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Droghe: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri”
Nei giorni scorsi sul sito del Dipartimento per le Politiche Antidroga è stata pubblicata la Relazione 2025 sul fenomeno delle tossicodipendenze in Italia, dalla quale, come si legge sul sito del Dipartimento, “emerge un quadro articolato delle droghe nel nostro Paese. Il consumo di sostanze psicotrope tra i giovani appare leggermente diminuito rispetto al 2023, tuttavia sembrano emergere nuove sfide per la salute pubblica e la sicurezza, legate a una trasformazione qualitativa del mercato degli stupefacenti, alla diversificazione dell’offerta e alla permanenza sul mercato italiano delle Nuove Sostanze Psicoattive (NPS)”: https://www.politicheantidroga.gov.it/it/notizie-e-approfondimenti/notizie/pubblicata-la-relazione-al-parlamento-2025-sul-fenomeno-delle-tossicodipendenze-in-italia/. “Se la Relazione fosse stata un compito per la maturità, ha affermato Marco Perduca, che per l’Associazione Luca Coscioni segue le leggi e politiche nazionali e internazionali sugli stupefacenti, il governo non l’avrebbe superata per insufficienze di merito e metodo”. Aggiungendo che “il documento del governo, con prefazione del sottosegretario Mantovano, non è purtroppo all’altezza del compito. Infatti, oltre a essere sempre più breve, la Relazione segnala una leggerissima flessione nell’uso degli stupefacenti a fronte dell’aumento delle operazioni ‘anti-droga’ ma, in entrambi i casi, si ragiona in termini percentuali e non assoluti. Altrove invece ci si intrattiene su campioni molto ristretti (39 città su oltre 8.000) magnificando l’efficacia rilevatrice della acque reflue, con metodologie non del tutto riconosciuti come attendibili dalla comunità scientifica internazionale e presentando la presenza di sostanze illecite ogni 100.000 persone. Una formulazione che se proposta in termini percentuali evidenzierebbe che si tratta, si e no, al massimo dello 0,7 grammi a persona!” È stata presentata nei giorni scorsi anche la sedicesima edizione del Libro Bianco sulle droghe, intitolato quest’anno “NON MOLLARE”. Il Libro Bianco è un rapporto indipendente sugli effetti del Testo Unico sugli stupefacenti (DPR 309/90) sul sistema penale, sui servizi, sulla salute delle persone che usano sostanze e sulla società. È promosso da La Società della Ragione, Forum Droghe, Antigone, CGIL, CNCA, Associazione Luca Coscioni, ARCI, LILA con l’adesione di A Buon Diritto, Comunità di San Benedetto al Porto, Funzione Pubblica CGIL, Gruppo Abele, ITARDD, ITANPUD, Meglio Legale e EUMANS. A 35 anni dall’entrata in vigore del Testo Unico sulle droghe 309/90 e 16 di pubblicazione del Libro Bianco sulle droghe, i dati purtroppo  confermano una tendenza al peggioramento. Gli effetti penali, in particolare dell’art. 73, sono sempre più devastanti e creano sovraffollamento carcerario confermando che la Legge Jervolino-Vassalli resta il principale veicolo di ingresso nel circuito penale in Italia. Continuano a salire in termini assoluti, +4,9%, gli ingressi in carcere per reati connessi alle droghe: 11.220 delle 43.489 detenzione nel 2024 sono state causate dall’art. 73 del Testo unico, per detenzione a fini di spaccio, il 25,8% degli ingressi (nel 2023 era il 26,3%). Le presenze in carcere sono 62.715 a metà giugno. Di questi 13.354 a causa del solo art. 73 del Testo unico. Altre 6.732 in combinato con l’art. 74 (associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope), solo 997 esclusivamente per l’art. 74. Complessivamente il 34,1% del totale. Sostanzialmente il doppio della media europea (18%) e molto di più di quella mondiale (22%). Spropositati gli ingressi e le presenze di detenuti definiti “tossicodipendenti”: è dichiarato così il 38,8% di chi entra in carcere, mentre al 31/12/2024 erano presenti nelle carceri italiane 19.755 detenuti “certificati” il 31,9% del totale. Non erano mai stati così tanti dal 2006 (anno dell’entrata in vigore della legge Fini-Giovanardi) a oggi. E la repressione continua ad abbattersi sui minori: 3.722 adolescenti che entrano in un percorso sanzionatorio stigmatizzante (cioè desocializzante) e controproducente. Dal 1990 1.463.442 persone sono state segnalate per possesso di droghe per uso personale, 1.074.754 di queste per derivati della cannabis. Ha ragione Papa Leone XIV quando afferma che: “Troppo spesso, in nome della sicurezza, si è fatta e si fa la guerra ai poveri, riempiendo le carceri di coloro che sono soltanto l’ultimo anello di una catena di morte. Chi tiene la catena nelle sue mani, invece, riesce ad avere influenza e impunità. Le nostre città non devono essere liberate dagli emarginati, ma dall’emarginazione; non devono essere ripulite dai disperati, ma dalla disperazione“. Qui per approfondire e scaricare il Libro Bianco: https://www.fuoriluogo.it/mappamondo/non-mollare-xvi-libro-bianco-sulle-droghe/ Giovanni Caprio
La messa del Corpus Domini celebrata all’insegna della bandiera palestinese
IL PARROCO DI MORTORA HA OFFICIATO LA FUNZIONE RELIGIOSA INDOSSANDO LA CASULA RAFFIGURANTE LA BANDIERA DELLA PALESTINA. La notizia è riferita nelle pagine di cronaca da Mortora, una frazione del comune Piano di Sorrento, una municipalità nell’area della ‘città metropolitana’ di Napoli, pubblicate sui giornali locali, in particolare de IL MATTINO, di POSITANO NEWS e di RETE NEWS 24. Il fatto è documentato nella pagina Facebook della parrocchia di Mortora, in cui è pubblicata la registrazione di una parte dell’omelia di don Rito Maresca. «Forse è una messa ‘sporca’, non ortodossa… secondo alcuni non opportuna – ha esordito il parroco di Mortora – Mi domando: quando mai Gesù è stato ‘opportuno’?». Nella ricorrenza che la chiesa cattolica celebra dal 1264 come memorialis sacramentum in cotidianis missarum sollemnior, festum sanctissimi Corporis Domini nostri Jesu Christi e che rammenta ai cattolici il significato della consacrazione del pane liturgico e dell’incarnazione del redentore dell’umanità, don