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Giuliano da Empoli / Dare un nome al mondo
“In tempi difficili e pericolosi la letteratura ha il compito di dare un nome al mondo”. Lo ha detto, non con queste esatte parole ma con questa stessa intenzione, Albert Camus nel 1955, nel suo discorso di accettazione del premio Nobel a Upsala. E lo ha ripreso, lo scorso 17 novembre a Mantova, Ian McEwan, invitato per la festa di tesseramento di fine anno e per il primo appuntamento che apre ufficialmente la corsa al trentennale di Festivaletteratura. Questa frase “to name the world”, è molto difficile da tradurre. In rete usano la frase “nominare il mondo”, che però in italiano suona imprecisa e appunto tradotta. Dare un nome al mondo è migliore dal punto di vista tecnico ma usa il singolare, che stona con il concetto sotteso a mondo, che è pluralissimo. Ma spero di avervi comunicato il senso. Perché è quello che mi è venuto in mente leggendo L’ora dei predatori. Il nuovo ordine mondiale visto da vicino, un piccolo libro di Giuliano da Empoli. Di cui innanzitutto colpisce il titolo. È chiaro che si riferisce ad alcuni Capi di Stato, ad alcuni imprenditori, ad alcune figure pubbliche che, con quella connotazione, riconosciamo subito. Da Empoli, studioso di politica internazionale ma anche romanziere (molto bello il suo Il mago del Cremlino, vincitore del Grand Prix du roman de l’Académie française), portatore sano di due culture, italiana e francese, ha accesso alle stanze dei potenti e a quelle riunioni esclusive di cui qualche volta leggiamo sui giornali, ma che il più delle volte ci sono ignote. Stanze e riunioni in cui vengono prese decisioni che ci riguardano, ma che non ci vengono comunicate o che addirittura ci vengono occultate. La politica come ce la racconta da Empoli è ancora quella de Il principe di Machiavelli, che sembra essere ancora uno dei pochi libri che ci danno “le parole per dirlo”. Si sente dire o si legge, sulla stampa e sui social, che stiamo vivendo in un nuovo Medioevo. Intendendo con questo un sistema sociale di estreme disuguaglianze, in primis economiche e poi di diritti e libertà, in cui il potere è concentrato nelle mani di pochissimi ed è arbitrario e incontrollabile, in cui la mobilità sociale, la scolarizzazione obbligatoria e gratuita, la sanità pubblica sono in via di sparizione. I nuovi potenti, quindi, sono più simili a dei sovrani (non a caso le proteste americane contro Trump erano piene di cartelli “No King”), che si ammantano di miti fantasiosi e vari ma restano opachi e inconoscibili, nonostante siano a capo di stati democratici e il più delle volte siano stati eletti dal popolo. Certo le elezioni non sono sempre libere, e le democrazie possono essere puramente formali. Anche qui le parole hanno il loro peso. Il libro di da Empoli non ci aiuta a risolvere i nostri problemi, non ha risposte per le questioni che ci angustiano e angosciano, non ha neppure la pretesa di spiegarci il tutto. Ma ci accompagna e illumina i luoghi dove si incontrano i potenti, per farci vedere come oggi la spettacolarizzazione, l’uso spregiudicato delle informazioni e delle tecnologie, e soprattutto il caos sono l’ambiente naturale per l’esercizio di un potere il cui unico scopo è la perpetuazione di se stesso e l’accumulo di ricchezze, anche queste solo per se stesse. Le alleanze internazionali, i summit, gli incontri al vertice, sono gestiti attraverso la generazione di continui shock, ribaltamenti, sorprese e imprevisti, così che alla fine la prevalenza del più prepotente, del più forte, di quello che osa di più, del predatore tipicamente, sono garantiti. Le regole e le istituzioni con cui siamo cresciuti, in cui abbiamo creduto, che abbiamo magari anche malamente cercato di esportare e diffondere, non sono nulla di universale e si stanno rivelando carta straccia al confronto di questi modi molto più rozzi e spicci e tuttavia efficaci. L’ora dei predatori ci conferma anche che esistono diversi mondi paralleli, che ognuno di noi vive in uno di questi e poco riesce (o desidera) sapere degli altri. Sui social si parla di bolle, dentro le quali stiamo immersi al punto di credere che il mondo si esaurisca lì, nella propria bolla. E siccome i social sono una rappresentazione della realtà, ecco che sì, viviamo ognuno in una bolla, più o meno abitata e condivisa. Ma non è detto che si debba restarci. Così come non è detto che le regole della democrazia, in questo momento disprezzate e irrise, non vadano invece difese per il valore che continuano a contenere, o per il fatto che nell’era dei predatori si vive proprio male ed è nostro dovere di essere umani e senzienti cercare di migliorare la vita comune. Quello che ci dà questo libro è qualche conoscenza, qualche informazione, qualche insight in un mondo lontano, oscuro e inaccessibile. E come sempre, per quanto la verità possa essere sgradevole, brutta e maleodorante, è sempre meglio conoscere che cullarsi nell’ignoranza.         L'articolo Giuliano da Empoli / Dare un nome al mondo proviene da Pulp Magazine.
