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Bolivia: I popoli indigeni paralizzano nei propri territori il progetto governativo di coltivazione della palma da olio
Iván Paredes Tamayo Il progetto governativo per coltivare la palma da olio o africana (Elaeis guineensis) è rimasto sospeso in certi territori dell’Amazzonia boliviana. Il popolo indigeno tacana ha bloccato questa iniziativa nei propri territori per mancanza di informazioni e per denunce di violazioni dei diritti. Nell’Amazzonia boliviana alcune comunità e i coloni chiamati in […]
Bolivia: Dopo le elezioni i golpisti sono tornati in libertà
Questo lunedì in Bolivia un campione di giudici ha liberato l’ex mandataria ad interim Jeanine Añez con altri dodici implicati negli incidenti di Senkata del novembre 2019, dopo aver dichiarato la propria “incompetenza” a giudicare il caso, motivo per il quale hanno ritirato il processo dalla giurisdizione ordinaria. “Rispetto alla situazione processuale degli accusati si […]
Bolivia a destra, una sconfitta annunciata
Tra profonde tensioni interne, domenica 17 agosto più di 7,5 milioni di cittadini-e boliviani-e (di cui circa 400.000 all’estero in 22 Paesi) sono stati chiamati alle urne per scegliere tra sette candidature a Presidente e Vice-presidente. Candidature tutte al maschile, dopo che l’unica candidata donna, Eva Copa, aveva rinunciato a causa dello scarso appoggio nei sondaggi. Si è votato anche per eleggere 36 senatori; 130 deputati, sette deputati dei popoli originari e nove rappresentanti presso organismi parlamentari sovranazionali, uno per ogni dipartimento. Dato che nessun candidato ha raggiunto la maggioranza necessaria, il ballottaggio ci sarà il 19 ottobre, mentre il vincitore si insedierà l’8 novembre. In testa al primo turno c’è Rodrigo Paz Pereira, con la sigla del Partito Democratico Cristiano (PDC) che ha ottenuto circa il 32% dei voti. Al secondo posto, il sempiterno Jorge (Tuto) Quiroga dell’Alleanza Libre, di estrema destra, con circa il 28%. Saranno loro due i contendenti al ballottaggio. Al terzo posto con circa il 20%, si piazza Samuel Doria Medina (Alleanza Unidad) di centro-destra, al suo quarto tentativo presidenziale. A differenza dei sondaggi, che prevedevano un testa a testa tra Quiroga e Doria, la vera sorpresa è stata la vittoria al primo turno di Rodrigo Paz Pereira. Ex deputato, ex sindaco, economista di professione è nato in Spagna a causa dell’esilio dei suoi genitori.  E’ infatti figlio di Jaime Paz Zamora, ex presidente del Paese andino, nonché nipote di un altro ex-Presidente, Victor Paz Estenssoro. Da parte sua, lo sconfitto Doria Medina, ha fatto subito appello al voto per Rodrigo Paz. Quel che resta del MAS Disastroso il risultato dei due candidati che facevano riferimento al Movimento al Socialismo (MAS-IPSP), dato che il partito di governo non è riuscito a trovare un candidato unitario. Da una parte, il giovane Andrónico Rodríguez, proposto come candidato di compromesso tra le due anime del MAS. La figura di Rodríguez faceva parte del rinnovamento generazionale del movimento sindacale cocalero e aveva consolidato il suo profilo istituzionale come presidente del Senato, ratificato in cinque occasioni con ampio sostegno. Ma alla fine non c’è stato accordo e Rodríguez ha raccolto circa l’8%, piazzandosi al quarto posto. Dall’altra, Eduardo del Castillo, candidato “ufficiale” del partito di governo, rimasto al palo con un deludente 3%. In questa situazione di frattura interna, del Castillo ha dovuto affrontare la sfida più complessa. Il trentaseienne avvocato è arrivato al Ministero dell’Interno nel 2020 ed è rimasto in carica fino al maggio 2025, diventando una delle figure più visibili nel gabinetto di Luis Arce. La sua candidatura era un tentativo di rinnovare i dirigenti dopo le fratture interne del partito, ma di certo il risultato striminzito non favorisce il processo di ricambio. Il programma di Rodrigo Paz Se non ci saranno ulteriori sorprese, Rodrigo Paz dovrebbe avere la strada spianata alla Presidenza. Nel suo programma, ha fatto appello al ricambio generazionale e ha proposto uno Stato facilitatore, agile e impegnato nei confronti dei cittadini, lontano dal cosiddetto “Stato che ostacola”. Provenendo dalla regione più importante del Paese per produzione di gas, la sua campagna ha posto l’accento sul decentramento dello Stato, con l’obiettivo di ridistribuire in parti uguali il bilancio nazionale tra il livello centrale e le regioni, nell’ambito della sua “Agenda 50/50”, come parte di “un nuovo accordo di convivenza”. Tra le sue proposte spiccano l’idea di un “Capitalismo per tutti” (con crediti accessibili, riduzione delle tariffe e delle tasse e l’eliminazione delle dogane “corrotte”) la riforma della giustizia e la lotta alla corruzione. Paz Pereira afferma che la Bolivia dispone di risorse proprie per rilanciare la propria economia ed ha dichiarato la sua contrarietà a ricorrere ai prestiti degli organismi internazionali. Jorge (Tuto) Quiroga: il ritorno della destra Il sessantacinquenne di Cochabamba rappresenta l’opzione dell’estrema destra boliviana tradizionale. Ex presidente tra il 2001 e il 2002, Quiroga è stato vicepresidente sotto il governo del militare golpista Hugo Banzer (1997-2001), mentre durante l’amministrazione di Jaime Paz Zamora (1989-93) è stato Sottosegretario del Ministero della Pianificazione (1989), Sottosegretario di Investimenti pubblici (1990) e Ministro delle Finanze (1992). I suoi legami con gli Stati Uniti lo posizionano come candidato dei settori economici dominanti e transnazionali, anche se, in pubblico, insiste nel mantenere una linea indipendente da Washington. “So come farlo. L’ho già fatto in passato. Il mio vantaggio è l’esperienza“, ha recentemente dichiarato in merito al suo piano di ottenere 12 miliardi di dollari dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) ed altri.  