Rito Maresca si è rivolto ai fedeli affermando: «Se davvero crediamo che “il Verbo si è fatto carne”, allora ogni carne è sacra. Anche quella che muore senza nome. Se crediamo nel sacrificio del Corpo di Cristo presente nel pane spezzato, allora ovunque si spezzano corpi innocenti, lì possiamo credere presente il Corpus Domini». «Chiediamo grazia e luce per non cadere nella spirale dell’odio, non rispondere al male col male… – ha spiegato – Mentre noi adoriamo il pane spezzato, sacramento del Corpo di Cristo, a Gaza si spezzano corpi innocenti. E non possiamo far finta di non vedere». Precisando che «Indossare questa casula significa stare con gli innocenti, non con Hamas, e neppure contro il popolo ebraico. Significa ascoltare anche quegli israeliani che chiedono la pace. Significa dire che ogni vita conta, specie quella che qualcuno cerca di annientare», dopo aver descritto le atrocità dell’assedio di Gaza ha dichiarato: «Ci sono tante guerre, è vero. Ma oggi questa ci guarda in faccia. Con la complicità attiva degli USA e il silenzio codardo di molti governi europei, Israele esporta la guerra anche in Iran, distraendo il mondo da ciò che accade in Palestina. Una strategia che serve a deviare lo sguardo. Passare oltre equivale a comportarsi come il sacerdote e il levita della parabola del buon samaritano. Fermarsi, invece, è Vangelo, è Cristo. Noi, come cristiani, dobbiamo restare fermi lì dove soffre l’umanità». CONTEMPORANEAMENTE A ROMA Papa Leone XIV ha presieduto la messa celebrata a San Giovanni in Laterano denunciando “la miseria di molti” e “l’accumulo di pochi, segno di una superbia indifferente, che produce ingiustizia” e alla processione fino a Santa Maria Maggiore esortava i fedeli a esibire il pane consacrato per mostrare “la fame che abbiamo nell’animo”. Intanto in piazza San Giovanni un gruppo di giornalisti manifestava per testimoniare che nell’assedio di Gaza l’esercito israeliano ha ucciso ucciso 237 reporter, fotoreporter e videomaker. * Il Papa: Cristo risposta alla “fame” dell’uomo. Tanti popoli umiliati dall’ingordigia altrui / VATICAN NEWS * Roma, flash mob per denunciare la strage di giornalisti a Gaza / PRESSENZA GIOVEDÌ 3 LUGLIO PROSSIMO A PIANO DI SORRENTO Maddalena Brunasti
La diplomazia del Vaticano a stelle e strisce: Leone XIV raccoglie l’eredità cinese di Papa Francesco
La nomina del vescovo Lin Yuntuan a vescovo ausiliare di Fuzhou da parte del Vaticano segna una svolta nelle relazioni sino-vaticane. Sotto la guida di Papa Leone XIV, il primo pontefice americano, la Santa Sede ha pienamente attuato il controverso accordo provvisorio del 2018 con Pechino – un delicato equilibrio diplomatico che preserva l’ultimo canale funzionale dell’Europa verso la Cina, pur mantenendo i legami formali con Taiwan. La cerimonia di insediamento dell’11 giugno ha coronato un processo meticolosamente orchestrato che ha coinvolto le approvazioni del comitato cattolico del Fujian, riconosciuto dallo Stato, della Conferenza episcopale cinese e del Vaticano. Questo meccanismo di approvazione trilaterale, istituito in base al rinnovo dell’accordo del 2022, rappresenta un raro consenso operativo tra Roma e Pechino. Questo gesto avviene nel cuore di una contraddizione geopolitica. La Santa Sede è l’unico Stato europeo a mantenere relazioni diplomatiche formali con Taiwan, ma al tempo stesso è l’unico attore che riesce a dialogare concretamente con la Cina sulla base di meccanismi concordati. Mentre altri soggetti occidentali, come gli Stati Uniti – che hanno riconosciuto formalmente la Repubblica Popolare Cinese come unico governo legittimo della Cina fin dal 1979, in adesione alla politica della “One China” sancita dalla Risoluzione 2758 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite del 1971 – alimentano le tensioni nello Stretto di Taiwan con forniture militari, esercitazioni navali e una retorica conflittuale, il Vaticano si muove nella direzione opposta. In assenza di formali relazioni diplomatiche con Pechino, la Santa Sede ha costruito una via propria: silenziosa, paziente, diplomatica. È questo l’autentico volto della diplomazia di pace. Ad oggi, sono soltanto tredici gli Stati che mantengono relazioni diplomatiche ufficiali con Taiwan, tra cui piccoli Paesi insulari come Palau, Tuvalu e Nauru, e alcune nazioni dell’America Latina e dell’Africa. La Santa Sede è l’unico soggetto sovrano europeo a farlo. Ciò rende la sua capacità di dialogo con Pechino ancora più singolare: un attore diplomatico che, senza rinunciare a relazioni con Taipei, riesce a costruire un’intesa funzionale con il governo cinese su una materia delicatissima come la nomina dei vescovi. La figura di Lin Yuntuan, 73 anni, già amministratore apostolico della diocesi di Fuzhou e protagonista della vita ecclesiale locale fin dagli anni ’80, diventa così la prima espressione visibile dell’accordo Vaticano-Cina nel contesto del nuovo pontificato. Nato a Fuqing, nel Fujian, Lin è stato ordinato sacerdote nel 1984 ed è stato consacrato vescovo nel 2017. La sua lunga esperienza amministrativa e pastorale nella regione lo ha reso figura di fiducia sia per Roma che per Pechino. La scelta della diocesi di Fuzhou ha anche un valore simbolico. Il Fujian è la regione cinese più vicina a Taiwan ed è da secoli crocevia della diaspora cinese sull’isola. Oltre la metà della popolazione taiwanese ha origini nel Fujian, e numerose famiglie conservano ancora oggi legami familiari e culturali con la Cina continentale. La diocesi di Fuzhou include anche territori (come le isole Matsu) che, pur sotto l’amministrazione de facto di Taipei, appartengono alla giurisdizione religiosa cinese. In questo senso, la nomina di Lin assume un ulteriore valore: quello di unire simbolicamente due rive dello stesso mondo sinico-cattolico, in una fase storica segnata dalla divisione. La diplomazia della Santa Sede, anche con un papa di passaporto statunitense, non si piega alle logiche dei blocchi. L’Accordo del 2018 non è stato annullato, ma