Mario Del Pero / L’unica cosa che può salvare l’America
Nel 1984 il gruppo punk californiano dei Dead Kennedys riadattò una canzone che aveva dedicato qualche anno prima al Governatore Jerry Brown, con un testo nuovo che attaccava ferocemente Ronald Reagan, già Governatore della California per due mandati negli anni Sessanta, e da poco rieletto per un secondo mandato come presidente degli Stati Uniti. La canzone si intitolava California Uber Alles, e in essa si delineava proprio lo scenario che stiamo vivendo in questi giorni, lo scenario di un’America fascista, anzi nazista. Nel 1984, come recitava il titolo dell’EP, la situazione stava peggiorando: “We’ve Got a Bigger Problem Now”. Ascoltando la hit dell’album, dopo una lunga e accattivante intro swing, all’improvviso esplode un urlo disumano, seguito dall’invettiva pronunciata da Jello Biafra: “Welcome to 1984! / Are you ready for the Third World War? / You, too, will meet the secret police / They’ll draft you and they’ll jail your niece / You’ll go quietly to boot camp! / They’ll shoot you dead, make you a man / Don’t you worry; it’s for a cause / Feeding global corporations’ claws / Die on our brand-new poison gas / El Salvador or Afghanistan / Making money for President Reagan / Making money for President Reagan! / And all the friends of President Reagan! / California Uber Alles / California Uber Alles” Si potrebbe tranquillamente sostituire il nome di President Trump nel testo della canzone, e il suo messaggio distopico e apocalittico non perderebbe nulla della sua forza, anzi… Già nel 1976 il gruppo rock californiano dei Residents, di cui si sospetta abbia fatto parte Thomas Pynchon, uscì con un disco che si intitolava The Third Reich ‘n’ Roll. Vi ricordate la famosa battuta sui nazisti dell’Illinois in The Blues Brothers? (1980): “Io odio i nazisti dell’Illinois” dice John Belushi. All’epoca la battuta faceva ridere per l’assurdità della situazione, l’esistenza di milizie naziste in America, in Illinois. Poi, con il passare del tempo la battuta è diventata sempre meno efficace, dopo aver visto scene agghiaccianti come il massacro di Charleston (2015), e film come American History X (1999), con Edward Norton. Il riso degli spettatori si è progressivamente attenuato, o allargato fino a diventare un ghigno malefico, da Joker, man mano che si andavano affermando le Milizie antitasse, il movimento del Tea Party, il movimento MAGA, ecc. In questo suo nuovo libro, Buio Americano, lo storico Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti presso l’Institut d’études politiques – SciencesPo di Parigi, affronta di petto quello che è diventato il centro dell’interesse degli storici e dei commentatori a livello mondiale, sarebbe a dire i possibili sviluppi della seconda presidenza Trump, che ha già sconvolto quasi tutti gli equilibri di potere e i rapporti di forza che si erano consolidati negli ultimi settanta anni. Ne viene fuori un ritratto estremamente documentato di quella che si annovera a buon diritto tra le presidenze “trasformative”, cioè quelle presidenze che hanno cambiato profondamente l’America e il suo assetto istituzionale. Tra i sintomi che destano maggiore preoccupazione ci sono lo scontro aperto tra il potere esecutivo e il potere giudiziario, le brutalità quotidiane compiute dall’ICE, le deportazioni, le incursioni nelle roccaforti democratiche, ecc. Ogni capitolo di questo studio, essenziale per chi vuole comprendere le ragioni profonde della vittoria di Trump e le sue modalità brutali di gestione del potere, parte da alcuni dei più famigerati post su Truth del Nuovo Presidente, dei post in cui, accantonata qualsiasi prudenza istituzionale, Trump accusa gli esponenti dem di essere dei dem-enti, dei veri e propri malati di mente, e si prodiga a diffondere a piene mani quel clima di odio che rischia di innescare, prima o poi, una vera e propria guerra civile. Giustamente Del Pero – uno dei più autorevoli americanisti del nostro tempo, formatosi sui banchi delle aule bolognesi di Via Zamboni 38, in cui si svolgevano i corsi di Storia contemporanea – accantonate le consuete cautele dello storico, si chiede cosa potrebbe succedere se uno qualsiasi degli immigrati irregolari o degli spacciatori ricercati dall’ICE dovesse reagire un giorno sparando un colpo di pistola e uccidendo uno degli agenti federali. Le conseguenze sarebbero certamente imprevedibili ed estremamente sanguinose. Del Pero ci fa toccare con mano l’odio e il risentimento middle-class bianca impoverita, gettata sul lastrico, dalla crisi dei mutui subprime del 2008. Un’America bianca espropriata del suo bene più prezioso, la casa, l’America rurale della Hillbilly Elegy (2016) di J.D. Vance, inferocita contro le minoranze etniche che, a suo parere, hanno goduto in questi anni di maggiori garanzie rispetto ai bianchi, oltre che di accessi privilegiati nelle università più prestigiose. Ecco dove la campagna d’odio di Trump ha avuto gioco facile, ecco dove le teorie complottiste di QAnon e del movimento MAGA hanno fatto presa, determinando la vittoria di uno dei Presidenti più eversivi della storia. Quando Trump si affacciò per la prima volta sulla scena politica, molti lo paragonarono al confidence-man di Herman Melville, al dealer che, sotto diverse identità, cerca costantemente di mettere alla prova la credulità e la fiducia del prossimo. Adesso invece che siamo in pieno secondo mandato, Trump è diventato il Joker, il Lord of Misrule (cit. “New York Times”), è diventato il clown Pennywise che sbuca dal tombino… “Da noi è impossibile che arrivi il Fascismo, è impossibile che il Fascismo prenda il potere”, dicevano in tanti nell’America degli Anni Trenta. Eppure è accaduto, sta accadendo. A Washington si rappresenta ogni giorno questa svolta inaspettata nella Storia, lo stravolgimento delle regole tipico del carnevale, ma non è più questo che sovverte una volta l’anno le regole del Potere; è diventato la messa in scena di un potere che cerca una sua ulteriore legittimazione proprio nella sovversione costante delle più elementari regole della convivenza civile e democratica. Viviamo in un eterno carnevale, in cui il Re Carnevale si diverte costantemente a deridere e insultare i suoi avversari, a inondarli di escrementi, come abbiamo visto in uno dei video fake più cattivi inventati dalla macchina della propaganda di Trump. Buio Americano di Del Pero è un prezioso strumento per capire quali sono le ragioni profonde della torsione autoritaria in atto e quali potrebbero essere i suoi possibili esiti. Nella visione di Del Pero non si prevede un esito catastrofico di questa involuzione autoritaria, ma è chiaro che basterebbe un minimo incidente e gli scontri tra l’ICE e i manifestanti nelle grandi città a maggioranza democratica potrebbero facilmente degenerare. Sarà la fine dell’America come la conosciamo, oppure l’inizio della sua ennesima rigenerazione attraverso il sangue e la violenza? Ricordate il messaggio stampato sul camion del Joker che combatte contro le Forze dell’Ordine ne Il Cavaliere Oscuro (2008) di Christopher Nolan? “(S)laughter is the best medicine”? Il massacro è la migliore cura. Adesso il Joker non deve più combattere contro le forze dell’ordine, adesso lui è a capo delle Forze dell’Ordine. ll Joker è di nuovo a piede libero, è salito sul più alto scranno del potere, la presidenza degli Stati Uniti d’America, e non vede l’ora di esibirsi in una oscena danza sulle macerie del suo Paese. L'articolo Mario Del Pero / L’unica cosa che può salvare l’America proviene da Pulp Magazine.