Nel 2019, ha avuto un ruolo chiave nel colpo di Stato contro Evo Morales ed è stato portavoce internazionale del governo golpista di Jeanine Añez. Samuel Doria Medina Il candidato dell’Alleanza Unidad rappresentava l’aspirazione di un progetto politico di centro-destra. A 66 anni, l’uomo d’affari di Paz era al suo quarto tentativo presidenziale, dopo averci provato nel 2005, 2009 e 2014. Come secondo imprenditore più influente della Bolivia, Doria Medina è tra i 500 imprenditori più conosciuti dell’America Latina e dei Caraibi. Il suo curriculum include il passaggio attraverso il Ministero della Pianificazione e la fondazione de Unidad nel 2003, dopo il suo abbandono del Movimento Rivoluzionario di Sinistra (MIR). Il suo bagaglio elettorale del 20% sarà decisivo per eleggere il prossimo Presidente. La crisi economica Due sono stati i fattori principali della sconfitta a sinistra. Per entrambi, il governo del MAS ha perso le elezioni a causa dei propri molteplici errori politici. Da una parte una dura crisi economica e sociale che il governo Arce non ha saputo superare. Per quanto riguarda la crisi economica, dopo aver disinnescato l’ennesimo tentativo di golpe del 2019, la Bolivia aveva ripreso il cammino anti-neoliberale con la presidenza di Luis Arce, ex Ministro di Economia durante i mandati presidenziali di Evo Morales e del vice-presidente Alvaro García Linera. Ma come afferma quest’ultimo, “…il MAS come strumento politico dei sindacati e delle organizzazioni comunitarie contadine ha perso le elezioni a causa della disastrosa gestione economica di Luis Arce. Con un’inflazione dei generi alimentari di base che sfiora il 100%, la mancanza di carburante che costringe a fare code di giorni per ottenerlo e un dollaro reale che ha raddoppiato il suo prezzo rispetto alla moneta boliviana, non è strano che il processo di trasformazione democratica più profondo del continente perda due terzi dei voti popolari a favore di vecchi vendi-patria che promettono di cacciare a calci gli indigeni dal potere, regalare le aziende pubbliche agli stranieri e insediare, con la Bibbia in mano, le oligarchie mercenarie alla guida dello Stato. Se a tutto ciò aggiungiamo il risentimento dei ceti medi tradizionali, privati dei loro privilegi dall’ascesa sociale e dall’emancipazione politica delle maggioranze indigene, è chiaro il tono apertamente vendicativo e razzista che avvolge i discorsi della destra boliviana” [i]. Evo e il voto nullo Il secondo fattore decisivo per la sconfitta, è stata la divisione interna al blocco sociale che ha espresso il governo negli ultimi 20 anni. Purtroppo, la frattura interna al MAS viene da lontano. Da circa due anni è in corso una dura lotta interna fratricida, che ha portato ad uno scontro aperto tra Evo Morales e Luis Arce. Una frattura che si è estesa negativamente anche a molte organizzazioni di massa, che erano state la colonna vertebrale dei governi del MAS e che avevano pagato un alto prezzo di sangue per la resistenza anti-golpista.  Il lungo braccio di ferro per il controllo dello strumento politico (movimento-partito, MAS-IPSP) aveva portato alla fuoriuscita dal MAS di Morales e della sua base d’appoggio, alla spaccatura nel gruppo parlamentare con gli “evisti” che votano contro le misure del governo e ad un forte disorientamento nel blocco sociale del cambiamento. Come si ricorderà, sulla base di una discussa decisione della Corte costituzionale, Evo Morales non poteva ri-aspirare alla Presidenza, dopo aver svolto tre mandati. Ma non ha voluto accettare la decisione giudiziaria e ha mobilitato la sua base contadina, specialmente nella zona di Cochabamba, per cercare di bloccare il Paese. Nel 2016, Evo perse un referendum per la quarta candidatura, ma il Tribunale Costituzionale ribaltò il risultato. Alla fine, dopo essersi salvato da un attentato nell’ottobre 2024 (smentito dal governo Arce), in queste elezioni l’ex presidente Morales non ha potuto registrarsi come candidato presidenziale in nessun partito con personalità giuridica in vigore. Morales ha ritirato la sua candidatura e, dalla sua roccaforte nel Tropico di Cochabamba, come forma di protesta politica per avergli impedito di partecipare alle elezioni,  ha promosso attivamente il voto nullo contro il governo di Luis Arce e le candidature di opposizione. C’è da dire che, in tutto questo periodo, a nulla sono valsi i molteplici tentativi di mediazione tra i dirigenti boliviani fatti da alcuni dei governi e dei partiti della sinistra latino-americana (e non solo) per provare a ricucire i rapporti con spirito unitario. Solo Andrónico Rodriguez avrebbe avuto qualche possibilità, se il suo ex mentore Morales lo avesse appoggiato. Ma Evo lo ha bollato come traditore e ha fatto appello al voto nullo. D’altra