rilanciato: in un’epoca in cui le grandi potenze alzano la voce e accumulano armamenti, il Vaticano scommette ancora su un modello di pazienza diplomatica. Il direttore della Sala Stampa vaticana, Matteo Bruni, ha parlato esplicitamente di un “ulteriore frutto del dialogo tra la Santa Sede e le autorità cinesi”. Il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Lin Jian, ha dichiarato il 12 giugno che “la Cina è disposta a collaborare con il Vaticano per promuovere il continuo miglioramento delle relazioni Cina-Vaticano attraverso il dialogo costruttivo e la fiducia reciproca”. Il contrasto con la diplomazia statunitense è netto. Washington sostiene apertamente l’armamento di Taipei e ne fa una pedina nel confronto strategico con la Cina. Eppure, è proprio grazie a questo approccio che, almeno in ambito ecclesiale, si è evitata una frattura insanabile. L’alternativa era proseguire con nomine unilaterali, scismi de facto e comunità cattoliche divise tra clandestinità e patriottismo. La Santa Sede ha scelto un’altra via: imperfetta, ma praticabile. Va riconosciuto che il processo resta fragile. La nomina unilaterale del vescovo di Shanghai nel 2021 ha dimostrato i rischi concreti di un accordo ancora soggetto a interpretazioni divergenti. E il carattere “provvisorio” dell’intesa, rinnovata a scadenza quadriennale, rende il cammino costantemente esposto a scossoni. Ma proprio per questo, ogni passo compiuto ha un valore doppio: non solo come atto ecclesiale, ma come segnale politico. In un mondo che sembra bruciare sotto il peso dei conflitti, dal genocidio in corso a Gaza agli attacchi contro l’Iran, la Santa Sede versa sapienti e pazienti gocce d’acqua sul fuoco, alimentando riconoscimento multipolare e flebili ma forti speranze di pace. L’accordo con la Cina si distingue da altri modelli (come quello informale col Vietnam o la semplice tolleranza di Cuba) per la sua forma strutturata e vincolante. A differenza di contesti dove la diplomazia è improvvisata, il caso cinese è codificato, scritto, sottoscritto. Ed è in questo spazio scritto che si muove il Papa, con pazienza e determinazione. L’attitudine multilaterale e multipolare del Vaticano non si limita alla Cina. La Santa Sede mantiene un impegno costante nella costruzione di relazioni pacifiche anche in America Latina e Africa, dove il ruolo di mediazione e dialogo interreligioso è spesso l’unica alternativa credibile alle derive securitarie o alle interferenze esterne. La diplomazia vaticana opera con la stessa logica paziente e discreta: riconoscere le complessità locali, ascoltare i bisogni delle comunità, costruire ponti dove altri alzano muri. La nomina di Lin Yuntuan non è solo la cronaca di un’ordinazione episcopale: è la conferma che la Santa Sede continua a esercitare una funzione unica sulla scena internazionale. E lo fa oggi, con un pontefice statunitense che non tradisce, ma rilancia, la via del dialogo. Forse è proprio da qui, e non dai vertici militari o dai forum geopolitici, che può partire una nuova idea di convivenza pacifica. La speranza, per ora, ha un nome e una diocesi: Lin Yuntuan, Fuzhou.     Redazione Italia
Papa Leone XIV promuove e incoraggia la nonviolenza
La nonviolenza come metodo e come stile deve contraddistinguere le nostre decisioni, le nostre relazioni, le nostre azioni. L’ha affermato Papa Leone XIV venerdì 30 maggio, ricevendo nella Sala Clementina circa 250 rappresentanti di associazioni e movimenti che avevano partecipato all’“Arena di pace”, l’incontro con Papa Francesco svoltosi a Verona il 18 maggio 2024.  Erano presenti anche rappresentanti di Ultima Generazione. Riportiamo per intero il discorso del Papa. Cari fratelli e sorelle, sono lieto di accogliere voi, membri dei movimenti e delle associazioni che un anno fa hanno dato vita al grande incontro “Arena di Pace”, a Verona, con la partecipazione di Papa Francesco. Ringrazio in particolare il Vescovo di Verona, Mons. Domenico Pompili, e anche i Padri Comboniani. In quell’occasione, il Papa ha ribadito che la costruzione della pace inizia col porsi dalla parte delle vittime, condividendone il punto di vista. Questa prospettiva è essenziale per disarmare i cuori, gli sguardi, le menti e denunciare le ingiustizie di un sistema che uccide e si basa sulla cultura dello scarto. Non possiamo dimenticare l’abbraccio coraggioso fra l’israeliano Maoz Inon, al quale sono stati uccisi i genitori da Hamas, e il palestinese Aziz Sarah, al quale l’esercito israeliano ha ucciso il fratello, e che ora sono amici e collaboratori: quel gesto rimane come testimonianza e segno di speranza. E li ringraziamo di aver voluto essere presenti anche oggi. Il cammino verso la pace richiede cuori e menti allenati e formati all’attenzione verso l’altro e capaci di riconoscere il bene comune nel contesto odierno. La strada che porta alla pace è comunitaria, passa per la cura di relazioni di giustizia tra tutti gli esseri viventi. La pace, ha affermato San Giovanni Paolo II, è un bene indivisibile, o è di tutti o non è di nessuno (cfr. Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 26). Essa può realmente venire conquistata e fruita, come qualità di vita e come sviluppo integrale, solo se si attiva, nelle coscienze, «una determinazione ferma e perseverante di impegnarsi per il bene comune» (ivi, 38). In un’epoca come la nostra, segnata da velocità e immediatezza, dobbiamo ritrovare quei tempi lunghi necessari perché questi processi possano avere luogo. La storia, l’esperienza, le tante buone pratiche che conosciamo ci hanno fatto comprendere che la pace autentica è quella che prende forma a partire dalla realtà (territori, comunità, istituzioni locali e così via) e in ascolto di essa. Proprio per questo ci rendiamo conto che questa pace è possibile quando le differenze e la conflittualità che comportano non vengono rimosse, ma riconosciute, assunte e attraversate. Per questo è particolarmente prezioso il vostro impegno di movimenti e associazioni popolari, che concretamente