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Contro la violenza dei coloni in Cisgiordania servono scelte vincolanti
La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania contro la popolazione palestinese è in costante escalation. Le cronache e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani documentano migliaia di attacchi negli ultimi due anni, registrando un record assoluto proprio lo scorso ottobre con almeno 264 attacchi in un mese: incursioni armate nei villaggi, pestaggi, distruzione sistematica di case, campi e infrastrutture, furti e saccheggi. Uno degli episodi più recenti è avvenuto nella zona di Ein al-Dujuk, vicino a Gerico: quattro attivisti – un canadese e tre italiani – sono stati aggrediti nel sonno, picchiati e derubati da un gruppo di coloni mascherati, armati di bastoni e fucili. È l’ennesima prova di una violenza di tipo squadrista, resa possibile dall’impunità garantita dalle autorità israeliane, che mira strategicamente a terrorizzare la popolazione palestinese per spingerla ad abbandonare la propria terra. Ogni giorno palestinesi subiscono gli stessi attacchi terroristici – spesso ancora più violenti e con esito letale – lontano dalle telecamere e dall’attenzione dei governi occidentali: «Siamo stati aggrediti nel sonno, picchiati, derubati di documenti, telefoni, carte di credito e di tutti i nostri effetti personali. Quello che è accaduto a noi è la realtà quotidiana dei palestinesi: siamo qui a supporto della popolazione e per documentare quanto accade, perché la nostra esperienza sia cassa di risonanza della loro quotidianità.», ci ha raccontato uno dei volontari aggrediti. Di fronte all’aggressione a Ein al-Dujuk, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani si è limitato a un commento generico, minimizzando l’accaduto, condannando timidamente a Israele e invitandolo a fermare le azioni dei coloni in Cisgiordania. Non è sufficiente: il governo Meloni deve assumere decisioni concrete, all’altezza della gravità delle violazioni del diritto internazionale da parte dell’entità sionista. «L’Italia deve agire nei confronti di Israele alla stregua di quanto la comunità internazionale fece contro il regime di apartheid sudafricano, adottando misure non simboliche ma vincolanti, per isolare un regime criminale» ha dichiarato Maria Elena Delia, portavoce italiana di GMTG/GSF. «Per questo chiediamo che il governo italiano assuma immediatamente i seguenti impegni concreti»: * embargo sulle armi e sui componenti militari destinati a Israele; * sospensione degli accordi di cooperazione politica, commerciale, militare, di sicurezza e ricerca strategica che rafforzano l’occupazione; * disinvestire e smantellare ogni forma di collaborazione nelle arene politiche, culturali e sportive, finché non sarà messo fine all’occupazione e i responsabili del genocidio saranno perseguiti e chiamati a rispondere dei propri crimini. A Gaza, intanto, centinaia di migliaia di persone affrontano l’inverno in tende allagate e insicure, con accesso limitato a cibo, acqua e cure mediche. Chiediamo con forza al ministro Tajani di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione del governo per ottenere l’apertura di corridoi umanitari permanenti e rimuovere gli ostacoli politici e burocratici all’ingresso degli aiuti. La credibilità di una nazione si misura sulla capacità di trasformare le dichiarazioni di facciata in scelte concrete, nel rispetto degli obblighi internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. Global Movement to Gaza
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori. Ora deve agire di conseguenza
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex ha pubblicato un report che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen’s, e identifica chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre del 2024 Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy, tre minori egiziani, hanno comunicato al Collettivo di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di confine bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi da parte del collettivo di raggiungere i tre minori, che sono di conseguenza morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la nostra versione: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita.” Il report di Frontex rigetta anche la campagna di diffamazione che il Ministero dell’Interno ha messo in atto a seguito delle nostre accuse. Dopo che abbiamo pubblicato un report dettagliato degli eventi, la polizia di frontiera ha aumentato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine portato avanti da ONG, persone in movimento e dalle loro famiglie. Il report riconosce che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, dicendo