parte, il risultato del voto nullo (circa il 19%) non preoccupa una destra che è vincente e, per il momento, si troverà una opposizione frammentata socialmente e senza una presenza parlamentare di qualche peso. In altre parole, in termini elettorali, il peso del voto nullo è francamente nullo. E ora? Con questi risultati, che impongono un accordo parlamentare, si vedrà se la Bolivia riuscirà a costruire un consenso minimo per affrontare le sue sfide strutturali. O se, al contrario, la crisi si approfondirà. Il Paese è alle porte di un cambiamento radicale nell’orientamento politico, con un ritorno alla decade neoliberista e privatizzatrice degli anni ’90. Per non parlare della politica estera. Con una gradazione di più o meno liberalismo, le destre (tutti uomini, per lo più bianchi e di classe alta) propongono un ritorno alla riduzione dello Stato, alla privatizzazione o chiusura di aziende pubbliche, alla promozione dell’iniziativa privata, al probabile taglio dei bonus sociali, la riduzioni delle tasse e un ritorno all’indebitamento ed alle condizioni del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o della Banca Interamericana di Sviluppo per uscire dalla difficile situazione economica attuale. In una Bolivia così diversa e con un “razzismo” che continua a essere un problema, già si parla di “farla finita con il socialismo”, dell’eliminazione dello status Plurinazionale dello Stato e della wiphala (bandiera dei popoli originari) come simbolo nazionale, del ritorno al sistema educativo precedente “che non indottrini”, etc..  Al centro non ci sarà la questione sociale, né quella dei popoli originari o della “Madre terra”, ma l’economia aziendale. In ogni caso, il popolo boliviano ha una lunga tradizione di resistenza e il prossimo Presidente non avrà la vita facile. [i] https://www.jornada.com.mx/noticia/2025/08/16/mundo/por-que-la-izquierda-y-el-progresismo-pierden-elecciones Redazione Italia
Bolivia. “Senza partito prevalgono i personalismi”. Una analisi sulla sconfitta elettorale del MAS
In Bolivia la sconfitta del MAS non può essere letta soltanto come un passaggio elettorale, ma rappresenta l’esito di un processo di lunga durata, iniziato con la rinuncia al passaggio dalla presa di governo alla vera presa del potere di classe attraverso la costruzione e il consolidamento del partito rivoluzionario; […] L'articolo Bolivia. “Senza partito prevalgono i personalismi”. Una analisi sulla sconfitta elettorale del MAS su Contropiano.
Bolivia. Gli oppositori Rodrigo Paz e Jorge ‘Tuto’ Quiroga in testa alle presidenziali
I candidati Rodrigo Paz Pereira e Jorge ‘Tuto’ Quiroga sono in testa nei conteggi in Bolivia, ha comunicato questo domenica il Tribunale Supremo Elettorale (TSE) dopo aver diffuso i risultati preliminari delle elezioni generali, in cui la popolazione ha votato per il binomio presidenziale che governerà il paese fino al […] L'articolo Bolivia. Gli oppositori Rodrigo Paz e Jorge ‘Tuto’ Quiroga in testa alle presidenziali su Contropiano.
Il litio, il potere e la dignità
> La battaglia finale è già iniziata IL NUOVO PETROLIO BIANCO Non c’è risorsa più contesa oggi del litio. Non perché sia magico, ma perché è necessario. Senza litio non ci sono auto elettriche, non si producono batterie, non c’è transizione energetica, non ci sarà futuro tecnologico. Dietro il discorso sulla sostenibilità e il cambiamento verde c’è qualcos’altro: una corsa disperata al controllo del nuovo petrolio bianco, una febbre globale in cui tutti lo vogliono, ma pochi lo possiedono. E la cosa più brutale è che chi lo possiede, spesso non lo controlla. SETTE PAESI DETENGONO L’85% DEL PIANETA Sette paesi concentrano l’85% delle riserve mondiali di litio: Bolivia, Argentina, Cile, Australia, Cina, Canada, Africa meridionale (Zimbabwe, RDC, Namibia) e Messico. Ma i paradossi sono feroci. Il Cile lo possiede ma lo ha ceduto a privati. L’Argentina lo possiede ma lo frammenta tra le province. La Bolivia lo custodisce ma lo sottoutilizza. L’Africa ne soffre. L’Australia lo esporta grezzo. Il Canada investe nel suo sfruttamento ma non lo trasforma. Il Messico lo ha nazionalizzato e non ha la tecnologia. E la Cina, che ha poco litio in casa, controlla il mercato mondiale. Il paradosso non è geologico, è politico. CILE, IL LITIO SPERPERATO In Cile, con quasi l’11% delle riserve globali, le società private SQM e Albemarle hanno esportato nel 2023 litio per più di 8,6 miliardi di dollari. Ma lo Stato ha ricevuto poco più di 2,7 miliardi di dollari. La maggior parte del business rimane in mani private. Non esiste un impianto nazionale di batterie, non esiste un’industria propria, non esiste un vero e proprio piano statale. Le saline del deserto di Atacama sono l’epicentro del modello estrattivista con l’etichetta della modernità. Il litio cileno continua ad essere sperperato come il salnitro e il rame e saccheggiato com’è sempre avvenuto nella storia. ARGENTINA, PROVINCE RICCHE, PAESINI ARIDI L’Argentina è il paese con il maggior numero di nuovi progetti approvati. Detiene il 21% delle riserve globali e, a differenza del Cile, le province controllano la risorsa. Ma tale controllo è stato ceduto tramite concessioni a società straniere come Livent, Ganfeng o Allkem. Nel 2023 il Paese ha esportato circa 700 milioni di dollari, una cifra marginale rispetto al suo