e “dal basso”, in dialogo con tutti e con la creatività e genialità che nascono dalla cultura della pace, state portando avanti progetti e azioni al servizio concreto delle persone e del bene comune. In questo modo voi generate speranza. Cari fratelli e sorelle, c’è troppa violenza nel mondo, c’è troppa violenza nelle nostre società. Di fronte alle guerre, al terrorismo, alla tratta di esseri umani, all’aggressività diffusa, i ragazzi e i giovani hanno bisogno di esperienze che educano alla cultura della vita, del dialogo, del rispetto reciproco. E prima di tutto hanno bisogno di testimoni di uno stile di vita diverso, nonviolento. Pertanto, dal livello locale e quotidiano fino a quello dell’ordine mondiale, quando coloro che hanno subito ingiustizia e le vittime della violenza sanno resistere alla tentazione della vendetta, diventano i protagonisti più credibili di processi nonviolenti di costruzione della pace. La nonviolenza come metodo e come stile deve contraddistinguere le nostre decisioni, le nostre relazioni, le nostre azioni. Il Vangelo e la Dottrina Sociale sono per i cristiani il nutrimento costante di questo impegno, ma al tempo stesso possono essere una bussola valida per tutti. Perché si tratta, in effetti, di un compito affidato a tutti, credenti e non, che lo devono elaborare e realizzare attraverso la riflessione e la prassi ispirate alla dignità della persona e al bene comune. Se vuoi la pace, prepara istituzioni di pace. Ci rendiamo sempre più conto che non si tratta solo di istituzioni politiche, nazionali o internazionali, ma è l’insieme delle istituzioni — educative, economiche, sociali — ad essere chiamato in causa. Nell’Enciclica Fratelli tutti ritorna molte volte il richiamo alla necessità della costruzione di un “noi”, che deve tradursi anche a livello istituzionale. Per questo vi incoraggio all’impegno e ad essere presenti: presenti dentro la pasta della storia come lievito di unità, di comunione, di fraternità. La fraternità ha bisogno di essere scoperta, amata, sperimentata, annunciata e testimoniata, nella fiduciosa speranza che essa è possibile grazie all’amore di Dio, «riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo» (Rm 5, 5). Cari amici, vi ringrazio di essere venuti. Prego per voi, perché possiate operare con tenacia e con pazienza. E vi accompagno con la mia benedizione. Grazie! Rayman
Il silenzio che confonde
Dove c’è amore, non può esserci esclusione. Un appello alla Chiesa perché ritrovi il coraggio di riconoscere ciò che esiste già: l’amore vissuto, anche fuori dai canoni. “Anche noi siamo una famiglia?” È la domanda che Luca Trapanese, credente, padre, compagno, cittadino, ha rivolto a Papa Leone XIV attraverso una lettera aperta condivisa in un videomessaggio sulla sua pagina Facebook ufficiale. Un messaggio semplice, diretto, nato non dalla polemica ma dalla vita: una vita spesa nella cura, nella responsabilità, nell’amore. Luca non chiede approvazione né concessioni. Chiede semplicemente che la Chiesa guardi la sua realtà, come quella di tante altre, e riconosca ciò che essa incarna ogni giorno: l’amore. Nel recente discorso al Corpo Diplomatico, Papa Leone XIV ha riaffermato l’importanza della famiglia “fondata sull’unione stabile tra uomo e donna”. È una frase storicamente presente nel linguaggio della dottrina cattolica. Non nuova, non provocatoria. Eppure oggi, in un tempo in cui i legami d’amore si manifestano in molte forme, quella frase ci lascia un senso di disorientamento. Siamo confusi, ma non vogliamo travisare. Siamo inquieti, ma non vogliamo strumentalizzare. Siamo spaventati, perché sappiamo cosa significa quando l’amore non viene riconosciuto. Negare l’amore, in qualsiasi sua forma autentica, rispettosa e responsabile, equivale a negare la vita stessa. E la Chiesa, nei suoi fondamenti più profondi, non può che essere dalla parte della vita e dell’amore. Sempre. Papa Francesco ci aveva insegnato che “la realtà è più importante dell’idea”, e nel suo pontificato, pur senza modificare i capisaldi dottrinali, aveva aperto cammini di ascolto e accompagnamento. In Fiducia supplicans si è detto che anche le coppie in situazioni “irregolari” possono ricevere una benedizione, non un sacramento, purché non si generi confusione con il matrimonio. Una breccia fragile ma significativa, verso un’umanità imperfetta ma reale. “Chi si mette umilmente davanti a Dio per chiedere il suo aiuto” afferma il documento, “non dovrebbe dover passare attraverso un giudizio morale completo come se fosse un requisito per ricevere la benedizione.” È un invito a riconoscere che non è la perfezione, ma la fiducia, il primo passo verso l’amore e verso Dio. Oggi, con Papa Leone XIV, questa traiettoria sembra sospesa. Le sue parole non hanno chiuso alcuna porta, ma nemmeno ne hanno aperta una nuova. E questo silenzio, in un tempo così pieno di domande, può sembrare una risposta mancata. Anche all’interno della nostra stessa testata, ci si è interrogati su questo nodo profondo. In un articolo lucido e coraggioso, Lorenzo Poli si chiedeva se la Chiesa non stia esercitando una forma di ipocrisia, benedicendo cose e situazioni discutibili, ma negando una preghiera a chi vive nell’amore e nella cura reciproca. Scriveva: “È possibile benedire missili, cannoni e crociate, ma non due persone che si amano?”. Una domanda che si affianca a quella di Luca Trapanese e che amplifica la richiesta che oggi sale da tante coscienze. Non per sradicare la dottrina, ma per radicarla nuovamente nella realtà. Santità, cosa dobbiamo dire ai nostri figli quando ci chiedono: “Anche noi siamo una famiglia?” Come possiamo spiegare loro che la Chiesa, la casa dell’amore, non ha ancora trovato parole per benedirli? La risposta non può più essere rimandata. Perché dove c’è amore, lì c’è già la benedizione.   Riferimenti – Videomessaggio di Luca Trapanese sulla sua pagina ufficiale: facebook.com/Luca-Trapanese – Lorenzo Poli, “Coppie gay, la Congregazione per la Dottrina della Fede sancisce l’ipocrisia?”, Pressenza, 22 marzo 2021 https://www.pressenza.com/it/2021/03/coppie-gay-la-congregazione-per-la-dottrina-della-fede-sancisce-lipocrisia/   Lucia Montanaro
