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In che modo i sindacati in Europa possono contribuire a porre fine al genocidio di Israele a Gaza
di Samer Jaber Al Jazeera, 2 novembre 2025 Le proteste dei lavoratori sono uno strumento potente che può interrompere le catene di approvvigionamento belliche e costringere i governi ad agire. Manifestanti marciano con uno striscione in supporto alla Palestina durante uno sciopero e un corteo indetti dal sindacato CGIL nell’ambito di una giornata nazionale di mobilitazione in tutti i settori, a Ravenna, Italia, il 19 settembre 2025 [Michele Lapini/Reuters] A Gaza è in vigore un cessate il fuoco dal 10 ottobre, ma Israele non ha affatto fermato la sua brutale violenza. Nell’arco di tre settimane, ha ucciso più di 220 palestinesi. Martedì ha massacrato più di 100 persone in 24 ore. Israele continua a rifiutare di far entrare l’importo degli aiuti concordati nel cessate il fuoco. Sta bloccando materiali e attrezzature per la ricostruzione e le evacuazioni mediche su larga scala. Nella Cisgiordania occupata, i soldati e i coloni israeliani continuano ad attaccare impunemente il popolo palestinese e le sue proprietà. Dal 7 ottobre 2023 hanno ucciso più di 1.000 palestinesi, tra cui 213 bambini. Proprio il 16 ottobre, i soldati israeliani hanno ucciso un bambino di nove anni mentre giocava a calcio con gli amici. Chiaramente un cessate il fuoco non fermerà le uccisioni finché Israele riceverà sostegno politico, militare e logistico dall’Occidente per continuare la sua occupazione e colonizzazione della Palestina. Due anni di proteste di piazza in tutto il mondo hanno cercato di fare pressione sui governi affinché cambiassero la loro posizione su Israele, ma non sono riusciti a ottenere un cambiamento significativo. La mobilitazione dei lavoratori su larga scala potrebbe essere la risposta. I sindacati, in particolare in Europa, sono in una posizione unica per svolgere un ruolo centrale nel minare il sostegno dei loro governi a Israele. Dato il commercio attivo tra Israele e i paesi europei e l’importanza logistica dei loro porti, i lavoratori di molti settori potrebbero fare la differenza organizzandosi per la Palestina. Perché l’azione sindacale è uno strumento potente Negli ultimi due anni, milioni di persone hanno marciato in tutta Europa, ma i governi hanno in gran parte ignorato gli appelli a porre fine a ogni sostegno a Israele. Anche il governo irlandese, nonostante il suo sostegno esplicito ai diritti dei palestinesi, si impegna in scambi commerciali su larga scala con Israele. L’Irlanda è stata il terzo importatore di Israele nel 2024. Le marce pubbliche spesso fungono da valvola di sfogo, incanalando il dissenso e riducendo la pressione sui governi affinché cambino politica. Lo sciopero industriale, tuttavia, è diverso. I lavoratori guidano l’economia. Quando si rifiutano di svolgere i loro doveri, le conseguenze possono essere politicamente ed economicamente costose. A differenza delle marce di protesta, gli scioperi e le azioni sindacali possono paralizzare le catene di approvvigionamento, aumentare i costi di produzione e costringere a concessioni. I sindacati hanno l’esperienza organizzativa necessaria per intensificare le azioni in modo strategico, dai rallentamenti localizzati agli scioperi su scala nazionale, trasformando le perturbazioni economiche in pressioni politiche. Nelle democrazie liberali, i sindacati rimangono lo strumento più efficace attraverso il quale le persone possono costringere i governi ad agire. E ci sono molte prove di ciò nella storia recente. Ad esempio, i sindacati dei paesi occidentali hanno svolto un ruolo attivo nella sfida al regime dell’apartheid in Sudafrica. Lo  sciopero irlandese anti-apartheid ai Dunnes Stores nel luglio 1984, quando i lavoratori si rifiutarono di maneggiare le merci sudafricane per protestare contro l’apartheid, divenne una pietra miliare nella storia delle lotte operaie. Allo stesso modo, nel novembre 1984,  i lavoratori portuali di San Francisco presero posizione rifiutandosi di scaricare merci dal Sudafrica. Questi e altri esempi di azione di solidarietà da parte dei lavoratori ampliarono lo slancio del movimento anti-apartheid in Occidente, che alla fine portò i governi a imporre ufficialmente sanzioni al regime dell’apartheid. Perturbare gli scambi commerciali UE-Israele L’Unione Europea è il principale partner commerciale di Israele, rappresentandone  il 32% del commercio totale di merci nel 2024. L’UE fornisce il 34,2% delle importazioni israeliane e riceve il 28,8% delle sue esportazioni. Gran parte delle forniture militari e della logistica di Israele provengono dai paesi dell’UE. L’interruzione di questa catena di approvvigionamento potrebbe minare direttamente la macchina da guerra sionista. I porti sono punti di strozzatura critici in questa catena perché controllano il flusso di merci. Un’azione sindacale selettiva nei porti che bloccano le spedizioni da o verso Israele avrebbe un impatto significativo. Le merci israeliane rappresentano solo lo 0,8% del commercio totale dell’UE, quindi tali azioni colpirebbero duramente Israele, influenzando in minima parte le economie dell’UE. Inoltre, l’interruzione dei porti dell’UE si ripercuoterebbe oltre l’Europa. Gran parte del commercio di Israele con gli Stati Uniti, il suo principale partner commerciale con 55 miliardi di dollari di scambi di beni e servizi nel 2024, passa attraverso i principali porti europei. Bloccare i trasbordi o aumentare i costi delle merci costringendo le navi a evitare gli hub dell’UE potrebbe aumentare vertiginosamente il costo della logistica israeliana. I sindacati possono anche agire rifiutandosi di gestire le merci prodotte negli insediamenti israeliani all’interno dei territori palestinesi occupati. Oppure possono andare oltre e rifiutarsi di trattare con qualsiasi prodotto destinato a oppure proveniente da Israele. Ciò renderebbe l’impegno nel commercio con Israele piuttosto costoso per le piccole e medie imprese e società europee. In tal modo, i sindacati sosterrebbero il diritto internazionale e agirebbero in conformità con i principi stabiliti in materia di diritti umani. Data l’ampia portata che può avere l’azione di protesta dei lavoratori, i movimenti di solidarietà dovrebbero cercare di allearsi con i sindacati di tutta Europa. I gruppi di solidarietà possono concentrarsi sulla mobilitazione del sostegno pubblico, sulla promozione del boicottaggio dei consumatori e sull’educazione delle comunità sulla storia della Palestina e sulle azioni di Israele. Queste attività sostengono la legittimità, allargano la base di sostegno e mantengono la lotta palestinese nella coscienza pubblica. Nel frattempo, i sindacati possono intraprendere azioni dirette nei siti di produzione e nei porti, bloccando il flusso di merci verso Israele. L’alleanza dei movimenti di solidarietà e dei sindacati sposterebbe la lotta dalla protesta simbolica allo scontro materiale con i sistemi che sostengono la guerra di Israele. A settembre e ottobre, attivisti e lavoratori italiani hanno dimostrato quanto possa essere efficace questa azione congiunta lanciando uno sciopero nazionale per Gaza. Interessi convergenti nel settore del lavoro e dei diritti umani La guerra e la colonizzazione della Palestina da parte di Israele si basano su strette relazioni con le multinazionali, in particolare in Europa e Nord America. Molte di queste aziende sono anche i principali datori di lavoro in questi luoghi, sfruttano i lavoratori, abbassano i salari e fanno pressioni per la deregolamentazione del lavoro, mentre traggono profitto dall’occupazione e dalla guerra. Fanno pressioni sui governi affinché sostengano Israele e comprino armi e tecnologie testate sui palestinesi per utilizzarle per la sorveglianza e la repressione del loro stesso popolo. Questo crea un terreno comune per i movimenti di solidarietà e i sindacati per unirsi contro gli oppressori condivisi. Interrompendo la catena di approvvigionamento di Israele, i sindacati possono non solo indebolire il suo sforzo bellico, ma anche ritenere le aziende responsabili di dare priorità ai profitti rispetto alle vite umane, siano esse palestinesi o europee.  Tale convergenza di sforzi tra il movimento di solidarietà e i sindacati è fondamentale, soprattutto ora che Israele è passato alle becere uccisioni e alla carestia, per continuare a sterminare civili con il pretesto di un cessate il fuoco che possa placare l’indignazione globale. Abbiamo già visto questo modello di continua violenza genocida negli accordi precedentemente raggiunti, il che sottolinea perché i gesti simbolici e le promesse diplomatiche non sono sufficienti per fermare la pulizia etnica a Gaza. Solo un’azione coordinata tangibile può spezzare la macchina da guerra israeliana. I sindacati in Europa hanno il potere di fare proprio questo, interrompendo l’ancora di salvezza economica di Israele attraverso un’azione strategica di scioperi industriale. Prendendo di mira le catene di approvvigionamento che alimentano la guerra, i sindacati possono fare pressione sulle aziende complici e costringere i governi ad abbandonare la loro vuota retorica. Le proteste simboliche e i canti contro la guerra non impediranno a Israele di uccidere i bambini palestinesi. I lavoratori devono unirsi, prendere posizione e porre fine alla violenza coloniale in Palestina. Samer Jaber è un attivista politico e ricercatore, specializzato in economia politica presso la Royal Holloway, Università di Londra. È anche membro del Council for At-Risk Academics (CARA). Si concentra sul mondo arabo e sulla regione del Medio Oriente. https://www.aljazeera.com/opinions/2025/11/2/how-labour-unions-in-europe-can-help-end-israels-genocide-in-gaza Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il cessate il fuoco a Gaza è caotico per sua stessa natura: ecco perché e cosa bisogna fare
di Daniel Levy, Daniel Levi’s Substack, 23 ottobre 2025.   Daniel Levy A dieci giorni dalla visita lampo del presidente Trump in Israele ed Egitto, rimangono le immagini della messa in scena, ma il cessate il fuoco (per non parlare dei colloqui di pace) sta evidentemente e prevedibilmente vacillando. Come ho osservato qui quando il piano è stato pubblicato per la prima volta, i suoi termini “garantiscono quasi certamente che Netanyahu riprenderà a uccidere, forse all’inizio con minore intensità”. Anche prima della consueta giornata di uccisioni di massa di palestinesi del 19 ottobre, le forze israeliane avevano ucciso altre 40 persone a Gaza con sparatorie, bombardamenti e attacchi aerei, uccidendo, tra gli altri, 11 membri della famiglia Shaaban. Questo si è aggiunto alla solita discontinuità di Israele nel consentire l’ingresso dei limitati aiuti concordati. Il bilancio delle vittime del 19 è stato di due soldati israeliani e 45 palestinesi. Il cessate il fuoco ha generato un immenso sollievo: vedere gli ultimi venti israeliani detenuti a Gaza, maschi in età militare, tornare gioiosamente dai loro cari; sono stati rilasciati circa 1.950 prigionieri palestinesi (anche se alcuni sono stati costretti all’esilio), molti dei quali erano stati condannati dai tribunali militari dell’occupazione illegale di Israele, molti altri detenuti senza alcuna parvenza di procedura legale; la smisurata speranza che la popolazione palestinese di Gaza non dovesse più affrontare l’inaccettabile uccisione quotidiana, la distruzione, lo sfollamento e la fame causati dall’assalto incessante di Israele. Tutto questo è reale, anche se dolorosamente fragile. Al contrario, le affermazioni del presidente americano di aver portato la pace dopo 3.000 anni erano pura finzione. È logico che i funzionari statunitensi siano i protagonisti: il vicepresidente JD Vance era in Israele per dare seguito alla visita di Trump, così come gli inviati Steve Witkoff e Jared Kushner, con il segretario di Stato Marco Rubio che dovrebbe seguire. Dopo tutto, questa non era solo la guerra di Israele, ma anche quella degli Stati Uniti: non avrebbe potuto continuare senza la fornitura illimitata di armi americane e il sostegno politico, diplomatico ed economico ricevuto. Infatti, a riprova di questa compartecipazione, il cessate il fuoco è stato dichiarato quando l’America ha deciso che fosse il momento giusto (una decisione che il presidente Biden e il suo team si sono rifiutati di prendere nei primi 15 mesi della carneficina israeliana). Una guerra resa possibile dagli Stati Uniti ha lasciato il posto a un accordo dettato dagli Stati Uniti. I mediatori regionali che collaborano con gli Stati Uniti hanno ottenuto il consenso di Hamas a un accordo (profondamente imperfetto), creando per la prima volta la massima plausibilità intorno al punto più controverso: che questa volta Israele non avrebbe ripreso il suo assalto. Ciò è già stato messo alla prova e fallito. Israele ha tentato di annientare i negoziatori di Hamas mentre discutevano un piano di cessate il fuoco americano e ha condotto quell’attacco nel territorio sovrano del Qatar, alleato degli Stati Uniti e sede della più grande base militare americana nella regione. Israele ha così minato le relazioni degli Stati del Golfo con gli Stati Uniti. Nel frattempo, la pressione internazionale si faceva sempre più forte, Netanyahu parlava di isolamento e autarchia economica, e questo non era ben visto all’interno di Israele. Questi elementi hanno fatto da sfondo all’offerta che Trump ha fatto a Netanyahu, un’offerta che questi non poteva rifiutare. Netanyahu può parlare di vittoria, ha l’appoggio degli Stati Uniti e, in effetti, ha molto da apprezzare nel piano in 20 punti. Ma questo accordo è stato raggiunto sotto costrizione: gli obiettivi bellici di vasta portata di Israele, la sua vittoria totale, non sono stati raggiunti. Come è evidente, Hamas rimane in piedi. È militarmente indebolito, ma resiliente e sta arruolando nuove reclute. Politicamente, il suo messaggio di resistenza risuona ancora più forte. I sogni di una Gaza etnicamente ripulita che diventa una nuova riviera e di un reinsediamento sionista non si sono realizzati (almeno per ora). Le azioni di Israele dopo il cessate il fuoco dimostrano che il sogno di allontanare con la forza i palestinesi dalla “Grande Israele” esiste ancora. Nonostante le grandi dichiarazioni, non c’è alcun piano di pace, il documento in 20 punti è vuoto sotto questo aspetto. Nessuna enfasi di affermazioni grandiose può compensare questa assenza. In passato ci sono stati fastosi incontri cerimoniali (il rilancio degli sforzi di pace ad Annapolis nel 2007 sotto il presidente George W. Bush aveva visto la partecipazione di un numero maggiore di paesi e di stati membri della Lega Araba). Ma in ogni occasione di processo di pace, quando la musica si è fermata, sono sempre stati i palestinesi a rimanere a mani vuote. La natura casuale della proposta americana (nonostante gli sforzi degli stati arabi per consolidarne il contenuto) contiene i semi della sua stessa distruzione. Non c’è modo di sfuggire all’ombra proiettata dalla combinazione della mancanza di serietà degli Stati Uniti e dell’indulgenza verso l’estremismo israeliano. Questa predilezione americana è sia storica che contemporanea. L’amministrazione Trump ha già dato prova di sé: il suo precedente piano “From Peace to Prosperity” del 2020 era stato concepito con lo stesso obiettivo di consentire un regime permanente di apartheid israeliano sui palestinesi. Gli sforzi attuali stanno forse preparando una divisione di Gaza in due zone, con metà del territorio che potrebbe tornare sotto il dominio permanente di Israele. Quindi, se Trump distoglie la sua attenzione da questo dossier, Israele potrà sicuramente cavarsela, e se l’impegno degli Stati Uniti sarà predominante, Israele potrà comunque farla franca. Sì, ma: l’imprevedibilità di Trump, il suo desiderio di assumere il ruolo di pacificatore (e vincitore di premi), le relazioni personali con i leader regionali (che riflettono in parte il mutamento della mappa del potere geoeconomico globale) e le nuove fratture emerse all’interno del mondo MAGA tra America First e Israel First sono tutti fattori rilevanti e dovrebbero essere sfruttati tatticamente al massimo. Questi potrebbero offrire un’opportunità piuttosto fragile da cogliere. Altrove, la mobilitazione popolare e la pressione hanno spinto i governi occidentali alleati di Israele fuori dalla loro zona di comfort e da quella di Israele: mantenere questa spinta sarà fondamentale. Nelle ultime settimane sono stati infranti alcuni tabù. Gli Stati Uniti sono impegnati direttamente con la leadership di Hamas – cosa che avrebbe dovuto essere ovvia fin dall’inizio, ma che le amministrazioni democratiche, insieme ai governi europei, hanno palesemente omesso di fare. Sebbene sia prematuro affermare che il monopolio degli Stati Uniti come mediatore sia stato sostituito da un approccio genuinamente multilaterale, è vero che gli interventi diplomatici hanno ora un elemento più regionalizzato e internazionalizzato rispetto a quanto prevalesse in precedenza. Ciò potrebbe fare la differenza in futuro. Il piano in 20 punti non ha avuto l’effetto sperato da Netanyahu sulla politica israeliana. La sua narrativa di vittoria è stata costantemente smentita dal discorso mainstream, che ha riconosciuto che Hamas non è stato sconfitto e che ciò è costato caro a Israele in termini di reputazione e altro. Anche se le critiche interne su ciò che Israele ha fatto ai palestinesi rimangono in gran parte assenti e invisibili nei media, le vulnerabilità e le divisioni sono evidenti. Sotto molti aspetti, il contesto politico israeliano dopo il rilascio degli ostaggi è più incerto: l’effetto è stato dirompente e ci sono nuove divisioni all’interno del campo pro-Bibi. Il calcolo politico di Netanyahu continua a propendere per il mantenimento della coalizione esistente, al fine di promuovere cambiamenti vantaggiosi per la gestione del suo processo e la sua longevità politica. La società israeliana rimane frammentata. Al contrario, forse non c’è mai stata tanta chiarezza nella politica palestinese quanto alla necessità di rinnovamento, legittimazione e riunificazione delle fila. Data l’intensità dell’impegno con Hamas, l’idea che l’Autorità Palestinese guidata da Fatah a Ramallah possa rimanere rilevante facendo leva sulla divisione si è rivelata in tutta la sua assurdità. Assumere il ruolo di palestinese compiacente per ingraziarsi gli alleati di Israele rende l’Autorità Palestinese irrilevante: si può sempre trovare un collaboratore palestinese più compromesso (come in qualsiasi comunità). Se Fatah e l’OLP vogliono assumere nuovamente un ruolo attivo, sarà necessario un percorso di riunificazione con altre forze politiche e sociali, attingendo a fonti di legittimità che abbracciano il pluralismo politico e la diversità palestinese, compresa la lotta. Hamas ha affermato che le decisioni nazionali devono essere concordate da un movimento nazionale. La rappresentanza palestinese è stata l’assenza più evidente in questo presunto festival della pace. La leadership palestinese è necessaria per colmare questa lacuna. Data l’apparente confusione e incertezza nell’interpretazione degli eventi attuali, nel rapportarsi a questo fragile piano e nel valutare cosa si possa fare, di seguito si tenta qui di chiarire alcune questioni chiave. 