potenziale. Le comunità locali reclamano acqua, informazioni e consultazioni preventive. Il litio viene portato via, ma lo sviluppo non arriva. BOLIVIA, SOVRANITÀ IN COSTRUZIONE Con il 21% delle riserve globali, la Bolivia è il gigante dormiente del litio. La sua scommessa su un’azienda statale è stata coraggiosa ma lenta. Oggi cerca alleanze con Russia, Cina e Germania per industrializzare la sua ricchezza. Nel 2023 ha firmato accordi per oltre 1 miliardo di dollari per installare impianti pilota di batterie e idrossido. Ma non esporta ancora in grandi volumi. Ha il litio ma non la tecnologia. Ha la sovranità ma le manca il tempo. Sarà troppo tardi quando si sveglierà? AUSTRALIA, UN SUPERMERCATO SENZA INDUSTRIA Con il 13% delle riserve globali, l’Australia è il più grande produttore mondiale, esportando oltre 330.000 tonnellate di LCE (carbonato di litio equivalente) all’anno e generando un fatturato di 18,6 miliardi di dollari. Ma quasi tutto questo litio viene esportato senza essere lavorato. Oltre l’80% va in Cina. I giacimenti di Greenbushes, Mount Marion, Wodgina e Mount Holland sono di importanza mondiale. Ma il Paese non possiede un’industria di batterie, non dispone di un’azienda nazionale del litio e non ha una politica sovrana. È un supermercato minerario mascherato da potenza tecnologica. LA CINA NON LO POSSIEDE MA LO CONTROLLA La Cina possiede solo il 7% delle riserve globali, ma questo è poco importante. Ha investito in oltre 50 progetti legati al litio in tutto il mondo. Controlla parte della SQM in Cile, domina i giacimenti in Argentina e Africa e possiede aziende in Australia. Oltre il 70% del litio mondiale passa attraverso impianti cinesi prima di essere trasformato in batterie. E oltre l’80% delle batterie per auto elettriche viene prodotto in Cina. Il Paese non ha bisogno di possedere il litio, ma punta a controllarne la lavorazione. E lo ha già fatto. AFRICA, IL SACCHEGGIO PIÙ RAPIDO DELLA STORIA L’Africa possiede il 12% delle riserve globali di litio. Zimbabwe, Repubblica Democratica del Congo e Namibia concentrano i giacimenti più importanti. Aziende cinesi e fondi canadesi gestiscono già miniere come Arcadia, Bikita o Manono. Ma i benefici non arrivano. Le comunità vivono senza acqua potabile, né scuole, né strade. I contratti non sono pubblici e le miniere funzionano come enclavi coloniali. La storia del coltan, dell’oro e dei diamanti si ripete, solo che ora si chiama litio. E viene esportato più velocemente che mai. IL CANADA, IL POTERE NELL’OMBRA Il Canada non solo possiede litio, ma opera anche attraverso fondi d’investimento. Aziende come Lithium Americas, Sigma Lithium o Neo Lithium partecipano a operazioni chiave in Argentina, Stati Uniti, Africa e nello stesso Canada. Il Paese possiede solo circa il 3% delle riserve globali, ma ne controlla molto di più attraverso investimenti incrociati. Ha potere finanziario, non tecnologico. E funge da perno tra Cina e Stati Uniti, negoziando l’accesso alle materie prime ed esportando litio grezzo. Un attore freddo, strategico, senza bandiera visibile ma con un forte potere finanziario. MESSICO, LA NAZIONALIZZAZIONE CHE METTE A DISAGIO Il Messico non ha riserve grandi, ma è determinato. Con quasi il 2% del litio mondiale concentrato a Sonora, nel 2022 il Paese ha deciso di dichiarare il litio risorsa strategica e di creare LitioMX, un’azienda statale con controllo assoluto sulla sua esplorazione e sfruttamento. La misura non è piaciuta a Washington né ai capitali privati, ma ha inviato un segnale chiaro: il litio non sarà più un business privato, ma una politica di Stato. Il giacimento di Sonora, inizialmente controllato inizialmente da Bacanora Lithium (con sede in Canada) e dal suo partner cinese Ganfeng Lithium, è una delle riserve più grandi di roccia dell’America Latina, con un potenziale di oltre 8 milioni di tonnellate di LCE. Dopo la nazionalizzazione, i contratti sono stati sottoposti a revisione, generando tensioni diplomatiche e pressioni incrociate da parte degli investitori stranieri. Ma la decisione sovrana ha cambiato le carte in tavola. Il Messico non produce ancora su larga scala, ma sta gettando le basi per farlo senza cedere il controllo. La nazionalizzazione del litio in Messico ha segnato una rottura con la logica estrattivista dominante. Mentre paesi come il Cile delegano il controllo a società private o negoziano accordi misti con attori controversi come SQM, il Messico ha scelto la strada più difficile, affrontando le multinazionali, assumendosi i costi iniziali e costruendo da zero un’azienda statale. LitioMX non produce ancora, ma la sua sola esistenza rappresenta un modello alternativo che mette a disagio le lobby minerarie. In questo scenario, Canada e Cina giocano su due fronti. Mentre le loro aziende fanno pressione per mantenere i contratti, i loro governi negoziano con cautela. Il Messico, dal canto suo, resiste. Con errori, con ritardi, ma anche con dignità. Perché c’è qualcosa che non si misura in tonnellate o in prezzi di mercato, ed è il diritto di decidere sul sottosuolo. E quel diritto, anche se non è quotato in borsa, vale più di tutto il litio del pianeta. QUANTO LITIO RIMANE E PER QUANTO TEMPO? Le riserve mondiali accertate bastano per altri 60 anni. Non è molto tempo. L’Australia potrebbe esaurire le sue miniere in 30 anni, il Cile