che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Frontex, che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria. Il personale di Frontex è per legge sotto il controllo diretto dei propri collaboratori bulgari; l’affermazione dell’Ufficio per i Diritti Fondamentali che aumentare la presenza di Frontex diminuirebbe la violenza sul confine non ha perciò alcun senso. Persino l’Ufficio stesso riconosce che migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta e che il personale di Frontex “rischia” di essere complice – o meglio, è direttamente responsabile – di queste espulsioni. A partire da marzo 2025, personale di Frontex ha anche ripetutamente bloccato e seguito squadre di ricerca e soccorso per ore, impedendo loro di raggiungere migranti in situazioni di emergenza. Nonostante l’Ufficio affermi che il nostro lavoro di ricerca e soccorso è “autentico,” e denunci gli sforzi della polizia di frontiera per ostacolarci, il personale di Frontex ha partecipato direttamente e in più occasioni alla criminalizzazione delle squadre civili di ricerca e soccorso, utilizzando le stesse pratiche della polizia di frontiera. Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete. Se Frontex prende sul serio le sue stesse accuse, non potrà che cessare immediatamente ogni collaborazione e supporto alle autorità bulgare. Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente, ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere. Collettivo Rotte Balcaniche
Accordo Italia-Libia, MSF: “No al rinnovo di un sistema di violenze e torture”
L’accordo Italia-Libia deve essere interrotto perché perpetua scellerate politiche di respingimento e detenzione sulla pelle delle persone, alimentando nel Mediterraneo il numero delle morti in mare, avverte Medici Senza Frontiere (MSF) a pochi giorni dal rinnovo automatico previsto per il 2 di novembre. Dal 2017, con questo accordo l’Italia e l’Unione Europea forniscono supporto finanziario, tecnico e logistico alla Guardia Costiera libica, che continua ad alimentare un ciclo criminale di violenze, mettendo in pericolo la vita delle persone migranti in difficoltà in mare e del personale delle ONG impegnate nelle operazioni di ricerca e soccorso. “L’accordo Italia-Libia è un patto vergognoso stretto sulla pelle delle persone e non deve essere rinnovato. Addestriamo e finanziamo la Guardia Costiera libica, che ancora nei giorni scorsi, dopo anni di episodi violenti, ha sparato contro un’imbarcazione in pericolo ferendo 3 persone, tra cui un ragazzo di 15 anni attualmente in coma. Nel frattempo, il sistema di accoglienza in Italia viene svuotato dei servizi e il diritto d’asilo è fortemente depotenziato” dichiara la dr.ssa Monica Minardi, presidente di MSF in Italia. Solo quest’anno 22.509 persone migranti in fuga dalla Libia sono state intercettate in mare e riportate indietro con la forza, secondo i dati dell’IOM. Il più delle volte tornano in centri di detenzione in cui subiscono violenze, torture, abusi: tutto questo con la connivenza e con il supporto economico dell’Italia. Al solo scopo di bloccare gli arrivi nel nostro Paese, si dimentica colpevolmente ogni obbligo di tutela dei diritti umani. “Per evitare che altre persone muoiano in mare e che vengano deportate nei centri di detenzione o in circuiti illegali di sfruttamento e violenza in Libia, l’Italia e l’Ue dovrebbero garantire vie legali e sicure d’accesso e un’attività dedicata e coordinata tra i diversi Stati membri, di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale” aggiunge la dr.ssa Minardi di MSF. La Libia non è un luogo sicuro per le persone migranti e dal 9 novembre non sarà più un Paese dove le ONG, inclusa MSF, potranno operare a causa di una decisione annunciata ieri dalle autorità libiche. “Le nostre psicologhe assistono ogni giorno persone migranti sopravvissute alla detenzione in Libia e alla traversata del Mediterraneo. Il 60% degli episodi di violenza e tortura subiti dai nostri pazienti in cura a Palermo, nell’ambito del servizio specializzato per sopravvissuti a tortura, sono avvenuti in Libia. Il rinnovo dell’accordo rende l’Italia complice di tutto ciò” conclude la dr.ssa Minardi di MSF.   Medecins sans Frontieres
L’appello di SOS Mediterranee contro il rinnovo del Memorandum Italia-Libia