1. Mantenere il cessate il fuoco o creare il caos Se c’è qualcosa di utile da trarre dal vertice di Sharm El-Sheikh e dalle apparizioni di Trump alla Knesset, è l’aver sottolineato chiaramente a Israele che la guerra è finita e che il cessate il fuoco reggerà. Israele ha violato i precedenti cessate il fuoco, Netanyahu continua a parlare il linguaggio della guerra e ha mantenuto una coalizione che esiste sulla base di una premessa di aggressione permanente e di massimalismo nei confronti dei palestinesi (anche in Cisgiordania ci sono molte opportunità per farlo). Un atto di sostegno a Trump da parte di 26 leader riuniti a Sharm (inoltre, curiosamente, era presente anche il presidente della FIFA Gianni Infantino: il calcio avrà uno suo stato ancor prima dei palestinesi?). Quei leader erano lì sia per ingraziarsi il capriccioso leader americano, sia (e questo è meno umiliante) per rafforzare la percezione di un momento di grande importanza: la fine di una guerra. Questo risponde in parte alla domanda su come sia stato raggiunto questo cessate il fuoco: Hamas è stato messo sotto pressione, ma doveva ancora essere convinto che l’impegno al cessate il fuoco fosse il più plausibile possibile. Ciò poteva essere facilmente ottenuto dagli Stati Uniti, disposti a usare la loro considerevole influenza materiale su Israele. Ma non lo vogliono fare. Pertanto, la cosa più vicina a una garanzia era creare questa percezione. Il problema, come è già molto evidente, è che i termini fragili dell’accordo – intenzionali da parte dei suoi autori israeliani (e presumibilmente anche di alcuni dei loro accoliti americani) – lasciano ampio margine di manovra per l’interpretazione, per il proseguimento degli interventi militari letali dell’IDF e per minare qualsiasi prospettiva di vero miglioramento per i palestinesi a Gaza. Anche Hamas può trarre alcuni vantaggi da questa situazione: i dettami esterni palesemente illegittimi sono più facili da respingere e le ultime minacce di Trump sono vuote, le bande sostenute da Israele sono particolarmente impopolari e, se il caos è la norma, il ritorno delle strutture di Hamas sarà più facilmente accettato dall’opinione pubblica. Rifiutando di impegnarsi in modo pragmatico e realistico, che tenga realmente conto degli interessi, delle libertà e dei diritti dei palestinesi, o addirittura delle esigenze di governance e sicurezza a Gaza, il piano degli Stati Uniti (e la sua parzialità) ha una stabilità strutturale intrinseca garantita. Questo è conveniente per Israele. Esso intende rendere permanente la presenza militare dell’IDF in metà di Gaza e rafforzare il suo sostegno alle bande armate e alle milizie per fomentare il disordine. Quindi, anche se la soglia per un ritorno alle uccisioni di massa e alla devastazione potrebbe essere stata alzata, si continuano a registrare vittime palestinesi ogni giorno. In molte zone precedentemente densamente popolate da palestinesi prima della distruzione e dello sfollamento, le forze israeliane rimangono in alcune parti delle città e dei quartieri, creando punti di attrito molto evidenti e immediati. Poiché non esiste un piano serio con qualche partecipazione palestinese per il futuro governo, il caos è la norma. Per Israele, è la soluzione preferibile. L’unica opzione per colmare quel vuoto è la presenza delle forze di polizia civile associate alle precedenti istituzioni governative di Hamas (che sono state presenti sporadicamente). I palestinesi hanno dimostrato una notevole resilienza e gli schemi israeliani tendono a generare ripercussioni altamente prevedibili. Hamas ha dimostrato che, nonostante le perdite subite, è in grado di riaffermare la propria presenza sul territorio. Mentre Israele potrebbe cercare di creare zone di controllo per le bande che sta armando e tentare di schierare quelle milizie come forza destabilizzante, è molto improbabile che i palestinesi si offrano volontari per vivere nelle zone controllate da Israele (anche se Jared Kushner sembra ora benedire un piano di questo tipo per le zone di costruzione, presumibilmente con molti contratti lucrativi per l’edilizia e le forniture da assegnare). Hamas ha da tempo accettato (anche prima del 2023) di fare un passo indietro dal governo di Gaza e ha discusso con i mediatori una formula per la consegna di alcune armi a una struttura palestinese legittima che ne prenda il posto e per il non aumento di altre armi. Non ci si può aspettare che Hamas deponga le armi: la resistenza non si arrende quando è ancora in atto un’occupazione armata illegale. Israele sembra perseguire una politica di promozione della guerra civile (che non è nuova, vedi Libano e Siria). Il rilascio di 20 israeliani vivi in un accordo dopo lunghi mesi in cui Israele ha tentato senza successo di lanciare operazioni di salvataggio, senza defezioni o tradimenti da parte dei gruppi di resistenza armata che detenevano gli israeliani (tra cui anche la Jihad islamica palestinese), e dopo due anni di assedio israeliano, sono tutte prove della resistenza di Hamas che non dovrebbero essere prese alla leggera. Tuttavia, Israele e gli Stati Uniti hanno finora rifiutato il tipo di realismo necessario e dimostrato in altri conflitti che coinvolgono la resistenza armata contro l’occupazione. Al contrario, hanno cercato di imporre strutture di governance esterne in stile coloniale, con al massimo una manciata di palestinesi cooptati. Una questione da affrontare nei prossimi giorni e settimane è se il tentativo di creare una Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) possa essere un’alternativa a questa traiettoria di caos. 2. La Forza Internazionale di Stabilizzazione (ISF) Una questione che ha dato luogo a intensi contatti diplomatici nell’ultima settimana è quella della creazione di una ISF. Nel piano, l’ISF ha il compito di garantire la sicurezza delle zone di confine, impedire l’ingresso di munizioni a Gaza e addestrare la polizia palestinese. Non fa riferimento a ciò che è più necessario in una forza di questo tipo, ovvero proteggere i palestinesi e fungere da deterrente contro nuove uccisioni e incursioni israeliane. Ciò non sorprende: è in linea con l’indifferenza generale nei confronti della vita dei palestinesi manifestata nel piano in 20 punti, che è anche una costante bipartisan della politica americana. L’ISF è descritta come la chiave per sbloccare l’ulteriore ritiro delle forze di occupazione israeliane da oltre il 50% di Gaza, che continuano a controllare direttamente. La demarcazione fisica di questa cosiddetta linea gialla implica che le forze israeliane non si ritireranno a breve. Un mandato e una struttura costruttivi dell’ISF potrebbero servire da precedente per la Cisgiordania. E questi sono proprio i motivi per cui Israele non è entusiasta. Mi risulta che tali dettagli siano attualmente in fase di discussione, sotto la guida del comandante statunitense del CENTCOM, l’ammiraglio Brad Cooper, in consultazione con le parti regionali e con quelli che vengono pubblicizzati come i principali contributori, l’Indonesia (il cui presidente ha apertamente parlato di inviare 20.000 soldati) e forse l’Azerbaigian. Sappiamo che gli Stati Uniti hanno 200 soldati in Israele, non a Gaza, e che altri stati invierebbero un contingente principalmente per addestramento, coordinamento e missioni specifiche, piuttosto che per grandi dispiegamenti. L’Egitto svolgerà senza dubbio un ruolo di primo piano. E nonostante tutti i discorsi sulla presenza regionale, qualsiasi contributo da parte del Golfo, della Giordania o di altri paesi, compresa la Turchia, sarà limitato in termini di dimensioni e mandato. Il fatto che il Centro di Coordinamento Civile-Militare (CMCC) abbia sede in Israele è un indizio piuttosto evidente su chi darà le indicazioni agli americani. Ad esempio, durante la sua visita, il vicepresidente degli Stati Uniti JD Vance ha potuto “vedere Gaza” attraverso gli occhi della sorveglianza con droni israeliani/statunitensi nella struttura del CMCC a Kiryat Gat (non aveva davvero bisogno di volare per più di 10 ore dalla Beltway di Washington per farlo). Se l’Indonesia stabilisce canali di comunicazione con Israele come parte di un mandato costruttivo dell’ISF, ciò non dovrebbe essere confuso con la normalizzazione (anche se quest’ultima sarà la versione ufficiale), ma ci sono altri modi in cui questo potrebbe svolgersi con l’Indonesia che sarebbero inutili sia per la politica interna della leadership di Giacarta sia perché invierebbero un segnale sbagliato di impunità a Israele. Una questione è se la forza sarà soggetta al mandato del Consiglio di Sicurezza dell’ONU o almeno avrà l’approvazione del Consiglio, oppure se il consenso dell’ONU sarà respinto (come è successo con la Forza Multinazionale e gli Osservatori (MFO) nel Sinai). Si potrebbero raggiungere accordi consecutivi con Hamas riguardo al ruolo dell’ISF (in linea con quanto descritto al punto 1 sopra). Ma se il mandato della forza è quello di disarmare Hamas, allora il suo destino di sanguinoso fallimento sarà segnato, ed è proprio questo che vuole il governo israeliano. Nonostante le indicazioni contrarie, l’IDF non lascerà le zone di Gaza che ha rioccupato per far posto a una ISF. La questione dell’ISF merita di essere seguita con attenzione: prenderà forma e, in tal caso, sarà un ulteriore livello di occupazione dei palestinesi o sarà una forza in grado di agire in conformità con il progresso del diritto internazionale e la protezione dei palestinesi? 3. Aiuti a Gaza Durante i due anni di assalto alla popolazione civile palestinese, Israele ha impedito e strumentalizzato gli aiuti e l’assistenza, mentendo incessantemente al riguardo. Non sorprende quindi che Israele abbia insistito per continuare a controllare quali materiali e quali aiuti possono entrare a Gaza e in che quantità. Nel giro di pochi giorni, Israele ha rinnegato anche gli accordi concordati nel piano in 20 punti. Il fatto che solo sotto la pressione di questo accordo il governo israeliano abbia accettato l’ingresso degli aiuti ha rivelato (ancora una volta) che quando Israele affermava di non impedire gli aiuti (e incolpava Hamas), e quando tali affermazioni venivano fedelmente riprese dai media occidentali, si trattava solo di una campagna di disinformazione. Già molto prima dell’ottobre 2023, la strategia di Israele era stata quella di punire collettivamente l’intera popolazione di Gaza, riducendo o aumentando (anche se invariabilmente riducendo) ciò che era consentito entrare in quel territorio. Il suo modus operandi è quello di mettere in atto un gioco ben collaudato che consente ai governi donatori internazionali di erogare aiuti (e di dire ai propri cittadini: “Guardate, stiamo aiutando”) in cambio dell’indulgenza nei confronti delle continue azioni illegali di Israele nei territori palestinesi occupati. Questa è stata la storia di oltre un decennio e mezzo di blocco su Gaza dal 2007. L’attuale sforzo è volto a riportare in scena uno spettacolo che non merita di essere replicato. La crudeltà utilizzata come arma per impedire l’accesso a Gaza di beni di prima necessità ha raggiunto nuovi livelli con la creazione della Gaza Humanitarian Foundation (GHF). Sebbene la GHF sia stata smascherata come un’organizzazione criminale che lucra sul genocidio e lo rende possibile, né la leadership israeliana né i beneficiari del settore privato della GHF sono disposti a rinunciarvi senza lottare. È stato annunciato che Mike Eisenberg (fondatore israelo-americano della GHF) è stato nominato – apparentemente sia dagli Stati Uniti che da Israele – come rappresentante presso il centro di comando statunitense che supervisiona l’accordo su Gaza. È possibile che nelle zone di Gaza controllate da Israele si tenti di attirare i palestinesi consentendo l’accesso a scorte di beni e progetti di ricostruzione che non possono raggiungere la “Gaza non occupata” – anche se la disposizione intrinseca di disumanità nei confronti dei palestinesi garantisce che tali schemi avranno un’efficacia, un’attrattiva e una longevità molto limitate. Sul fronte degli aiuti, la necessità non potrebbe essere più chiara: l’accesso a ciò che è necessario a Gaza – in termini di assistenza umanitaria, forniture di base, medicinali, materiali per la ricostruzione e persino riparo durante i mesi invernali – deve essere garantito al di fuori del controllo israeliano. Tutti gli stati coinvolti nello sforzo di aiuto che affermano di dare priorità al benessere dei palestinesi dovrebbero insistere su questo unico principio. Le affermazioni israeliane sul doppio uso e sui prerequisiti di sicurezza sono una scusa, e qualsiasi preoccupazione reale può essere gestita efficacemente da terzi senza l’interferenza di Israele. In un contesto del genere, si dovrebbero perseguire le vie più efficaci per distribuire gli aiuti e riprendere l’attività economica, sia attraverso il confine egiziano, sia creando strutture portuali o piste di atterraggio a Gaza che non siano sotto il controllo israeliano. La questione qui non è logistica, ma (insieme alla maggior parte delle questioni chiave da affrontare) è una questione di volontà politica di opporsi alle prepotenze israeliane. 4. Responsabilità Quando una situazione di conflitto evolve, spesso verso una pace iniziale molto fragile, la questione della responsabilità può rappresentare un dilemma: cercare giustizia oppure voltare pagina e non guardare indietro. Per affrontare questo problema sono state sperimentate diverse modalità nei contesti post-bellici, come i processi di giustizia transitoria o di verità e riconciliazione. Questo dilemma non è in gioco in questo caso: Palestina/Israele non è uno scenario post-bellico. È proprio l’assenza di responsabilità, l’assoluta impunità e l’eccezionalità applicate a Israele che hanno portato a questa catastrofe e all’estremismo. Quindi, la responsabilizzazione è importante, non solo perché influisce sulla struttura degli incentivi israeliani, ma anche perché l’assenza di responsabilità normalizza questo livello di crimini di guerra. Ciò che è inequivocabilmente mancato in tutti i discorsi sul cessate il fuoco è la responsabilità. C’è una spinta determinata ad andare avanti, come se non ci fosse nulla da vedere, una negazione di ciò che è successo o del fatto che i responsabili abbiano qualcosa da rispondere o da risarcire. In realtà, la disumanizzazione dei palestinesi continua e, di conseguenza, continua anche a gettare le basi per ulteriori crudeltà e criminalità. La sicurezza è ancora considerata come qualcosa di cui solo gli israeliani sono degni. Garantire la restituzione di tutti i corpi degli israeliani uccisi è assolutamente una cosa degna. La restituzione dei corpi dei palestinesi detenuti da Israele, compresi molti che sono stati mutilati, riceve scarsa o nessuna attenzione. Mentre Trump ha giustamente e lodevolmente incontrato in più occasioni le famiglie degli israeliani trattenuti a Gaza, non risulta che alcun alto funzionario americano abbia incontrato un sopravvissuto palestinese alle atrocità di Gaza o le famiglie colpite dal massacro. I media occidentali continuano a non poter entrare a Gaza e in gran parte non riescono a coinvolgere adeguatamente i giornalisti locali. Il mancato rispetto della responsabilità va ben oltre i confini dello spazio palestinese/israeliano. Sta minando l’edificio già fatiscente dell’architettura internazionale per il rispetto delle leggi, delle carte e delle convenzioni – in altre parole, per la protezione delle persone in tutto il mondo. Il centro dell’attività dovrebbe essere proprio in quegli spazi in cui la spinta alla continua impunità è più attiva, in particolare contro la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e la Corte Penale Internazionale (ICC) e l’attuazione delle loro sentenze. Il mandato di arresto dell’ICC contro Netanyahu dovrebbe avere importanza. Le violazioni da parte di Israele non solo del parere della Corte Internazionale di Giustizia del 19 luglio 2024 sull’illegalità dell’occupazione nella sua interezza, ma anche delle misure provvisorie disposte nel caso di genocidio sollevato dal Sudafrica e il proseguimento di tale caso sono gli aspetti su cui dovrebbe essere mobilitata la pressione pubblica (in particolare, la complicità di stati terzi). Il 22 ottobre, la Corte Internazionale di Giustizia ha emesso un’altra importante sentenza che ordinava a Israele di agevolare, anziché impedire, all’UNRWA e ad altre agenzie delle Nazioni Unite di fornire assistenza umanitaria, soccorsi e altro aiuto a Gaza. Il rispetto di tutte queste sentenze è ciò che il Gruppo dell’Aia è stato istituito per promuovere. Ciò dovrebbe valere anche per la questione del risarcimento; è la regola di Colin Powell: chi rompe paga. Israele ha rotto il vaso, Israele dovrebbe pagare per ripararlo. E anche se ciò è improbabile nel prossimo futuro, è importante perché mette Israele sulla difensiva e può creare una leva di pressione, piuttosto che accettare a priori la supremazia di Netanyahu nel dettare ciò che accadrà in seguito. 5. Una riflessione finale Nella diplomazia sembra emergere una linea di frattura intorno a questo piano. I palestinesi non hanno una leadership efficace o unificata per sostenere la loro causa nei circoli governativi. Altri stati hanno le loro priorità nei confronti dell’amministrazione statunitense. Alcune delle parti regionali coinvolte comprendono i difetti di ciò che viene proposto e cercheranno, in parte, di mitigarli. Anche operando nell’ambito di un piano americano estremamente problematico, alcuni stanno dando la priorità al consolidamento del cessate il fuoco, impedendo il ritorno alle uccisioni, ottenendo aiuti e cercando di trovare una modalità che renda possibile che l’IDF si ritiri e che la Cisgiordania occupata e Gerusalemme Est non vengano dimenticate. Ma questa non è la visione degli Stati Uniti e di Israele, che stanno guidando questo piano. L’intenzione è sempre più trasparente e consiste in quanto segue: cercare di mantenere le zone non controllate dall’IDF invivibili per i palestinesi con uccisioni sporadiche, caos e incoraggiamento alla guerra civile (se ciò porta a uno sfollamento di massa dei palestinesi fuori da Gaza, tanto meglio); tentare di creare zone economiche e residenziali controllate dall’IDF o da una possibile futura ISF sotto una combinazione di governance coloniale esterna e palestinese collaborazionista (nonostante la sua cooptazione da parte di Israele, l’Autorità Palestinese conserva ancora un riflesso nazionalista tendente alla liberazione ed è quindi considerata un partner inaccettabile). Questo modello potrebbe forse essere replicato in seguito in Cisgiordania e, nel frattempo, consentirà alle aziende private e agli individui ben collegati, secondo il modello GHF, di continuare a trarre profitto dalla guerra. All’interno di questo modello esistono divisioni tra i falchi israeliani, che lo vedono come un punto di partenza per riprendere il genocidio, e i falchi americani, che si accontentano di un ritorno all’apartheid e del restringimento dei bantustan palestinesi. In futuro, se ci sarà un governo israeliano disposto a dare ai bantustan palestinesi un upgrade nella nomenclatura (uno stato minus?), allora la spinta alla normalizzazione riprenderà a pieno ritmo. Se questo riflette più o meno lo stato attuale delle cose, allora la posizione alternativa è più facile da delineare. Essa consisterà nell’esporre ciò che sta realmente accadendo: mantenere e intensificare la pressione pubblica sui governi affinché sfidino l’impunità israeliana; lavorare per aumentare le divisioni e la messa in discussione di questo approccio all’interno di Israele; e sostenere una politica palestinese più unita e in grado di contrastare al meglio tali macchinazioni. Sebbene la forza della posizione degli Stati Uniti e di Israele sembri difficile da contestare, non bisogna sottovalutare la loro capacità di arroganza, eccessi e errata interpretazione della realtà sul campo. E le tensioni occasionali tra Stati Uniti e Israele possono essere incentivate e utilizzate. Come si è visto con la GHF, le strutture create da Israele sono incapaci di trattare i palestinesi in modo umano, e queste zone non avranno successo. L’aggressione di Israele in Cisgiordania ha raggiunto un’intensità feroce che non passerà inosservata. Il 22 ottobre, la Knesset israeliana ha approvato in via preliminare una legge per annettere il territorio palestinese (sostenuta dalla parte sionista dell’opposizione cosiddetta “più moderata”). Queste e altre misure continueranno a suscitare l’opposizione popolare a livello globale e locale. I governi regionali possono piegarsi alla volontà degli Stati Uniti, ma non rischieranno le proprie strutture di consenso sociale appoggiando ulteriori massacri o riprendendo una normalizzazione prematura. E, soprattutto, la resilienza palestinese non è stata sconfitta. Sarebbe imprudente prendere alla lettera i tentativi israeliani di proiettare un’immagine di invincibilità. Il prossimo capitolo deve ancora essere scritto: è ingenuo supporre che gli attuali detentori del potere siano inattaccabili o immuni alle pressioni e ai cambiamenti. https://daniellevy2.substack.com/p/the-gaza-ceasefire-is-chaotic-by Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
A Gaza non si torna a scuola – per il terzo anno consecutivo