e l’Argentina in 40, l’Africa in 15 se il ritmo rimane quello attuale. La Cina dovrà continuare ad acquistare all’estero. La Bolivia ha litio per 70 anni, ma non ne ha ancora sfruttato nemmeno l’1%. Il Canada sta ancora esplorando. Ma la verità è che se il litio non viene nazionalizzato ora, quando ci proveranno, non ci sarà più nulla da difendere. LO SPECCHIO ROTTO DEL LITIO La storia del litio è la storia del mondo. Chi lo possiede non lo domina. Chi lo domina non lo possiede. Chi lo lavora non lo produce. E chi lo consuma guarda dall’altra parte. Ci sono aziende che guadagnano miliardi e popolazioni che non dispongono di acqua potabile. Ci sono governi che firmano contratti cedendo la sovranità sulla risorsa per decenni. Ci sono belle parole sul futuro verde mentre le saline si prosciugano. E tutto questo sta accadendo oggi, adesso. Non è fantascienza. UN MODELLO ESAURITO, UN’URGENZA REALE Si può cambiare il modello? Sì. Quando? Adesso. Perché tra 5 anni sarà già troppo tardi. La nazionalizzazione del litio non è un’utopia, è un’urgenza. Creare aziende pubbliche, raffinare alla fonte, esigere il trasferimento tecnologico, garantire valore aggiunto. Basta con le concessioni infinite, basta con i contratti opachi, basta con le cessioni mascherate da investimenti. Il litio non può continuare a essere il bottino delle stesse aziende, deve diventare la base di un modello diverso. IL LITIO APPARTIENE ALLE POPOLAZIONI CHE LO POSSIEDONO, NON A CHI LO DESIDERA Questo non è un appello alla guerra, né all’isolamento. È un grido di difesa, di dignità, di logica storica. Non si può permettere che una risorsa strategica, pulita e fondamentale per il futuro dell’umanità rimanga nelle mani di cinque multinazionali. Il litio non appartiene a Tesla, non appartiene a Tianqi, non appartiene ai fondi d’investimento di Toronto. Il litio appartiene ai popoli che lo hanno sotto i piedi e solo loro devono decidere cosa farne e come. PERCHÉ IL LITIO NON È PIÙ UN MINERALE Non c’è tempo per le mezze misure, o viene nazionalizzato o sperperato. O viene difeso o viene svenduto. Questa è la battaglia del 21° secolo. E il litio è in prima linea. Chi vuole capire il potere, guardi la mappa. Chi vuole cambiare la storia, inizi da questa risorsa. Perché il litio non è più un minerale, è uno specchio che riflette chi siamo… e quale futuro siamo disposti a costruire. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Thomas Schmid, con l’ausilio di un traduttore automatico. Mauricio Herrera Kahn
La Bolivia e il litio, tra orgoglio e pazienza
> Non c’è Paese senza destino se si prende cura delle proprie radici. Il litio è > la radice del XXI secolo. E la Bolivia ce l’ha già nelle sue mani. Le riserve della Bolivia stimate di 23 milioni di tonnellate (33,6% del totale mondiale) sono le prime al mondo. Produzione 2023 quasi nulla (0,0% della produzione mondiale). Valore stimato: oltre 460.000 milioni di dollari. Dati del Servizio Geologico degli Stati Uniti. La Bolivia possiede le maggiori riserve di litio del pianeta, ma ancora non ha una produzione industriale rilevante né una catena di valore consolidata. Non è un Paese povero, è un Paese saccheggiato con una dignità intatta. Ha le risorse, ha la storia e soprattutto ha il litio. Ma mentre il mondo corre dietro il minerale bianco come se fosse sangue per le auto elettriche, la Bolivia cammina al proprio ritmo. Questa pazienza, che per alcuni è arretratezza, potrebbe essere la sua più grande forza. Il cosiddetto triangolo del litio (Cile, Argentina, Bolivia) concentra oltre il 60% delle riserve globali. La Bolivia, con il Salar de Uyuni come epicentro. Esiste un potenziale anche nelle saline di Coipasa a Oruro e di Pastos Grandes a Potosí. Salar de Uyuni: ≈ 21 milioni di tonnellate. Proporzione del “Salar de Uyuni” sul totale del Paese: ≈ 91%. Ciò significa che praticamente tutta la ricchezza di litio della Bolivia si trova sotto la superficie del “Salar de Uyuni”, rendendolo il più grande giacimento singolo del pianeta. Eppure nel 2023 la Bolivia ha fatturato solo circa 180 milioni di dollari per il litio e i suoi derivati. La produzione è stata bassa. Ma il 100% di questa cifra rimane nelle mani dello Stato. Non esistono concessioni private. L’intera catena è sotto il controllo di Yacimientos de Litio Bolivianos (YLB). Un modello sovrano sì, ma ancora in fase di sviluppo. E in disputa perché ogni passo compiuto dallo Stato dà fastidio a coloro che vorrebbero gestire il litio come hanno gestito l’argento o il rame. Il litio boliviano è più difficile da lavorare. È mescolato con il magnesio, il che rende più costosa la separazione. Richiede tecnologia, investimenti e sovranità. E la Bolivia ha preferito costruire questa sovranità piuttosto che ripetere la storia dello stagno, del gas o dell’argento. Ecco perché il litio è al 100% di proprietà dello Stato. Non ci sono SQM o Albemarle (aziende chimiche, la prima cilena, la seconda statunitense, N.d.R). Nessun privato può sfruttarlo senza associarsi con YLB. Non ci sono concessioni aperte. Solo uno Stato che ha scelto di essere proprietario del proprio sottosuolo. Oggi YLB gestisce tre impianti chiave: 1. Impianto Pilota di Carbonato di Litio a Llipi, Potosí 2. Impianto Industriale di Cloruro di Potassio, inaugurato nel 2018 3. Impianto Industriale di Carbonato di