Oggi si discuterà in Parlamento una mozione che chiede la sospensione del Memorandum Italia-Libia: si tratta del documento firmato nel 2017 dal nostro governo col governo di Tripoli che prevede il sostegno alla Guardia Costiera libica e la collaborazione nel controllo delle frontiere. SOS MEDITERRANEE chiede con forza che la mozione venga approvata e che gli accordi vengano sospesi, perché la Libia non è un partner con cui stringere alleanze, ma va riconsiderato per quello che è: un Paese instabile e non sicuro, dove vengono sistematicamente e drammaticamente violati i diritti delle persone. In Libia non esiste il rispetto dei diritti umani e del diritto internazionale Se non verranno presi provvedimenti entro il 2 novembre, nel febbraio del 2026 gli accordi presi dal governo italiano con il governo libico saranno automaticamente rinnovati. Si tratta di accordi che prevedono sostegno economico, materiale e operativo da parte dell’Italia a un Paese ormai unanimemente considerato illiberale. Molte indagini da parte di agenzie internazionali (ONU, OHCHR, UNHCR, IOM) hanno dimostrato in modo incontrovertibile che in Libia i migranti vengono incarcerati, torturati, ricattati, stuprati, costretti ai lavori forzati e non di rado uccisi. Questo il prezzo da pagare in termini di vite umane per appaltare la gestione di un fenomeno naturale come le migrazioni a un Paese violento e instabile, e fingere come Europa che non ci riguardi. Inoltre, se il diritto marittimo internazionale prevede che le persone soccorse in mare vengano portate in un luogo sicuro, la Libia non può essere considerata un approdo, date le sistematiche violazioni documentate. La missione d’inchiesta delle Nazioni Unite e le indagini indipendenti hanno anche evidenziato legami strutturali della Guardia Costiera libica con le milizie e le reti di trafficanti; alcuni comandanti della Guardia costiera libica sono stati direttamente implicati nel traffico di esseri umani, minando ogni pretesa di legittimità come autorità marittima neutrale.  La Guardia Costiera libica spara, l’Italia tace Con le motovedette di classe Corrubia donate proprio dal nostro Paese, la Guardia Costiera libica opera respingimenti illegali violando sistematicamente il diritto marittimo internazionale, e si prende anche la libertà di attaccare violentemente navi del soccorso civile, come accaduto proprio a noi lo scorso 24 agosto, quando solo per caso non ci sono state conseguenze drammatiche per il nostro equipaggio e per le 87 persone a bordo appena salvate dal mare. Non una parola dal governo italiano su questo attacco gravissimo e ingiustificato, ma purtroppo non isolato, operato da un governo che continuiamo a sovvenzionare e considerare amico. “Riteniamo sia necessario – spiega Valeria Taurino, direttrice generale di SOS MEDITERRAEE Italia – condurre un’indagine completa sugli incidenti violenti, compreso quello contro la Ocean Viking, a livello nazionale e dell’UE, e chiediamo anche che sia garantita la protezione degli attori umanitari che operano in quel tratto di mare, colmando un vuoto lasciato dalla politica. Inoltre, l’Organizzazione marittima internazionale dovrebbe urgentemente verificare il riconoscimento della regione SAR libica, e le autorità europee e italiane dovrebbero esaminare il proprio ruolo nel consentire queste violazioni, iniziando proprio con l’abrogazione del Memorandum: non si può più fingere di non sapere di quali e quanti crimini vengano commessi dalle autorità libiche; smettere di collaborare con loro sarebbe il minimo per ogni paese che si dica democratico”. Per ribadire con forza la nostra posizione contro il rinnovo degli accordi con la Libia, saremo nei prossimi giorni in piazza per partecipare agli action day organizzati da Refugees in Libya al fianco delle altre associazioni umanitarie che come noi vivono ogni giorno, direttamente e indirettamente, le violenze delle autorità libiche e che come noi sentono l’urgenza di agire.     Redazione Italia
CPR: IL VIAGGIO DI MARCO CAVALLO PER LA CHIUSURA DEI CENTRI PER RIMPATRIO. PROSSIMA TAPPA A MILANO
È partito ufficialmente il 6 settembre da Gradisca d’Isonzo il viaggio di Marco Cavallo, simbolo di lotta per la libertà e i diritti.  Il gigantesco cavallo azzurro accompagnerà associazioni, gruppi, operatori, comitati e attivisti che denunciano le condizioni dei Centri di Permanenza per il Rimpatrio italiani, in cui vengono detenute persone migranti in attesa di deportazione. Da tempo vengono denunciate le violenze sistematiche, le condizioni degradanti, gli abusi quotidiani documentati più volte e si chiede la chiusura di questi luoghi di detenzione amministrativa, proprio come veniva chiesta da Franco Basaglia e il suo gruppo la chiusura dei manicomi. La storia di Marco Cavallo inizia infatti il 21 gennaio 1973 dai pazienti e operatori del manicomio di San Giovanni a Trieste durante l’esperienza di Basaglia. In quell’occasione il cavallo azzurro lasciò il ghetto manicomiale di Trieste e centinaia di ricoverati lo seguirono invadendo le strade della città. Il progetto è stato lanciato a febbraio dal Forum Salute Mentale. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Carla Ferrari Aggrada, del direttivo del Forum Salute Mentale. Ascolta o scarica.