La “contro-omelia della liberazione” di Ibrahim Traoré a Papa Leone XIV
Una “contro-omelia della liberazione” dall’Africa che alza la testa. Traduzione di Leopoldo Salmaso – da: https://byeon.com/ibrahim-traore/   A Sua Santità Papa Roberto Francesco, Non le scrivo da un palazzo, né dalle comodità di ambasciate straniere, ma dal suolo della mia patria, la terra del Burkina Faso, dove la polvere si mescola al sangue dei nostri martiri e gli echi della rivoluzione sono più forti del ronzio dei droni stranieri sopra le nostre teste. Non le scrivo come un uomo in cerca di approvazione, né come uno invischiato in convenevoli diplomatici. Le scrivo come un figlio dell’Africa, audace, ferito, indomito. Ora lei è il padre spirituale di oltre un miliardo di anime, inclusi milioni qui in Africa. Lei eredita non solo una chiesa, ma una missione. E in questo momento di transizione, mentre il fumo bianco aleggia ancora sui tetti del Vaticano, devo inviare questa lettera attraverso mari e deserti, oltre guardie e cancellate, direttamente al suo cuore, perché la storia lo esige, perché la verità lo impone, perché l’Africa, ferita e in rivolta, ci sta guardando. Santità, noi africani conosciamo il potere della croce. Conosciamo gli inni, le preghiere, le litanie. Abbiamo costruito chiese con mani callose e abbiamo difeso la nostra fede con il nostro sangue. Ma conosciamo anche un’altra verità, una verità che troppi hanno preferito seppellire: che la Chiesa a volte ha camminato al fianco dei colonizzatori, che mentre i missionari pregavano per le nostre anime, i soldati profanavano le nostre terre, che mentre voi predecessori parlavate del cielo, i nostri antenati erano incatenati sulla terra. E anche ora, in questa cosiddetta era moderna, subiamo ancora le catene non del ferro, ma del silenzio. Dell’indifferenza di giochi geopolitici che si svolgono in sacre oscurità. Quindi chiedo, in nome delle madri che pregano sui pavimenti di terra battuta e dei bambini che frequentano il catechismo a stomaco vuoto: il suo papato sarà diverso? Sarà lei il Papa che vede l’Africa non come una periferia, ma come il centro profetico? Sarà il Papa che non si limita a visitare le baraccopoli per fotoricordi, ma che osa parlare con rabbia contro le forze che rendono permanenti quelle baraccopoli? Vede, Santità, io sono un uomo forgiato dalla guerra, non dalla ricchezza. Non sono stato rovinato dalle istituzioni occidentali per uso politico. Non mi hanno insegnato la diplomazia a Parigi. Ho imparato la leadership in trincea, tra la gente, dove il dolore è maestro e la speranza è resistenza. Guido una nazione che è stata emarginata dal mondo finché non ci siamo rifiutati di stare zitti. Ci è stato detto che eravamo troppo poveri per essere indipendenti, troppo deboli per essere sovrani, troppo instabili per resistere. Ma glielo dico con il tuono degli antenati nella voce: abbiamo smesso di chiedere il permesso di esistere. Abbiamo smesso di implorare validazione da parte dei poteri che sfruttano i nostri minerali mentre predicano la moralità. E abbiamo smesso, assolutamente smesso, di accettare che i leader spirituali globali distolgano lo sguardo dalle grida dell’Africa perché la politica è scomoda. Santità, [non] parlo ora solo per il Burkina Faso, ma per un continente troppo a lungo dominato. L’Africa non è un continente da compatire, siamo un continente di profeti. Profeti che sono stati incarcerati, esiliati e assassinati per aver osato sfidare l’impero. E lei, ora che porta l’anello di San Pietro come simbolo, seguirà la via dei profeti? O sarà anche lei prigioniero della politica? Non abbiamo bisogno di altre banalità. Non abbiamo bisogno di altri auguri e preghiere mentre le multinazionali occidentali estraggono uranio dal Niger, e oro dal Congo, sotto scorta armata. Non abbiamo bisogno di neutralità diplomatica mentre i giovani africani annegano nel Mediterraneo fuggendo da guerre cui essi non hanno dato inizio, con armi che essi non hanno fabbricato. Non abbiamo bisogno di dichiarazioni sdolcinate mentre la sovranità africana viene messa all’asta a porte chiuse a Bruxelles, Washington e Ginevra. Ciò di cui abbiamo bisogno è un Papa che nomini l’Erode moderno, che tuoni contro gli imperi economici con la stessa audacia con cui la Chiesa un tempo tuonò contro il comunismo. Un Papa che dica senza indulgenze che è peccato per le nazioni trarre profitto dalla distruzione dell’Africa. Lei conosce gli insegnamenti di Cristo. Sa che Lui rovesciò i tavoli dei cambiavalute. Sa che Lui disse “Beati gli operatori di pace” ma non disse mai “Beati i pacifinti”. Quindi le chiedo personalmente: parlerà contro il silenzio della Francia e le sue operazioni segrete nel Sahel? Condannerà i traffici di armi che alimentano guerre per procura nei nostri deserti e nelle nostre foreste? Smaschererà l’avidità che si ammanta di carità? La diplomazia che maschera l’imperialismo con colloqui di pace, perché lo vediamo succedere, lo viviamo. Sua Santità, non le chiedo di essere africano. Le chiedo di essere umano, di essere morale, di essere coraggioso, perché il coraggio, il vero coraggio, non è benedire i potenti. E’ difendere i deboli pagandone il costo. Mi permetta di parlare chiaro. Il Vaticano possiede ricchezze inimmaginabili, arte senza prezzo, accesso oltre ogni confine. Ma il vero potere non si misura in tesori nascosti dietro mura di marmo, il vero potere si misura nel coraggio di affrontare l’ingiustizia. Anche quando si presenta vestito con un abito su misura, con credenziali diplomatiche e sorridendo nonostante i suoi peccati, Sua Santità, il mondo è sull’orlo del precipizio e l’Africa, questo continente martoriato e bellissimo, non si limita a guardare dal basso: ci stiamo sollevando. Stiamo sanguinando, stiamo risalendo e osiamo porre domande che risuonano più forte del diritto