Sara Reginella / Il marketing di ogni guerra
La manipolazione dell’informazione negli ultimi anni ha raggiunto livelli inverosimili, fin dall’avvento della stampa, per poi proseguire con la diffusione dei mass media e toccando l’apice con l’evoluzione della tecnologia. E non parliamo solo di “fake news” perché i social di oggi sono sfruttati da politici, giornalisti e “intellettuali” per portare il pubblico dalla propria parte. Questa nuova collana della Dedalo, diretta da Luciano Canfora, filologo, storico e saggista che non credo abbia bisogno di presentazioni, si chiama “Orwell” e si propone – come affermato dal curatore – un compito di verità che si distingua dalla informazione “mainstream”, omologata per creare un pensiero corrente. Nel breve saggio che apre la collana Sara Reginella, psicoterapeuta, giornalista e regista, intende farci riflettere su come i media, senza eccezione alcuna, abbiano mistificato le informazioni del conflitto russo-ucraino. L’autrice ha visitato il Donbass e il Donetsk la prima volta nel 2017 – sono poi seguite altre visite più recenti –, trovandosi di fronte a una situazione che l’Occidente aveva nascosto. Nella zona gli abitanti di lingua russa hanno subito le vessazioni e l’oppressione del governo ucraino fin dal 2014, l’anno del colpo di stato: le pensioni pagate in ritardo, la mancanza di beni di prima necessità, l’obbligo di parlare ucraino negli uffici pubblici, hanno trascinato la minoranza russofona in un degrado economico, culturale e sociale senza precedenti. Reginella ha descritto la situazione mesi prima “dell’operazione speciale” con Donbass. La guerra fantasma, un romanzo-reportage che informava sullo stato delle cose. L’occidente e l’America nascondevano il conflitto in atto per non inimicarsi un governo filoccidentale. La promessa di non espansione della Nato verso est fatte dopo la caduta del muro di Berlino dimenticate. L’autrice anconetana non vuole convincerci su chi abbia ragione o meno, ma mostrarci come l’informazione sia stata nascosta e poi manipolata per meri interessi economici e politici. Sulla stessa falsariga sono stati trattati il conflitto arabo-israeliano, la guerra del Golfo con le famose armi di distruzione di massa dell’Iraq poi smentite e la guerra dei Balcani per polverizzare la ex Jugoslavia. Reginella si muove su più fronti con immediatezza e semplicità, con parole chiare e nette che rendono piacevole e scorrevole la lettura. I governi autoritari e conservatori usano la manipolazione dell’informazione per plasmare il popolo a loro uso e costume, per tacciare le voci dissonanti di terrorismo: un espediente per eliminare e screditare il dissenso in una società, Europa e resto del mondo compresi, che si sta avviando verso un futuro sempre più dispotico.   L'articolo Sara Reginella / Il marketing di ogni guerra proviene da Pulp Magazine.
Henri Michaux, Andy Mitchell / Menti, alcaloidi e turbolenze
La pubblicazione quasi parallela di due importanti volumi – molto lontani tra loro nel tempo e nella concezione – sulle sostanze psicoattive ci permette di confrontare, in una sorta di ideale e istruttivo quadro sinottico, un libro e un autore classico posto alle origini della ricerca e dell’interesse intellettuale ed esistenziale per le esperienze “allucinogene” e un testo ormai crepuscolare e recentissimo che enuncia la crisi e la possibile stagnazione di un mito ridotto a una moda: il cosiddetto rinascimento psichedelico. Il primo è un testo del 1956 – segue quindi di soli due anni Le porte della percezione, il saggio in cui Aldous Huxley dischiuderà per la prima volta alla cultura di massa occidentale la via dell’esplorazione psichedelica – ad opera di Henri Michaux (1899-1984), scrittore poeta e pittore belga vicino al surrealismo. Gli eventi mentali scatenati dalla mescalina, alcaloide presente in cactus americani come il peyote o il San Pedro, già sperimentata da Huxley, vengono scandagliati da Michaux, attraverso scritti e disegni, in cinque libri pubblicati nel corso di dieci anni, tra il 1956 e il 1966: anni determinanti durante i quali inizia, fermenta e infine esplode il fenomeno massificato della cultura psichedelica (L’esperienza psichedelica di Timothy Leary e Ralph Metzner, testo base ispirato al Libro tibetano dei morti, esce nel 1963; Revolver, la svolta lisergica e avanguardistica dei Beatles, nel 1966…). In essi l’artista francofono passa dal tono decisamente antimescalinico, opposto a quello abitualmente apologetico ed entusiasta dei primi psiconauti (Huxley compreso), testimoniato anche dal titolo del primo libro – un miracolo si, ma miserabile – a prospettive successive assai meno critiche e disfattiste (interessante comparare questo primo testo con due dei più tardi tradotti anche in italiano: Miserabile miracolo/L’infinito turbolento, Feltrinelli 1967 e Conoscenza dagli abissi, Quodlibet 2006). Le esperienze mescaliniche (ma in due viaggi userà anche hascisc e LSD) per Michaux non sono piacevoli, non tanto veri e propri bad trip, ma disvelamenti dissolutivi dell’io percepiti non come estatici, oceanici e liberatori, ma caotici, traumaticamente frenetici ed anarchici, che lo lasciano preda di un’irrequietezza incontrollata e soprattutto futile: “Sono io, la mia droga, che essa mi sottrae” – chioserà. Il modello fenomenologico del Miserabile miracolo, teso a resistere al flusso psichico inarrestabile, a distaccarsi per quanto possibile da esso, per poterne dare una accettabilmente lucida testimonianza, cederà progressivamente il passo (come nei quattro testi seguenti e nell’Addenda aggiunta al libro fra il 1968 e il 1971) a un abbandono e una resa incondizionata alla sostanza che permetterà finalmente un’apertura mistica quasi teofanica, seppur laica, come si evidenzia in questo straordinario passo tratto da L’infinito turbolento (libro che speriamo Quodlibet voglia presto ripubblicare: l’edizione Feltrinelli del 1967 è praticamente introvabile, chi scrive ne conserva gelosamente una copia…): «Ho visto le migliaia di dei. Ho ricevuto il dono stupefacente. A me senza fede (senza sapere la fede che potevo forse avere), essi sono apparsi. Erano lì, presenti, più presenti di qualsiasi cosa od essere abbia io mai guardato. Era impossibile, lo sapevo bene, eppure. Eppure essi erano lì, schierati a centinaia, gli uni appresso agli altri (ma migliaia d’altri appena percettibili seguivano, ben più che migliaia, un’infinità). Erano lì. quelle persone calme, nobili, tenute sospese nell’aria da una levitazione che pareva naturale, leggerissimamente mobili o piuttosto animati, ma sul posto. Loro, le persone divine, e io, soli, al cospetto. Immerso in una specie di riconoscenza, appartenevo loro. Ma insomma, qualcuno potrà dirmi, che credevo? Rispondo: Che bisogno avevo di credere, visto che erano lì?». La scrittura di Michaux è sempre