Litio, entrato in funzione nel 2023 Nel 2023, la Bolivia ha prodotto soltanto 1.400 tonnellate di carbonato di litio. Molto al di sotto delle 40.000-60.000 tonnellate che producono Argentina o Cile. L’obiettivo ufficiale è di raggiungere 100.000 tonnellate annue entro il 2030, con impianti moderni e tecnologia DLE (estrazione diretta). Per accelerare questo percorso, la Bolivia ha firmato due accordi strategici: uno con il consorzio cinese CATL BRUNP CMOC per 1.400 milioni di dollari  per la costruzione di due impianti con tecnologia DLE, e un altro con la società russa Uranium One Group, parte del colosso statale Rosatom, per lo sviluppo di nuovi progetti. Entrambi gli accordi rispettano la sovranità nazionale. YLB mantiene il controllo delle risorse e partecipa ai profitti. Cina e Russia forniscono la tecnologia, ma non si prendono né le saline né la proprietà. Ogni impianto previsto avrà una capacità di 25.000 tonnellate all’anno, avvicinando la Bolivia ai maggiori produttori entro il 2026-2027. Ma la Bolivia non vuole essere solo esportatrice di salamoia. Il suo obiettivo è creare una catena di valore completa, dalla salamoia alle batterie e alle auto elettriche. Nel 2019 ha inaugurato il suo primo impianto pilota per la produzione di batterie. Oggi, punta ad attrarre fabbriche di catodi, elettroliti, componenti strategici e assemblaggio completo di batterie. AMBIZIOSO? SÌ. LENTO? ANCHE. DEGNO? DECISAMENTE. La Bolivia vuole che il litio generi occupazione, tecnologia e sovranità. E che non finisca nelle mani di multinazionali che operano da paradisi fiscali. E questo dà fastidio. Perché ci sono Paesi e aziende che preferiscono il litio senza la Bolivia. O una Bolivia senza Stato. COSA MANCA? 1. Aumentare l’efficienza degli impianti esistenti 2. Superare i colli di bottiglia tecnologici nell’estrazione. 3. Ampliare le infrastrutture logistiche. 4. Formare un maggior numero di tecnici e scienziati nazionali 5. Accelerare la messa in funzione di nuovi impianti E soprattutto blindare politicamente la sovranità sul litio. Perché ogni volta che la Bolivia fa dei progressi, emerge una crisi, un sabotaggio, un colpo di Stato o una campagna internazionale. È già successo nel 2019. Il litio non è solo un minerale. È geopolitica. La salina tace, ma non dimentica. A ogni alba bianca su Uyuni, il litio ricorda che è stato evaporato mille volte dal sole, ma mai dall’oblio. La Bolivia ha le risorse. Ha la dignità. Ha la storia. Manca solo il tempo. E il tempo a volte è dalla parte di chi non tradisce le proprie radici. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Mauricio Herrera Kahn
L’oro bianco che divora la vita
> La corsa al litio, chiave per la transizione energetica, sta devastando > ecosistemi unici e violando i diritti delle popolazioni indigene in Cile, > Argentina e Bolivia. Per estrarre una tonnellata di litio sono necessari due > milioni di litri d’acqua, in aree in cui questa risorsa è sia sacra che > scarsa. Il litio viene venduto come energia pulita, ma il vero costo viene > pagato dalle comunità indigene e dalla biodiversità. È tempo di chiedere una > transizione giusta, in cui il futuro non sia costruito su nuove ingiustizie. Nel cuore del cosiddetto “triangolo del litio”, formato da Argentina, Bolivia e Cile, si trova oltre il 60% delle riserve mondiali di questa risorsa, fondamentale per le batterie delle auto elettriche, dei telefoni cellulari e dei sistemi di accumulo dell’energia rinnovabile. Il litio è stato definito l’oro bianco del XXI secolo, una promessa energetica che, lungi dall’essere pulita e giusta, sta portando a una nuova forma di estrattivismo predatorio. Per produrre una sola tonnellata di litio sono necessari due milioni di litri d’acqua. Si tratta di una cifra spropositata in regioni dove l’acqua è già scarsa e dove le alte paludi andine, le saline e i fragili ecosistemi dipendono da un equilibrio idrico estremamente sensibile. Ma ben più drammatico è il prezzo umano: ancora una volta, i popoli indigeni sono le vittime invisibili del progresso altrui. In Cile, le comunità degli Atacameño hanno alzato la voce contro la devastazione delle loro saline ancestrali e la riduzione delle loro fonti di acqua dolce, fondamentali per la vita, l’agricoltura e la loro visione del mondo. In Argentina, i popoli Kolla, Atacama e Likan Antai, tra gli altri, denunciano che i loro territori vengono occupati o venduti senza una consultazione preventiva, libera e informata, violando i diritti sanciti da convenzioni internazionali come la Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL). Sotto la pressione delle multinazionali e il discorso della transizione energetica verde, i governi vendono il litio come un futuro rinnovabile. Ma dietro questa facciata, si perpetua il modello coloniale di saccheggio, dove il profitto va lontano e il danno rimane in patria. Le promesse di sviluppo locale si dissolvono in contratti opachi, territori inquinati e corsi d‘acqua secchi. È ironico che una cosiddetta energia “pulita” nasca da una ferita aperta nella terra. La biodiversità delle saline – fenicotteri andini, microrganismi unici, specie endemiche – sta scomparendo. Il silenzio del deserto è rotto da macchinari, strade e trivellazioni, mentre le voci di coloro che si sono presi cura di questi ecosistemi per secoli vengono ignorate o