canonico. Dov’era la Chiesa quando i nostri presidenti sono stati rovesciati da mercenari spalleggiati dall’estero? Dov’era la Chiesa quando i nostri giovani sono stati rapiti e indottrinati in guerre finanziate da nazioni che pretendono di essere forze di pace? Dov’era la Chiesa quando le nostre valute sono crollate, quando il Fondo Monetario Internazionale ha soffocato le nostre economie? Quando i nostri leader sono stati puniti per aver scelto la sovranità anziché la sottomissione? Non ci dica di perdonare mentre la frusta è ancora nella mano del carnefice. Non ci dica di pregare mentre le nostre preghiere vengono ricambiate con attacchi di droni. Non parli di pace senza nominare i profittatori della guerra. Perché il silenzio, Santità, non è più santo e la neutralità non è più nobile. Se lei deve essere il pastore di questo gregge globale, allora ascolti questo grido dalla polvere di Uagadugu. Anche noi siamo sue pecore. Ma non pascoliamo in silenzio nei campi, marciamo per le strade, moriamo in prima linea. Risorgiamo dalle ceneri con il fuoco nelle ossa e le Scritture sulla lingua. Non chiediamo carità, esigiamo giustizia. E la giustizia deve iniziare dalla verità. La verità è che il cristianesimo in Africa è stato sia un balsamo che una spada. La verità è che la Chiesa ha nutrito i nostri spiriti senza riuscire a proteggere i nostri corpi. La verità è che la redenzione senza riconoscimento è una mezza verità e le mezze verità non hanno mai guarito le nazioni. Santità, ora lei siede sulla cattedra di San Pietro. Ma ricordi, Pietro rinnegò Cristo tre volte prima che il gallo cantasse. Non permetta alla Storia di scrivere che la Chiesa ha rinnegato l’Africa ancora una volta. Faccia sì che il gallo canti forte e chiaro in Vaticano. Che svegli la coscienza di cardinali e re. Che echeggi nei corridoi del potere, dove uomini in toga e uomini in uniforme barattano il silenzio con l’influenza. Che annunci una nuova alba, non solo per la Chiesa, ma per il mondo. Perché qui in Africa non temiamo le albe, le creiamo. Siamo figli e figlie di Sankara, Lumumba, Nkrumah e Biko. Portiamo le Scritture in una mano e l’onore, il ricordo dei rivoluzionari nell’altra. Abbiamo imparato a pregare e protestare con lo stesso respiro. E chiediamo: il suo papato camminerà con noi? Ci verrà lei incontro nel nostro dolore, non solo tra i banchi delle nostre chiese? Riconoscerà Dio nella nostra fame? Cristo nel nostro caos, lo Spirito Santo nelle nostre lotte? Perché se non è questo il tempo, è quello di Giuda, e se la Chiesa continua a predicare la pace ignorando la macchina dell’oppressione, in quale Buona Novella ci resta da credere? Non lo dico con rabbia, ma con sacra urgenza. Siamo un popolo al crocevia tra profezia e politica, e il tempo dell’Africa non si sta avvicinando, è qui. Stiamo riscrivendo la narrazione, rimodellando il futuro, rivendicando la dignità che ci è stata negata da secoli di dominazione straniera e di manipolazione spirituale. E la Chiesa deve decidere da che parte stare: con i poteri forti qui, o con le persone che sanguinano. Non scrivo questa lettera per condannare. La scrivo per invitarla, Santità, a una solidarietà più profonda, a una solidarietà che cammini a piedi nudi con i poveri, che osi dire la verità a Roma con la stessa audacia con cui lo fa in Ruanda, che ricordi i santi non solo per i miracoli, ma per il loro impegno per la giustizia. Aspettiamo le vostre voci, non dai balconi, ma dalle trincee e dalle favelas. Dai campi profughi, da dietro le sbarre delle prigioni politiche dove la verità è incarcerata. Perché solo quella voce, la vostra voce, può riscattare il silenzio. E se oserete pronunciarla, non solo l’Africa vi ascolterà, ma il mondo intero. Capitano Ibrahim Traoré, presidente della transizione. Burkina Faso, figlio dell’Africa, servitore della sovranità. https://vcomevittoria.it Redazione Italia
Primo discorso di Prevost. Continuità con Francesco
Riceviamo e pubblichiamo dalla agenzia stampa Interris.it “Ho sentito forte la presenza spirituale di Francesco che dal Cielo ci accompagna”, ha detto ieri visibilmente emozionato Leone XIV alla recita del Regina Coeli. Se il buongiorno si vede dal mattino l’era Prevost è iniziata sotto i migliori presagi. L’avvio del pontificato rimarrà nella memoria per il bagno di folla in papamobile e soprattutto per l’omelia densa ed emozionante con cui ha toccato il cuore ai 200 mila partecipanti alla cerimonia e a milioni di fedeli in tutto il mondo. Di fronte ad oltre centocinquanta delegazioni arrivate da ogni angolo del pianeta, il Papa ha pronunciato un’accorata richiesta di una pace giusta e duratura. Un’invocazione di pacificazione e armonia mentre Gaza è alla fame, l’Ucraina sotto i bombardamenti russi e decine di focolai dimenticati dilagano in Africa e Asia. Commosso alla consegna del Pallio e dell’Anello del Pescatore, il Pontefice ha richiamato l’unità e l’amore come risposta alle “troppe ferite causate dall’odio, dalla violenza, dai pregiudizi, dalla paura del diverso”. Leone ha invocato pace e giustizia sociale. “Sono stato scelto senza alcun merito – afferma -. Pietro deve pascere il gregge senza cedere mai alla tentazione di essere un condottiero solitario o un capo posto al di sopra degli altri, facendosi padrone delle persone a lui affidate”. Lo stile della predicazione è pacato e diretto nella limpida consapevolezza che il futuro della comunicazione prospettato tanto tempo fa è già qui adesso. La sfida degli evangelizzatori, infatti, è sempre stata quella di incontrare le persone là dove vivono e, sempre di più, ciò significa andare incontro a tutti e a ciascuno. I pastori devono esserci, dialogando con la gente ovunque si trovi. “Questo è lo spirito missionario che deve animarci, senza chiuderci nel nostro piccolo gruppo né sentirci superiori al mondo – testimonia il Pontefice -. Siamo chiamati a offrire a tutti l’amore di Dio, perché si realizzi quell’unità che non annulla le differenze, ma valorizza la storia personale