di Sara Awad,  Palestine Deep Dive, 15 ottobre, 2025.   Mentre i bambini di tutto il mondo si preparano a iniziare una nuova stagione scolastica, con nuove uniformi, cestini per il pranzo, borse, agli studenti di Gaza viene negato il diritto all’istruzione per il terzo anno di seguito. Non c’è un “ritorno a scuola” per i bambini della Striscia di Gaza. Sono intrappolati. I bambini qui non sono in grado di iniziare il percorso scolastico, non per scelta, ma per quella che è sembrata essere una guerra infinita e una negazione ciclica. La dichiarazione di cessate il fuoco degli ultimi giorni non cambierà significativamente la situazione. Dall’inizio di questa guerra, il 95% delle scuole, e tutti i college e le università, sono stati distrutti o trasformati in rifugi per le famiglie sfollate. Secondo le Nazioni Unite, più di 600.000 bambini non hanno accesso ai sistemi educativi. Oltre l’80% delle persone uccise dagli israeliani sono donne e bambini, con quasi 70.000 morti accertati. Semplicemente non sappiamo quante migliaia di bambini in età scolare siano stati uccisi sotto le macerie. Un ragazzo seduto tra le macerie di una scuola dell’UNRWA distrutta a Nuseirat, nelle Aree Centrali. Crediti: UNRWA© 2024 Anche se le scuole sono ancora in piedi – il che è molto raro – non sono un ambiente favorevole all’apprendimento degli studenti. Le aule si stanno trasformando in “case” per le famiglie sfollate. I campus sono pieni di tende di fortuna e di altri bisogni degli sfollati. L’istruzione in questo ambiente orribile sembra impossibile. Un’intera generazione non sa cosa significhi scuola Molti bambini stanno crescendo nel bel mezzo di questa guerra, e ancora non sanno o non capiscono cosa significhi la scuola. Non sanno cosa si prova a sedersi in un’aula, a imparare da un insegnante, ad avere una giornata piena di attività invece di soffrire. Invece di giocare nel campus scolastico, fanno lunghe file solo per avere acqua pulita. Non sanno nemmeno quale anno scolastico dovrebbero frequentare. Per quanto mi riguarda, quando guardo il mio fratellino Yamen – che è cresciuto di due anni durante questa guerra – mi viene da piangere. Voglio proteggerlo da ciò che Israele sta facendo a lui e a tutti i bambini qui. Ha solo cinque anni e ancora non sa cosa sia l’asilo. Non capisce cosa dovrebbe essere la scuola. È straziante vedere un’intera generazione crescere all’interno di un rifugio e sentirsi completamente impotente nell’impedire che accada. Yamen dovrebbe imparare a scrivere il suo nome, a dipingere, a farsi degli amici. Ma invece di godersi quelle cose belle e semplici, passa le sue giornate a inseguire i droni con confusione, parlando di bombe e incubi, non di storie o di amici. Tanti bambini qui sono come Yamen. Non hanno idea di come sia l’istruzione. Niente aule. Niente libri. Nessun insegnante. Questa guerra ci è costata più delle case e degli edifici. Ha rubato l’infanzia, cancellato il futuro e sepolto i sogni. Il costo è molto più alto di quanto chiunque possa immaginare. Una negazione deliberata Questa guerra non solo ha privato i bambini dell’istruzione, va oltre questo. Gli israeliani hanno deliberatamente privato la nostra società di avere una nuova generazione di cittadini istruiti. C’è stato uno sforzo sistemico per mettere a tacere, indebolire e abusare del nostro popolo e per trasformare Gaza in una società analfabeta. Gaza ha avuto a lungo uno dei più alti tassi di persone istruite nel mondo arabo, ma ora deve affrontare il più alto numero di studenti esclusi da scuole e università. Le azioni israeliane hanno deliberatamente negato agli studenti l’accesso all’apprendimento e all’istruzione. Senza scuole e senza un miglioramento dei tassi di generazione, Gaza dovrà affrontare molti ostacoli, ed è così che Israele vuole che siamo. Cosa può essere un futuro quando i nostri figli vengono sfollati piuttosto che istruiti per il terzo anno consecutivo? In quale paese questo accade? In nessun luogo. Solo qui. Solo a Gaza. Scuola dell’UNRWA trasformata in rifugio a Nuseirat, nelle Aree Centrali, dopo essere stata colpita. Crediti: UNRWA© 2024 Un tempo congelato per una generazione diversa Questa catastrofe non ha colpito solo i bambini di Gaza, ma ha anche rubato il futuro degli studenti delle scuole superiori. I loro esami finali, noti come Tawjihi, sono sospesi dal 2023, lasciando il loro futuro congelato nel tempo. Questi studenti sono intrappolati in un percorso educativo incerto. A Gaza, il Tawjihi è considerato la fase più cruciale e decisiva dell’apprendimento prima dell’università. Due generazioni di studenti delle scuole superiori vivono con ansia e confusione riguardo al loro percorso accademico e al loro futuro. Quasi 40.000 studenti sono stati privati degli esami di scuola superiore. Gli studenti dovrebbero entrare al college e sperimentare la vita universitaria, fare nuove amicizie e costruire sogni. Ma la verità è che sono ancora bloccati in attesa di completare un diploma di scuola superiore da oltre due anni. La vita va avanti, e poiché i primi giorni di un cessate il fuoco forniscono almeno un po’ di speranza, stanno ancora aspettando il prossimo passo verso i loro studi. Tuttavia, se sono fortunati e hanno la possibilità di iscriversi agli esami e superare l’anno, continueranno ad affrontare una serie di difficoltà e lotte. L’accesso a Internet è l’ostacolo più semplice e lo spostamento è il più grande. Ma la tragedia non finisce con i bambini o gli studenti delle scuole superiori. Anche gli studenti universitari di Gaza hanno assistito al furto del loro futuro. Io sono una degli studenti, così come anche i miei amici. Abbiamo perso più di un anno del nostro programma di laurea, non perché abbiamo fallito, ma perché abbiamo sperimentato le peggiori condizioni del mondo. Una guerra. I danni all’Università islamica di Gaza dopo che è stata colpita in un attacco israeliano durante la notte. Crediti: Sipa tramite AP Images “Non avrei mai immaginato che il mio percorso universitario si sarebbe trasformato in sofferenza invece che in gioia”, mi ha detto la mia migliore amica Huda. Solo i fortunati, coloro che possono ancora accedere a una connessione internet e a un angolo tranquillo dove concentrarsi e studiare possono continuare i loro studi. Ma sono molto pochi, poiché la maggior parte di noi vive in situazioni inimmaginabili. Non c’è alcuna garanzia di elettricità. Non ci sono materiali di studio, nessuna connessione internet stabile. Gli studi online che sono continuati durante l’assedio non sono considerabili una vera compensazione per tutte le altre opportunità che ci sono state tolte. Alcuni fortunati sono stati preparati per la laurea, altri hanno aspettato l’apertura di una borsa di studio. Ora va fatto tutto al riparo. La nostra università – l’Università islamica di Gaza – è completamente distrutta e la maggior parte del suo personale accademico è stato ucciso durante la guerra in corso. Professori, ricercatori e altro personale sono uccisi o soffrono a causa di questa tragica guerra. Questo è il terzo anno senza ritorno a scuola. Ma la vera domanda è: quanti anni aspetteremo ancora per tornare a scuola? Per tornare alla vita? Mentre gli studenti di tutto il mondo tornano nelle loro aule, per favore non dimenticate gli studenti di Gaza che stanno aspettando, non solo di studiare, ma di vivere. https://www.palestinedeepdive.com/p/no-back-to-school-in-gaza-for-the-third-year-in-a-row Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Non c’è mai stata una “guerra” a Gaza. Il “cessate il fuoco” è una bugia dello stesso stampo
di Jonathan Cook,  Middle East Eye, 17 ottobre 2025.     Il “piano di pace” di Trump è destinato al fallimento. Nessun popolo nella storia si è mai rassegnato alla servitù e all’oppressione permanente. I palestinesi non saranno da meno. Una veduta degli edifici distrutti, durante il cessate il fuoco tra Israele e Hamas, nella città di Gaza il 16 ottobre 2025. (Reuters) I cessate il fuoco reggono perché le due parti in guerra hanno raggiunto una situazione di stallo militare o perché gli incentivi per ciascuna parte a deporre le armi superano quelli a continuare lo spargimento di sangue. Nulla di tutto ciò si applica a Gaza. Gli ultimi due anni nell’enclave sono stati molte cose. Ma l’unica cosa che non sono stati è una guerra, qualunque cosa i politici e i media occidentali vogliano farci credere. Ciò significa che l’attuale narrativa di un “cessate il fuoco” è una menzogna tanto quanto la precedente narrativa di una “guerra di Gaza”. Il cessate il fuoco non è “fragile”, come ci viene continuamente detto. È inesistente, come dimostrano le continue violazioni da parte di Israele, dai suoi soldati che continuano a uccidere civili palestinesi al blocco degli aiuti promessi. Cosa sta succedendo realmente? Per comprendere il “cessate il fuoco” e il “piano di pace” in 20 punti del presidente degli Stati Uniti Donald Trump, ancora più illusorio, dobbiamo prima capire cosa si nascondeva dietro la precedente retorica della “guerra”. Negli ultimi 24 mesi abbiamo assistito a qualcosa di profondamente sinistro. Abbiamo assistito al massacro indiscriminato di una popolazione in gran parte civile, già sotto assedio da 17 anni, da parte di Israele, un colosso militare regionale sostenuto e armato dal colosso militare globale degli Stati Uniti. Abbiamo assistito alla distruzione di quasi tutte le case di Gaza, che era già diventata un campo di concentramento per la sua popolazione. Le famiglie sono state costrette a vivere in tende di fortuna, come era già successo decenni fa quando erano state espulse con la forza delle armi dalle loro terre in quello che oggi è Israele. Ma questa volta sono state esposte a una miscela tossica composta dalle macerie delle loro ex case e dai materiali esauriti di bombe pari a molte Hiroshima sganciate sull’enclave. Abbiamo assistito a una popolazione prigioniera affamata per mesi e mesi, in quella che, nella visione più generosa, è stata una politica palese di punizione collettiva, un crimine contro l’umanità per il quale il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu è perseguito dalla Corte Penale Internazionale. Centinaia di migliaia di bambini a Gaza hanno subito danni fisici, oltre al trauma psicologico, a causa di una malnutrizione che ha alterato il loro DNA, danni che molto probabilmente saranno trasmessi alle generazioni future. Abbiamo assistito allo smantellamento sistematico degli ospedali di Gaza, uno dopo l’altro, fino a quando l’intero settore sanitario è stato svuotato, incapace di far fronte sia al flusso di feriti che alla crescente ondata di bambini malnutriti. Abbiamo assistito a operazioni di pulizia etnica su larga scala, in cui le famiglie – o ciò che ne restava – sono state cacciate dalle “zone di morte” verso aree che Israele definiva “zone sicure”, solo per vedere quelle zone sicure trasformarsi rapidamente, senza alcuna dichiarazione, in nuove zone di morte. E mentre Trump aumentava la pressione per un “cessate il fuoco”, abbiamo assistito a un’orgia di violenza da parte di Israele, che ha distrutto quanto più possibile di Gaza City prima della scadenza del termine per fermarsi. La retorica della “guerra di Gaza” Niente di tutto questo può, o dovrebbe, essere descritto come una guerra. Le Nazioni Unite, tutte le principali organizzazioni per i diritti umani del mondo, compresa l’israeliana B’Tselem, e il principale organismo mondiale di studiosi di genocidio concordano sul fatto che ciò che è accaduto a Gaza soddisfa la definizione di genocidio, come stabilito dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul Genocidio, ratificata da Israele, Stati Uniti, Gran Bretagna e Unione Europea. Ciononostante, la retorica di Israele e dell’Occidente sulla “guerra” è stata fondamentale per vendere all’opinione pubblica occidentale una retorica altrettanto disonesta sul “cessate il fuoco” e sulle speranze di “pace”. La menzogna dell’attuale cessate il fuoco è la controparte della menzogna sulla “guerra di Gaza” che ci è stata raccontata negli ultimi due anni. L’inquadramento serve esattamente allo stesso scopo: mascherare gli obiettivi più ampi di Israele. Martedì, nel bel mezzo del “cessate il fuoco”, mentre venivano scambiati i corpi di israeliani e palestinesi, Israele uccideva altri palestinesi. Il Financial Times è stato tra i media che hanno riportato la notizia che i soldati israeliani avevano ucciso “diversi” palestinesi quel giorno. In precedenza, i soldati israeliani avevano pubblicato dei video mentre si ritiravano dalla città di Gaza, dando fuoco alle case, alle scorte di cibo e a un importante impianto di trattamento delle acque reflue. In altre parole, Israele non ha mai avuto alcuna intenzione di cessare il fuoco. Si tratta di uno schema familiare. Israele ha ucciso almeno 170 palestinesi durante un precedente “cessate il fuoco” negoziato da Trump a gennaio, che poi ha unilateralmente interrotto poche settimane dopo per poter riprendere il genocidio. E in Libano, dove dovrebbe essere in vigore da un anno un cessate il fuoco supervisionato da Stati Uniti e Francia, Israele ha violato le sue condizioni più di 4.500 volte. Come ha osservato l’ex ambasciatore britannico Craig Murray a proposito del periodo di cessate il fuoco, Israele “ha ucciso centinaia di persone, compresi neonati, ha demolito decine di migliaia di case e ha annesso cinque zone del Libano”. Qualcuno immagina che Gaza, un minuscolo territorio senza un esercito né le caratteristiche di uno stato, possa avere sorte migliore del Libano sotto un cessate il fuoco israeliano? La farsa del cessate il fuoco Il cessate il fuoco può essere una tregua temporanea nell’assalto genocida di Israele a Gaza, durato due anni, ma non fa nulla per porre fine all’occupazione decennale dei territori palestinesi da parte di Israele, che è la causa scatenante della “guerra”. L’occupazione continua. Inoltre, non fa nulla per porre fine al sistema di apartheid israeliano nei confronti dei palestinesi, giudicato illegale dalla più alta corte mondiale lo scorso anno. In quell’occasione, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) ha chiesto a Israele di ritirarsi immediatamente dai territori palestinesi occupati, compresa Gaza, e ha chiesto agli altri stati di esercitare pressioni affinché ciò avvenga. L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha dato a Israele tempo fino al mese scorso per ottemperare alla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia. Israele non solo ha ignorato tale scadenza, ma anche durante l’attuale “cessate il fuoco” i soldati israeliani continuano a essere di stanza in più della metà di Gaza. Inoltre, naturalmente, Israele continua a controllare tutto il territorio di Gaza a distanza attraverso i suoi droni spia, i droni d’attacco e i jet da combattimento, la tecnologia di sorveglianza e i blocchi terrestri e navali. Dovrebbe essere ovvio che uno stato deciso al genocidio non ha motivo di fermare il proprio genocidio a meno che non sia costretto a farlo da una parte più forte. Trump ha calcato la scena mondiale fingendo di fare proprio questo, esercitando pressioni su Israele e Hamas. Ma solo i creduloni – e la classe politica e mediatica occidentale – cadono in questa farsa. Il “cessate il fuoco” non è “fragile”. È stato creato per fallire, non per fornire un percorso verso la pace. Il suo vero scopo è quello di fornire a Israele un nuovo mandato per rinnovare il genocidio. Prigionieri disumanizzati Per decenni, i palestinesi sono stati costretti a vivere in una situazione senza via d’uscita: dannati se lo fanno, dannati se non lo fanno. Qualsiasi resistenza alla loro brutale occupazione porta al massacro – o al “taglio dell’erba”, come lo definisce Israele – e alla loro designazione come “terroristi”. Ma una politica di non resistenza, come quella perseguita dall’Autorità Palestinese di Mahmoud Abbas in Cisgiordania, lascia i palestinesi in balìa di se stessi, costretti a vivere come prigionieri permanenti e disumanizzati sotto il dominio israeliano, ammassati in riserve sempre più ristrette, mentre le milizie ebraiche hanno il permesso di costruire insediamenti sulla loro terra. Lo stesso tipo di falsa “scelta” è al centro dell’attuale “cessate il fuoco”. Hamas ha ottenuto uno scambio di ostaggi – dopo che migliaia di palestinesi sono stati catturati per strada (e altre migliaia saranno presto catturati per sostituirli) – mentre la popolazione di Gaza ottiene una breve tregua dalla campagna di sterminio affamatorio di Israele. Questa è stata la formula per costringere Hamas ad approvare un accordo di cessate il fuoco che sa fin troppo bene essere pieno di trappole. La più evidente è la richiesta ad Hamas di restituire gli ultimi israeliani rimasti prigionieri a Gaza, compresi 28 cadaveri, in cambio di circa 2.000 ostaggi palestinesi detenuti nelle prigioni israeliane. L’accordo ha fissato un termine di 72 ore per lo scambio. Hamas ha avuto difficoltà a localizzare i luoghi in cui si trovano i cadaveri. Finora ne ha restituiti 10, anche se uno di essi sembra non essere israeliano. La terra desolata che è ora Gaza ha pochi punti di riferimento per identificare i luoghi delle sepolture originali. E le montagne di macerie sotto cui giacciono i corpi degli israeliani – create dalle bombe bunker buster fornite dagli Stati Uniti e sganciate da Israele, che molto probabilmente li hanno uccisi – sono quasi impossibili da rimuovere senza macchinari pesanti, di cui Gaza è gravemente carente. Anche se i siti potessero essere identificati e le macerie rimosse, Hamas potrebbe scoprire che i corpi non esistono più, che sono stati vaporizzati, insieme alle vittime palestinesi, dalle bombe israeliane.  E naturalmente c’è un altro probabile problema: alcuni dei corpi potrebbero trovarsi nella più della metà di Gaza che Israele sta ancora occupando e alla quale Hamas non può accedere. Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump parla durante un vertice dei leader mondiali sulla fine della guerra di Gaza a Sharm el-Sheikh il 13 ottobre 2025. (Reuters) Come ha ammesso il Comitato Internazionale della Croce Rossa, arbitro neutrale per eccellenza, trovare i corpi in queste circostanze sarà una “sfida enorme”. Un altro circolo vizioso. È interessante notare che, sebbene i media occidentali abbiano volentieri amplificato le accuse israeliane di malafede di Hamas riguardo alla restituzione dei corpi, nonché la sofferenza delle famiglie israeliane in attesa, hanno fornito una copertura mediatica minima sulle condizioni dei corpi palestinesi restituiti da Israele. I cadaveri refrigerati sono arrivati all’ospedale Nasser di Gaza senza alcun documento di identità e il personale non è stato in grado di eseguire i test del DNA a causa della distruzione inflitta da Israele alle sue strutture. Le famiglie non avranno idea di chi siano i loro cari a meno che non provino a identificarli personalmente. Sarà un compito raccapricciante e angosciante. I medici hanno notato che i corpi restituiti erano ancora ammanettati e bendati, giustiziati con colpi di pistola alla testa e con chiari segni di tortura prima e dopo la morte. Nel frattempo, anche prima che fosse raggiunto il termine di 72 ore previsto per lo scambio, Israele ha approfittato del ritardo per rinnovare la fame di Gaza, limitando gli aiuti disperatamente necessari per affrontare la carestia che aveva provocato. Ancora più inquietante, secondo i media israeliani, gli Stati Uniti hanno concordato una “clausola segreta” con Israele per consentirgli di riprendere la sua “guerra” genocida se Hamas non riuscirà a consegnare tutti i corpi entro il termine di tre giorni. Doppio vincolo Se Hamas riuscirà a evitare questa trappola, dovrà comunque deporre le armi. Questo viene presentato come una condizione preliminare per la “pace”. Ma l’unica certezza è che, anche se Hamas dovesse disarmarsi, la pace non sarebbe il risultato. Questa settimana, con il suo solito stile, Trump ha lanciato minacce indefinite. “Se loro [Hamas] non depongono le armi”, ha detto, “saremo noi a disarmarli”. Ha aggiunto che, se gli Stati Uniti dovessero intervenire, “avverrà rapidamente e forse in modo violento. Ma deporranno le armi”. Questo mette intenzionalmente Hamas e altri che perseguono la resistenza armata contro l’occupazione israeliana – un diritto riconosciuto dal diritto internazionale – in una situazione senza via d’uscita. In primo luogo, una popolazione disarmata a Gaza sarà ancora più indifesa di fronte agli attacchi israeliani. A prescindere dal fatto che la strategia militare di Hamas sia giusta o sbagliata, è difficile ignorare il fatto che il prolungato tributo pagato dalle truppe israeliane in termini di traumi psicologici e numero di vittime abbia funzionato come una sorta di pressione controbilanciante. Un gran numero di israeliani è sceso in piazza per opporsi alle azioni di Netanyahu a Gaza, ma non, come dimostrano i sondaggi, perché la maggior parte di loro si preoccupa delle centinaia di migliaia di palestinesi morti e mutilati. Le loro proteste sono state motivate soprattutto dalla preoccupazione per la sorte dei prigionieri israeliani a Gaza e per il tributo pagato dai soldati israeliani. Hamas e gran parte della popolazione di Gaza temono che il disarmo possa spingere ulteriormente l’analisi costi-benefici degli israeliani verso la continuazione del genocidio. Ciò rischia di provocare ulteriori spargimenti di sangue da parte di Israele, non la pace. Un dilemma senza via d’uscita In secondo luogo, è improbabile che Hamas accetti di disarmarsi quando ci sono clan criminali, armati e sostenuti da Israele, alcuni dei quali legati allo Stato Islamico, che vagano per le strade di Gaza. I palestinesi hanno capito da tempo che l’ambizione di Israele è quella di minare i principali movimenti di liberazione nazionale palestinesi – sia Hamas che Fatah – promuovendo al loro posto signori feudali della guerra. Quattordici anni fa, un analista palestinese mi mise in guardia sui pericoli di quello che definì il piano di Israele per l'”afghanizzazione” di Gaza e della Cisgiordania. La strategia definitiva di Israele per dividere e governare consisterebbe nel promuovere leader di clan rivali che si concentrano sulla protezione dei propri piccoli feudi e sulla lotta reciproca, piuttosto che cercare di resistere all’occupazione illegale e perseguire uno stato palestinese unificato. Al culmine del genocidio, i clan hanno dimostrato quanto un simile sviluppo potesse essere pericoloso per i palestinesi comuni. Aiutati da Israele e con Hamas bloccato nei propri tunnel, queste bande hanno saccheggiato i camion degli aiuti umanitari, rubato gli aiuti alle famiglie più deboli, poi hanno preso quel cibo per le proprie famiglie e venduto il resto a prezzi esorbitanti che pochi potevano permettersi. Tutti gli altri sono morti di fame. Se Hamas deponesse le armi, questi clan avrebbero mano libera, sostenuti da Israele. Né Hamas né la maggior parte della popolazione di Gaza vogliono che ciò accada di nuovo. Questa non è la strada verso la pace, ma verso il proseguimento della brutale occupazione israeliana, in parte subappaltata ai signori della guerra locali. Stranamente, Trump sembra comprendere in parte questa situazione. Martedì ha detto che Hamas “ha eliminato un paio di bande molto cattive… ha ucciso diversi membri delle bande. Onestamente, la cosa non mi ha dato molto fastidio. Va bene così”. Cosa immagina allora Trump che accadrà se Hamas deporrà le armi, come lui e Israele hanno insistito che facesse? Queste “bande molto cattive” non riemergeranno? Questo è proprio il dilemma senza via d’uscita in cui Israele vuole che Hamas e Gaza si trovino. Intorbidare le acque Mercoledì Trump ha nuovamente intorbidato le acque, avvertendo che, se Hamas non avesse deposto le armi, Israele avrebbe ripreso i suoi attacchi su Gaza “non appena avessi dato l’ordine”. Il giorno dopo è andato oltre, suggerendo che gli stessi Stati Uniti potrebbero intervenire a Gaza. Ha scritto sul suo Truth Social: “Se Hamas continua a uccidere persone a Gaza, cosa che non era prevista dall’accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderli”. Cosa dovrebbe quindi riempire il vuoto creato nel caso doppiamente improbabile che Hamas si sciolga e Israele si ritiri completamente da Gaza? Israele ha insistito affinché non ci fosse alcun governo palestinese nell’enclave, nemmeno quello del regime di Abbas in Cisgiordania. Israele continua inoltre a rifiutarsi di rilasciare Marwan Barghouti, il leader di Fatah da tempo in carcere, unica figura unificante nella politica palestinese e spesso definito il Nelson Mandela palestinese. Se Israele fosse davvero interessato a porre fine all’occupazione e alla “pace”, Barghouti sarebbe la persona più ovvia a cui rivolgersi. Invece, secondo alcune notizie, egli sarebbe stato nuovamente picchiato selvaggiamente dalle guardie carcerarie israeliane, mettendo in pericolo la sua vita. La visione di Trump per i prossimi anni offre solo il suo famigerato “Consiglio di Pace“, un’amministrazione di stampo coloniale senza scrupoli che dovrebbe essere guidata dal viceré Tony Blair. Due decenni fa, l’ex primo ministro britannico ha aiutato gli Stati Uniti a distruggere l’Iraq, portando al crollo totale delle sue istituzioni e alla morte di massa della sua popolazione. Il “Consiglio di Pace” di Trump dovrebbe avere sede in Egitto, non a Gaza. Sul campo, Trump immagina una “forza di stabilizzazione” straniera. Ma le sue truppe, ammesso che arrivino, probabilmente non saranno più efficaci nel contrastare l’aggressione israeliana di quanto lo siano state per decenni le forze di pace in Libano. Israele ha ripetutamente attaccato le forze di pace dell’ONU nel sud del Libano, mentre la presenza delle forze dell’ONU non ha fatto nulla per frenare le continue violazioni del “cessate il fuoco” da parte di Israele. Una forza di stabilizzazione potrà fare ben poco per impedire a Israele di interferire direttamente a Gaza attraverso omicidi con droni, restrizioni alle importazioni di cemento, cibo e forniture mediche e un blocco navale delle acque territoriali dell’enclave. La visione di “pace” di Trump è quella di palestinesi che vivono una vita di stenti tra le rovine di Gaza, alla mercé dei droni israeliani sempre vigili. Ramy Abdu, presidente dell’Euro-Mediterranean Human Rights Monitor, ha dichiarato questa settimana a The Intercept che ciò che molto probabilmente vedremo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi è un passaggio da parte di Israele da un genocidio sfrenato a quello che lui ha definito un “genocidio più controllato, uno sfollamento forzato controllato”. Israele potrà ora sedersi e ostacolare la ricostruzione dell’enclave, inviando un chiaro messaggio a una popolazione indigente che la loro salvezza non sarà mai trovata a Gaza. Nemmeno Il futuro della Cisgiordania sarà pace, ma un’intensificazione delle atrocità da parte di Israele e della creazione di tante mini-Gaza dalle piccole città-riserve in cui i palestinesi sono stati progressivamente ammassati. La resistenza palestinese non finirà in tali circostanze. Nessun popolo nella storia si è mai rassegnato alla servitù e all’oppressione permanenti. I palestinesi non saranno da meno. Jonathan Cook è autore di tre libri sul conflitto israelo-palestinese e vincitore del Martha Gellhorn Special Prize for Journalism. https://www.middleeasteye.net/opinion/it-was-never-gaza-war-ceasefire-lie-cut-same-clot?utm_source=substack&utm_medium=email Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il piano di Trump rischia più di arenarsi che di fallire
di Nathan J. Brown,  EUobserver, 13 ottobre 2025.     Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto, in ebraico, il riferimento al piano di uno stato palestinese, pochi istanti dopo essere apparso con Donald Trump per lodarlo. (Foto: La Casa Bianca) Oggi si festeggia pubblicamente il successo diplomatico del presidente Donald Trump: parti apparentemente inconciliabili hanno accettato il suo piano in 20 punti che non solo pone fine alle violenze più terribili a Gaza, ma promette anche un processo di ricostruzione a breve termine e un processo diplomatico a lungo termine per risolvere il conflitto israelo-palestinese.   In privato, tuttavia, la maggior parte degli osservatori è più pessimista e, nonostante tutte le loro speranze, si aspettano ancora che il piano fallisca.  Il loro pessimismo è giustificato, ma forse leggermente fuori tempo: probabilmente le cose si fermeranno lentamente a un punto crudele, ma forse sostenibile. Il vero accordo Le parti non hanno ovviamente accettato il piano in 20 punti, ma hanno solo scelto i punti che preferiscono (e li hanno interpretati in modo contraddittorio).  Il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha respinto, in ebraico, il riferimento al piano di uno stato palestinese, pochi istanti dopo essere apparso con Trump per lodarlo; Hamas è stato più franco e loquace, accettando il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe israeliane, ma rifiutando quasi tutti gli elementi a lungo termine. Pertanto, l’unico accordo reale riguarda il cessate il fuoco, il ritiro delle truppe israeliane e il rilascio di ostaggi e prigionieri. Si tratta certamente di un risultato, ma difficilmente spiega tutti i complimenti rivolti al presidente americano.  La nuova lingua franca della diplomazia – parlata da tutte le parti in quasi tutte le recenti dichiarazioni ufficiali e in molte di quelle non ufficiali – consiste nel perseguire gli obiettivi cominciando con un saluto a Trump, nella speranza che ciò induca la diplomazia americana nella direzione desiderata.  Persino Hamas non descrive più l’amministrazione statunitense come parte in guerra a Gaza ed esprime gratitudine allo stesso presidente la cui amministrazione ha adottato una serie di politiche ostili ai palestinesi. E al di là della retorica, l’amministrazione Trump e i suoi partner arabi hanno investito un notevole capitale politico (indipendentemente dalle motivazioni). Il dispiegamento della missione CENTCOM (US Central Command) composta da 200 persone (per monitorare il cessate il fuoco e fungere da nucleo fondamentale e centro di comando per una potenziale futura missione internazionale di stabilizzazione) è una dimostrazione tangibile di questo investimento. Gli accordi emergenti sulla distribuzione degli aiuti sono un altro esempio in cui potrebbe concretizzarsi qualcosa di più delle semplici frasi di circostanza. Alla fine, più piagnistei che fatti Tuttavia, la minaccia di stagnazione è reale. I limiti dell’accordo iniziale – come l’attenzione esclusiva agli aiuti umanitari senza la cruciale ricostruzione di Gaza e, cosa ancora più importante, con il rinvio della reintegrazione politica e governativa – significano che la situazione generale consentirà un deterioramento delle condizioni, lasciandole alla fine peggiori di quanto non siano ora. Le parti sono semplicemente molto distanti su quasi tutti gli elementi e hanno pochi incentivi a colmare tali divari.  L’accordo può parlare di “deradicalizzazione”, di un “consiglio di pace” e suggerire che Hamas “smantelli” le sue armi. Ma non ci sono strumenti, procedure o dettagli specifici a sostegno di questi obiettivi.  Le disposizioni chiave del piano si basano sul fatto che le parti facciano ciò che probabilmente non vorranno fare. Potrebbe essere possibile mettere insieme la promessa “forza di stabilizzazione”, ad esempio, ma è più probabile che essa funzioni come scudo umano contro gli attacchi israeliani piuttosto che come erede della missione delle forze di difesa israeliane di eliminare la capacità militare di Hamas. E poiché nemmeno le più copiose parole possono sostituire le azioni concrete, il cessate il fuoco si aggiungerà probabilmente alla lunga serie di misure provvisorie volte a sospendere i combattimenti per il momento.  Ciò riecheggia il modello storico di evitare le cause profonde dei problemi a favore di soluzioni temporanee (“meglio qualcosa che niente”) e poi “accomodarsi” con lo status quo e la realtà dei fatti. Quindi, se le cose dovessero davvero congelarsi allo stato attuale, sarà comunque molto facile distinguere Gaza dalla prospettata Riviera: sarà un “super campo” caratterizzato da un cessate il fuoco prolungato. Sotto una patina di stabilità, Israele manterrà il controllo generale della sicurezza e degli accessi, esercitando il diritto di veto praticamente su tutto, compreso il mandato completo e la composizione della nascente missione internazionale di stabilizzazione che il CENTCOM è incaricato di avviare. C’è un modo per evitare un altro risultato diplomatico che equivale solo a rendere sostenibile l’insostenibile?  O peggio, concentrarsi così tanto su Gaza da non notare l’escalation in Cisgiordania? Da tempo Gaza e la Cisgiordania sono trattate come due diversi territori palestinesi, piuttosto che come due unità della Palestina. L’attuale orientamento sul territorio della Cisgiordania è una deriva verso quell’arcipelago di bantustan che i dubbiosi del “processo di pace” hanno sempre sostenuto sarebbe emerso. Una traiettoria futura positiva dipende da una spinta coerente da parte delle potenze esterne per impedire che lo stallo si cristallizzi nella realtà dei “super campi” e dei bantustan. Ora tocca all’Europa e agli Stati arabi La responsabilità di impedire che il processo rimanga bloccato nella prima fase di stallo ricade ora in gran parte sugli europei e sugli arabi. Un indicatore chiave da tenere d’occhio sarà se e come la “via Trump” si collegherà alla “via della Dichiarazione di New York” (promossa da Francia, Arabia Saudita, Regno Unito, UE e altri). La Dichiarazione di New York stabilisce un quadro dettagliato e irreversibile per una risoluzione permanente del conflitto israelo-palestinese, chiedendo esplicitamente la fine dell’occupazione e il riconoscimento della sovranità palestinese. Questo approccio, sebbene meno gradito a Israele rispetto alle proposte americane, ha ottenuto un significativo consenso internazionale. Nel frattempo, il recente cessate il fuoco ha dimostrato che l’amministrazione statunitense può esercitare pressioni se lo desidera, dimostrando che i piani di pace promossi da potenze esterne possono essere efficaci se sostenuti da incentivi e sanzioni. La sfida consiste nel collegare questo approccio europeo alla realtà araba, con una distinzione in cui i paesi del Golfo potrebbero concentrarsi principalmente sulla risoluzione del problema israeliano (ad esempio, la normalizzazione) piuttosto che sulla causa principale del problema palestinese. Senza tale coordinamento e attivismo arabo ed europeo, magari espresso con le parole necessarie a persuadere Trump che è tutta una sua idea, il risultato più probabile è un lento ritorno alla tolleranza dell’intollerabile. Nathan Brown è professore di scienze politiche e affari internazionali alla George Washington University e autore di nove libri sulla politica e la governance araba. https://euobserver.com/eu-and-the-world/ar9990791d Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Come liberare la Palestina
di Zeid Ra’ad Al Hussein,  Foreign Affairs, 14 ottobre 2025.   Trasformare il cessate il fuoco a Gaza in una pace duratura. Palestinesi che tornano nel nord della Striscia di Gaza, ottobre 2025. Dawoud Abu Alkas / Reuters La creazione di una pace duratura, giusta e completa in Medio Oriente dovrebbe seguire il modello della costruzione di un ponte. Da un lato, gli architetti della pace devono partire dalla situazione attuale: negoziare un accordo di cessate il fuoco, rispettarlo e puntare a una soluzione duratura. Dalla parte opposta, altri devono definire i contorni di tale soluzione permanente e poi ricostruirla a ritroso per collegarla agli sforzi attuali. Se seguono questo modello, coloro che lavorano a una visione di pace a lungo termine possono farlo senza essere influenzati dai rivolgimenti politici o dagli odi che potrebbero sorgere nel breve periodo. Il rilascio da parte di Hamas di tutti gli ostaggi israeliani sopravvissuti, il ritiro di Israele da Gaza e la fine della sua orribile campagna nel territorio (che una commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite e molti altri esperti hanno descritto come genocidio) offrono una tregua disperatamente necessaria. Il merito va anche al presidente degli Stati Uniti Donald Trump e alla sua amministrazione per aver contribuito a garantire la tregua nascente. Ma questo cessate il fuoco sarà solo una pausa, un’interruzione in una storia lunga e triste, se alla fine non sarà collegato a un futuro accordo politico che soddisfi le legittime aspirazioni sia degli israeliani che dei palestinesi: due stati. Un accordo del genere può sembrare lontano, ma perseguirlo non è una follia. Determinare nei dettagli come sarebbero effettivamente due stati che vivono fianco a fianco in pace e armonia non deve dipendere dall’umore prevalente dell’opinione pubblica odierna. I pianificatori possono definire ora i dettagli che ispireranno un’ampia accettazione in futuro. Purtroppo, quando si tratta della pace in Medio Oriente, la tendenza è stata a lungo quella di lavorare per superare le sfide attuali ed effimere senza una chiara comprensione della destinazione finale. Questo è stato l’approccio adottato con gli accordi di Oslo negli anni ’90 e con la Roadmap per la Pace in Medio Oriente del 2003. Oggi, molti osservatori sono nuovamente fissati sulle condizioni immediate: come cogliere l’iniziativa di pace in 20 punti di Trump ed espandere la prima fase del cessate il fuoco per stabilizzare più ampiamente Gaza. Sebbene porre fine alle sofferenze a Gaza, insieme al rilascio degli ostaggi e dei prigionieri, sia un obiettivo urgente e necessario, questa rimane solo un’altra forma di cessate il fuoco, non una pace duratura. Il quadro di Trump, almeno nella sua forma attuale, accenna soltanto alla possibilità di uno stato palestinese, senza ulteriori approfondimenti. I palestinesi e gli stati arabi, desiderosi di vedere la fine delle sofferenze a Gaza, hanno accettato il piano. Ma è difficile immaginare che possano mantenere il loro sostegno al piano a lungo termine senza un chiaro impegno degli Stati Uniti a favore dei due stati. Questa era, dopotutto, la posizione che avevano espresso quando avevano appoggiato la recente Dichiarazione di New York guidata da Francia e Arabia Saudita, che offriva una road map per una soluzione a due stati ed era stata approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Certo, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e i suoi alleati rimangono totalmente contrari alla creazione di uno stato palestinese e hanno cercato di precludere la possibilità della sua fondazione. Ma questa posizione non è scolpita nella pietra; l’opinione pubblica e le pressioni politiche cambiano e si evolvono, e i leader israeliani potrebbero cambiare idea in futuro. Nel frattempo, gli israeliani e i palestinesi che vogliono davvero costruire una soluzione a due stati dovrebbero andare avanti. Fortunatamente, negli ultimi anni i gruppi della società civile israeliana e palestinese hanno compiuto sforzi lodevoli per delineare un quadro più dettagliato della pace. Esistono ora tre principali varianti di una plausibile soluzione a due stati. Una è la proposta abbastanza convenzionale avanzata dall’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert e dall’ex ministro degli Esteri palestinese Nasser al-Kidwa, che riprende da dove i negoziati erano stati interrotti quasi vent’anni fa. Le altre due sostengono la creazione di entità confederate costituite da due stati intrecciati in modi diversi: la “Confederazione della Terra Santa” avanzata dall’ex ministro israeliano Yossi Beilin e dall’avvocato palestinese Hiba Husseini, e “Una terra per tutti: Due stati, una patria”, ideata nel corso di anni di consultazioni collaborative tra un’ampia varietà di leader della società civile israeliana e palestinese e ora guidata dalle attiviste May Pundak e Rula Hardal. Questi piani per una confederazione cercano modi innovativi per superare gli ostacoli che in passato hanno reso così difficile il raggiungimento di una pace duratura. Un pensiero creativo e a lungo termine di questo tipo è fondamentale. Mentre i palestinesi cercano di ricostruire la loro vita a Gaza e gli ultimi ostaggi israeliani tornano a casa, è essenziale iniziare a costruire l’altra parte del ponte, dando pieno peso alle proposte pragmatiche avanzate da israeliani e palestinesi per una soluzione credibile e duratura a due stati. FALSE PARTENZE Per comprendere queste iniziative è necessario innanzitutto esaminare gli sforzi compiuti negli ultimi trent’anni verso una soluzione a due stati. Attraverso una serie di discussioni bilaterali iniziate con il processo di Oslo nel 1993, israeliani e palestinesi hanno concordato un approccio graduale alla pace che sarebbe culminato in un accordo su cinque “questioni fondamentali relative allo status finale”: confini, insediamenti