soppresse. A cosa serve una batteria pulita se è costruita sull’ingiustizia? Chi definisce che cosa è progresso? E quante volte ancora i popoli indigeni dovranno pagare il prezzo per il futuro di altri? La transizione energetica non può essere costruita su nuove ingiustizie. Sostituire i combustibili fossili con batterie al litio non è un progresso se si limita a spostarne la vittima: dal pianeta al deserto, dal clima all’acqua, dal petrolio ai popoli indigeni. Le multinazionali, in combutta con i governi nazionali e provinciali, sono sbarcate nel nord dell’Argentina, del Cile e della Bolivia con la promessa di lavoro e sviluppo. Ma in molti casi i posti di lavoro sono precari, i salari irrisori mentre i contratti firmati ignorano completamente le comunità locali. I veri custodi del territorio non partecipano alle decisioni che lo riguardano. La Convenzione 169 dell’OIL, ratificata da questi Paesi, richiede la consultazione preventiva, libera e informata delle popolazioni indigene prima che vengano avviati progetti sulle loro terre. Ma questo obbligo legale viene sistematicamente ignorato. La giustizia, quando interviene, di solito arriva tardi e con timore. PROPOSTE E PERCORSI ALTERNATIVI 1. Consultazione e consenso vincolante: qualsiasi progetto estrattivo deve essere consultato in modo reale e rispettoso con le comunità indigene, garantendo che la loro decisione sia vincolante. Non si tratta di “ informare” le comunità, ma di rispettare la loro autodeterminazione. 2. Controllo comunitario delle risorse: le comunità dovrebbero possedere e gestire le risorse nei loro territori. Invece di essere emarginate, dovrebbero essere al centro del modello produttivo, con benefici diretti e sostenibili. 3. Tecnologie alternative: è urgente investire in batterie senza litio basate sul sodio, sul grafene o su altre alternative meno distruttive. Alcune esistono già, ma le pressioni del mercato ne frenano lo sviluppo. 4. Miniere urbane: il recupero dei metalli dai dispositivi elettronici usati – il cosiddetto “urban mining” – può ridurre significativamente la necessità di sfruttare nuovi territori. 5. Responsabilità internazionale delle imprese: le imprese che estraggono litio nel Sud Globale devono essere soggette a rigorosi norme internazionali in materia di diritti umani e ambiente, sotto il controllo di organismi indipendenti. 6. Corridoi bioculturali protetti: escludere le aree sacre, gli ecosistemi fragili e i territori indigeni da qualsiasi sfruttamento. Trasformarli in corridoi di conservazione con il sostegno internazionale. Nelle comunità Kolla, Atacama, Diaguita e Likan Antai, le nonne insegnano ai bambini a parlare con l’acqua, a prendersi cura della terra come se fosse parte del corpo. Si tratta di popoli che non hanno “risorse”, ma relazioni sacre con il loro ambiente. Vedere il litio come una “risorsa” da estrarre e vendere è una visione estranea, imposta e violenta. Come è già successo per il petrolio, il coltan e l’oro, la corsa al litio rischia di lasciare una scia di distruzione e di oblio. Ma siamo ancora in tempo per evitare che la storia si ripeta. Questo “oro bianco”, che abbaglia le grandi potenze e le multinazionali, non deve continuare a macchiare le mani di chi non è mai stato ascoltato. Non ci può essere transizione ecologica senza giustizia climatica, sociale e culturale. E questa giustizia inizia con l’ascolto, il rispetto e la protezione di coloro che da millenni vivono in armonia con la Terra. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Pedro Pozas Terrados
La sinistra è una droga sistemica
Raúl Zibechi In Ecuador e in Bolivia si stanno mettendo in evidenza i peggiori comportamenti delle sinistre e dei progressismi. In ambedue i casi si tratta di una deriva pragmatica che sostituisce l’etica per ambizione di potere e di lusso, mettendo da parte qualsiasi proposta programmatica, trasformando la politica in un mero esercizio di convenienze […]
25 anni dalla Guerra dell’acqua
QUANDO LA SENSAZIONE DI ANGOSCIA E IMPOTENZA PER I TEMPI CHE VIVIAMO SEMBRA SOFFOCANTE DOVREMMO RICORDARE QUELLO CHE È ACCADUTO NELL’APRILE DEL 2000 E CHE NESSUNO AVEVA PREVISTO. IL NEOLIBERISMO FU DELEGITTIMATO DA MIGLIAIA DI PERSONE COMUNI: LA GUERRA DELL’ACQUA HA AVUTO IL SUO EPICENTRO IN UN PAESE IGNORATO DA QUELLI CHE SONO IN ALTO, LA BOLIVIA, E HA RIUNITO I CONTADINI IRRIGATORI, I QUARTIERI DI COCHABAMBA CHE AVEVANO CREATO I PROPRI SISTEMI IDRICI E I MINATORI CON LA LORO CULTURA SINDACALE. QUESTA ALLEANZA È STATA CAPACE DI DIMOSTRARE TUTTA LA SUA POTENZA NELLO SPIEGAMENTO DI MOBILITAZIONI DI MASSA CHE HANNO NEUTRALIZZATO LA REPRESSIONE E COSTRETTO IL GOVERNO A SOSPENDERE LA PRIVATIZZAZIONE DEL SERVIZIO DI ACQUA POTABILE, AFFIDATA ALLA MULTINAZIONALE BECHTEL CON IL SOSTEGNO DELLA BANCA MONDIALE. “HANNO DIMOSTRATO SOPRATTUTTO CHE È POSSIBILE COMBATTERE SENZA LEADER O PARTITI – SCRIVE RAÚL ZIBECHI – E CHE UN POPOLO ORGANIZZATO È CAPACE DI GRANDI TRIONFI DA SOLO…” -------------------------------------------------------------------------------- Foto di Massimo Tennenini -------------------------------------------------------------------------------- Fu uno dei più grandi punti di svolta della nostra storia recente. Con epicentro a Cochabamba, in Bolivia, la Guerra dell’Acqua inaugurò una nuova fase nelle lotte popolari in America Latina. Non