacere mentre il paese si unisce nell’indignazione, nel dolore e nell’opposizione agli attacchi israeliani e americani. Alla fine, quell’opposizione riemergerà, ma le azioni di Israele non hanno fatto nulla per aiutarla. Per i sostenitori di Israele che continuano a credere che il problema fosse quello di un’arma nucleare iraniana, resta da vedere la valutazione completa, ma è quasi certo che la vanteria di Trump di aver “completamente distrutto” il programma nucleare iraniano è falsa. L’ubicazione delle scorte di uranio arricchito dell’Iran è sconosciuta, ma le prime indicazioni suggeriscono che l’Iran ne sia ancora in possesso, il che significa che le ha trasferite prima dell’attacco statunitense. Questo è emblematico del cosiddetto “successo” di questa missione. Gli impianti nucleari iraniani sono stati gravemente danneggiati, questo è certo. Alcuni potrebbero essere inutilizzabili in modo permanente. Ma tali impianti possono essere riparati o ricostruiti. Israele ha assassinato, nel senso più criminale del termine, numerosi scienziati nucleari iraniani, ma altri sono rimasti. Non si può cancellare la conoscenza con coltelli, pistole o autobombe. Che si tratti di mesi o di qualche anno, Israele e gli Stati Uniti hanno ritardato il calendario teorico per la costruzione di un’arma nucleare da parte dell’Iran, ma non hanno distrutto né limitato la capacità dell’Iran di farlo. Al contrario, la bellicosità degli Stati Uniti e la violenza sfrenata e diffusa di Israele avevano già indotto molti iraniani a cambiare idea sul perseguimento di un’arma nucleare, rendendo tale sostegno maggioritario nel paese. Questi attacchi contro l’Iran, i peggiori dalla guerra Iran-Iraq terminata nel 1988, non solo hanno rafforzato il sostegno pubblico, ma hanno anche inviato all’Iran il messaggio che esso dovrebbe porre fine alla cooperazione con gli organismi internazionali di regolamentazione nucleare e ritirarsi dal Trattato di Non Proliferazione Nucleare (TNP). Resta da vedere se l’Iran perseguirà questa linea, ma le azioni di Israele non fanno che incoraggiare tali azioni. In breve, gli attacchi di Israele hanno reso molto più probabile la possibilità di un’arma nucleare iraniana, non meno, anche se hanno allungato i tempi potenziali per la sua realizzazione. In realtà, tali tempi erano ipotetici anche prima. Ora potrebbero benissimo essere reali. A tutto ciò si aggiunge la crescente ostilità nei confronti di Israele in tutta la regione. Sebbene tale ostilità sia basata principalmente sul genocidio perpetrato da Israele a Gaza, la violenza sfrenata che Israele ha scatenato in tutto il Medio Oriente non fa che aggravare la rabbia generale. Le dittature arabe tengono a freno questa rabbia con una repressione massiccia, ma tali tattiche possono funzionare solo per un certo periodo. Inoltre, con l’aumentare della rabbia, aumenta anche la probabilità di attacchi contro gli israeliani. Naturalmente, questo è il motore dell’esistenza politica di Netanyahu e dei suoi compagni di destra. Ma non è sostenibile e potrebbe finire senza preavviso. Nelle ultime due settimane i cittadini israeliani non sono stati messi al sicuro, ma sono stati esposti a un pericolo maggiore. Tuttavia, Netanyahu probabilmente trarrà grandi benefici da quella che ora è percepita come una vittoria. Troppi israeliani hanno rapidamente dimenticato la propria delusione nei confronti del “signor Sicurezza” dopo il suo disastroso fallimento del 7 ottobre. Ma sotto tutti i punti di vista, Israele si trova ora in una posizione peggiore rispetto a due settimane fa. Iran Anche la Repubblica Islamica esce malconcia e ferita, sebbene possa vantare alcuni aspetti positivi. Prima dell’attacco americano alle strutture nucleari iraniane, l’Iran si stava preparando a un lungo scontro con Israele. Ma la strada da percorrere era difficile. Israele stava iniziando a esaurire i missili intercettori dei suoi vari sistemi di difesa, e questo era evidente. I colpi sui bersagli israeliani da parte dei missili iraniani stavano diventando più frequenti