sostanziale e lirica, una cronaca minuziosa dell’alterazione in equilibrio fra metafisico e scientifico, infimo e sublime, infernale e paradisiaco: pertiene ancora ad una fase esplorativa ed epica della ricerca psichedelica. Niente a che vedere con l’altro testo, a noi contemporaneo, di cui parleremo, Dieci trip di Andy Mitchell, frutto di un’altra epoca e di un diverso spirito in cui l’epica ormai è definitivamente tramontata e non resta spazio forse, anche per la materia psichedelica, che per l’elegia. Elegia per un mondo scomparso e remoto, avvilito anche nella mutata fenomenologia della fruizione e perfino nella percezione dell’esperienza psichedelica. Dopo l’epica dell’esplorazione dei primi psiconauti, dopo la diffusione popolare e gli eccessi eleusini massificati della Summer of Love e del Flower Power, dopo la repressione, la stasi e il proibizionismo pluridecennale, il presunto Rinascimento psichedelico si riduce alla fine a un ristretto numero di resort di pretesa guarigione psichica e/o spirituale – ottenuta attraverso l’uso terapeutico e rituale di “piante magiche” – catena di franchising composta da dispendiose “cliniche private” riservate a élite danarose e annoiate, dislocate suggestivamente in luoghi esotici ed esclusivi e gestite da ipotetici sciamani, da “sagge” tribù aborigene o da sedicenti e scombinati guru: un contesto paradossale e ridicolo in equilibrio fra il ritiro spirituale per educande, la palestra di fitness, il centro meditativo new age e il documentario antropologico farlocco, che Andy Mitchell si propone di esplorare in dieci tappe, scivolando dal sarcasmo al disincanto, fra ayahuasca, yagè, funghi psilocibinici e succhi velenosi di rospo messicano. Un effetto di ritorno del colonialismo, in cui gli “indigeni”, improvvisati stregoni o pretesi depositari di arcaiche tradizioni sapienziali, si vendicano dell’“uomo bianco”, inguaribile turista metafisico, facendogli sborsare fior di quattrini per ingurgitare vomitevoli intrugli e tossiche muffe nel corso di pittoreschi rituali sciamanici da western hollywoodiano. Alla fine, ognuno trova quello che vuole trovare più che quello che davvero cerca, e molto spesso, come nel caso del disilluso e assai britannico protagonista – reduce da amare esperienze giovanili di dipendenza da alcool e oppiacei e da un tentativo fallito di entrare in monastero – non trova proprio nulla se non nausea e confusione mentale. Non siamo troppo lontani, pur nelle differenze abissali del contesto, dalla diffidenza antiallucinogena del primo Michaux. Ma anche Mitchell arriverà, come il suo illustre predecessore, a conclusioni non dissimili e ad una critica più equilibrata del fenomeno psichedelico, quando giunto all’epilogo del suo tortuoso percorso scrive: «…il punto di un’esperienza psichedelica è assaporare tutta la tua vita in un modo che non pensavi possibile: la storia incredibile, terrificante, emozionante di come sei nato, dei genitori che hai ereditato, della forma che ha assunto il tu che sei in tutti quei diversi setting – i primi anni di formazione, la prima delusione amorosa, la prima volta che hai assunto delle droghe, la nascita di tua figlia e così via per il resto della vita fino all’ora della morte – scoprendo il filo che lega tutte le decisioni e i casi, il groviglio di pregiudizio, ignoranza, rimpianto, beatitudine che in qualche modo ti tiene insieme. Quella è la terapia: gli psichedelici ti mostrano che sei il filo intrecciato al labirinto del Minotauro, sei la scia di briciole nel bosco. In altri termini, tu stesso sei il modo di trovare la via di casa». L'articolo Henri Michaux, Andy Mitchell / Menti, alcaloidi e turbolenze proviene da Pulp Magazine.
Pietro Del Soldà / Andare verso ciò che manca
Se vi sono termini fortemente inquinati e fraintesi nel dibattito pubblico, sui media, sui social media, in politica e nelle relazioni interpersonali, specialmente nel mondo occidentale, questi sono: “amore” e “libertà”. Essi riguardano ambiti molto vasti della vita civile, politica e religiosa degli esseri umani ed è abbastanza logico che siano stati oggetto di scorribande, di manipolazioni, di censure e di costruzioni utopiche. Tutti processi che hanno riguardato l’individuo e la collettività nello stesso modo anche se non nello stesso tempo, non sempre almeno. Ma non si può dire che tutto ciò ci abbia aiutato a fare chiarezza nei comportamenti e nella visione delle cose e delle relazioni, specialmente oggi in cui finalmente la questione del desiderio sembra aver acquistato un nuovo diritto di cittadinanza anche se con diversi (troppi?) distinguo. Per questo ci sembra essere di grande utilità il lavoro che Pietro Del Soldà, filosofo, letterato e conduttore radiofonico per Radio3, ci propone proprio in questi giorni. Non per niente ha per titolo Amore e libertà e per sottotitolo Per una filosofia del desiderio. La decisone di affrontare temi di questa rilevanza non è data da pura e semplice passione accademica o “filosofica”, nel senso banale del termine, quanto piuttosto da un’esigenza etica e civile: la convinzione che, se si libera l’Eros da pregiudizi, restrizioni, paure, preconcetti, falsità, le relazioni, tutte le relazioni umane, potranno migliorare e, con esse, la società nel suo complesso. Due sono i grandi ostacoli da demolire nel percorso critico di Del Soldà che dalle riflessioni dei filosofi dell’antica Grecia arriva fino ai giorni nostri. Il primo è quello che più a lungo è stato diffuso nella retorica dal rapporto di coppia “felice” ed è quello dei due opposti che si “fondono” uno nell’altro fino a divenire una cosa sola. In questo caso i due amanti vedono solo se stessi e, intorno a loro, il mondo se non è percepito proprio come ostile certamente è molto lontano e indifferente. Questo comportamento ci riconduce al mito che ci racconta Aristofane secondo il quale all’inizio dei tempi esisteva una creatura grottesca dotata di quattro arti e due apparati genitali che viveva felice nel mondo. Questa creatura era talmente felice da suscitare la paura degli dèi e l’invidia di Giove che decise di dividerla a metà costringendola a vivere in modo che una parte dovesse sempre cercare l’altra per ricongiungersi e ricostituire l’unità originaria. Quello che oggi risulta drammaticamente evidente è che l’illusione di questo genere di rapporto è di breve durata, per i più diversi motivi. Allora sopraggiungono la paura della perdita, l’insicurezza, la gelosia, l’ansia di controllo, il possesso fino alle soluzioni estreme dei femminicidi. Perché queste reazioni, quelle più estreme e violente, generalmente riguardano molto di più i maschi che le femmine. Il secondo ostacolo alla realizzazione di un Eros libero e compiuto è dato invece dal polo opposto quello del “rifiuto di ogni coinvolgimento”. Si tratta di un comportamento molto contemporaneo che può