solo è riuscito a delegittimare il neoliberismo, ma, ponendo al centro l’orizzontalità e l’obbedienza dei leader alla base, ha segnato profondamente il ciclo di lotte iniziato nel 2000 e culminato nella caduta dei governi privatizzatori. La Guerra dell’Acqua riunì i contadini irrigatori, i quartieri di Cochabamba che avevano creato i propri sistemi idrici e i sindacati più importanti della città. Questa alleanza, pressoché irripetibile, è stata capace di dimostrare tutta la sua potenza nello spiegamento di mobilitazioni di massa che hanno neutralizzato la repressione e costretto il governo a sospendere la privatizzazione del servizio di acqua potabile, affidata alla multinazionale Bechtel con il sostegno della Banca Mondiale. Nella parte meridionale della città, i migranti provenienti dalla regione andina, che avevano già costruito le loro case, aperto le loro strade e iniziato a costruire servizi, cominciarono a organizzarsi nei sistemi idrici. Grazie al contributo della comunità, costruirono le loro fonti di acqua sotterranea (pozzi di perforazione), i loro serbatoi di stoccaggio e le loro reti di distribuzione. Facevano tutto con spirito di solidarietà, senza fini di lucro e prendendo decisioni che venivano poi verbalizzate. I membri della comunità si fecero carico della gestione dei sistemi idrici e si fecero carico degli aspetti tecnici, sia formandoli sia chiedendo aiuto agli specialisti. La rotazione era una pratica costante, poiché la popolazione della parte meridionale della città proveniva dalle regioni rurali e dai minatori trasferiti, entrambi settori profondamente radicati nelle tradizioni e nelle pratiche della comunità. Mentre i minatori contribuivano con la loro antica e combattiva cultura sindacale, i contadini contribuivano con la loro visione del mondo andina basata sulla solidarietà. Il primo sistema urbano di acqua potabile fu realizzato nel 1990. Ho potuto conoscere Fabián Condori, uno dei suoi fondatori, grazie a Óscar Olivera, che all’epoca dirigeva il sindacato degli operai della fabbrica e da lì ebbe un ruolo di primo piano nella rivolta contadina, operaia e popolare. “Ogni famiglia contribuiva con un boliviano al mese per esplosivi, attrezzi e spazio per l’ufficio. Ogni famiglia doveva scavare sei metri al mese a una profondità di mezzo metro, il tutto in terreno roccioso, un lavoro molto duro e lento che richiedeva tre anni di sforzi”, ha spiegato Don Fabián. Durante i tre anni che hanno richiesto il lavoro, si tennero 105 assemblee, una ogni 10 giorni. “Il problema era che la gente non aveva tregua. Tornavano a casa dal lavoro per lavorare. Ogni famiglia doveva contribuire per 35 giornate lavorative di otto ore. Qualsiasi membro della famiglia poteva lavorare, ma erano soprattutto le donne a lavorare. Tutti avevano le vesciche ed erano molto stanchi. Piccone, pala, carriola, setacciare il terreno, compattare: era tanto, tanto lavoro. Mi sono reso conto che le donne sono più laboriose”, ha ricordato Fabián quando aveva quasi 80 anni. L’altro ramo, quello degli irrigatori, è costituito da contadini che possiedono fonti d’acqua proprie, come fiumi, laghi e pozzi, che gestiscono da prima dell’arrivo degli spagnoli. Per superare la frammentazione dovettero organizzarsi su scala regionale. Per quattro anni, tra il 1994 e il 1998, le associazioni locali di irrigazione hanno condotto una “guerra dei pozzi” in difesa delle loro fonti, che ha portato a un rafforzamento delle associazioni e a un aumento del coordinamento regionale. Mentre si avvicinava la privatizzazione di tutto ciò che avevano costruito per decenni, contadini e quartieri urbani formarono la “Coordinadora en Defensa del Agua y la Vida”, una convergenza di due culture organizzative e di lotta molto simili, ancorate all’autonomia di ogni collettivo locale e al coordinamento per la lotta con livelli molto bassi di burocratizzazione o, se preferite, dove la democrazia diretta giocava un ruolo importante. La Coordinadora guidò i blocchi, le manifestazioni e la serie di lotte che portarono a una schiacciante vittoria nell’aprile del 2000, dimostrando al mondo che “sì, ce la possiamo fare” se ci sono organizzazione collettiva e determinazione. Quell’anno si verificò la rivolta delle comunità Aymara dell’altopiano boliviano (su cui nel 2007 Raúl Zibechi ha scritto il libro Disperdere il potere, ed. Intra Moenia/Carta, ndr) e l’anno successivo si verificò la rivolta del popolo argentino, il 19 e 20 dicembre 2001: una vera e propria ondata di vittorie dal basso. I guerrieri dell’acqua si resero presto conto che non si trovavano di fronte alla tradizionale alternativa tra stato e privato, che era sempre stata limitata e confusa. Proposero la proprietà “comunitaria” per la gestione del servizio idrico, in modo da non dipendere dallo Stato ma dalla popolazione organizzata. Non è pubblico, anche se secondo la legislazione e alcuni gruppi di sinistra sarebbe “privato”; come tutto ciò che non è di proprietà statale in questa visione del mondo. Soprattutto, hanno dimostrato che è possibile combattere senza leader o partiti e che un popolo organizzato è capace di grandi trionfi da solo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (traduzione di Comune) -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo 25 anni dalla Guerra dell’acqua proviene da Comune-info.