e più efficaci, nonostante l’Iran stesse lanciando meno missili. Questo era un vantaggio per l’Iran, ma spesso è stato sopravvalutato. Gli Stati Uniti avevano diverse opzioni per rifornire almeno in parte i missili israeliani, la più probabile delle quali era quella di utilizzare parte delle proprie scorte. Ma anche se l’Iran avesse goduto di un vantaggio temporaneo nella capacità di sopraffare le difese aeree israeliane, le sue scorte di missili alla fine si sarebbero esaurite e l’Iran non ha un benefattore come gli Stati Uniti che possa venire in suo soccorso. La Russia è impegnata altrove. Ciò ha fatto nascere, almeno a Washington, il timore che l’Iran potesse, a quel punto, cercare di destabilizzare gli Stati del Golfo con attacchi delle milizie alleate, alle quali fino a quel momento aveva ordinato di non intervenire in sua difesa. In combinazione con la chiusura dello Stretto di Hormuz, che l’Iran aveva minacciato di fare prima del cessate il fuoco, ciò equivaleva a una minaccia di guerra regionale che ha spaventato gli Stati Uniti e l’Europa. Agenti israeliani sono riusciti a penetrare in Iran su larga scala, piazzando non solo agenti operativi ma anche armi che hanno paralizzato la difesa iraniana prima ancora che i jet israeliani sganciassero le prime bombe. I conseguenti arresti di massa in Iran, che hanno superato i 700, tra cui sei condanne a morte sinora eseguite, sono un segno autoritario di debolezza del governo. Le difese aeree iraniane sono state rese completamente inutili in poche ore da Israele. Ci vorrà del tempo prima che l’Iran possa rimediare alla sua nuova vulnerabilità agli attacchi. L’Iran può affermare di essere sopravvissuto agli attacchi del bullo del quartiere, Israele, ma la realtà è sotto gli occhi di tutti: gli Stati Uniti hanno posto fine ai combattimenti perché Trump non era interessato a una guerra per cambiare il regime e i suoi amici nel Golfo non volevano che i combattimenti si estendessero anche a loro. Tuttavia, l’Iran ha dimostrato di essere in grado di difendersi molto bene, anche se solo fino a un certo punto. È vero, gli Stati Uniti e Israele avrebbero probabilmente dovuto invadere l’Iran, con costi enormi, per realizzare il sogno israeliano e neoconservatore di un cambio di regime. Ma la facilità con cui le difese aeree iraniane sono state compromesse è un’immagine strategica duratura di questo scontro. Gli Stati Uniti Giudicare l’esito dal punto di vista degli Stati Uniti è un po’ più complicato. Per Donald Trump, questa è stata una vittoria. È riuscito ad “affrontare” lo spauracchio dell’arma nucleare iraniana in un modo che ha soddisfatto la maggior parte degli americani e che, alla fine, non ha confermato i timori della sua base MAGA. Sebbene molti nel mondo di Trump fossero contrari a qualsiasi azione degli Stati Uniti contro l’Iran, ciò non era dovuto, nel complesso, all’amore per la pace o alla preoccupazione per i pericoli per i civili in Iran. Era basato su un impulso isolazionista per evitare il coinvolgimento americano in una nuova guerra in Medio Oriente. Poiché questa era la radice della preoccupazione, Trump aveva un’opzione, che alla fine ha scelto: quella di attaccare le strutture nucleari iraniane e poi porre fine ai combattimenti. Per farlo, ha comunicato in anticipo le sue intenzioni all’Iran, consentendo agli iraniani di spostare almeno alcune attrezzature, le loro scorte di uranio e, cosa più importante per evitare l’espansione della guerra, spostando il proprio personale fuori dalla linea di fuoco. L’Iran ha risposto a tono, avvertendo gli Stati Uniti del suo attacco di ritorsione contro la base aerea di Al-Udeid in Qatar. Il dibattito sui danni alle installazioni nucleari continua, ma Trump ha placato la sua base isolazionista MAGA, facendo appello anche a quei suoi sostenitori che adorano la sua presunta “forza” e “durezza”. I neoconservatori sono ovviamente piuttosto frustrati, ma poiché hanno basato gran parte delle loro argomentazioni sulla minaccia di un’arma nucleare iraniana, dovranno riorganizzarsi