riguardare tutte le generazioni. Si passa, cioè, dalla “relationship” alla “situationship” in cui il coinvolgimento è a termine, i patti sono chiari, la relazione abbastanza superficiale e poco coinvolgente, pertanto poco rischiosa in termini di dolore e sofferenza. Questo genere di relazioni è spesso il frutto del rifiuto della violenza che spesso il rapporto di coppia molto stretto comporta, anche se non sempre. Il prezzo da pagare però risulta piuttosto alto perché in questo modo si tende a “sterilizzare” la potenza dell’Eros. Così gli altri non sono più fondamentali per la realizzazione di sé stessi. Prevalgono in modo ossessivo i concetti di identità e di integrità. Si afferma l’uso dei social per comunicare senza mai incontrarsi. I corpi tendono a essere meri oggetti del desiderio, senza anima e senza passione. Corpi da palestre e da chirurgia estetica che tendono ad adeguarsi a un canone identico per ciascuno di noi. La radice teorica e culturale di tutto questo la troviamo in Cartesio che distinse nettamente lo spirito dal corpo, postulando quest’ultimo come una sorta di oggetto inerte che solo lo spirito era in grado di far vivere. Di conseguenza, nel tempo, questo assunto aprì alla scienza la strada per tante scoperte scientifiche, utilissime e ancora valide, che però hanno il limite di essere figlie di un apparato teorico inadeguato a comprendere la vita umana nel suo complesso. Si afferma così oggi il culto dell’“io”, l’individualismo più ottuso e sfrenato che è alla base di molti disastri contemporanei. Insieme a questo l’ossessione a volte patetica della ricerca dell’“autonomia” dagli altri, dal partner, insomma della società, del mondo, quindi dall’ Eros. Lo slogan “io non ho bisogno di nessuno” porta proprio a questo. Il percorso teorico di Del Soldà è di chiara, facile e coinvolgente lettura; non si ispira solamente a un vis polemica mirata a demolire i due moloch che opprimono e avviliscono la cultura dell’eros per come la viviamo (spesso male) ai giorni nostri, ma ha anche una grande forza propositiva che fonda le sue basi sulle parole e le riflessioni di Socrate e di Diotima la quale, in conclusione, si dice convinta che “chi non ama e non è amato non sa nulla”. Alla fine di questo testo assi utile, il lettore può affermare a se stesso, con un pizzico di legittima presunzione, che “amare vuol dire essere liberi e essere liberi vuol dire amare”.   L'articolo Pietro Del Soldà / Andare verso ciò che manca proviene da Pulp Magazine.
Carlo Rovelli / La leggerezza della circolarità
La natura della realtà e la natura della conoscenza viaggiano insieme nella mente di questo bipede apparso sulla superficie del pianeta Terra – luogo per niente comune nell’ambito dell’universo – in mezzo a tutte le altre specie che si sono succedute nel corso delle ere temporali. Strano accennare al tempo quando si ha a che fare con uno scienziato come Carlo Rovelli che nella fisica su cui lavora – la gravità quantistica – lo sforzo continuo è da sempre quello di comprendere (e far comprendere) un mondo senza tempo. Ma il tempo con cui abbiamo a che fare è relativo, e la massa dei corpi (pianeti, stelle, buchi neri) ne modifica la struttura: la massa della terra, per esempio, rallenta il tempo vicino a sé. In definitiva: “c’è un tempo diverso per ogni punto dello spazio”. È dal 2014, da quando lo scienziato ha pubblicato La realtà non è come ci appare, e Sette brevi lezioni di fisica, di grande impatto divulgativo, che le più belle teorie regalate dal Novecento, la relatività di Einstein, e la meccanica quantistica di Planck e Bohr, hanno iniziato a sorprendere un pubblico sempre più vasto, nonostante la complessità (talvolta abissale) della faccenda. Numerosi i volumi usciti negli anni successivi, tutti per Adelphi con grande successo, mentre Rovelli proseguiva la propria ricerca ai livelli sempre più alti. L’ultimo nell’ordine è questo Sull’eguaglianza di tutte le cose, che porta nel sottotitolo – “Lezioni americane” – l’omaggio a Italo Calvino che, invitato in America, scrisse quei testi che uscirono in libreria proprio come “Lezioni americane”. Rovelli, ricevendo l’invito da Princeton, ha tenuto le sue lezioni nel novembre e dicembre 2024 al Dipartimento di filosofia di quell’università. Ora sono raccolte in queste pagine, e si rivolgono a coloro cui interessano le implicazioni filosofiche portate dalla rivoluzione scientifica originata in quel Novecento per altri versi terribile e oscuro. Ma il pensiero che Rovelli dispiega avviene nell’ampio spazio relazionale del “Zhuangzi”, dove nel secondo capitolo di questo grande libro dell’antichità si parla appunto dell’uguaglianza di tutte le cose. Ogni sistema ha variabili relative a un altro sistema, dunque ogni oggetto non ha proprietà proprie e definite. E il valore di un fenomeno quantistico avviene solo quando c’è un’interazione. Esempi e descrizioni si susseguono a ogni pagina, rendono ben chiaro al lettore come un radicale sovvertimento del senso comune deve avvenire nelle nostre menti se vogliamo immergerci, con un minimo di consapevolezza, nella realtà di cui facciamo parte. Le note inserite a piè di pagina vanno incontro a chi desidera (e si sente in grado di) approfondire matematicamente le questioni. Importante è comprendere – e Rovelli si sforza senza mezzi termini – come il valore dell’“assoluta certezza” sia nullo e del tutto oscurantista. Lo dimostra la strategia adottata dalla scienza del XX secolo: scoprire continuamente gli errori e correggerli. Tutto cambia, anche un sasso, più gli orizzonti si allargano più il tempo svanisce. Nessun tempo è comune, così come la geometria fisica è curva e dinamica, cambia nel tempo. Le distanze sono una manifestazione del campo gravitazionale. La realtà è un insieme di campi e questi non sono nello spazio, ma “definiscono essi stessi l’estensione spaziale”. Tutte novità concettuali che ci portano a viaggiare in questo libro sovvertendo l’ordine, avanzando e ritornando indietro sui propri passi, con un loop teso ad approfondire sempre più un concetto, una frase. È sempre stato il metodo principe dello scienziato quello di portarci in spazi via via sempre più profondi di consapevolezza, senza essere in grado di capire fino in fondo la bellezza di una equazione riportata nel libro come quella che ci dice che campo gravitazionale e spazio sono la stessa cosa. In fondo che ne sappiamo della Missa Solemnis di Beethoven? Vi restiamo sospesi dentro, ma l’ascoltiamo. Dunque “ascoltiamo” Rovelli e Beethoven. Siamo in un mondo strano, certo, ma andiamo avanti curiosi, non stranieri ma esseri pensanti che stanno “a casa”. Osserviamo e studiamo il mondo, come parte di quel mondo. Ma attenzione, “non ci sono ricette, a parte tentativi ed errori”.   L'articolo Carlo Rovelli / La leggerezza della circolarità proviene da Pulp Magazine.