Mille morti in dieci mesi e soprusi quotidiani. Ecco come i palestinesi (soprav)vivono in Cisgiordania
Le colonie nascono come funghi in Cisgiordania, autenticamente dalla sera alla mattina: ti alzi e trovi a 50 metri dal villaggio un avamposto, a volte solo una bandiera, ma il giorno dopo arriva una roulotte, poi spunta un prefabbricato e i pastori palestinesi si ritrovano sotto assedio, in balia dei soprusi quotidiani di coloni e ‘forze dell’ordine’. È esasperata Elena Castellani, volontaria di Assopace Palestina, reduce da quasi tre settimane trascorse in agosto a Masafer Yatta, il villaggio palestinese reso famoso dal documentario premio Oscar “No other land”. Ecco la sua testimonianza, seguita da quella di Sara Emara, attivista italo-egiziana di Amnesty International. Qual è la situazione che hai trovato il mese scorso? Era la terza volta in un anno che andavo a fare ‘interposizione’ per difendere la popolazione palestinese e denunciare gli abusi quotidiani che è costretta a subire. Rispetto all’estate scorsa e a dicembre la situazione già drammatica è ulteriormente peggiorata. L’avvento alla Casa Bianca di Donald Trump e l’appoggio incondizionato del governo estremista di Netanyahu hanno reso i coloni ancora più arroganti. Sanno di poter godere non solo di totale impunità per i loro crimini, ma anche della complicità di tutte le ‘forze di sicurezza’”. Com’è amministrata la Cisgiordania? La Cisgiordania è divisa in tre zone, A, B e C. La prima è (almeno in teoria) governata dai palestinesi sotto l’aspetto amministrativo e militare e copre circa il 18% del territorio, la B (22%) solo per le questioni civili, la Zona C invece è alla mercé degli israeliani, che gestiscono il potere in modo totalmente arbitrario. Con il pretesto di aperture o ampliamenti di zone militari rubano impunemente la terra e il bestiame ai pastori, uccidono le loro galline, avvelenano le capre. Fanno incursioni notturne nelle case, le devastano, bastonano gli anziani, picchiano i ragazzi. Cingendo d’assedio i villaggi impediscono alle famiglie di guadagnarsi da vivere con la pastorizia. Chiudono i pozzi con il cemento, li avvelenano o più spesso deviano il flusso verso le piscine delle colonie illegali. I palestinesi sono quindi costretti ad andare a comprare l’acqua a caro prezzo nella Zona A, e non è sufficiente per irrigare i campi e abbeverare gli animali. Un altro sistema molto usato è la demolizione delle case e delle scuole. I palestinesi di notte le ricostruiscono, ma pochi giorni dopo vengono di nuovo distrutte, magari con dentro gli animali o le loro povere cose. Per costruire o riscostruire serve un permesso che le autorità non concedono mai. Molte famiglie si riducono a vivere dentro le grotte, dove i bambini e gli anziani si ammalano e non c’è neanche la possibilità di farli curare. Nei giorni scorsi all’ingresso del villaggio di At Tuwani in una notte l’esercito ha installato un cancello giallo, trasformato subito in check point: i soldati possono decidere ‘a sentimento’ se e quando far tornare a casa i palestinesi. I palestinesi possono rivolgersi a qualcuno per rivendicare i propri diritti? No. In Area C spadroneggiano i coloni appoggiati dalla polizia, dalle ‘forze di sicurezza’ e dall’esercito. Se qualche palestinese abbozza una minima reazione ai soprusi anche solo a parole si ritrova come minimo pestato e arrestato, ma non di rado viene ferito o ucciso. Secondo l’Onu negli ultimi dieci mesi circa mille palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani in Cisgiordania. Chi poi finisce in carcere (e tra questi ci sono centinaia di bambini e adolescenti) può essere sottoposto a tortura fino alla morte e restarci per anni senza poter vedere un avvocato grazie alla ‘detenzione amministrativa’ prevista dalla legge marziale che vige (solo per i palestinesi) in