prima di poter criticare davvero questa operazione che non mirava al cambio di regime. Trump ha continuato la sua pratica di lunga data, condivisa con altri presidenti, di confermare gli Stati Uniti come attore indipendente e canaglia che ignora deliberatamente le norme e le leggi internazionali. Questo ha fatto infuriare le Nazioni Unite e i paesi del Sud del mondo. A Trump, ovviamente, questo non importa nulla. Ciò che gli interessa è il fatto che la NATO e l’Europa si siano schierate dietro di lui, cosa che non avevano fatto durante il suo primo mandato. Il nuovo capo della NATO, Mark Rutte, ha dato un’esibizione imbarazzante di servilismo ai piedi di Trump durante il vertice NATO. Ma Trump ha ora ottenuto dai leader europei l’accordo per l’acquisto di miliardi di dollari in armi, per lo più da produttori americani, accettando di spendere il 5% del PIL dei rispettivi paesi per la sicurezza. Senza dubbio non raggiungeranno questo obiettivo, ma le vendite aumenteranno comunque in modo apprezzabile. I neoconservatori e i loro compagni falchi di guerra nel Partito Democratico non hanno ottenuto la guerra per il cambio di regime che volevano. Aspetteranno fino a quando non ci saranno prove definitive che l’Iran può ancora ricostruire il suo programma nucleare e cercheranno di usarlo per spingere Trump verso una nuova guerra, nel caso dei neoconservatori, e per guadagnare punti politici nel caso dei democratici. Nel frattempo, la posizione già logora degli Stati Uniti non solo tra i popoli del Sud del mondo, ma anche in gran parte dell’Europa – dove il sentimento popolare, come negli Stati Uniti, contrasta nettamente con quello dei loro rappresentanti eletti – ha subito un altro duro colpo. La maggior parte delle persone capisce che Trump ha completamente distrutto la credibilità dei trattati internazionali, in particolare il TNP, e ha rafforzato la reputazione americana di inganno e inaffidabilità. D’altra parte, se Trump cercasse davvero di perseguire una sorta di distensione con l’Iran, potrebbe essere una mossa significativa. È difficile che ciò accada, data l’assoluta mancanza di fiducia tra Trump e chiunque in Iran. Ma Trump ha tenuto a freno Netanyahu, e gli iraniani lo sanno. Questo episodio dovrebbe eliminare la scusa di qualsiasi presidente che si dichiara impotente di opporsi ai desideri di Israele. Nessun primo ministro israeliano ha mai voluto qualcosa dagli Stati Uniti più di quanto Netanyahu volesse una guerra di regime change da Trump. Ma Trump ha detto no e ha persino impedito a Israele di riaccendere i combattimenti. Potrebbe fare lo stesso a Gaza. Tutto ciò che serve è la volontà di farlo. https://mondoweiss.net/2025/06/what-comes-next-following-the-u-s-israeli-war-on-iran/?ml_recipient=158456260842227519&ml_link=158456234668721340& Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Mentre gli occhi del mondo sono puntati su Gaza, Netanyahu accelera l’annessione della Cisgiordania
di Amir Tibon,  Haaretz, 1° giugno 2025.   Mentre l’attenzione mondiale rimane fissa sulla guerra di Gaza, il governo di Netanyahu accelera l’espansione degli insediamenti e le mosse di annessione in Cisgiordania, minacciando la stabilità regionale e affievolendo le prospettive di uno stato palestinese. Bandiere israeliane sventolano in cima a una collina adiacente alle proprietà palestinesi che sono state attaccate durante la notte dai coloni israeliani nel villaggio di Bruqin, in Cisgiordania, il mese scorso. Nasser Nasser/AP Gli occhi del mondo sono puntati su Gaza, dove la guerra tra Israele e Hamas si protrae ormai da oltre 600 giorni senza che se ne intraveda una fine. Un altro tentativo degli Stati Uniti di esercitare pressioni su Hamas affinché accetti i termini del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu per un cessate il fuoco temporaneo sembra essere fallito. E, nonostante la crescente pressione internazionale per porre fine alla guerra, la situazione sul campo rimane disperata e senza speranza. Nel frattempo, a poche decine di chilometri a est di