ebraici, Gerusalemme, diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi e sicurezza. Si trattava di questioni ritenute così difficili che era meglio lasciarle alla fine, quando si sarebbe accumulata una sufficiente riserva di fiducia tra le due parti. L’approccio avrebbe potuto funzionare se fosse esistito un meccanismo che costringesse le due parti a rispettare le scadenze concordate indipendentemente dalle circostanze e se queste ultime non si fossero rivelate così instabili. Gli attacchi sia degli estremisti di destra israeliani che di Hamas hanno compromesso il processo fin dall’inizio. Nel 1994, un estremista israeliano-americano, Baruch Goldstein, ha compiuto una sparatoria di massa contro i palestinesi nella moschea di Abramo a Hebron. L’anno successivo, un estremista israeliano ha assassinato il primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Alcuni mesi dopo, le forze israeliane hanno ucciso Yahya Ayyash, comandante di Hamas, e il gruppo ha risposto lanciando una serie di devastanti attentati dinamitardi contro autobus. Tutti questi attacchi hanno avuto un impatto negativo sul processo di pace e le scadenze sono state presto abbandonate. Il processo ha subito un’altra battuta d’arresto nel 1996, dopo l’elezione a primo ministro di Netanyahu, che aveva condotto una campagna contro Oslo. Né gli israeliani né i palestinesi avevano un’idea chiara di come il processo avrebbe risolto le importanti questioni relative allo status finale. Nel frattempo, la costruzione di insediamenti ebraici continuava a ritmo serrato in Cisgiordania e a Gaza. Il processo di Oslo riprese brevemente slancio nel 1999, dopo che Ehud Barak divenne primo ministro di Israele. Barak cercò di salvare Oslo passando direttamente ai colloqui sullo status finale. Anche questo tentativo fallì. Poco dopo la fine dei colloqui di Camp David, nel 2000, il leader palestinese Yasser Arafat si dimostrò semplicemente riluttante ad accettare tutte le proposte di pace di Barak, anche se alcuni hanno attribuito questa decisione meno all’intransigenza di Arafat che ai negoziati troppo frettolosi e alla scarsa intesa personale tra i due uomini. Nella “Piazza degli Ostaggi” a Tel Aviv, ottobre 2025. Hannah McKay / Reuters È significativo, tuttavia, che alla fine dei colloqui di Camp David, il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton abbia delineato i parametri da lui suggeriti per la pace, compresa l’idea di scambi territoriali. La sua argomentazione era semplice: se si fosse potuto concordare con precisione il confine che separa Israele dai territori palestinesi, anche la spinosa questione degli insediamenti sarebbe stata risolta. Secondo la sua proposta, gli stati sarebbero stati delimitati dalla Linea Verde (i confini precedenti alla Guerra dei Sei Giorni del 1967, in cui Israele ottenne il controllo della Cisgiordania e di Gaza), ma con alcuni adeguamenti. I palestinesi avrebbero ceduto a Israele dal 4 al 6% della Cisgiordania senza alcuna compensazione territoriale e un ulteriore 1-3% di tutto il loro territorio in cambio di terre che Israele avrebbe ceduto altrove. Modificando il confine in questo modo, Israele avrebbe mantenuto il controllo sull’80% della popolazione dei coloni. I coloni che vivevano sulle terre rimaste nei territori palestinesi sarebbero stati trasferiti in Israele. La proposta di scambio di territori divenne la chiave principale utilizzata nei tentativi di sbloccare altre questioni. Nel corso degli anni successivi, lo scambio di territori è stato inserito in ulteriori piani per raggiungere un accordo definitivo, come l’iniziativa The People’s Voice del luglio 2002 e, in modo significativo, l’accordo di Ginevra del dicembre 2003. Quest’ultimo documento, redatto dai rappresentanti della società civile di entrambe le parti, offriva un modello di accordo di pace israelo-palestinese e una bozza di soluzione a due stati. L’accordo, tuttavia, non forniva molti dettagli su come avrebbe funzionato lo scambio di territori. Nonostante questi sforzi per promuovere un accordo di pace definitivo, la diplomazia è stata superata dall’escalation della violenza, dall’aggravarsi della sfiducia e dalle priorità divergenti tra gli attori israeliani, palestinesi e regionali. Nel 2003, le relazioni tra israeliani e palestinesi avevano raggiunto un nuovo minimo storico. La seconda intifada, innescata dalla provocatoria visita del politico israeliano (e futuro primo ministro) Ariel Sharon alla Spianata delle Moschee a Gerusalemme nel settembre 2000, era ancora in corso. Due importanti iniziative di pace non riuscirono poi a ottenere il sostegno di Israele: l’Iniziativa di Pace Araba del marzo 2002, guidata dal principe ereditario Abdullah dell’Arabia Saudita, e la Roadmap for Peace presentata dal Quartetto per il Medio Oriente (composto da Russia, Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite) alla fine di aprile 2003. Queste iniziative avevano contribuito a definire le modalità con cui una futura pace tra i due stati sarebbe stata accettata nella regione: tutti gli stati arabi avrebbero riconosciuto Israele una volta che quest’ultimo avesse posto fine all’occupazione dei territori palestinesi. Queste iniziative dimostravano inoltre il desiderio della comunità internazionale di spingere le due parti a raggiungere un accordo. Tuttavia, Israele rimase scettico riguardo all’Iniziativa di Pace Araba e rispose alla Roadmap for Peace con 14 punti propri. Il governo di Sharon sosteneva che non si potesse fare nulla fino alla fine dell’Intifada, anche se molti paesi ritenevano che la fine dell’Intifada e un accordo negoziato basato su due stati potessero essere perseguiti parallelamente. La possibilità di uno scambio di territori non fu ripresa fino al 2006, dopo che l’Intifada si era placata ed entrambi gli schieramenti avevano nuovi leader: Olmert, che divenne primo ministro di Israele nel 2006, e Mahmoud Abbas, eletto presidente dell’Autorità Palestinese nel 2005. Tuttavia, essi faticarono a trovare un accordo sulla percentuale precisa di territorio da scambiare. Dopo due anni di negoziati, entrambe le parti erano bloccate tra il quattro e il sei per cento. Quegli scambi furono l’ultima occasione in cui si tennero negoziati seri faccia a faccia sulle questioni relative allo status definitivo. IL PASSATO COME PROLOGO Quasi due decenni dopo, Olmert, ora cittadino privato di Israele, è di nuovo dietro un’iniziativa a due stati, insieme a Nasser al Kidwa, un ex ministro degli Esteri dell’Autorità Palestinese molto stimato. La proposta Olmert-Kidwa riprende esattamente da dove si erano interrotti i colloqui Olmert-Abbas nel 2008, ma aggiunge un linguaggio nuovo e creativo su Gaza e Gerusalemme. Olmert e Kidwa hanno ora suggerito una cifra del 4,4% per lo scambio territoriale, che includerebbe la creazione di un corridoio tra Gaza e la Cisgiordania. Unica tra le visioni per una soluzione a due stati, sebbene ora assomigli ad alcuni aspetti del piano in 20 punti di Trump, questa iniziativa si concentra anche sulla creazione di una struttura tecnocratica di governo per Gaza. Olmert e Kidwa si riferiscono a questa struttura come al Consiglio dei Commissari e, a differenza dell’organismo simile previsto dal piano di Trump, essa sarebbe collegata al Consiglio dei Ministri dell’Autorità Palestinese. Le elezioni generali si terrebbero entro due o tre anni dall’istituzione del Consiglio. Una “presenza araba temporanea di sicurezza” sarebbe dispiegata a Gaza per collaborare con una forza di sicurezza palestinese responsabile nei confronti del Consiglio dei Commissari. Questa forza araba colmerebbe il vuoto di sicurezza e impedirebbe attacchi contro Israele. Inoltre, sarebbe convocata una conferenza dei donatori per raccogliere fondi per la ricostruzione di Gaza. Gerusalemme sarebbe divisa in due capitali lungo la Linea Verde, con i quartieri ebraici costruiti sul lato palestinese della città dopo il giugno 1967 inclusi nello scambio di territori. La Città Vecchia sarebbe amministrata da un’amministrazione fiduciaria di cinque stati, tra cui Israele e uno stato palestinese, e governata da regole stabilite dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Il piano riconosce anche il ruolo speciale del re di Giordania nella custodia dei luoghi sacri islamici a Gerusalemme. Nessuno stato avrebbe la sovranità esclusiva sull’area di Gerusalemme e dintorni conosciuta come il Bacino Sacro, e tutti i fedeli avrebbero accesso ai luoghi sacri della zona senza limitazioni. Questo stato palestinese sarebbe smilitarizzato, tranne che per motivi di sicurezza interna. Il piano Olmert-Kidwa non offre raccomandazioni definitive per tutte le questioni relative allo status finale. Le questioni relative ai coloni, agli insediamenti, ai rifugiati e alle misure di sicurezza aggiuntive, compreso il possibile dispiegamento di truppe internazionali lungo il fiume Giordano, sarebbero lasciate a futuri negoziati. UNA CONFEDERAZIONE IN TERRA SANTA Un secondo sforzo, probabilmente più creativo, è stato promosso dall’ex ministro e politico israeliano Yossi Beilin, uno degli architetti originali del processo di Oslo e negoziatore esperto che ha anche partecipato al vertice di Camp David del 2000, ai colloqui di Taba del 2001 tra Israele e l’Autorità Palestinese e all’accordo di Ginevra del 2003. Dal 2021, insieme all’avvocato palestinese Hiba Husseini, sostiene un accordo denominato Confederazione di Terra Santa, Holy Land Cnfederation o HLC. L’HLC sarebbe una confederazione di due stati basata su uno scambio territoriale limitato a circa il 2,5% del territorio complessivo. A differenza della proposta Olmert-Kidwa, questa si concentra sulla struttura dei due stati e avanza alcune soluzioni a questioni delicate relative allo status finale. La principale differenza rispetto alla più nota formulazione della proposta Olmert-Kidwa è l’idea ancora innovativa della residenza permanente per i coloni israeliani e i rifugiati palestinesi: gli israeliani i cui insediamenti non sono inclusi nello scambio di territori potrebbero rimanere nelle loro case come residenti permanenti di una futura Palestina, e un numero uguale di rifugiati palestinesi potrebbe richiedere lo status di residenti permanenti in Israele. La proposta esamina in modo abbastanza dettagliato i possibili tipi di giurisdizione legale che si applicherebbero a questi residenti permanenti. Introducendo il concetto di residenza permanente, Beilin e Husseini stanno cercando di risolvere in un colpo solo la questione dei confini e degli insediamenti, proprio come si era cercato di fare con gli scambi di territori proposti nell’era Clinton. Stanno cercando di risolvere la questione della destinazione dei rifugiati palestinesi consentendo un numero di rimpatriati superiore a quello simbolico proposto nell’accordo di Oslo. Allo stesso tempo, la residenza permanente eliminerebbe la necessità di un ritorno forzato su larga scala in Israele dei coloni e tutto il caos che ne deriverebbe. Tuttavia, entrambe le parti dovrebbero negoziare un calendario preciso che consentisse prima lo sviluppo di uno stato palestinese pienamente funzionante e poi la creazione della Confederazione (HLC). Come l’iniziativa di Olmert e Kidwa, la proposta dell’HLC sostiene la divisione di Gerusalemme in due capitali. Ma piuttosto che un’amministrazione fiduciaria di cinque stati per supervisionare il Bacino Sacro, Beilin e Husseini preferiscono un comitato congiunto israelo-palestinese, che sarebbe anche incaricato della pianificazione municipale. Sebbene sostengano che Gerusalemme, nella sua interezza, debba diventare alla fine una città completamente aperta, essi sostengono che la Città Vecchia dovrebbe essere aperta non appena creata la Confederazione. Propongono inoltre una serie di istituzioni confederali, tra cui una commissione per i diritti umani. In materia di sicurezza, la proposta sostiene che entrambe le parti si astengano dalla cooperazione militare con stati o entità non statali ostili all’altra parte, senza definire cosa ciò significherebbe nel contesto di un accordo di pace globale. Una potenziale vulnerabilità è la “clausola di uscita” dall’HLC, che consente a entrambi gli stati di lasciare la Confederazione. Questa possibilità potrebbe incoraggiare le forze all’interno di entrambi gli schieramenti a opporsi all’accordo, proprio come coloro che erano insoddisfatti degli accordi di Oslo hanno contribuito a far fallire il processo di pace. Alcuni politici si opporranno alla Confederazione fin dall’inizio. Altri approfitteranno delle inevitabili difficoltà iniziali per conquistare il sostegno popolare attaccando l’HLC. Se ci sarà una clausola di uscita, probabilmente cercheranno di invocarla, avvalendosi del sostegno di potenze esterne. I redattori dell’HLC dovrebbero eliminare questa clausola di uscita o almeno fissare un periodo lungo, ad esempio 50 anni, prima che sia consentito il ritiro dalla Confederazione. UNA TERRA PER TUTTI La terza proposta, A Land for All (ALFA), è stata concepita nel 2012 ed è guidata dalle attiviste di base israeliane e palestinesi May Pundak e Rula Hardal. Essa porta l’idea dell’HLC ancora più avanti. Anch’essa fisserebbe il confine tra Israele e Palestina lungo la Linea Verde, ma, cosa fondamentale, senza variazioni. Invece di cercare di abbozzare una serie di scambi di territori, si concentra interamente sulla residenza permanente. Secondo la proposta ALFA, non ci sarebbero limiti al numero di israeliani o palestinesi che potrebbero richiedere la residenza permanente nell’altro stato. Tuttavia, riconosce la necessità di un approccio graduale per evitare di sommergere Israele con il ritorno dei rifugiati palestinesi o il nuovo stato di Palestina con un gran numero di israeliani che desiderano trasferirsi oltre gli ex insediamenti. La chiave dell’ALFA è l’enfasi sulla libertà di movimento per entrambi i popoli e sul diritto di entrambi i popoli di stabilirsi in entrambi gli stati, non come cittadini ma come residenti che possono votare alle elezioni locali. La logica alla base di questo è semplice: sia gli israeliani che i palestinesi provano un profondo legame emotivo con tutta la terra, dal fiume al mare, e questo principio deve essere integrato in qualsiasi pace duratura e giusta. Per quanto riguarda Gerusalemme, l’ALFA ha molto in comune con le altre iniziative. Gerusalemme sarebbe la capitale di entrambi gli stati, con libertà di movimento in tutta la città e gestione condivisa della Città Vecchia, probabilmente con il coinvolgimento internazionale. Anziché dividere la città con recinzioni o muri, l’ALFA propone di mantenere Gerusalemme “intera, aperta e condivisa”. Anche se Gerusalemme fungerebbe da doppia capitale, Israele e lo stato palestinese delegherebbero anche poteri a un organismo speciale che governi l’intera città, sia come unico governo locale congiunto, sia come due municipalità sotto l’egida confederale. In materia di sicurezza, anche in questo caso l’ALFA è simile alle altre proposte, riconoscendo che ogni stato deve sorvegliare il proprio territorio sovrano. A differenza degli altri piani, richiede condizioni reciproche e concordate per la parziale smilitarizzazione di entrambi gli stati. Si oppone espressamente al dispiegamento unilaterale di forze straniere senza il consenso di entrambe le parti e sostiene una forza di frontiera congiunta israelo-palestinese. I prigionieri palestinesi liberati vengono accolti a Khan Younis, Gaza. Ottobre 2025. Reuters Le minacce più grandi a questo piano, come per le altre proposte e i precedenti sforzi di pace, verrebbero probabilmente dall’interno, da coloro che si oppongono a qualsiasi forma di compromesso. Per impedire che i sabotatori interni facciano deragliare la soluzione dei due stati, gli artefici dell’accordo dovrebbero elaborare solidi meccanismi di risoluzione delle controversie, una forte strategia di sviluppo economico, sostenuta da leggi ben concepite da entrambe le parti, e decisioni sensate in materia di istruzione, lingua e tutti i diritti civili. L’ultima linea di difesa dovrebbe essere un accordo di sicurezza regionale con garanzie credibili di stabilità duratura; nessuna delle proposte qui presentate offre una visione per un accordo di questo tipo. Rispetto alla proposta dell’HLC, l’ALFA offre meno dettagli sulle istituzioni confederali. Tuttavia, fornisce un piano dettagliato sui diritti umani. Sottolinea l’importanza del fatto che entrambe le parti abbracciano il principio dei diritti umani condivisi e universali. A differenza della proposta dell’HLC di una commissione per i diritti umani, l’ALFA sottolinea la necessità di un organo di appello, una corte suprema dei diritti umani, per esaminare i casi presentati dopo che le decisioni sono state emesse dai tribunali di entrambi i paesi. In qualità di ex capo dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, sostengo pienamente questo approccio. In definitiva, ALFA è la più creativa di queste proposte in quanto rompe con gli approcci e i paradigmi esistenti. La sua ambizione idealistica ha una dimensione pratica: potrebbe accogliere gli insediamenti israeliani, che finora hanno ostacolato ogni tentativo di pace in Medio Oriente. Ma tutte e tre le proposte hanno dei meriti. Offrono soluzioni reali per porre fine in modo definitivo ad anni di estrema violenza e oppressione. RAGGIUNGERE L’ALTRA PARTE Senza il lavoro di questi visionari, sarebbe difficile definire un futuro per il Medio Oriente. Sebbene Netanyahu possa aver accolto con favore il piano di Trump e accettato un riferimento alla potenziale statualità palestinese, non è del tutto chiaro cosa voglia realmente per il suo paese e per la regione. Al di là della gestione di uno status quo chiaramente insostenibile, sembra non avere alcun piano se non quello della sua coalizione di estrema destra, che mira a un “Grande Israele” che comporterebbe lo sterminio dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania. Questa linea non solo è spaventosa e irrealizzabile, ma è anche respinta dalla maggioranza degli israeliani. Per realizzare la pace a Gaza al di là dei cessate il fuoco a breve termine, deve esserci una destinazione per la fine definitiva di questo conflitto. Un conflitto così radicato e violento come quello in Medio Oriente genera naturalmente scetticismo e cinismo. Eppure ci sono ragioni concrete per un cauto ottimismo. Gli attori regionali e internazionali stanno perseguendo assiduamente vie per ridurre la violenza e gettare le basi per una pace duratura: il Qatar, in coordinamento con l’Egitto e gli Stati Uniti, ha contribuito a guidare le parti verso un cessate il fuoco a Gaza; l’Egitto continua a guidare gli sforzi arabi in collaborazione con gli stati confinanti, in particolare la Giordania; e l’Arabia Saudita, insieme alla Francia e alla Norvegia, ha mobilitato il sostegno diplomatico e finanziario globale per una soluzione praticabile a due stati. Sempre più paesi in tutto il mondo stanno riconoscendo la statualità palestinese, segnalando una crescente preoccupazione e impegno internazionale. È qui che diventano indispensabili le proposte creative e pragmatiche sviluppate da israeliani e palestinesi: il piano Olmert-Kidwa, la Confederazione della Terra Santa e l’ALFA. Esse offrono percorsi realistici per una soluzione duratura a due stati, affrontando una serie di questioni complesse. Queste visioni non sono esercizi astratti, ma rappresentano l’unica via pragmatica per porre fine al conflitto e garantire la stabilità regionale. Certamente, è essenziale mantenere lo slancio sulle misure a breve termine, che si tratti di ridurre le ostilità, facilitare il sostegno umanitario o coordinare la pressione diplomatica regionale. Ma queste azioni avranno successo solo se saranno esplicitamente collegate alla costruzione dell’altra parte del ponte, una soluzione a lungo termine per una pace giusta e duratura tra palestinesi e israeliani. Semplicemente non c’è altro modo. Zeid Ra’ad Al-Hussein è presidente dell’International Peace Institute e membro di The Elders. È stato Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Diritti Umani dal 2014 al 2018 e in precedenza ha ricoperto la carica di ambasciatore della Giordania negli Stati Uniti e presso le Nazioni Unite. https://www.foreignaffairs.com/israel/how-free-palestine Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il diritto internazionale: uno strumento dell’imperialismo?
