Antonio Forza, Rino Rumiati / “Scienze cognitive e processo penale: un auspicabile incontro”
Ci sono dei libri che tutti dovrebbero leggere. Uno di questi è L’errore
invisibile. Dalle indagini alla sentenza, opera di due rinomati studiosi:
Antonio Forza, avvocato cassazionista, docente di psicologia del giudizio e
delle decisioni nonché di neuropsicologia forense, e Rino Rumiati, ordinario di
psicologia generale. Preceduto da una prefazione di Giovanni Canzio, già
Presidente della Suprema Corte di Cassazione, il volume, composto da
un’introduzione, otto densi capitoli e una corposa bibliografia, si apre con una
scorrevole ricognizione del processo penale italiano e, partendo dal dato di
fatto che nell’ultimo trentennio in Italia sono stati registrati oltre
trentamila casi di ingiusta detenzione, pone subito all’attenzione del lettore
una cruciale domanda: da dove derivano questi errori? Per rispondere, Forza e
Rumiati esaminano la complicata materia delle cause che conducono all’errore
giudiziario, nella loro valutazione quasi sempre frutto di vizi investigativi
determinatisi durante la raccolta delle prove, la cui erronea valutazione, il
travisamento, mantengono la loro forza condizionante nella fase processuale.
Concentrandosi sulla psicologia degli inquirenti, gli autori ribaltano così la
corrente dottrina processuale penalistica, che di rado si sofferma sul
soggettivismo degli operatori del processo. “Il dibattito sull’errore
giudiziario – notano – è approdato solo di recente su un terreno più
propriamente psicologico”, e non sono molti gli studiosi che “hanno cercato di
ricondurre ai limiti e ai condizionamenti della psiche umana le cause di questi
errori”.
Sulla scorta delle più recenti evidenze delle scienze comportamentali, delle
neuroscienze cognitive, della psicologia sociale, i capitoli successivi si
soffermano poi sui meccanismi che presiedono alla registrazione e organizzazione
dei dati nel nostro cervello, alla concettualizzazione della realtà fenomenica,
ai sistemi intuitivo e razionale che governano (il primo infinitamente più del
secondo) i processi mentali. È forse la parte più affascinante del saggio, con
l’analisi delle “trappole cognitive” dell’Homo sapiens, l’esposizione dei
concetti di bias (tendenze sistematiche della mente fondate su percezioni
errate) e delle euristiche (strategie cognitive che tutti assumiamo
inconsapevolmente), le scorciatoie del pensiero e la ricorrente e inconsapevole
distorsione delle informazioni che assumiamo, la fallibilità della memoria e il
fenomeno dei falsi ricordi, il ruolo e il peso delle intuizioni e delle emozioni
nei processi decisionali, le illusioni percettive (“distorsioni della
comprensione che avvengono attraverso i sensi o i pensieri che difficilmente
riusciamo a modificare”), la sovrastima delle proprie abilità ed altro ancora:
in generale, tutti quei fenomeni mentali, quegli automatismi psicologici che
governano l’essere umano e determinano effetti – spesso drammatici – in ogni
ambito sociale, com’è nel caso della giustizia penale. Concetti spiegati e
presentati con l’ausilio di esempi sperimentali e il puntuale richiamo agli
studi più aggiornati delle scienze cognitive.
Un capitolo è inoltre dedicato alla psicologia degli inquirenti, con le insidie
del “senso comune” e della “psicologia ingenua”, del “ragionamento causale” e
della “correlazione illusoria”. Gli appassionati dell’arte del racconto e di
semiologia troveranno poi di grande interesse la parte dedicata alla
“narratività come modalità di pensiero”, con le varie teorie evolutive
sull’abilità prettamente umana nello storytelling, poiché “l’investigazione
altro non è che una verifica di ipotesi”, un “processo comunicativo” in cui essa
può trovare conferma o confutazione. L’ultimo capitolo analizza i sistemi di
intelligenza artificiale e gli strumenti di indagine predittiva che sempre più
negli ultimi anni vengono impiegati nel corso delle indagini dalle forze di
polizia, un utile aiuto ma anche un pericoloso strumento nei processi
decisionali degli inquirenti, al quale bisogna porre dei limiti con opportuni
interventi normativi, per adattare le indagini e le fasi dibattimentali “alle
nuove tecnologie nel rispetto dei principi di trasparenza, della presunzione di
non colpevolezza nonché del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio”.
In definitiva, “i sistemi giuridici si fondano sul presupposto che la ragione e
l’intelligenza umana rappresentino un sistema unitario, così come vuole il senso
comune, e che il pensiero e la coscienza umana funzionino secondo un unico
livello di consapevolezza”: niente di più distante dalla realtà. L’evidenza
della ricerca scientifica, dopo decenni di esperimenti, attesta che siamo preda
di pregiudizi, ragioniamo per schemi e per stereotipi, e che “la mente degli
esseri umani è intimamente e naturalmente esposta a distorsioni” – e qui un
appassionato di filosofia ricorderebbe gli idola, di Bacone. La nostra specie è
incapace di prendere decisioni perfettamente e compiutamente razionali. Ci
avvaliamo di una “razionalità limitata”, “siamo privi della consapevolezza
dell’influenza dei bias cognitivi che si annidano nei processi mentali
attraverso i quali si sviluppa la decisione”, in quanto generati sotto il
livello di coscienza. Come tutti, gli inquirenti sono individui condizionati
dagli errori sistematici e dalle irrazionalità umane, dunque gli autori
auspicano “un rinnovato progetto culturale di ricostruzione dei modelli di
formazione dei giuristi e, in special modo, delle figure professionali
dell’investigatore e dell’inquirente” con particolare riguardo alle tecniche di
debiasing (sviluppo della consapevolezza e depurazione dei bias cognitivi) ed
educazione al pensiero critico.
Siamo insomma davanti a un libro che affronta temi di estrema rilevanza, i cui
approdi esondano l’ambito delle scienze forensi: ridurre il più possibile
l’errore giudiziario è un obiettivo che ogni società civile e democratica deve
perseguire, ma le conoscenze di base dei meccanismi e dei processi che
presiedono al funzionamento della mente dovrebbero essere patrimonio di
ciascuno, non da ultimo perché ci aiuterebbero nelle interazioni sociali e a
capire noi stessi. Da questa lettura si esce certo arricchiti, ma anche con un
malcelato senso di inquietudine, augurandosi di non incappare mai nelle maglie
della giustizia.
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