Gaza, sulle colline della Cisgiordania, si sta silenziosamente delineando un altro sviluppo significativo. Lì, il governo Netanyahu ha accelerato un processo di annessione de facto, iniziato prima degli attacchi del 7 ottobre, proseguito con il pretesto della guerra e che ha acquisito ancora più slancio dopo la vittoria del presidente Trump lo scorso novembre. Pur senza una dichiarazione formale di annessione, il governo sta facendo tutto il possibile per segnalare la sua intenzione di assorbire questo territorio, dove vivono più di due milioni di palestinesi, nello stato di Israele. Ciò include l’annuncio di 22 nuovi insediamenti, il tentativo di legalizzare avamposti isolati che sono illegali anche secondo la legge israeliana e l’espansione delle strade che attraversano la Cisgiordania e rafforzano il controllo israeliano. Queste mosse stanno avvenendo in parallelo e fanno tutte parte di una strategia più ampia e unificata. Tale strategia non prevede l’offerta ai palestinesi di queste zone della cittadinanza israeliana, dei diritti civili o del diritto di voto. Il governo fa invece affidamento sull’Autorità Palestinese, indebolita e corrotta, ancora guidata dall’anziano autocrate Mahmoud Abbas, per eludere la domanda ovvia: se Israele sta effettivamente annettendo il territorio, cosa farà delle persone che vi abitano? Anche qell’automatica deviazione – secondo cui i palestinesi sono sotto il controllo dell’Autorità Palestinese e quindi al di fuori della responsabilità di Israele – sta diventando ogni giorno meno convincente. Si prenda, ad esempio, la recente decisione di Netanyahu di impedire la visita dei ministri degli Esteri di Arabia Saudita, Egitto, Giordania ed Emirati Arabi Uniti alla sede dell’Autorità Palestinese a Ramallah. Questa visita, volta a sostenere una rinnovata spinta regionale verso una soluzione a due stati, è guidata da governi che, sotto molti aspetti, sono amici di Israele. Fino a poco tempo fa, i governi israeliani consideravano la facciata dei due stati come qualcosa che ancora serviva agli interessi di Israele, contribuendo a deviare le critiche sulla sua presenza militare permanente in Cisgiordania. Ma non questo governo, la cui politica è plasmata dalle ambizioni e dalle fantasie degli elementi più estremisti e messianici della politica israeliana. Questo governo sta apertamente spingendo per l’annessione e non è interessato a preservare le apparenze diplomatiche per mascherarla. Questa direzione è destinata a provocare uno scontro con altri governi – in Europa, nel mondo arabo e oltre – che troveranno sempre più difficile mantenere normali relazioni di lavoro con Israele sotto la guida di Netanyahu, Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir.  Inoltre, rischia di minare il risultato più importante della politica estera del presidente Trump durante il suo primo mandato, gli Accordi di Abramo, rendendo molto meno probabile un’ulteriore espansione di tali accordi. La domanda è: quando, se mai, Trump o qualcuno a lui vicino riconoscerà questa realtà e adotterà le misure necessarie per affrontarla? https://www.haaretz.com/israel-news/haaretz-today/2025-06-01/ty-article/.highlight/with-the-worlds-eyes-on-gaza-netanyahu-hits-fast-forward-on-west-bank-annexation/00000197-2c2a-da41-a9f7-3dae03660000?utm_source=App_Share&utm_medium=iOS_Native Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Le disperate riflessioni di un medico di Gaza
del Dott. Ezzideen Shehab,  18 maggio 2025.   