Intervista a Sara Troian sulle radici coloniali del diritto internazionale e sul suo ruolo nel favorire il genocidio in Palestina. di Comrawire,   [comra], 7 ottobre 2025.   Il genocidio israeliano in Palestina, sostenuto dall’Occidente e trasmesso in diretta streaming davanti agli occhi del mondo negli ultimi due anni, non è un episodio eccezionale nella storia palestinese. Quello che si è verificato dal 7 ottobre 2023 fa parte di un percorso molto più lungo di espropriazione, sfollamento e genocidio ai danni del popolo palestinese e della sua terra, che risale al XIX secolo. La portata delle atrocità commesse a Gaza ha suscitato ondate di condanna globale e atti di solidarietà. In questo contesto, il diritto internazionale è stato ripetutamente invocato come potenziale strumento per porre fine al genocidio. Tuttavia, nonostante il caso di genocidio presentato dal Sudafrica alla Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) e l’emissione di mandati di arresto internazionali contro i leader politici e militari israeliani, il genocidio continua senza sosta. [comra] ha parlato con Sara Troian, dottoranda presso il Dipartimento di Giurisprudenza e Criminologia dell’Università di Maynooth, Irlanda, la cui ricerca esplora il rapporto tra diritto internazionale, colonialismo d’insediamento e liberazione in Palestina. In questa intervista, discutiamo del ruolo del diritto internazionale come meccanismo del potere imperiale: come è stato utilizzato per legittimare e sostenere un ordine coloniale e capitalista in Palestina e nel resto del mondo, piuttosto che per smantellarlo. Troian sostiene che il diritto internazionale non può servire come strumento per la liberazione della Palestina perché storicamente ha permesso, legalizzato e rafforzato l’intersezione tra sionismo e imperialismo in Palestina. Esaminiamo anche le recenti mosse delle potenze occidentali per riconoscere il cosiddetto “stato palestinese”, analizzando come tali gesti servano in ultima analisi a preservare la struttura del colonialismo sionista piuttosto che smantellarla. *** [comra]: Potrebbe spiegare le basi coloniali del diritto internazionale? In che modo queste basi continuano a plasmare le relazioni internazionali contemporanee e a perpetuare i sistemi di potere e privilegio associati al Nord del mondo? Sara Troian: Il diritto internazionale è nato circa 500 anni fa per regolamentare la scoperta del “Nuovo Mondo”. Più precisamente, ha iniziato a svilupparsi per sanzionare la schiavitù di milioni di africani, la conquista di nuove terre “scoperte” dalle nazioni europee e la sottomissione delle popolazioni indigene che vivevano in queste terre appena “scoperte” e conquistate. Il diritto internazionale serviva a legittimare tutte queste pratiche, nonché a mediare gli interessi e le ambizioni contrastanti di espansione territoriale tra gli stati europei. Esistono alcune opere fondamentali di diritto internazionale dei cosiddetti padri fondatori della disciplina, come Francisco de Vitoria e Hugo Grotius, che esemplificano questa dinamica. Essi svilupparono un concetto chiamato “legge naturale”, con cui stabilirono uno “standard di civiltà” basato su parametri europei, per promuovere la conquista territoriale e l’oppressione dei popoli non europei. In questo quadro, i cosiddetti “civilizzati” avevano il diritto di conquistare, mentre i “barbari” – termine usato per descrivere i popoli indigeni – dovevano essere ridotti in schiavitù, sfruttati, soggiogati e persino sottoposti a genocidio allo scopo di sviluppare questi nuovi territori. Qualsiasi forma di resistenza da parte di questi popoli contro l’invasione europea delle loro terre veniva etichettata come “incivile” e gradualmente diventava sinonimo di “barbarie e terrorismo”. Lo “standard di civiltà” consisteva nel potere istituzionalizzato di colonizzare. Da 500 anni a oggi, il diritto internazionale si è evoluto e adattato alle diverse fasi storiche che il mondo ha vissuto. Quando dico “evoluto”, intendo dire che si è adattato a nuove forme e metodi di colonialismo. Il sistema in cui viviamo, regolato dal diritto internazionale, è stato infatti progettato, definito e stabilito dagli stati coloniali occidentali. Ciò è avvenuto in un momento in cui, all’indomani della seconda guerra mondiale, più di tre quarti del mondo stavano ancora risvegliandosi dal giogo del dominio coloniale. Tutte le norme emerse dalla seconda guerra mondiale erano radicate nel mantenimento degli interessi coloniali e del dominio imperiale, con lo scopo di istituzionalizzare queste modalità di potere. Le Nazioni Unite sono emerse come un’istituzione super-partes incaricata di garantire l’universalità del diritto e della giustizia. Tuttavia, sia in modo esplicito che più sottile, assistiamo ancora alla persistenza dell’ideologia coloniale – e delle pratiche coloniali – all’interno del diritto internazionale. Ad esempio, la Carta delle Nazioni Unite sancisce il sistema di amministrazione fiduciaria, legittimando una struttura che consentiva alle potenze coloniali di amministrare le nazioni colonizzate con il pretesto che avevano bisogno di aiuto per svilupparsi e raggiungere gli standard occidentali. Poi c’è la configurazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, l’unico organo dell’ONU con l’autorità di prendere decisioni vincolanti. È composto da 15 membri: cinque permanenti e dieci a rotazione. I membri permanenti – Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna, Cina e Russia – sono i cosiddetti vincitori della seconda guerra mondiale. Il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è in definitiva gestito in base agli interessi imperiali contrastanti di queste superpotenze. Si presta ai loro programmi e ha poco a che fare con l’equità o l’uguaglianza. Lo “standard di civiltà” coniato da De Vitoria e Grotius 500 anni fa si è semplicemente evoluto in nuove dicotomie: prima il mito dello “sviluppato” contro il “sottosviluppato”; poi “democratico” contro “antidemocratico” o “liberale” contro “non liberale”. Questi schemi e queste epistemologie, radicati nelle nozioni occidentali di democrazia, sviluppo e liberalismo capitalista, sono stati utilizzati per giustificare la violenza al di fuori dell’Europa, sempre con il pretesto di missioni volte a portare la “democrazia” o lo “sviluppo capitalista”. La funzione materiale di queste dicotomie, e la logica che le sottende, rimane immutata: consolidare il dominio coloniale e preservare gli interessi imperiali delle superpotenze. Allo stesso tempo, abbiamo assistito a un’ondata di cosiddetta decolonizzazione. Tra gli anni ’50 e ’70, molte nazioni precedentemente colonizzate hanno ottenuto l’indipendenza formale. Entrando nell’arena internazionale e diventando membri dell’ONU, hanno iniziato a usare la loro presenza per promuovere i propri interessi, spesso in diretta opposizione al capitalismo e al liberalismo. Nel 1955, la Conferenza di Bandung riunì le nazioni colonizzate, consentendo loro di creare un programma comune da portare avanti nei forum internazionali. Ciò portò alla risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite che garantiva l’indipendenza ai paesi coloniali, comunemente nota come “Dichiarazione Amichevole delle Nazioni Unite”, che, in particolare, fu votata contro da tutte le potenze occidentali. Si fa menzione dei diritti collettivi anche nelle convenzioni sui diritti umani codificate nel 1966, che riconoscono l’autodeterminazione non solo come diritto individuale ma anche collettivo. In questo caso, l’autodeterminazione è diventata l’articolazione giuridica della libertà e della liberazione dal colonialismo. Tuttavia, l’intero processo è stato alla fine cooptato. Le potenze imperiali hanno interferito in queste trasformazioni per ridefinire il diritto internazionale, creando simbolicamente l’apparenza di un cambiamento mentre continuavano a proteggere e preservare i propri interessi materiali. Il diritto all’autodeterminazione, come accennato in precedenza, incarna questa contraddizione. Sebbene fosse stato definito come un diritto universale, la definizione giuridica adottata e codificata seguiva un approccio Wilsoniano incentrato principalmente sulla sovranità, piuttosto che un approccio leninista, che originariamente enfatizzava le dimensioni economiche della libertà, non solo i suoi aspetti politici. Infatti, Lenin fu il primo ad articolare il concetto di autodeterminazione in relazione alla liberazione economica. La versione dell’autodeterminazione sancita dall’attuale sistema giuridico internazionale serve quindi più come strategia retorica, che alla fine ostacola lo scopo stesso che pretende di promuovere. L’indipendenza politica può essere stata raggiunta, ma le economie delle nazioni ex colonizzate rimangono dipendenti dalle strutture capitalistiche globali che hanno facilitato la loro sottomissione in primo luogo. Sono stati introdotti principi associati alla libertà economica, come la sovranità sulle risorse naturali, ma il loro potenziale emancipatorio è stato rapidamente minato dalle potenze occidentali che hanno insistito su dottrine giuridiche come la sacralità dei diritti acquisiti e l’internazionalizzazione dei contratti di investimento. Queste dottrine occidentali hanno garantito alle ex potenze coloniali il mantenimento del dominio economico, impedendo ai nuovi stati indipendenti di esercitare il controllo normativo sulle proprie risorse. Al contrario, le istituzioni finanziarie esterne, in gran parte occidentali, sono state messe in condizione di mantenere il controllo economico. Ciò si riflette non solo nell’evoluzione del mondo da allora, ma anche in ciò che stava accadendo in quel preciso momento, quando il diritto all’autodeterminazione veniva codificato e numerose nazioni ottenevano l’indipendenza. Durante questo periodo, gli Stati Uniti hanno attivamente sostenuto colpi di stato militari contro i leader anticolonialisti, non solo quelli che sostenevano l’indipendenza politica, ma in particolare quelli che abbracciavano approcci marxisti alla liberazione e promuovevano una concezione leninista dell’autodeterminazione che collegava la sovranità politica alla liberazione economica. A partire dagli anni ’50, abbiamo assistito all’assassinio di leader come Mossadegh in Iran, Lumumba in Congo e Kwame Nkrumah in Ghana. Quindi, sia a livello concettuale che pratico, vediamo chiaramente i limiti dell’ondata di decolonizzazione, un processo che alla fine è stato manipolato per bloccare la realizzazione della vera indipendenza e sostituire la sovranità autentica con il continuo controllo imperiale e la dipendenza economica. [comra]: Può spiegare come l’esistenza coloniale di Israele sia stata normalizzata nel diritto internazionale? Quali precedenti crea questo per la protezione e la legittimazione delle dinamiche di potere coloniale? Sara Troian: Tornerò al 1947, quando l’ONU approvò la Risoluzione 181, nota anche come “risoluzione di spartizione” o “piano di spartizione”. Questa risoluzione divideva la Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo, con l’idea di risolvere il problema palestinese. La risoluzione 181 assegnava il 56% della Palestina, compreso l’85% dei terreni agricoli, ai coloni ebrei europei, che nel 1947 controllavano solo il 7% della Palestina, la maggior parte del quale era stato conquistato illegalmente. Inoltre, la risoluzione relegava gli aspetti economici del nuovo stato arabo allo stato ebraico, costringendo le comunità palestinesi a dipendere dal sistema economico dei coloni ebrei che stavano usurpando e rubando la loro terra. Questa risoluzione ha segnato una sorta di collegamento tra due epoche, perché ha trasformato il sionismo da un progetto coloniale in fase di realizzazione a una realtà politica legalizzata, sancendone l’ideologia e le pratiche passate e gettando le basi per il suo sviluppo futuro. Allo stesso tempo, per i palestinesi, la risoluzione ha rappresentato la costituzione di un limbo perpetuo di rifugiati, violenza e privazione dei diritti civili. Gli effetti si manifestano ancora oggi all’interno del sistema internazionale. Quel 56% che doveva essere assegnato allo stato ebraico è diventato il 78% grazie alla volontà e alla forza militare delle milizie sioniste. Questa realtà è diventata un fatto compiuto, nel senso che il termine “Palestina” è stato da allora utilizzato nel sistema internazionale per riferirsi solo alla Cisgiordania, a Gaza e a Gerusalemme Est, che insieme costituiscono solo il 22% della Palestina storica. E lo vediamo continuamente nel linguaggio delle Nazioni Unite, nelle notizie e nelle risoluzioni e sentenze prodotte dal sistema delle Nazioni Unite. Negli ultimi 30 anni abbiamo avuto un relatore speciale delle Nazioni Unite sui cosiddetti territori palestinesi occupati dal 1967, che sono ancora una volta quel 22% della Palestina. Abbiamo sentenze della Corte Internazionale di Giustizia che riguardano l’occupazione israeliana della Palestina, che, ancora una volta, è intesa solo come il 22%. L’ONU ha progressivamente limitato sia il focus geografico della Palestina ai territori conquistati da Israele nel 1967, sia temporaneamente, perché non ha mai permesso, e non ha mai realmente manifestato, una vera indagine su ciò che ha portato al 1967. Il fatto che la maggioranza della composizione demografica della Palestina non sia stata invitata al tavolo della Risoluzione 181 ha aperto la strada a questa strutturazione egemonica del processo decisionale dopo la seconda guerra mondiale. Ciò rappresenta un chiaro modello di amministrazione coloniale, in cui il destino dell’”Altro” è determinato da coloro che lo considerano inferiore, secondo gli standard europei e occidentali. La volontà dei popoli indigeni è stata sistematicamente ignorata e la risoluzione 181 delle Nazioni Unite ne è un esempio. Essa ha rafforzato la logica coloniale secondo cui sono i vincitori a dettare le regole, ma anche a arbitrare la storia e a controllarne la narrazione. A livello globale, la risoluzione 181 ha legittimato il colonialismo d’insediamento. Ha codificato il colonialismo d’insediamento come una componente duratura del sistema normativo internazionale. [comra]: Perché il diritto internazionale non si è dimostrato uno strumento efficace per porre fine al genocidio palestinese e, prima ancora, alla colonizzazione della Palestina? Il diritto internazionale dispone di meccanismi che potrebbero essere attuati per fermare i genocidi? Se sì, perché non sono stati applicati in Palestina? Sara Troian: Il diritto internazionale dispone di meccanismi non solo per fermare, ma anche per prevenire i genocidi. Dispone della Convenzione sulla Prevenzione e la Punizione del Genocidio, nonché di molti altri trattati e norme che dovrebbero prevenire i cosiddetti crimini atroci, che includono il genocidio, la tortura, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra; dispone di tribunali internazionali incaricati di deliberare sia sulla responsabilità degli stati che commettono genocidi, sia sulla responsabilità e sul ruolo degli stati complici che aiutano e favoriscono il genocidio; dispone anche di tribunali come la Corte Penale Internazionale, incaricata di perseguire gli individui che commettono direttamente crimini come il genocidio; ed esiste un divieto generale di crimini atroci e genocidio. Da un lato, questi meccanismi sono stati applicati. Abbiamo assistito a un caso presentato dal Sudafrica contro Israele dinanzi alla Corte Internazionale di Giustizia, in cui Israele è stato accusato di genocidio. Abbiamo visto come il genocidio abbia interrotto la paralisi della Corte Penale Internazionale, che ha finalmente emesso mandati di arresto contro i criminali israeliani. Il primo problema è che il diritto internazionale manca di un meccanismo di attuazione al di là delle sentenze dei tribunali e delle risoluzioni delle Nazioni Unite. Spetta agli stati attuare queste decisioni utilizzando le proprie forze. Ciò porta a un secondo problema: il diritto internazionale rimane in balia del potere politico, della sua volontà e dei suoi interessi. Dobbiamo guardare alle realtà materiali che stanno alla base sia del genocidio che della colonizzazione della Palestina. Israele è un ramo dell’imperialismo occidentale. La sua funzione è quella di servire gli interessi economici e capitalisti dell’Occidente. È sempre stato sostenuto – e in molti modi protetto – dagli imperi europei. Inizialmente, fu l’Impero Britannico che, a partire dal 1917 con la Dichiarazione Balfour, istituzionalizzò l’alleanza tra sionismo e imperialismo. Quando l’equilibrio globale del potere si è spostato dopo la seconda guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno preso il posto della Gran Bretagna come potenza imperiale egemone, si è formata un’alleanza rapida e sempre più profonda tra gli Stati Uniti e Israele. Oggi, i due sono reciprocamente costitutivi: Israele, così come esiste ora, serve gli interessi esteri degli Stati Uniti. Questo è il motivo per cui i meccanismi che esistono tecnicamente e teoricamente per prevenire o fermare il genocidio non sono mai stati applicati: perché non c’era la volontà politica. È nell’interesse degli Stati Uniti mantenere Israele nella sua forma attuale, data l’importanza geopolitica del Medio Oriente, che ha acquisito sempre più rilevanza dagli anni ’50 e ’60, quando l’industria dei combustibili fossili è diventata il settore energetico dominante e una fonte di capitale. Per quanto riguarda la colonizzazione, la situazione è leggermente diversa perché non esiste una definizione di colonialismo nel diritto internazionale, per non parlare della criminalizzazione di questa pratica. Tutto ciò che riguarda il colonialismo è frammentato, intenzionalmente, in molti strumenti giuridici e definizioni. Questo perché il diritto internazionale è nato e si è sviluppato come strumento per sostenere e proteggere il colonialismo e il dominio imperiale. Non è nell’interesse del diritto internazionale criminalizzare, ovvero perseguire penalmente, proprio quella pratica che è nato per proteggere e preservare. Dal punto di vista giuridico, non possiamo nemmeno individuare con precisione il colonialismo o la colonizzazione. Possiamo farlo solo guardando ai suoi attributi. Abbiamo l’occupazione di territori, l’apartheid, la discriminazione razziale e la negazione dell’autodeterminazione, che sono tutte pratiche proibite dal diritto internazionale. Si tratta di una frammentazione attraverso molti livelli della struttura giuridica della causa principale, che è il colonialismo. Senza poter affrontare la causa principale, il diritto internazionale può fare ben poco. Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi due anni è un cambiamento nel modo in cui Israele e l’Occidente hanno utilizzato il diritto internazionale. Prima dell’inizio del genocidio, facevano appello al diritto internazionale per giustificare le loro pratiche in Palestina, invocando concetti come il diritto all’autodifesa, alla sicurezza e così via. Stavano strumentalizzando il diritto internazionale per assicurarsi la legittimità internazionale. A questo proposito, tutte le istituzioni incaricate di arbitrare gli aspetti legali – come la Croce Rossa, l’UNRWA e molte ONG – hanno agito non solo come testimoni, ma anche come facilitatori di come il rapporto con il diritto internazionale è stato orchestrato per legittimare la violenza di Israele. Ora, il diritto internazionale è stato progressivamente abbandonato del tutto e non viene nemmeno più utilizzato come arma. È stato completamente aggirato e ignorato. Israele non cerca più di nascondersi, di velare le proprie azioni dietro scuse giuridiche internazionali, ma sta apertamente violando e erodendo il linguaggio e la struttura che utilizzava per mascherare la propria violenza. [comra]: La resistenza è legittima contro l’oppressione coloniale? Il 7 ottobre, se considerato come una rivolta anticoloniale, potrebbe essere legittimato dal diritto internazionale? Sara Troian: Il diritto alla resistenza sotto l’oppressione coloniale, così come sotto l’occupazione straniera o sotto regimi razziali, è codificato nel diritto internazionale. È emerso durante l’era della decolonizzazione ed è stato ribadito da numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, a partire dalla fine degli anni ’60 fino agli anni ’80, per poi essere debitamente codificato in un trattato, il Protocollo Aggiuntivo 1 del 1977 alle Convenzioni di Ginevra. Le nazioni precedentemente colonizzate stavano spingendo affinché il diritto all’autodeterminazione fosse debitamente sancito dal diritto internazionale, invece di rimanere solo nelle risoluzioni dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, più vaghe e meno vincolanti dal punto di vista giuridico. Come per ogni trattato, ci sono state delle negoziazioni. E, naturalmente, le solite potenze imperiali hanno usato la loro forza economica per imporre dei limiti alla codificazione di questo diritto. Questo è il problema, poiché dal punto di vista giuridico ci impedisce persino di dire “rivolta anticoloniale” e di definire il 7 ottobre come tale. Il problema principale è che il diritto alla resistenza armata ha imposto un’asimmetria giuridica tra colonizzatori e colonizzati, mettendoli nella stessa categoria di obblighi. Gli stessi vincoli giuridici regolano la resistenza dei popoli colonizzati contro le forze armate statali che li opprimono. Tutte le condizioni materiali e storiche dell’oppressione coloniale sono completamente oscurate e le dinamiche di potere che definiscono i rapporti coloniali da cui nasce la resistenza sono completamente appiattite. Inoltre, codificando il diritto alla resistenza armata e creando quindi tutti questi obblighi sulla resistenza, si concede alle potenze coloniali uno strumento giuridico per criminalizzare e disumanizzare la resistenza anticoloniale. Ad esempio, uno dei principi che regolano la resistenza è quello della distinzione, che, sulla carta, ha lo scopo di proteggere i civili. Questo principio viene applicato “in modo uguale” al colonizzatore e al colonizzato senza considerare come i regimi coloniali stessi abbiano offuscato i confini tra obiettivi militari e civili. E non affronta la violenza intrinseca della colonizzazione stessa. Esiste anche un divieto di utilizzare determinate armi che limita la capacità di chi resiste al dominio coloniale di difendersi, restringendo i suoi mezzi di autodifesa, mentre le capacità militari superiori del colonizzatore rimangono intatte. In questo quadro di divieti, insistendo sulla precisione dei bersagli, i razzi palestinesi sono automaticamente considerati intrinsecamente indiscriminati e quindi illegali, soggetti a criminalizzazione. L’arsenale militare di Israele rimane legale fintanto che è “proporzionato”. La forza militare del colonizzatore non solo rimane intatta, ma è sistematicamente privilegiata. Il modo in cui è stato codificato il diritto alla lotta armata incarna due aspetti chiave del diritto internazionale. In primo luogo, non tiene conto delle dinamiche di potere. In secondo luogo, tutte le trasformazioni giuridiche avvenute durante l’era della decolonizzazione, pur ridefinendo la violenza, la storia e la natura, non hanno messo in discussione la struttura di potere esistente. Al contrario, hanno rafforzato l’autorità del colonizzatore di definire l’umanità, posizionandolo come arbitro di chi può essere considerato umano. Questo potere si traduce poi in un monopolio continuo sia sulle definizioni giuridiche che sull’uso della violenza. [comra]: Perché le potenze occidentali sembrano affrettarsi a legittimare uno stato palestinese quando non esiste una base reale sul campo per farlo? Sara Troian: È necessario adottare un approccio concreto a questa domanda, perché è fondamentale considerare quando, come e, soprattutto, a chi servono effettivamente tutti questi discorsi e il riconoscimento di uno stato palestinese. Servono al sionismo, a Israele e all’impero occidentale. Il riconoscimento di uno stato palestinese viene presentato come la soluzione, ma ciò che in realtà fa – e che intende fare – è minare la fiducia sociale nel movimento di resistenza. Mira a sostituire la resistenza palestinese, in quanto rappresentante dei palestinesi, con un’entità artificiale e complice che ha il compito, da un lato, di cancellare la rivoluzione e, dall’altro, di consolidare il dominio di Israele. In questo modo, la resa dell’intero popolo palestinese al proprio colonizzatore diventa molto facile. Questa campagna per il riconoscimento della Palestina come stato – all’interno del 22% del territorio che il sistema internazionale riconosce come Palestina – è una continuazione genealogica della spartizione della Palestina. Questo è un altro effetto a lungo termine della Risoluzione 181 e delle fondamenta coloniali del diritto internazionale. Perché, in fin dei conti, ciò che questo riconoscimento fa è riferirsi alla soluzione dei due stati come a un risultato legittimo, che non solo non mette in discussione le dinamiche di potere coloniale esistenti, ma ignora anche le fondamenta coloniali della spoliazione palestinese, che ha portato al genocidio in corso. Tratta la colonizzazione della Palestina come legittima e cerca di legittimare questa realtà dall’esterno, esercitando al contempo pressioni sui palestinesi stessi affinché approvino e accettino la legittimità della loro stessa colonizzazione. Come ho già detto, si è trattato di un processo graduale, iniziato nel 1947 con la spartizione della Palestina attraverso la Risoluzione 181. Successivamente è stato portato a un nuovo livello con gli Accordi di Oslo, che hanno ulteriormente consolidato il colonialismo sionista, sempre sotto la retorica delle soluzioni, dei negoziati di pace e della salvezza. Con questa strategia, i diritti e l’esistenza dei palestinesi che risiedono entro i confini del 1948, così come il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi, sono completamente abbandonati. Infine, rinuncia completamente a tutti i termini di riferimento che il movimento di liberazione palestinese ha storicamente articolato. Il vocabolario della liberazione e dell’anticolonialismo è stato completamente abbandonato. La terra e il suo popolo sono stati effettivamente venduti nell’interesse della “pace e della sicurezza” dei colonizzatori. Questo riconoscimento garantisce e protegge gli interessi occidentali in Palestina, mediati da Israele e dalla sua esistenza. Inoltre, formalizza il rapporto coloniale tra Israele e Palestina attraverso la creazione e il rafforzamento dell’Autorità Palestinese (AP). Questa entità, che continua ad essere presentata come l’unico rappresentante legittimo del popolo palestinese, è in realtà un intermediario del potere e degli interessi coloniali. I discorsi sulla riforma dell’AP e sull’estensione del suo controllo su Gaza non fanno altro che rafforzare l’architettura della violenza coloniale di Israele. [comra]: In che modo Israele è riuscito a promuovere le sue “misure di sicurezza preventive” all’interno dei quadri giuridici internazionali? Quali strategie impiega Israele per normalizzare l’esecuzione e l’assassinio dei palestinesi e di altri che resistono alla violenza coloniale israeliana? Sara Troian: Direi che Israele si basa costantemente su due categorie giuridiche fondamentali. Da un lato, c’è la risoluzione 181 delle Nazioni Unite. Questa risoluzione funge da sorta di costituzione giuridica per Israele. Ogni volta che Israele, o i suoi alleati occidentali, hanno bisogno di giustificare la loro esistenza nella regione, fanno spesso riferimento alla risoluzione 181. La seconda è il “diritto all’autodifesa”. Si tratta di un paradosso profondo: abbiamo una potenza coloniale che occupa, espropria e commette genocidio contro una popolazione indigena, rivendicando l’autodifesa proprio contro quella stessa popolazione. Ma questo paradosso non è un’anomalia. È, infatti, del tutto normale. È caratteristico dei sistemi coloniali e imperiali, che si basano e funzionano attraverso contraddizioni. Abbiamo questo linguaggio della securitizzazione, del terrorismo e dell’autodifesa, che mette in evidenza la continuità coloniale insita nel sistema giuridico internazionale. Cinquecento anni fa, durante la cosiddetta “scoperta” delle Americhe, anche le popolazioni indigene furono etichettate come terroriste, contro le quali i colonizzatori europei sostenevano di doversi difendere. La giustificazione era che queste persone e le loro terre dovevano essere “civilizzate”. Oggi, questa stessa missione civilizzatrice si riflette nella descrizione di Israele come “l’unica democrazia in Medio Oriente”, una democrazia che, paradossalmente, è anche definita come uno stato esclusivamente ebraico. Ancora una volta, una contraddizione. Quindi, al di là delle argomentazioni giuridiche basate sul diritto internazionale, c’è anche un appello alla moralità europea e occidentale, profondamente intrecciata con il colonialismo, il capitalismo e gli interessi economici. Come ho detto prima, è importante comprendere il significato geopolitico della Palestina per cogliere la persistenza della violenza di Israele e l’intenzionale riluttanza degli stati occidentali ad applicare le leggi che essi stessi hanno codificato, sulla carta, contro Israele. [comra]: Dopo due anni di guerra genocida a Gaza, si dovrebbe ancora credere nel ruolo del diritto internazionale? Sara Troian: No, ma direi che anche prima di questi ultimi due anni non ci credevo. Dobbiamo comprendere il genocidio in corso come la naturale continuazione di un processo iniziato più di 100 anni fa: una sistematica cancellazione, espropriazione ed esilio della Palestina e del suo popolo. Il diritto internazionale è sempre esistito per sostenere e legittimare questa architettura di cancellazione, difendendola legalmente e fornendo strumenti a Israele e ai suoi alleati per giustificare queste azioni e questi programmi. Non credo nel ruolo del diritto internazionale come arbitro della giustizia. Credo che il diritto internazionale funzioni come uno strumento egemonico di controllo sociale, che alla fine rende impossibile la liberazione. Attraverso il suo riferimento ai “diritti umani” e la sua distinzione tra legale e non legale, astrae la politica e il potere dalle loro realtà materiali. Tratta queste forze come se esistessero al di fuori del regno del diritto, non riuscendo così a sfidare le strutture di potere radicate che producono in primo luogo le cosiddette violazioni dei diritti umani. Promuovendo un quadro di uguaglianza formale, il diritto internazionale legittima e perpetua il capitalismo globale, lo sfruttamento, l’imperialismo e l’oppressione. Le sue fondamenta coloniali hanno neutralizzato il rapporto fondamentale tra colonizzatore e colonizzato, sommergendolo in un discorso infinito su “entrambe le parti”, un discorso che, in termini materiali, favorisce sempre il più potente. Sebbene il diritto si sia evoluto nel tempo, continua a riprodurre queste dinamiche, semplicemente sotto nuovi nomi e forme. La riformulazione delle norme giuridiche, delle narrazioni e del linguaggio nell’era della decolonizzazione non è stata altro che una cooptazione. Le potenze imperiali hanno rimodellato e neutralizzato le richieste anticoloniali incorporandole in quadri giuridici che servivano i loro interessi. Come descritto dall’ex presidente ghanese Kwame Nkrumah, questa transizione ha segnato il passaggio dal colonialismo al neocolonialismo, in cui è stata concessa l’indipendenza formale, ma sono state consolidate forme di controllo più profonde, in particolare economiche. In questo contesto, il diritto internazionale opera come una forma di contro-insurrezione. Limita le possibilità di una vera liberazione entro confini accettabili per le potenze dominanti. La proliferazione del discorso sui diritti umani e il ricorso costante ai meccanismi internazionali oscurano le strategie, le visioni e l’azione politica dei movimenti di liberazione. Questi movimenti sono ridotti alla vittimizzazione, se vengono riconosciuti, o criminalizzati come terrorismo. In fin dei conti, il diritto internazionale è uno strumento del nemico, se intendiamo l’imperialismo come nemico. Non offre nulla che porti alla vera emancipazione. Al contrario, rafforza proprio quelle strutture di oppressione che, sulla carta, pretende di smantellare. Consente alle potenze coloniali e imperiali non solo di continuare a prosperare, ma anche di disumanizzare i popoli colonizzati, descrivendoli come incapaci di aderire ai principi giuridici e quindi bisognosi di istruzione o civilizzazione. Secondo i parametri del diritto internazionale, le guerre di liberazione anticoloniali diventano completamente impossibili. Per concludere, citerò il rivoluzionario palestinese Basel al-Araj, il quale sosteneva che la decolonizzazione e la liberazione materiale dall’imperialismo richiedono un’uscita radicale dal diritto internazionale e dal sistema globale che esso regola. https://comrawire.substack.com/p/international-law-a-tool-of-imperialism?utm_campaign=post&triedRedirect=true&sfnsn=scwspwa Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Festeggiate il cessate il fuoco, ma non dimenticate: Gaza è sopravvissuta con le proprie forze
di Ahmad Ibsais,  Al Jazeera, 9 ottobre 2025.   I leader occidentali ora rivendicano il merito della “pace”, ma la sopravvivenza di Gaza appartiene solo al suo popolo. I bambini palestinesi festeggiano a Khan Younis il 9 ottobre 2025, dopo la notizia di un nuovo accordo di cessate il fuoco a Gaza. [AFP] Il 7 novembre 2023, alcuni bambini si sono presentati davanti alle telecamere dell’ospedale al-Shifa e hanno parlato in inglese, non nella loro lingua madre, ma nella lingua di coloro che pensavano potessero salvarli. “Vogliamo vivere, vogliamo la pace, vogliamo giudicare gli assassini dei bambini”, ha detto un ragazzo. “Vogliamo medicine, cibo e istruzione. Vogliamo vivere come vivono gli altri bambini“. Anche allora, a meno di un mese dall’inizio del genocidio, non avevano acqua potabile, cibo né medicine. Hanno implorato nella lingua dei colonizzatori perché pensavano che avrebbe reso comprensibile la loro umanità. Mi chiedo quanti di quei bambini siano morti ora, quanti non siano mai arrivati a questo momento di ”pace” e se siano morti continuando a credere che il mondo avrebbe risposto alla loro richiesta. Ora, quasi due anni dopo, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump scrive di essere “molto orgoglioso” della firma della prima fase del suo “piano di pace”. Il presidente francese Emmanuel Macron loda e apprezza l’iniziativa di Trump, mentre il leader israeliano Yair Lapid chiede al Comitato Nobel di assegnare a Trump il premio per la pace. I leader si sono messi in fila per rivendicare il merito di aver posto fine a un genocidio che hanno finanziato, armato e reso possibile per due anni, e per i 77 precedenti. Ma Gaza non aveva bisogno di essere salvata. Gaza aveva bisogno che il mondo smettesse di ucciderla. Gaza aveva bisogno che il mondo permettesse semplicemente alla sua gente di vivere sulla propria terra, libera dall’occupazione, dall’apartheid e dal genocidio. Il popolo di Gaza aveva semplicemente bisogno dello standard oggettivo, legale e morale generosamente concesso a coloro che lo hanno ucciso. Il genocidio di Gaza ha messo a nudo un mondo che predica la giustizia ma finanzia l’oppressione, e un popolo che ha trasformato la sopravvivenza stessa in sfida. Tutto questo per dire: gloria al popolo palestinese, alla sua fermezza e al suo potere collettivo. I palestinesi hanno rifiutato di sottomettersi a una narrativa imposta loro, quella di essere mendicanti in cerca di aiuto, “terroristi” che dovevano pagare, o qualsiasi cosa meno di un popolo la cui dignità meritava di essere difesa senza riserve o degradazioni. Gaza non ha fallito. Noi sì. Gaza ha resistito quando il mondo si aspettava che crollasse. Gaza è rimasta sola quando non sarebbe mai dovuto succedere. Gaza ha resistito nonostante l’abbandono internazionale, nonostante i governi che hanno finanziato la sua distruzione e ora si celebrano come artefici di pace. Da uomo di fede, mi viene in mente questo: “Quando viene loro detto: ‘Non seminate la corruzione sulla terra’, rispondono: ‘Noi siamo solo operatori di pace!’” (Corano 2:11). Niente dice pace come due anni di fame, bombardamenti e fosse comuni, quando, invece di consegnare cibo, hanno consegnato sudari. E mentre Gaza sanguinava, i potenti perfezionavano l’arte della negazione. E quando vedo la gente di Gaza festeggiare per le strade, so che questa festa appartiene solo a loro, non a Donald Trump, che ha annunciato che visiterà la regione per prendersi il merito di quella che definisce una “occasione storica”, e non ai leader occidentali che hanno approfittato della devastazione di Gaza fingendo neutralità. Le persone che si precipitano davanti alle telecamere per prendersi il merito sono le stesse che hanno reso possibile il genocidio, che lo hanno finanziato con miliardi di aiuti militari, lo hanno armato con missili a guida di precisione e hanno fornito copertura diplomatica alle Nazioni Unite, ponendo ripetutamente il veto alle risoluzioni di cessate il fuoco del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Gli Stati Uniti hanno approvato ulteriori 14,3 miliardi di dollari in aiuti militari durante il genocidio, aggirando più volte il controllo del Congresso per fornire missili per elicotteri Apache, proiettili di artiglieria da 155 mm, apparecchiature per la visione notturna e bombe bunker buster che sono cadute sulle teste delle famiglie mentre dormivano. Noi che viviamo nel comfort dell’Occidente dovremmo provare vergogna. Agli americani piace immaginarsi dalla parte giusta della storia. Ci diciamo che se avessimo vissuto durante il Jim Crow o l’Olocausto, avremmo fatto di tutto per fermarlo. Ma in America ci sono 340 milioni di persone e non siamo riusciti a impedire che le nostre tasse finanziassero lo sterminio. Non siamo nemmeno riusciti a consegnare latte in polvere, mentre guardavamo i corpi dei bambini deperire. Molti sono rimasti complici, hanno trovato scuse per l’inescusabile, hanno incolpato i palestinesi della loro stessa morte e hanno voltato le spalle all’orrore perché riconoscerlo avrebbe significato confrontarsi con il ruolo del nostro governo nel finanziarlo. Il nostro fallimento non ha oscurato l’azione dei palestinesi, ma l’ha resa più visibile. L’unica pressione che contava proveniva dalle persone che Israele non poteva zittire, i palestinesi che trasmettevano in diretta streaming la propria morte affinché il mondo non potesse dichiararsi all’oscuro o accettare le falsità di Israele come verità. Gaza è sopravvissuta grazie alla propria resistenza, una resistenza a cui il suo popolo ha diritto. Il cessate il fuoco è arrivato perché la fermezza palestinese ha spezzato qualcosa che le bombe non potevano toccare, perché la facciata della vittimizzazione israeliana è crollata sotto il peso delle atrocità trasmesse in diretta streaming e perché l’opinione pubblica mondiale si è rivoltata contro Israele nonostante ogni sforzo per fabbricare il consenso al genocidio. Ciò che è stato ottenuto è scritto nei registri delle vittime civili, non nella sicurezza. Questo è ciò che ha costretto al cessate il fuoco. Il poeta più celebre della Palestina, Mahmoud Darwish, sapeva come sarebbe andata a finire: «La guerra finirà. I leader si stringeranno la mano. La vecchia continuerà ad aspettare il figlio martirizzato. Quella ragazza aspetterà il suo amato marito. E quei bambini aspetteranno il loro eroico padre. Non so chi ha venduto la nostra patria. Ma ho visto chi ha pagato il prezzo». Ora negoziano la pace tra l’assassino e l’assassinato, il macellaio e l’ucciso, e lo chiamano progresso. Il prezzo è stato pagato con il sangue palestinese. E da qualche parte, una donna anziana, una giovane sposa o una figlia orfana stanno ancora aspettando che i loro cari tornino a casa. Ci deve essere piena responsabilità, non solo per Israele, ma per ogni governo e ogni azienda che ha reso possibile questo genocidio. Ci deve essere immediatamente un embargo totale sulle armi a Israele, sanzioni economiche fino al completo ritiro dai territori occupati, libertà per gli oltre 10.000 ostaggi palestinesi e risarcimenti per la ricostruzione determinati e distribuiti dagli stessi palestinesi. I criminali di guerra devono essere perseguiti all’Aia, indipendentemente da quale nazione si opponga. Questo è solo l’inizio. La giustizia non è un’opzione diplomatica, è la misura minima della nostra comune umanità. La “pace” promessa dal piano di Trump è morta con ogni bambino di Gaza, ogni famiglia sfollata e ogni giorno in cui il mondo ha definito il genocidio “autodifesa”, ignorando la sentenza della Corte Internazionale di Giustizia del 2004 secondo cui un occupante non può invocare l’autodifesa contro gli occupati. L’unico futuro giusto è la completa liberazione: uno stato democratico con pari diritti per tutti, a cominciare dal diritto di Gaza di determinare il proprio destino senza assedi, senza occupazione e senza il controllo straniero mascherato da mantenimento della pace. Ma prima di tutto, il popolo di Gaza ha guadagnato il diritto di piangere i propri morti, di contarli e seppellirli in modo dignitoso e, soprattutto, di provare questo piccolo momento di gioia. I palestinesi si sono guadagnati, attraverso sofferenze inimmaginabili, il diritto di definire cosa sia la libertà. Il resto del mondo non ha il diritto di dire loro il contrario. Noi occidentali dobbiamo assicurarci che il mondo non torni alla normalità. Non possiamo lasciarci cullare dalla temporanea cessazione dei bombardamenti aerei mentre l’occupazione continua. Israele non può continuare come se non avesse commesso il crimine più grave della nostra generazione. Le centinaia di migliaia di palestinesi martirizzati e mutilati chiedono giustizia, che non può essere negata. Non possiamo riposare finché l’intero sistema di occupazione e apartheid non sarà smantellato e sostituito dalla liberazione. Questo è solo l’inizio. Palestina libera, dal fiume al mare. Ahmad Ibsais è un palestinese americano di prima generazione e studente di giurisprudenza che scrive State of Siege. https://www.aljazeera.com/opinions/2025/10/9/celebrate-the-ceasefire-but-dont-forget-gaza-survived-on-its-own Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Mia nonna è sopravvissuta alla Nakba, io sopravviverò a questo?