di ciascuno e la cultura sociale e religiosa di ogni popolo”. Riecheggiano profetiche le parole di Paolo VI ai vescovi convocati per il Concilio Vaticano II: “Riprovate gli errori, sì; perché ciò esige la carità, non meno che la verità; ma per le persone solo richiamo, rispetto ed amore. Invece di deprimenti diagnosi, incoraggianti rimedi; invece di funesti presagi, messaggi di fiducia verso il mondo contemporaneo”. Chi approfondisce il Magistero pontificio, nel passaggio dei vari successori di Pietro, si rende conto della profondità, della complessità delle questioni, della dottrina e delle domande sull’uomo, sul creato e sulle questioni del mondo e della vita che richiede una risposta collegiale, decentrata. Il vescovo di Roma presiede alla carità di tutte le Chiese e Leone riceve dai predecessori il timone della carità. Secondo le tre parole da lui indicate come chiave di lettura della propria missione: pace, giustizia, verità. Redazione Italia
Papa Francesco, Papa Leone XIV, la Chiesa cattolica e noi
Occuparsi di cosa accade nella Chiesa cattolica come istituzione, come potere, gerarchia e struttura millenarie non è perdere tempo. Interessa noi, di sinistra sociale e politica alternativa. Perché da come si muove questa entità dipendono molti destini, molta politica, molto assetto geopolitico e anche molta cultura. In un mondo per più versi abbondantemente secolarizzato, soprattutto in Occidente, Usa ed Europa, il bisogno religioso sopravvive. Nella secolarizzazione imperfetta qui si esprime con altri mezzi, in forme anche non-religiose. In gioco è la sempre umana ricerca di identità e di appartenenza, anche in forme alienate. E questo avviene in sette esoteriche, nei consumi, nel tifo sportivo, nella cosiddetta New Age, in maghi e maghe, cartomanti, santoni, nella cultura del corpo, nella cultura del narcisismo ecc.  Soprattutto in ciò che rimane del mondo rurale del Nord Globale, nelle forme tradizionali, la Chiesa cattolica come seguito di fedeli, resiste, ma molto resiste nelle periferie del mondo. La Chiesa è un’organizzazione piramidale nata come religione di Stato nel 380 d. C. con Teodosio e dal disfacimento dell’Impero Romano, ereditandone pertanto struttura e monarchia assoluta, anche nel solo titolo del capo come Pontefice Massimo. Struttura complessa e molto articolata non solo in cardinali, vescovi, presbiteri, preti, diaconi ecc, bensì soprattutto in ordini religiosi, congregazioni, uffici, settori ecc., a loro volta con le proprie gerarchie e articolazioni. La Chiesa comprende tutto. Dall’Inquisizione, dalle torture e dai roghi per eretici e per le cosiddette streghe, ai vescovi feudatari, ai papi capi di eserciti combattenti, ai feroci colonizzatori e oppressori nei vari continenti, alle gerarchie ecclesiastiche benedicenti i fascisti italiani, i franchisti in Spagna, le bandiere naziste in Germania, a Marcinkus e allo Ior, alla finanza cattolica, a Calvi ecc. Ma comprende anche preti e gerarchie  coinvolte nelle eresie, nel francescanesimo, nel solidarismo cattolico, nei movimenti di liberazione, fino alla Teologia della Liberazione.  Comprende Opus Dei, Legionari di Cristo, Comunione e Liberazione, Cammino neocatecumenale, ma anche Focolarini, Comunità di Sant’Egidio ecc. Naturalmente, è banale dirlo, un conto è il gaudente abusatore Alessandro VI (papa Borgia), il gaudente Marcinkus, l’anticomunista fanatico Wojtyla e un conto sono Francesco, Thomas Müntzer, don Milani, dom Franzoni, Gustavo Gutierrez, Leonardo Boff e via elencando. Jorge Mario Bergoglio Lo spettacolo di ipocrisia dispiegato dai potenti, dai governanti, dai media in occasione della morte e delle esequie di Papa Francesco rimane come marchio indelebile a futura memoria. La vicenda di Jorge Bergoglio è esemplare. Viene dal potente processo inaugurato dal Concilio Vaticano II, voluto da Giovanni XXIII e proseguito da Paolo VI con la pietra miliare dell’enciclica Populorum Progressio nel senso della necessaria e purificatrice “decolonizzazione” e della liberazione dei popoli oppressi. Viene dopo il reazionario Wojtyla e dopo il curiale e conservatore Ratzinger. Viene dalle periferie del mondo. Ancor prima di essere il massimo esponente di un’istituzione così compromessa qual è stata ed è la Chiesa cattolica, Bergoglio-Francesco è stato ed è un essere umano. Un essere umano è la sua storia. Quello che riceve dal suo contesto, dai suoi familiari, dalla sua comunità, dal contesto sociale in cui si viene a trovare, dalle sue esperienze, dallo spirito del suo tempo. La Teologia della Liberazione ha sempre sostenuto che il prete, oltre a evangelizzare, oltre a dare testimonianza del sovversivo messaggio evangelico, è evangelizzato a sua volta. I poveri, gli oppressi, gli ultimi lo convertono, lo evangelizzano. Se si attarda a vivere nei privilegi, invece di servire, invece di essere al servizio, viene servito e cooptato dalle infinite sfumature del Potere. Jorge Bergoglio nasce nel contesto argentino, in un ambiente sociale al confine tra élite dominante e classi sociali dominate. Discende da immigrati italiani, conosce la condizione del migrante, diviene gesuita. È gesuita. Poi le periferie, le favelas di Buenos Aires, i diseredati di quel mondo così abbandonato lo costringono a fare la scelta definitiva. Al momento giusto, quando viene scelto come Papa, diviene Francesco. Essere gesuita nella seconda metà del Novecento significa ricevere la lezione di padre Pedro Arrupe e poi in seguito del cardinale Carlo Maria Martini, he ha costituito la figura esemplare del “teologo” e del “pastore”, uniti e non disgiunti, capace di scardinare molti blocchi della Chiesa. La vicinanza ai lavoratori e alle lavoratrici, alle donne (il primo della gerarchia che ha parlato di sacerdozio delle donne…), il suo appello alla “collegialità” (oggi si dice “sinodalità”) per farla finita una buona volta con la monarchia assoluta, retaggio dell’Impero. Essere uomo. Bergoglio vuole essere Francesco come simbolo della semplicità, dell’umiltà e della