Luigi C. Cazzato / L’archivio vivente della resistenza palestinese
La storia di Palestina e Israele non si svolge solo sul suolo conteso del Medio Oriente, ma nella coscienza dell’Occidente. È lì che si decide, da oltre un secolo, chi merita compassione e chi condanna. È lì che l’eredità coloniale sopravvive sotto forma di linguaggio, diritto, diplomazia, sostenuta da una verità instabile, come il significato stesso delle parole che la raccontano. A portare chiarezza in un magma di informazioni distorte, ricostruite a vantaggio di una narrazione inequivocabilmente colonialista, è il volume Palestina fra Oriente e Occidente, scritto da Luigi Cazzato, professore ordinario all’Università degli Studi Aldo Moro di Bari. Un libro redatto con rigore scientifico attingendo a centinaia di fonti, ma anche col cuore spezzato di chi ascolta, tra le righe della storia, le voci del popolo palestinese che resiste all’oblio. Frutto di un lungo studio a cavallo fra accademia, cronaca e militanza, l’opera è costruita attraverso un registro chiaro e una strutturazione decisamente solida. «Ho cominciato a scrivere questo libro dieci anni fa», ci racconta Cazzato, «quando a Gaza era in corso l’operazione militare “Margine di protezione” contro i civili. Cominciai a indagare la responsabilità storica dell’impero britannico rispetto alla questione palestinese. In realtà l’interesse risale agli anni universitari, al tempo dell’intifada, la prima intifada, quando i ragazzi palestinesi affrontavano i carri armati israeliani armati di pietre». La pubblicazione arriva in libreria al culmine di una campagna di bieca mistificazione occidentale, che ha sfruttato i terribili accadimenti del 7 ottobre 2023 per rilanciare un’operazione consapevolmente coloniale, che affonda le sue radici nella seconda decade del XX secolo, in particolare nella famigerata dichiarazione Balfour. Ma Palestina fra Oriente e Occidente compie un passo ulteriore, ricollegando questa storia, ineffabilmente tragica, a un’accurata disamina di quel che il colonialismo ha significato in oltre cinque secoli di storia. «Nel libro – prosegue il professore barese – provo a sondare la profondità storica della questione palestinese partendo dal 1492. Per quanto possa sembrare strano, le radici affondano in quell’epoca, quando l’Europa non scoprì l’America, bensì la colonizzò. Israele è il prodotto della storia coloniale europea e siamo stati noi a insegnare agli ebrei europei, i sionisti, come colonizzare la Palestina, paradossalmente in un periodo in cui il colonialismo storico stava finendo. Per cui Israele, in quanto Stato colonia, è una sorta di anacronismo storico: uno Stato che pretende di replicare ciò che facemmo noi europei in Australia, in America o in Africa, massacrando i nativi attraverso una pulizia etnica fino alla loro estinzione. I media mainstream occidentali rimuovono questo fatto cruciale e, di semplificazione in semplificazione, di falsificazione storica in falsificazione storica, diventano complici del genocidio in atto». L’ingiustizia verso la Palestina diventa quindi il simbolo più tremendo dell’impossibilità di tante culture internazionali ad autodeterminarsi. Un contributo determinante all’attuale status quo deriva proprio dalla sfera mediatica contemporanea, che invece di aiutare a ricomporre una pace duratura si rivela elemento ancor più destabilizzante. All’evidenza di chi sia l’aggressore e chi l’aggredito, si contrappone infatti una comunicazione mainstream che copre la lotta del popolo palestinese, disinformando e desensibilizzando il pubblico. L’azzeramento del contatore della storia e la sua ripartenza dal 7 ottobre ’23 rappresenta una delle modalità di alterazione della narrazione, che intende razionalmente porre le azioni di Israele fuori dal Logos. Cazzato insiste sulla retorica della modernità occidentale, spiegando come la sintassi e il vocabolario vengano strumentalizzati per evitare un dialogo ragionevole. Il risultato non si limita a una disinformazione pubblica, ma esonda fino ad attentare al diritto internazionale, oggi depotenziato proprio dalle democrazie che si arrogano la paternità di queste regole di civiltà. «L’attuale sionismo, con l’aiuto delle amministrazioni americane e soprattutto di Trump, ha fatto cartastraccia del diritto internazionale e fa dell’impunibilità la sua bandiera», spiega Cazzato. «Anche qui, i maestri siamo stati noi europei o occidentali, con il nostro doppio standard geopolitico: sanzioni alla Russia per aver invaso l’Ucraina, nulla di tutto questo per Israele, che sta commettendo da due anni un genocidio». Una parte significativa del volume è poi dedicata alla resistenza “artivistica”, che viene analizzata in varie forme e anche nelle sue inevitabili contraddizioni. Si tratta di forme d’arte che affondano le proprie azioni nella parola araba sumud, con cui si indica l’atteggiamento etico-politico dei palestinesi e che alla lettera può essere tradotta come “perseveranza”. Attraverso decine di esempi e racconti, l’autore spiega come una forma di speranza arrivi proprio dal tessuto artistico internazionale, che deve farsi strada nel nostro vivo immaginario attraverso la forza della propria identità. Ce lo spiega meglio Cazzato: «La convinzione è che – come diceva Edward Said, l’intellettuale palestinese americano più conosciuto al mondo – si debba “colpire l’immaginazione del mondo”. Egli vent’anni fa rimproverava i palestinesi di non farlo con la stessa forza dei sudafricani durante l’epoca dell’apartheid. La convinzione è che il popolo palestinese possa raggiungere l’autodeterminazione, la libertà, solo se colpisce l’anima del mondo, così da portarla dalla sua parte attraverso l’arte e la cultura. Una sorta di sumud artistico globale. Israele, potenza nucleare e mediatica, non può affermare immaginazione nell’arte, né col suo esercito di soldati né con la sua macchina propagandista. L’unica soluzione per tutti quanti, come dice Susan Abulhawa, è che se ne tornino in Europa oppure che imparino a convivere con i palestinesi come loro pari: “dal fiume al mare”».           L'articolo Luigi C. Cazzato / L’archivio vivente della resistenza palestinese proviene da Pulp Magazine.