di Areej Almashharawi,  Palestine Studies, 5 settembre 2025    Nella penombra della sua stanza distrutta, la voce di mia nonna riecheggia nelle mie orecchie. Mi ricorda che devo sopravvivere, raccontare la nostra storia come ha fatto lei. Sopravvivo per mia nonna. Mia nonna, Mansoura, che in arabo significa vittoriosa, fu costretta a lasciare la sua casa durante la Nakba nel 1948. Credeva che sarebbe tornata presto, ma non è mai riuscita a tornare indietro. Io, la sua nipote più giovane, me ne sono andata di casa 21 mesi fa, credendo che sarei tornata presto. Quel “presto” è durato 15 mesi. In un certo senso, forse sono più fortunata di mia nonna: sono tornata in quel che resta della mia casa. “Una mattina mi sono svegliata con i continui rumori dei bombardamenti”, mi ha detto, con voce flebile. Era solo una bambina di 11 anni nel 1948. Era una ragazza ordinata e brillante che eccelleva nei suoi studi. “Ero la migliore a scuola e mio padre mi amava più di ogni altra cosa. Era un costruttore edile e io lo aiutavo sempre quando lavorava in paese. Ero la sua figlia unica e prediletta “. In una buia e cupa mattina d’estate, mia nonna si svegliò in un’atmosfera caotica intorno a lei. Si era diffusa la notizia che i soldati israeliani avevano raggiunto e distrutto i villaggi vicini, uccidendo le persone che vi abitavano. In risposta a ciò, suo padre decise prontamente di evacuare il loro villaggio, insieme a tutti gli altri che vivevano lì. Da lì è iniziata la ricerca della sopravvivenza. Al Muharraqa è la nostra città d’origine. Si trova a soli 14 km da Gaza, ma non ci è permesso visitarla. Durante quel terribile giorno del 1948, le strade di Al Muharraqa si riempirono di persone che correvano in varie direzioni, incerte sulla loro destinazione, mentre cercavano la sopravvivenza. Mia nonna ricorda: “Mio padre aveva un asino sul quale mi mise mentre uscivamo dal villaggio”. Se ne sarebbero andati per qualche giorno, fino a quando gli attacchi israeliani non si fossero fermati, ma quegli attacchi non si sono mai fermati. Sono scappati, all’inizio senza meta, poi ad Al Nuseirat, nel centro di Gaza, dove una famiglia che conoscevano li ha ospitati nella loro terra. La prima notte, racconta, “dormivamo sotto un lenzuolo di nylon nel terreno, ma i bombardamenti intensi ci hanno costretto ad entrare nella casa delle persone che ci ospitavano, lasciando dietro di noi l’asino di mio padre e il cavallo di mio zio”. I cavalli significano molto per i palestinesi. Il cavallo apparteneva al cugino di mia nonna, che è stato ucciso dalle forze israeliane dopo che si è rifiutato di evacuare il villaggio. “Solo poche ore dopo che avevamo lasciato gli animali, un attacco israeliano ha colpito il posto. L’asino è stato ucciso e il cavallo è rimasto ferito”, mi dice con gli occhi pieni di lacrime. Nessun medico poteva aiutare il cavallo che era gravemente ferito. Il cavallo è morto pochi giorni dopo. Dopo aver capito che non sarebbero mai più tornati ad Al-Muharraqa, sembrava iniziare una nuova vita per la mia nonnina e la sua famiglia a Gaza. Si è sposata e ha cresciuto i suoi cinque figli, incluso mio padre. Il 7 marzo 2023 mi sono svegliata, mi sono preparata per andare al lavoro, sono andata nella stanza di mia nonna e l’ho salutata, non sapendo che quello sarebbe stato il nostro ultimo addio, per sempre. Non avrei mai pensato che un giorno sarei stata grata per la sua morte. Sono grato che ci abbia lasciati prima di essere costretta a rivivere la Nakba, costretta a evacuare di nuovo la sua casa. Sopravvivere Solo sette mesi dopo la sua scomparsa, il 7 ottobre 2023, le nostre vite si sono fermate. Da quel giorno, la Nakba è ricominciata a Gaza. Le strade sono piene di gente che si dirige senza una meta. La distruzione è ovunque e non c’è un rifugio sicuro. “Evacuare in aree sicure verso sud”. Hanno detto le forze israeliane. Erano arrivati a casa nostra. Dove potevamo andare? Non avevamo altra scelta che evacuare a Rafah, se volevamo sopravvivere. La mia prima perdita dopo mia nonna è stato il mio gatto. Con i suoni intensi dei bombardamenti intorno, non ho avuto la possibilità di portare con me il mio gatto, Basboos. Ho perso un altro pezzo della mia vita. Mancanza di cibo, mancanza di acqua, mancanza di tutto ciò che ci offre la vita, questa era la nostra nuova vita a Rafah. Quasi 500 persone vivevano sul pavimento in cui io e la mia famiglia ci eravamo rifugiati. A causa della mancanza di privacy e di articoli igienici, sono stato infettato dalla varicella da altri bambini nella stanza. Pensavo che la sofferenza sarebbe finita lì. Non è stato così. Siamo stati costretti a evacuare di nuovo, a Khan Younis. Ho sperimentato per la prima volta il viaggio su un asino quando sono stato evacuato ad al-Mawasi a Khan Younis. La parte peggiore è stata che quando siamo arrivati, la nostra tenda non era ancora montata e i bisogni umani di base, come un bagno, non erano disponibili. Abbiamo trascorso 9 mesi lì, in una tenda di nylon che non ci proteggeva dal caldo dell’estate o dal freddo dell’inverno. Ma la minima privacy in quella piccola tenda condivisa solo con i membri della famiglia era una cosa enorme per me. Poi, dopo decine di cessate il fuoco falliti, ne è entrato in vigore uno fragile e siamo potuti tornare a casa. Ancora una volta, abbiamo affrontato un altro viaggio infernale: camminare di notte per tornare a casa. È stata una notte agrodolce quando siamo tornati. Eravamo felici di essere tornati a casa e tristi perché non era più casa. La nostra casa è diventata una rovina permanente di muri, finestre e porte rotte. Ma facciamo tutto il possibile per farla sentire come a casa. Con tende e lenzuola di nylon, cerchiamo di ricucire la nostra casa e le nostre vite. Mi trovo proprio davanti alla stanza di mia nonna, respirando il suo profumo meraviglioso, familiare, quello che mi ricorda la sua tenerezza e le sue calde preghiere. La immagino sdraiata pacificamente sul suo letto, e ringrazio silenziosamente Dio per non averle fatto rivivere tutto questo. L’aggressione non è ancora finita. Gli ordini di evacuazione sono di nuovo presenti. Dire addio a ogni pezzo della mia amata città, Gaza, e alla mia vita, è ciò che faccio ogni singolo giorno. Trovo quasi impossibile tornare alla mia precedente vita normale. Tutto ciò che una volta ci offriva una vita semi-stabile non è più disponibile. Abbiamo riposto qualche speranza in ogni possibilità di un cessate il fuoco e abbiamo ricevuto solo la delusione. Piango in una lingua che nessuno capisce, per tutto quello che ho perduto e per quello che deve ancora venire. Ma sono ancora fiduciosa, e manterrò viva la speranza per mia nonna e per la Palestina. Sopravvivo. https://www.palestine-studies.org/en/node/1657795 Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.
Il piano “Gaza Riviera”: gentrificare il genocidio israeliano
di Muhammad Shehada,  The New Arab, 16 settembre 2025.   Il piano “Gaza Riviera” usa il linguaggio degli investimenti e della riqualificazione per far passare come innovazione il genocidio dei palestinesi da parte di Israele. Il cosiddetto piano “Gaza Riviera” non è tanto una visione del futuro quanto un necrologio scritto nel linguaggio del lusso. Avvolto in presentazioni patinate e commercializzato come un balzo in avanti verso il progresso, è in realtà il culmine di anni di deliberata devastazione: un piano per cancellare i palestinesi da Gaza e rinominare la loro assenza come innovazione. Ciò che viene presentato come investimento e rigenerazione è, in realtà, il riciclaggio del genocidio in uno spettacolo, una copertura estetica per un progetto politico le cui fondamenta sono le macerie di Gaza e il silenzio dei suoi abitanti espulsi. Perché Israele non ha mai sviluppato un piano postbellico a Gaza Il piano “Gaza Riviera”, pur ampiamente condannato, viene presentato come la trasformazione di un’enclave completamente distrutta in una serie di megalopoli balneari futuristiche e high-tech, ed arriva vestito con il linguaggio degli investimenti e della modernità. Ma guardando oltre i rendering e le presentazioni per gli investitori, emerge una verità più cruda: non si tratta di una strategia diplomatica, ma di un’estetica della scomparsa. Questo spiega perché, per due anni, non ci sia stato alcun piano politico israeliano coerente per Gaza al di là della distruzione di massa, dello sterminio di massa e della fame di massa; la cancellazione di Gaza è stata fin dall’inizio il vero piano. La coreografia politica delle ultime settimane tradisce le priorità di questo piano. Mentre il presidente degli Stati Uniti Donald Trump, suo genero Jared Kushner, Tony Blair e gli inviati israeliani si riunivano per immaginare il futuro di Gaza senza un solo palestinese nella stanza, il genocidio continuava, spogliando la Striscia di ciò che resta della sua densità urbana e del suo tessuto sociale. La conclusione è che la cancellazione di Gaza non è un ostacolo al piano, ma la sua condizione preliminare. Il piano di Netanyahu fin dall’inizio I contorni fondamentali del piano Riviera sono venuti alla luce in documenti trapelati di recente che descrivono le proposte di porre Gaza sotto l’amministrazione fiduciaria degli Stati Uniti per circa un decennio, spopolare completamente l’enclave dei suoi abitanti palestinesi e commercializzare la costa come un futuristico polo turistico-tecnologico: “la Riviera del Medio Oriente”. Nulla di tutto questo, tuttavia, è nuovo. Il progetto originale di questo promesso centro fantascientifico, costruito su fosse comuni e città rase al suolo, è stato creato dallo stesso Benjamin Netanyahu diversi mesi prima che Trump fosse eletto. La “Visione Gaza 2035” del primo ministro israeliano, rivelata nel maggio 2024, immaginava l’enclave, da tempo sotto assedio, come una zona industriale e di libero scambio simile a Dubai e utilizzava le stesse immagini generate dall’intelligenza artificiale che vengono ora utilizzate nel piano Riviera. Non è una coincidenza che entrambi i piani abbiano un’introduzione quasi identica. “Da una [Gaza] distrutta a un prospero alleato di Abramo”, recita il piano Riviera, mentre Netanyahu ha sottolineato la “ricostruzione dal nulla”. Sono implicite le stesse due condizioni preliminari: Gaza deve essere completamente rasa al suolo senza lasciare nulla e deve essere svuotata della sua popolazione per trasformarla in una tela bianca da sviluppare partendo da zero. Il piano “Gaza Riviera”, ampiamente condannato, reinterpreta il genocidio come rigenerazione. [Getty] Questo era il piano di Netanyahu fin dall’inizio, quando il primo giorno di guerra ha ordinato alla popolazione civile di Gaza di “andarsene subito” prima che una distruzione senza precedenti colpisse “ogni luogo”. Netanyahu ha poi raddoppiato la posta in gioco quando il suo ministero dell’intelligence ha prodotto un piano dettagliato per l’espulsione di massa e il trasferimento forzato della popolazione di Gaza. Gli israeliani hanno persino convinto l’allora Segretario di Stato americano Anthony Blinken a visitare paesi arabi come l’Egitto e l’Arabia Saudita per promuovere l’idea del “trasferimento temporaneo” della popolazione di Gaza nel Sinai. All’epoca questa impresa fallì e Israele non riuscì a trovare un pubblico disposto ad accettare il futuristico complotto su Gaza. Netanyahu ha continuato ad aspettare il momento opportuno fino all’insediamento di Trump, quando si è precipitato a Washington per convincere il presidente americano a presentare l’idea della pulizia etnica e della conquista di Gaza come se fosse una sua idea. Da allora, Netanyahu ha continuato a riferirsi alla sistematica espulsione di massa da Gaza da parte di Israele come “attuazione del piano Trump” per scaricare sull’alleato la colpa di questa politica genocida. La copertura di Netanyahu – e il pubblico a cui è destinata Gli esperti hanno ripetutamente criticato il Piano Riviera di Gaza definendolo “folle”, irrealistico, impraticabile e pieno di ostacoli legali e morali che renderebbero chiunque lo promuovesse complice di crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Ecco perché il Boston Consulting Group si è affrettato a sconfessare i propri consulenti senior quando questi hanno elaborato un piano dettagliato per rendere operativo il trasferimento di massa della popolazione di Gaza, includendo scenari modellizzati e fogli di calcolo che quantificavano il costo della pulizia etnica. Chiunque voglia contribuire a questo abominio sarà esposto a cause legali e procedimenti penali per decenni a venire. Ma la fantasia futuristica di Trump sul Mediterraneo potrebbe non essere intesa come un piano serio fin dall’inizio. È semplicemente una storia con un “lieto fine” artificiale al genocidio e alla pulizia etnica che Israele racconta ai suoi complici. La vera utilità per Netanyahu di questa idea stravagante è la gestione della narrativa. Mentre il governo israeliano porta avanti una campagna che riorganizza la geografia e la topografia di Gaza e la rende inabitabile – radendo al suolo quartieri, espellendo in massa centinaia di migliaia di persone nei campi di concentramento, bruciando case e facendo morire di fame i bambini – le diapositive della Riviera forniscono un alibi al futuro. Alla destra di Netanyahu, sussurrano il vecchio sogno di insediamenti esclusivamente ebraici che tornano a Gaza; ai suoi alleati all’estero, offrono un ottimismo su cui si può investire. Alla base di Trump, vendono la favola definitiva del MAGA: “Faremo fiorire il deserto e lo renderemo nostro”. Lo sfarzo è il punto; il piano che circola alla Casa Bianca è persino chiamato formalmente GREAT (abbreviazione di Gaza Reconstitution, Economic Acceleration, and Transformation, ovvero Ricostruzione, Accelerazione Economica e Trasformazione di Gaza). Per il marchio politico di Trump, la promessa di trasformare le rovine in resort è un classico espediente teatrale. La “Riviera di Gaza” non è una deviazione dalle politiche di assedio e massacri degli ultimi due decenni di Israele a Gaza, ma piuttosto il loro culmine. [Getty] I paesaggi urbani patinati aiutano a vendere al mondo MAGA e ai venture capitalist l’immagine di Gaza come una tela bianca in attesa di geni esterni che la dipingano, mentre, sul campo, il genocidio procede ininterrottamente e senza restrizioni verso la sua fase finale. In questo senso, la fantasia della Riviera non è una deviazione dagli ultimi due decenni di politiche draconiane di assedio e massacri a Gaza da parte di Israele, ma piuttosto il loro culmine. È un gioco di parole per camuffare l’indifendibile; la distruzione diventa “preparazione del sito”, lo sfollamento diventa “pianificazione urbana”, lo sterminio diventa un trampolino di lancio verso profitti e opportunità commerciali inesplorate. Questo è ciò che rende le rappresentazioni della Riviera di Gaza un potente strumento di propaganda, perché invertono la realtà. Propongono spiagge senza persone, torri senza inquilini, porti senza politica. Fanno sembrare l’assenza dei palestinesi un progresso. Israele sta promettendo Gaza ai coloni, non a futuristici investitori È illogico che Israele faccia di tutto per compiere un genocidio a Gaza, spenda quasi 90 miliardi di dollari in questa guerra, perda oltre 900 soldati, diventi uno stato paria, solo per poi consegnare Gaza su un piatto d’argento al governo statunitense e ai magnati americani della tecnologia e del settore immobiliare. Yehuda Shaul, cofondatore di Breaking the Silence, ha dichiarato a The New Arab che secondo lui il piano della Riviera di Gaza “non è collegato allo sforzo principale del movimento dei coloni [israeliani]”, che sta spingendo per un ritorno a Gaza. “Il piano originale delle organizzazioni dei coloni, che si adatta anche alla geografia di base di Gaza, è quello di tornare a quello che un tempo era chiamato ‘il recinto settentrionale’, ovvero i tre insediamenti nel nord di Gaza: Elei Sinai, Nisanit e Dugit”, ha aggiunto Yehuda. “Questi sono gli insediamenti che un tempo si trovavano a nord di Beit Lahia. Questo è ciò a cui mirano i coloni”. Shaul ha spiegato che i commentatori israeliani della destra come Amit Segal hanno spinto questa idea sui media mainstream. “Viene venduta come una ‘semplice’ espansione dei confini [di Israele] invece che come un’annessione di parti significative della Striscia di Gaza”. La promessa di grattacieli e porti turistici su una costa spopolata non è un piano di pace, ma un teatro di espropriazione, una storia scritta per gli investitori stranieri, i comizi di MAGA e le fantasie dei coloni. La “Riviera di Gaza” non indica un domani di convivenza o prosperità; rimanda alla più antica logica coloniale di trasformare le vite altrui in ostacoli e la loro cancellazione in opportunità. Muhammad Shehada è uno scrittore e analista palestinese di Gaza e responsabile degli affari europei presso Euro-Med Human Rights Monitor https://www.newarab.com/analysis/gaza-riviera-plan-gentrifying-israels-genocide Traduzione a cura di AssopacePalestina Non sempre AssopacePalestina condivide gli articoli che pubblichiamo, ma pensiamo che opinioni anche diverse possano essere utili per capire.