povertà e ciò aggiunge molto al suo essere gesuita. La scelta radicale per la pace, contro la guerra e contro i fabbricanti di armi, per i migranti, per gli omosessuali, per i carcerati, per il dialogo interreligioso, per la giustizia sociale e per la giustizia ambientale, per le periferie del mondo ecc. gli hanno procurato tanto consenso, tanta simpatia, da credenti e da non credenti, da uomini e da donne di buona volontà. La profetica enciclica “Laudato si’” del 2015 rimane come documento fondativo di una radicale visione e pratica del mondo, quasi da “altermondialista”. Contro la logica del capitalismo e del neoliberismo, contro l’imperialismo, per la giustizia sociale e per la giustizia ecologico-climatica, per la fratellanza universale, tra esseri umani e tra esseri umani e la natura. Un documento “divisivo” accolto con entusiasmo da sinistra, da chi lotta per la giustizia sociale, per la protezione del bene comune, dagli ambientalisti, da chi lotta contro il cambiamento climatico. Il clerico-fascismo, i reazionari, le gerarchie irriformabili, in primo luogo della Curia romana, invece, si sono dati da fare per non far circolare tra i fedeli e far discutere nelle parrocchie l’enciclica. Francesco è stato “divisivo”. Parola e contenuto così avversate dagli ipocriti del politically correct, dai contemporanei scribi e farisei. Egli ha separato. Inevitabilmente. Tutti i residui, oltremodo attivi entro il cattolicesimo, del clerico-fascismo, tutti i benpensanti liberali lo hanno avversato. I guerrafondai lo hanno deriso, lo hanno anche odiato. Tanti cardinali e tanti vescovi statunitensi, ambienti della curia romana, il Potere per eccellenza, sionisti e massacratori israeliani, con la solita accusa di antisemitismo, atlantisti che non gli perdonano le sue parole, soprattutto all’inizio della guerra, la sua equidistanza nella stessa guerra in Ucraina. La Nato che abbaia alle porte della Russia… Ha reso omaggio nel 2017 a don Lorenzo Milani in occasione dei 50 anni dalla sua morte e da Lettera a una professoressa, salendo a Barbiana e, solitario, pregando sulla sua tomba. Certo, anche i profeti hanno i loro limiti di tempo e di spazio. Chiedere a Bergoglio di respingere tutte le sirene dei “falsi difensori della vita”, di pronunciarsi su aborto, su eutanasia e su fine vita, sul sacerdozio delle donne, sulle finanze, palesi e occulte, del Vaticano, sui dossier di Emanuela Orlandi, l’andare fino in fondo sugli abusi sessuali di esponenti della Chiesa ecc. è chiedere un po’ troppo. L’inerzia storica della Chiesa-istituzione è un blocco, un macigno troppo grande. I tempi della Chiesa-istituzione non sono tempi umani. Bergoglio, rivoluzionario quanto basta. Bergoglio-Francesco ha scardinato molto. Troppo, dicono i liberali benpensanti alla Paolo Mieli, alla Massimo Franco del Corsera. Con la ridicola svalorizzazione di Bergoglio quale “pastore” con poca cultura, non “teologo” alla Ratzinger. Francesco al contrario è stato “pastore” e colto, fine teologo della Chiesa nel mondo, nel secolo, nel cammino di Liberazione. Robert Francis Prevost Di contro ai fiumi di parole, a tutte le analisi dispiegate attorno alla figura di Robert Francis Prevost, oggi Papa Leone XIV, un poco di sobrietà. Occorre sempre capire quali trattative e quali scambi sono intercorsi prima nelle Congregazioni e poi dentro il Conclave, ma non lo sapremo mai. Alla fine, con sorpresa, viene eletto questo cardinale. Il primo statunitense (basta, una buona volta, con “americano”…), ma anche il primo peruviano come seconda nazionalità. La doppia natura di Leone XIV. Sembra che sia stato designato dallo stesso Francesco, anch’egli con l’esperienza delle favelas e dei diseredati nel suo essere missionario in Perù. Agostiniano, e quindi molto vicino alla semplicità e alla povertà dei francescani. Ma secondo taluni, liberali benpensanti, il partito dell’ordine, Prevost è incaricato di riportare tutto alla Chiesa-istituzione, con tutti i suoi riti, tutti i suoi simboli, dopo l’“avventura” di Francesco. Di aprirsi al mondo e ai suoi problemi (extra muros), certo, ma con un’attenzione particolare alla vita interna della Chiesa (intra muros). Teologia e non pastoralità. Ha parlato da subito di pace, di sinodalità, di continuità rispetto a Francesco, ma lo attendiamo alla prova dei fatti. Pace e guerra, Palestina, le sfide geopolitiche, la povertà della Chiesa, l’ascolto del popolo dei fedeli, il dialogo interreligioso, il dialogo col mondo, con i tanti non-credenti, ma alla ricerca di spiritualità, di giustizia in un mondo senza cuore e senz’anima, pericolosamente alla deriva. Il Vangelo del Gesù storico, delle strade e dei villaggi della Galilea povera, di un povero tra i poveri e gli emarginati contro il Tempio dei Sadducei e degli scribi e farisei. La teologia come atto secondo rispetto a un pastore militante “che ha lo stesso odore del suo gregge” (come diceva Francesco). Il potente messaggio del Vangelo reso vivo e operante nel mondo contemporaneo. Giorgio Riolo
Papa Leone XIV auspica una comunicazione di pace
Papa Leone XIV ha ricevuto oggi in udienza i rappresentanti della comunicazione e ha lanciato un messaggio di pace: “Solo i popoli informati possono fare scelte libere. Nella ricerca della verità i giornalisti rischiano la vita e la libertà. Viviamo tempi difficili, ma non bisogna cedere alla mediocrità. Non può esistere un giornalismo fuori dalla storia e dalla realtà. Bisogna uscire fuori dagli stereotipi e dai luoghi comuni, dalla Torre di Babele, creando cultura di dialogo e di confronto. In particolare l’intelligenza artificiale richiede discernimento per produrre risultati per l’umanità. Amore e pace sono indispensabili per disarmare la comunicazione dall’odio. Bisogna ascoltare i più deboli che non hanno voce. Disarmiamo le parole. Il Papa auspica una comunicazione di pace.” Leone XIV ha chiesto anche la liberazione dei giornalisti che nel mondo vengono imprigionati perché cercano la verità e diventano scomodi per il potere. Rayman