tutti i territori occupati. Qual è l’obiettivo dei coloni israeliani? Vogliono rendere impossibile la vita ai palestinesi per costringerli ad andarsene. E per quanto si tratti di un popolo molto resiliente, spesso riescono nel loro intento. In agosto ho dovuto con tristezza constatare che una comunità che avevo aiutato l’anno scorso aveva ceduto e abbandonato il suo terreno dopo quotidiane incursioni e aggressioni di otto sgherri armati e mascherati: devastavano le case, spruzzavano spray urticante, hanno pestato due ragazzini. Come si può vivere nel terrore? Il problema è che non esistono posti sicuri per i palestinesi, ora più che mai con l’invasione della Striscia di Gaza e il genocidio in corso. Qual è l’attività dei volontari e quali rischi corrono? Il nostro intento è quello di proteggere le famiglie palestinesi, contando sul fatto che la presenza di persone straniere possa fare da deterrente alle incursioni e prepotenze dei coloni. Facciamo turni di guardia la notte per dare l’allarme in caso di bisogno e di giorno accompagniamo quando possibile i pastori al pascolo e i bambini a scuola. Ma siamo ovviamente disarmati e di fronte alle angherie non possiamo far altro che protestare e documentare ciò che accade. Anche noi siamo passibili di arresto, possiamo essere tenuti in cella 24 ore e poi caricati su un aereo diretto a un qualsiasi aeroporto. In passato, alcuni volontari sono stati anche uccisi. È successo un anno fa a Aysenur Ezgi Eygi, 26enne statunitense di origine turca e attivista dell’International solidarity movement, e ancor prima a Tom Hurndall, colpito da un cecchino mentre nella Rafah del 2003, al centro di una pesante offensiva israeliana, indicava ad alcuni bambini dove cercare riparo dalla sparatoria in corso in quel momento e a  Rachel Corrie, schiacciata dai cingoli di una ruspa militare mentre chiedeva di fermare la demolizione della casa di un medico palestinese. Che cosa pensi accadrà alla Global Sumud Flotilla?  Temo saranno attaccati e imprigionati. Israele sa di avere la protezione degli Stati Uniti e di potersi permettere qualsiasi cosa. Tra i rischi che corrono i volontari che da ogni parte del mondo vanno in Cisgiordania c’è anche quello di non riuscire a entrare nei territori occupati. È successo a Sara Emara, attivista italo-egiziana di Amnesty International, che con Elena Castellani e altri tre ha tentato di passare la frontiera con la Giordania. Ho fatto l’errore di presentarmi per prima al controllo passaporti e il cognome egiziano ha destato l’attenzione. Mi hanno trattenuta per oltre sei ore e sottoposta a tre diversi interrogatori. Naturalmente mi ero preparata: la motivazione del viaggio era un pellegrinaggio in Terra Santa con qualche giorno di mare in coda. Avevo svuotato il telefono da tutto ciò che poteva essere compromettente, dai social a molti dei miei contatti. La giustificazione dello smartphone appena sostituito a causa di un furto non ha convinto i soldati, che alla fine mi hanno caricato su un autobus diretto ad Amman. In teoria avrei avuto 30 giorni per fare ricorso; se non lo presenti possono ‘bandirti’ da Israele per 5 anni, ma se lo fai vai incontro a un processo lungo e costoso con altissime probabilità di perdere ed essere condannata per ingresso illegale. Ho dovuto rassegnarmi a tornare in Italia, ma il mio impegno non verrà certo meno. Foto di Elena Castellani Claudia Cangemi
“SIRIA DIVISA, VERITÀ OSCURATE: SUWAYDA E IL RITORNO DEI MASSACRI”: IL PUNTO DELLA SITUAZIONE NEL PAESE CON DAVIDE GRASSO