Dario Bellezza / Pasolini, il corpo, la poesia
Ha ragione Alfonso Berardinelli quando scrive che in questo primo ventennio del Duemila – epoca in cui tutto cambia – pare che “il peggio abbia sopraffatto il meglio”. Pasolini, 50 anni dopo il suo assassinio, nella notte fra l’1 e il 2 novembre 1975, nel pieno della sua presenza pubblica composta di articoli e interviste, e con la straripante visionarietà delle sue opere poetiche, narrative e filmiche, è quel corpo dal cuore esploso all’idroscalo di Ostia. È tenuto in braccio come il Cristo nella Pietà (opera dell’artista urbano Ernest Pignon-Ernest) da un sé stesso che, in giubbotto di pelle, ci guarda dritto negli occhi. Ma la poesia, prima di tutto, la poesia scrive e riscrive il mondo che Pasolini ha visto in vita. Occorre ricordare che anomalie, poliedricità, stando lontani dagli slogan, rivelano come la poesia si assesti negli angoli più riposti dell’epoca, non soltanto nelle piazze in bella luce. Chi si appoggia spiritualmente e carnalmente alla poesia, guardando in faccia la realtà, trovando i padri giusti (pure uccidendoli quando serve), certamente rasenta il pericolo quotidiano. Pochi se ne rendono conto, ma Pasolini lo sapeva. Pasolini guardava la storia e la preistoria, incrociava i territori estremi d’Italia e d’Africa, le macerie messe in luce da Le ceneri di Gramsci, gli undici poemetti scritti nei primi anni Cinquanta, che davano piena ragione poetica di sé. Le terzine di cui sono composti diffondono allarmi e acute tenerezze, rivolte soprattutto ai ragazzi “di vita violenta”, in bilico su torto e ragione, tra enfasi e rigoglio linguistico, e unilateralità estrema. Sono le ceneri di Pasolini disperse nel brusio e dimenticate nella massa: un antidoto ai contrapposti moralismi che ancora oggi circondano il libro, e non solo. I due saggi di Dario Bellezza (Morte di Pasolini e Il poeta assassinato), raccolti per la cura di Stefano Bottero, si confrontano con un’eredità ustionante: pubblicati nel 1981 e nel 1996, raccolgono tratti di biografia personale e pubblica fortemente legati all’opera, alla materia letteraria propria e dell’amico. Non si tratta di pagine convenzionalmente critiche, ma di un’estrema riflessione sull’universo creativo che, in Bellezza, non può prescindere dall’omosessualità. Il sentire artistico del poeta romano si mescola, spesso in modo controverso come in una lotta, alla morte dell’amico, già profetizzata da Pasolini nei tempi in cui l’Italia gli sembrava un tugurio pieno di televisioni suscitanti invidia dagli stessi abitanti. La letteratura uccide come vita, diceva – anche Bellezza lo sa ritrovandosi al centro del conformismo e consumismo successivi all’orribile morte di Pasolini. Ma niente torna, non si stancava di ripetere Arbasino, nell’iper-precisa storia giudiziaria che mette in scena un quadro così “volutamente pasoliniano”. Così come la morte analoga di Giangiacomo Feltrinelli, con tutte le “figurine a posto”. L’opera di Pasolini straripa da tutte le parti, questo lo sappiamo, ma quanto la sua poesia, nella propria condizione di allarme continuo, sfiora le anime di coloro che forse ascoltano e forse no? Una sorta di lingua primigenia si allarga ai film – sottolinea il regista Mario Martone – e consente allo sguardo timbrico del poeta di riscrivere il mondo con la macchina da presa. Una lingua che oggi dovrebbe farci oltrepassare il lutto, per consentire d’essere discordi col mondo robotico e informatico che prelude sempre più a un controllo sociale autoritario. Fuori dai ritornelli, guardiamo al corpo di Pasolini entrando nelle sue poesie con la voglia di fare i conti con l’insieme multiforme (edizione in dieci volumi curati da Walter Siti nei Meridiani) che ha lasciato, abbandonando ogni tentazione di superiorità.   L'articolo Dario Bellezza / Pasolini, il corpo, la poesia proviene da Pulp Magazine.
Vladimir Majakovskij / Un’attualità radicale
La quarta di copertina di questo libro riporta un’emblematica asserzione: “Noi giornalisti siamo spesso colpevoli della svalutazione del nostro lavoro”. L’opera analizza il ruolo dell’intellettuale e dell’artista, la forza polemica, anticonformista dei suoi scritti, sovverte l’autonomia del pensiero, strumento autentico di conoscenza, chiarisce l’acuto e sconfinato potere delle coraggiose corrispondenze. Racchiude la testimonianza deflagrante della comunicazione nella società, induce il lettore a riflettere sulla trasformazione di un’entità soffocata tra le trame dei messaggi dissacranti nella trasmissione delle notizie e nella politica. Annuncia il rapporto controverso tra il tramite linguistico e l’invocazione profetica di una realtà, dolorosa e impietosa, vissuta dall’artista, dove la propria scrittura si misura con la deriva della massificazione, reazionaria e sedimentata nella rigidità impermeabile tra condizionamento ideologico e strategia sociale. Amedeo Anelli ricuce due testi significativi e dimenticati di Vladimir Majakovskij – “Sembrerebbe chiaro…”, “Gli operai e i contadini non vi capiscono” – e li riconsegna sapientemente all’attualità attraverso l’esortazione sociale e dialettica della cultura. Accoglie la concezione profondamente radicata del senso rivoluzionario dell’arte, inteso come tramite provocatorio e passionale dell’innovazione espressiva. Riporta alla luce la figura di un uomo tragicamente anticonvenzionale, capace di suscitare sentimenti di esaltazione e di indignazione, dissotterra le persistenti accuse e le incomprensioni dall’ambiente conservatore, nella campagna contro la superficialità e l’insensibilità, nella condanna e nella riabilitazione del talento. Majakovskij ripercorre il contesto del sovvertimento sociale e umano in cui annaspa lo smarrimento di una formazione socialista e comunista, oltre la progressiva eco del futurismo russo e gli scenari incendiari che hanno generato la perturbazione etica ed estetica degli ideali. Questa riscoperta letteraria illumina il fermento delle idee nate da un’avanguardia che non ha mai tradito l’urgente esigenza di rinnovamento ma che ha dipinto l’impronta di un’anima irrequieta e delusa, avvolta in una solitudine estrema e sacrificata. Identifica in Majakovskij l’esponente di un conflitto contro l’adeguamento alle consuetudini tradizionali della borghesia, l’indebolimento intellettivo, la miserevole dottrina delle vecchie eredità della storia, il degrado oscuro dell’umanità. Nell’intensa creatività di Majakovskij il messaggio della parola, come mezzo per trafiggere le emozioni, spinge all’azione, trasmette la libertà dei ragionamenti, affronta la suggestione del mondo verso un suo risolutivo cambiamento. Suggerisce, con il fondamento ideologico e l’approfondimento della funzione giornalistica del linguaggio, la comprensione nei confronti della collettività e delle sue valide convinzioni. Estende la missione del poeta contro l’opportunismo morale, rafforzando la visione avveniristica di una partecipazione dinamica in cui la trasmissione delle informazioni sia accessibile e intelligibile all’intera comunità. Conferma un’educazione diretta alla gente, il ruolo centrale dell’arte per articolare le aspirazioni del popolo e mobilitare l’umanità. Ma il suicidio di Majakovskij fa ancora riflettere sul senso di incomunicabilità e di dispersione esistenziale, come un annuncio funebre che recita nei suoi stessi versi: “Voglio essere capito nel mio paese, altrimenti pazienza! Gli passerò di fianco obliquo come la pioggia”. Il libro attraversa una drammaticità poetica e corrosiva, avvalora l’invadente tendenza contemporanea dell’omologazione e l’inevitabile coinvolgimento confortante e consolatorio del formalismo. La militanza letteraria di Majakovskij spezza i desideri di temerarietà, lasciando al tempo opprimente la permanenza del vuoto interiore. L'articolo Vladimir Majakovskij / Un’attualità radicale proviene da Pulp Magazine.