La regista Farah Nabulsi (“The Present”) ha condiviso questa sua lettura. Da Farah Nabulsi. Sto condividendo qui una delle cose più dolorose che ho letto in questi giorni incredibilmente oscuri. Avevo pensato di leggerla in un video, ma onestamente mi sento male. In questo momento vorrei solo rannicchiarmi e sparire da questo mondo. È di un uomo chiamato Dr. Ezzideen, che seguo su X. La sua scrittura è in generale molto potente, ed è un vero medico a Gaza. (Il suo account su X è @ezzingaza, nel caso qualcuno volesse saperlo). Ecco il testo: Non c’è illusione più oscena, più grottesca, della convinzione che l’uomo sia il culmine della creazione. Se indossa una corona, è forgiata dalle macerie e incastonata di denti strappati dalla bocca dei bambini. E in nessun luogo, in nessun luogo, questa oscenità è più visibile che a Gaza, dove l’uomo strappa l’ultimo velo della civiltà e si mostra per ciò che è sempre stato: una bestia predatrice, con la ragione abbastanza affilata da uccidere con efficienza, e appena abbastanza coscienza da provare un fugace disagio, subito messo a tacere. Gaza non è una tragedia. Chiamarla così sarebbe troppo gentile. Non è un incidente della diplomazia o dei confini. È un palcoscenico. Una rappresentazione. Una dimostrazione di ciò che accade quando all’uomo vengono dati strumenti, sistemi, dati — ma non un’anima. È la conclusione logica di una specie che non vive: divora. Le persone lì — bambini, donne, vecchi — non sono vittime. Anche quella parola è diventata troppo gentile. Sono soggetti di esperimento. Vivisezionati, esaminati, catalogati. Non in nome della scoperta, ma all’ombra dell’indifferenza totale. Gaza è stata trasformata in una gabbia — non immaginaria, non poetica, ma letterale — e al suo interno viene scatenato ogni strumento di degradazione umana: fame, bombardamenti, silenzio, isolamento, sparizione. Non in successione. Ma insieme. Simultaneamente. In modo esaustivo. Questo non è dolore. È l’industrializzazione dell’agonia. Perfino ai topi da laboratorio viene offerta la dignità dell’isolamento: un trauma per gabbia. Fame in una, paura in un’altra. Ma Gaza non è un laboratorio. È una fornace. Un sito nero. Un luogo dove le regole della sperimentazione sono crollate in un rituale di crudeltà. Le variabili non vengono più misurate. Sono armate. Le armi a Gaza non vengono usate: vengono presentate in anteprima. Il cadavere di un bambino non è un errore: è una conferma. Un dato. L’annientamento di un quartiere non è un incidente: è marketing. Il mondo non piange. Guarda. Si informa. Il missile raggiunge il bersaglio? La struttura crolla nel raggio previsto? Il cibo non è trattenuto per caos: è razionato con precisione matematica. Il gazawi non è nutrito in base a ciò che la vita richiede, ma a ciò che la morte permette. Appena abbastanza per negare il martirio, mai abbastanza per permettere significato. Non è misericordia. È manutenzione. Lo spirito umano, sospeso indefinitamente nello spazio tra il perire e il sopravvivere. E nulla di tutto questo è casuale. È sistematico. Pulito. Clinico. Gaza non è governata. È amministrata come un paziente terminale tenuto in vita per studio. Le soglie psicologiche vengono testate, non da studiosi, ma da soldati. I legami sociali vengono schiacciati sotto il peso del lutto ripetuto. Ogni urlo è registrato. Ogni silenzio annotato. Ogni sepoltura cronometrata e archiviata. E il mondo? Si volta dall’altra parte. Dà un nome a questo “conflitto”, come se sezionatore e sezionato fossero in qualche modo uguali. Come se il topo e il bisturi fossero entrambi partecipanti dello stesso esperimento. No. Questo non è un conflitto. Questa è vivisezione. E l’umanità, questa specie che osa parlare di bellezza e di eternità, guarda. Razionalizza. Va avanti. L’uomo non è ciò che immagina di essere. Non è portatore di giustizia, né creatura di verità. È, nella sua forma ultima e più autentica, il più raffinato fabbricante di sofferenza che abbia mai camminato sulla Terra. Nessuna bestia scuoia i suoi simili con tale brillantezza. Nessun diavolo è necessario. Se un giorno qualcuno chiederà: “Ma come lo sapevate?” Non risponderemo. Apriremo le mani e mostreremo ciò che resta: le ustioni sulla pelle dei nostri figli, la fame scolpita nelle ossa dei vivi, le ninne nanne che ora finiscono nel ruggito dei droni. Non diremo nulla. Perché non resta nulla da dire. Non lo abbiamo imparato. Non l’abbiamo letto nei libri. Lo abbiamo portato nei nostri corpi. Siamo diventati esso. Non c’è bisogno dei diavoli. L’uomo basta. Egli è la ferita. Egli è il coltello. Ed è lui che lo gira.”