Per commentare i fatti recenti che riguardano la Siria e il Medio oriente abbiamo intervistato Davide Grasso, ricercatore in Sociologia politica al dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino e nostro collaboratore. Nei giorni scorsi, ha pubblicato un articolo su MicroMega a commento degli scontri e dei massacri a Suwayda, città a maggioranza drusa nel sud della Siria, e dei bombardamenti israeliani che hanno colpito a due passi dai palazzi governativi a Damasco. “I fatti di Suwayda – scrive Davide Grasso – sono tanto più gravi, se osservati da occidente, poiché si inseriscono in un contesto di piena legittimazione statunitense ed europea alle forze che continuano a commettere questi crimini in Siria. Rappresentano l’ennesimo monito ai mezzi d’informazione e al pubblico italiani a non occuparsi di Siria unicamente in presenza di episodi di violenza, poiché questi ultimi risultano incomprensibili se l’informazione non segue l’evoluzione del paese in modo costante”. Proprio per questo gli abbiamo chiesto innanzitutto di inquadrare la situazione generale attuale nel Paese, prima di addentrarci in diverse questioni particolari. Tra le questioni specifiche che abbiamo approfondito insieme al nostro collaboratore, siamo partiti dalle divisioni interne all’arcipelago islamista di cui fa parte Hayat Tahrir al Sham, il gruppo guidato da colui che a dicembre 2024 si è proclamato presidente, Ahmad Al-Sharaa. All’interno del fronte jihadista ci sono visioni diverse sulla Siria che verrà. Al-Sharaa ha dato dei segnali piuttosto chiari su quale sia la sua: Davide Grasso, nell’articolo e nell’intervista su Radio Onda d’Urto, ricorda la partecipazione di Al Sharaa al World Economic Forum di Davos, gli accordi per la ricostruzione o la costruzione di infrastrutture già siglati con diverse imprese turche, del Golfo, europee e statunitensi, la stretta di mano con Donald Trump. Una parte dei militanti jihadisti di Hts ha già dato vita a una scissione, passando all’opposizione. Anche in questo contesto si sono sviluppati gli scontri e i massacri sulla costa siriana a dicembre e in primavera, nelle aree popolate dalla popolazione alawita, e nel sud, nella città drusa di Suwayda, in queste settimane. Durante gli scontri e le violenze a Suwayda, l’esercito israeliano ha bombardato la stessa città a maggioranza drusa, la città di Dar’a e il cuore della capitale siriana Damasco. In contemporanea, a Baku, Azerbaigian, si stavano però tenendo colloqui tra il governo siriano e quello israeliano. Usa, Turchia e monarchie del Golfo, Arabia Saudita in particolare, cercano una mediazione che – di fatto – porti anche la “nuova Siria” nell’orbita degli “accordi di Abramo”. A Davide Grasso abbiamo chiesto perché – a suo avviso – Israele bombarda la Siria mentre sta discutendo con Damasco di questa “normalizzazione” dei rapporti. Nell’intervista, guardiamo infine all’altra sponda dell’Eufrate: l’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord e dell’est ha celebrato nei giorni scorsi, il 19 luglio, il 13esimo anniversario della rivoluzione e l’inizio dell’autogoverno secondo il modello del confederalismo democratico. In questa fase sembra godere di una certa stabilità interna e soltanto pochi mesi fa ha dato prova della propria capacità di autodifesa, di difendersi dagli attacchi e tentativi di invasione, con la resistenza alla Diga di Tishreen, vicino Kobane. Anche l’Amministrazione autonoma, così come le altre organizzazioni che fanno riferimento alle idee del leader del Pkk Abdullah Ocalan, ha deciso di aderire all’Appello per la pace e la società democratica e relativo processo di pace. Lo scorso marzo, ha firmato un cessate il fuoco con Damasco, un memorandum d’intesa in diversi punti sui quali trovare un accordo tramite il negoziato tuttora in corso. Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri, con la mediazione in particolare di inviati statunitensi e francesi. La nostra intervista a Davide Grasso, ricercatore in Sociologia politica al dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino e nostro collaboratore. Ascolta o scarica.