Slavoj Žižek / Valutazioni e svalutazioni
Il libro è una raccolta, a cura di Laura Berna, di articoli pubblicati da Slavoj Žižek su piattaforma Subtract per gli abbonati a pagamento e copre grosso modo i primi sei mesi della presidenza Trump. Si tratta di riflessioni a caldo, spesso incalzate dagli eventi, a Gaza e in Ucraina, rincorrendo un’attualità politica che fin qui è sembrata sfidare a sinistra le chiavi di lettura consuete e le certezze degli ultimi decenni. Con la rielezione di Trump sappiamo che la sua ascesa non rappresenta un semplice glitch, un mero incidente di sistema. “Un evento storico afferma la propria necessità attraverso la ripetizione” quota parafrasando Hegel, ed è una delle rare volte che lo fa in un testo avaro di speculazioni filosofiche quanto generoso di provocazioni politiche. Cominciamo dal titolo e dall’epiteto apparentemente ossimorico di “fascismo liberale”. Trump è un fascista? Forse. O forse no. Ciò che però conta e che il libro chiarisce già dall’intestazione è che fascismo e liberismo non si contraddicono ma sono due facce della stessa medaglia, che oggi si fondono nella figura e nel programma del leader MAGA. Se il fascismo denota il populismo di uno Steve Bannon, il liberismo di Musk, Bezos e (forse soprattutto) di Peter Thiel, lo connota con il sogno di un mercato libero di perseguire il profitto senza limitazioni o scrupoli sociali. Se il primo raccoglie il risentimento che il fallimento del neoliberismo e dell’élite democratica ha seminato a piene mani, il secondo lo proietta in un futuro che oggi suona come musica per oligarchi e immobiliaristi. Detto altrimenti: “il populismo trumpiano rappresenta una combinazione unica di libertà sociali formali e dittatura politica degli esperti (un mondo governato da ‘monarchi’ corporativi sostenuti da tecnici)”. In termini psicoanalitici basici, vediamo i più poveri lottare per i più ricchi perché “la pseudo-lotta di classe trumpiana è il ritorno del rimosso della sinistra liberal incentrata sulle identità”. Secondo il filosofo sloveno per l’ex showman di The Apprentice, come per Stalin, “la verità fattuale è secondaria” ma se nell’ impero dei segni sovietico “ignorare la verità dei fatti rientra in un’ermeneutica ben precisa” perché “il fatto stesso che un’affermazione non sia fattualmente vera trasmette un messaggio chiaro”, nel discorso di Trump, il linguaggio funziona in modo completamente diverso. Poco importa se le sue affermazioni si contraddicono da un giorno all’altro, senza nemmeno preoccuparsi di essere smentite, sotto questa coltre di clownerie carnascialesca infatti “c’è una linea generale molto chiara”. Quale? “Mentre gran parte della sinistra è ancora ossessionata dal neoliberismo, vede in Trump la sua ultima incarnazione e ne chiede il superamento, Trump lo ha fatto – ha brutalmente cancellato il neoliberismo globale” divenuto insostenibile dopo la crisi finanziaria del 2008. Per Zizek siamo alla terza fase del capitalismo del dopoguerra, dopo Bretton Woods e la fine del gold exchange standard avviata da Nixon negli anni ’70. Citando Yanis Varoufakis, dietro al caos dei dazi, usati come una clava, il piano è reindustrializzare il Paese per rilanciare le esportazioni di merci, senza tassare i profitti di Big Tech. In pratica svalutare adesso il dollaro perché resti nel medio termine la valuta universale. Benché azzardata non è detto che la sua scommessa fallisca necessariamente. Nella storia americana – osserva Žižek – l’unica precedente rottura altrettanto radicale nel funzionamento della società statunitense risale paradossalmente a F. D. Roosevelt ma il parallelo tra il New Deal e il MAGA di Trump ovviamente finisce qui, dacché il secondo oggi punta, in larga misura, sulla disintegrazione dello Stato sociale. Per il resto non c’è nulla di veramente nuovo nella politica American First se non la “consapevolezza che il modello attuale di tarda prosperità capitalistica non può essere universalizzato”. Come ammetteva George Kennan già nell’era Truman: “Noi – gli Stati Uniti – possediamo il 50% della ricchezza mondiale ma solo il 6,3% della sua popolazione. In questa situazione, il nostro vero compito […] è mantenere questa posizione di disparità. Per farlo, dobbiamo liberarci da ogni sentimentalismo”. Il disimpegno e il pragmatismo cinico di Trump, secondo il filosofo sloveno, offrono adesso agli europei, forse l’ultima opportunità di affrancarsi dagli Usa e dai loro ricatti, senza farsi fagocitare dai sogni neo-imperiali di Putin. Non per dare vita all’ennesima potenza regionale in chiave BRICS ma per proseguire il progetto illuminista di uguaglianza e di universalismo dialogando in primo luogo con le vittime e, forse, con la Cina.  “Dal populismo trumpiano, invece, dobbiamo raccogliere la volontà irriverente di cambiamento”.   L'articolo Slavoj Žižek / Valutazioni e svalutazioni proviene da Pulp Magazine.