Rapporto di Medici Senza Frontiere denuncia violenze e blocchi all’azione salvavita nel Mediterraneo
La rimozione orchestrata delle navi di ricerca e soccorso, come la Geo Barents, dal Mediterraneo centrale toglie un’ancora di salvezza per i sopravvissuti in fuga dalle orrende violenze in Libia. È la denuncia di Medici Senza Frontiere (MSF) pubblicata oggi nel rapporto “Manovre mortali: ostruzionismo e violenza nel Mediterraneo Centrale”, che contiene dati operativi e medici, oltre a testimonianze di sopravvissuti raccolte a bordo della Geo Barents tra il 2023 e il 2024. Il rapporto descrive come, dopo più di due anni di attività con leggi e politiche italiane restrittive, in particolare il decreto Piantedosi e la pratica di assegnazioni di porti lontani, la capacità delle navi di ricerca e soccorso di fornire assistenza salvavita sia stata gravemente limitata, costringendo MSF a cessare le operazioni della Geo Barents a dicembre scorso. MSF chiede alle autorità italiane di smettere di ostacolare le operazioni di salvataggio in mare e di imporre sanzioni alle navi di ricerca e soccorso delle ONG. Invita, inoltre, l’UE e i suoi Stati membri a sospendere immediatamente il sostegno finanziario e materiale alla Guardia Costiera libica (LCG) e a smettere di incentivare intenzionalmente i rimpatri forzati di persone in Libia. “Le testimonianze, i dati e le prove raccolte in questi anni dimostrano la collusione dell’Italia e dell’UE con la LCG e altri attori armati nell’effettuare intercettazioni che riportano forzatamente le persone ad un giro di estorsioni e abusi” afferma Juan Matias Gil, responsabile per le attività di ricerca e il soccorso in mare di MSF. Se nel 2023 MSF ha assistito a incidenti che coinvolgevano operatori libici durante il 38% delle rotazioni della Geo Barents, questa percentuale è salita al 65% nel 2024. Nel 2023 e 2024 MSF ha documentato 30 intercettazioni confermate o sospette di imbarcazioni di migranti da parte di navi libiche. A causa delle restrizioni, il numero di persone soccorse dalla Geo Barents è diminuito drasticamente da 4.646 nel 2023 fino 2.278 nel 2024. Nonostante ciò, è aumentato del 14% il numero complessivo dei ricoveri medici, in particolare quelli urgenti, dimostrando che una percentuale notevolmente più elevata di persone soccorse era in uno stato critico e necessitava di cure specialistiche salvavita a terra. “Il decreto Piantedosi è un meccanismo strutturato e istituzionalizzato senza precedenti per bloccare le attività di ricerca e salvataggio di persone in pericolo” aggiunge Gil di MSF. “L’impatto di queste sanzioni è peggiorato nel corso degli anni e la capacità di salvataggio della nostra nave è stata significativamente ridotta e compromessa”. Secondo i dati medici di MSF, nel 2024, tutti i 124 pazienti visitati dal team di psicologi sulla Geo Barents hanno riferito di aver subito violenze fisiche e/o psicologiche durante il viaggio, e metà di questi pazienti hanno identificato la detenzione come luogo principale in cui hanno avuto luogo gli abusi. Il rapporto riporta anche le testimonianze di persone che sono riuscite a fuggire dalla Libia, documentando le violente intercettazioni subite in mare e il ritorno forzato in Libia, come parte del più ampio sforzo di esternalizzazione per impedire gli arrivi in Europa. “Abbiamo trascorso 5 ore di navigazione in mare, finché non siamo stati catturati da un’imbarcazione libica. Ci hanno tenuti a bordo per circa 53 ore mentre continuavano a cercare altre imbarcazioni. Non ci hanno dato né cibo né acqua, né ci hanno permesso di usare il bagno, abbiamo dovuto urinarci addosso. Mio fratello era così spaventato perché aveva perso la sensibilità delle gambe e non poteva muoversi per tanto tempo, piangeva e vomitava. Da allora soffre di incontinenza. Li abbiamo pregati di riportarci indietro, vomitavamo, eravamo disidratati, ma non hanno mai avuto pietà di noi. Mangiavano pesce, bevevano, ma non ci hanno mai dato nulla. Solo a un certo punto hanno avuto pietà di mia figlia e le hanno dato un pacchetto di biscotti, che è stata l’unica cosa che abbiamo mangiato in quei giorni” racconta una donna siriana salvata dalla Geo Barents nel febbraio del 2024. MSF nel Mediterraneo centrale  MSF è presente nel Mediterraneo centrale con attività di ricerca e soccorso dal 2015, lavorando su 8 diverse imbarcazioni, da sola o in collaborazione con altre ONG, e salvando più di 94.000 persone. I team di MSF a bordo della Geo Barents, attiva da giugno 2021 a dicembre 2024, hanno soccorso 12.675 persone, concluso 190 operazioni, recuperato i corpi di 24 persone, organizzato l’evacuazione medica di 18 persone e assistito la nascita di un bambino. Dall’entrata in vigore del Decreto Piantedosi, la Geo Barents è stata sanzionata 4 volte, per un totale di 160 giorni di detenzione forzata. Tra dicembre 2022 e dicembre 2024, le misure restrittive hanno inoltre imposto alla Geo Barents di percorrere altri 64.966 chilometri e di trascorrere altri 163 giorni in mare per raggiungere porti lontani del nord Italia per lo sbarco dei sopravvissuti dopo il salvataggio, anziché nei vicini porti della Sicilia.   Medecins sans Frontieres
“POLIZIA E MIGRANTI IN CITTÀ. NEGOZIARE IL CONFINE NEI CONTESTI LOCALI”: INTERVISTA CON GIULIA FABINI, AUTRICE DEL LIBRO
  Domenica 25 maggio, alle 18.00, appuntamento con il Collettivo Rotte Balcaniche a Schio, provincia di Vicenza, nel nuovo spazio di via Manin 26 per un incontro con il Comitato “Verità e Giustizia per Moussa Diarra” e con Giulia Fabini, ricercatrice in sociologia del diritto e della devianza presso l’Università di Bologna ed autrice del libro “Polizia e migranti in città. Negoziare il confine nei contesti locali”. Il binomio immigrazione-sicurezza è la chiave di lettura attraverso cui viene raccontata e governata la migrazione in Italia. Il controllo dell’immigrazione è, infatti, sistematicamente demandato alla polizia: dalle frontiere esterne fino alle stazioni ferroviarie, la polizia sorveglia, filtra, punisce, deporta. Proprio in una stazione ferroviaria, a Verona, il 20 ottobre 2024 Moussa Diarra veniva ucciso dalla polfer con tre colpi di pistola. Ma questa vicenda non inizia né finisce con quei tre colpi: è la storia di un ragazzo che ha trascorso gli ultimi otto anni di vita tra burocrazie impietose, documenti che scadono prima ancora di essere rilasciati, precarietà abitativa, mancanza di accesso alle cure. È una storia che ora continua nella lotta per la verità e la giustizia, ma è anche una storia come tante, che ci parla di una società razzista e securitaria dove ormai manca l’aria. L’intervista a Giulia Fabini, ricercatrice in sociologia del diritto e della devianza presso l’Università di Bologna ed autrice del libro “Polizia e migranti in città. Negoziare il confine nei contesti locali”. Ascolta o scarica
17 MAGGIO GIORNATA INTERNAZIONALE CONTRO L’OMOLESBOBITRANSFOBIA: INIZIATIVE ANCHE A BRESCIA
Si celebra dal 2004 ogni 17 maggio, la Giornata internazionale contro l’omolesbobitransfobia. In questa data, nel 1990, l’Organizzazione Mondiale della Sanità aveva derubricato definitivamente l’omosessualità dall’elenco delle malattie mentali. Inoltre da sette anni la disforia di genere, o incongruenza di genere legata all’identità transgender, non è più considerata anch’essa un disturbo mentale. “Dopo trentacinque anni restano tuttavia discriminazioni e violenze, anche istituzionali, che la comunità LGBTQIA+ continua a vivere ancora oggi” come ha ricordato ai nostri microfoni Greta Tosoni, presidente di Brescia Pride. Queste giornate internazionali, sottolinea Tosoni, “vanno utilizzate per fare ancora più rumore, per farci sentire: essere in piazza tutte e unite per promuovere una cultura che rispetti tutte le unicità, tutte le identità, che promuova l’autodeterminazione e la libertà, quindi la possibilità per ogni persona di poter scegliere per sé”. Numerosissime le iniziative in tutta Italia organizzate dalla comunità LGBTQIA+, anche a Brescia. Indetto da Brescia Pride un presidio dalle ore 15 alle ore 17 in piazza Vittoria. Segue una conferenza intitolata “Per una comunità che accoglie. Educazione, relazioni e responsabilità” presso il MO.CA di via Moretto 78 – ore 17. Sucessivamente partirà in largo Formentone il Rainbow Tour: il ritrovo è alle ore 19.30. Ci ricorda l’importanza della giornata, le rivendicazioni e gli appuntamenti a Brescia, Greta Tosoni presidente di Brescia Pride. Ascolta o scarica