Tag - saggi

Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo
Recentemente, in una conferenza sulla lavorazione preindustriale del gesso tenuta da Marco Visconti al Quadila Festival, mi ha colpita la testimonianza di un ex capo cava di Castelnuovo don Bosco, nel Basso Monferrato astigiano. Lorenzo Bertiglia, così si chiamava, intervistato ultraottantenne da Visconti, concludeva i suoi racconti dicendo: “Il nostro passato non ci appartiene, ma non lo dobbiamo dimenticare”. Una frase composta da due enunciazioni in apparenza in contrapposizione (se non ci appartiene, perché affannarci a ricordarlo?) di cui la prima è già spiazzante di per sé, tanto più se l’autore di quella affermazione si sta riferendo a un passato recente e che lo ha riguardato in prima persona. Eppure, questo dovremmo pensare quando ci rivolgiamo al passato, per scongiurare strumentalizzazioni nazionaliste e ideologiche. Non ci appartiene. Non siamo noi. Non è una questione privata e neppure di quel privato collettivo che si nasconde dietro il fantoccio dell’identità. Al passato bisognerebbe avvicinarsi come a un estraneo. È una conquista, che tantissimi hanno tentato e tentano; che può non riuscire e che è stata vorticosa negli ultimi duecento e poco più anni della storia occidentale. Alain Schnapp, in questo libro fondamentale uscito in Francia nel 1993 (prima edizione italiana 1994, Mondadori) e finalmente ripubblicato da Johan & Levi, racconta proprio questo: la conquista di un passato non nostro. Oggi ci sembra normale vedere, nelle vetrine di un museo archeologico, i reperti suddivisi per periodi storici, con le didascalie che riportano datazioni più o meno precise. Ma a tutto questo – gli orizzonti cronologici e storici entro i quali inserire i resti e i manufatti del passato – si è arrivati con un lungo e non lineare percorso di ricerche, intuizioni, errori, interrogativi, false piste. Schnapp racconta una storia non dell’archeologia ma di quello su cui l’archeologia si fonda: l’urgenza di riattivare in qualche modo ciò che è andato perduto e che non sappiamo più interpretare. Come ha scritto lo storico Emmanuel Le Roy Ladurie nella prefazione, Schnapp si confronta con “il mistero della continuità dell’uomo nella sua ricerca del passato”. Un mistero innaturale tanto che l’autore stesso, nella prima riga del libro, si domanda: “che cosa autorizza o giustifica l’esistenza dell’archeologia?”. L’archeologia è un costrutto moderno occidentale ma ben prima del XIX secolo in tanti sono, a loro modo, penetrati nel passato. Gli antiquari europei, pur non interessati a una ricostruzione storica globale, pongono le basi per la classificazione degli oggetti, per la storia della tecnica, iniziano a rilevare in modo accurato i monumenti e non disdegnano attività di scavo o di ricognizione sul campo. Le competenze degli antiquari – la capacità di saper riconoscere un oggetto tra mille – spesso erano legate al collezionismo ma ad essi si deve l’aver attribuito a un oggetto il valore di prova storica e di fonte di sapere alternativa alla tradizione letteraria (anche se questo valeva principalmente per certe categorie di manufatti, come le monete e le epigrafi). Schnapp ricostruisce la loro storia con dovizia di particolari e con narrazioni di singoli sorprendenti come il provenzale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, l’inglese William Camden o il danese Ole Worm o ancora, in età già illuminista, William Stukeley. L’antiquaria ha il suo apogeo nel Seicento ma era stata già praticata da alcune civiltà antiche come quella egizia, mesopotamica, cinese e nell’Europa rinascimentale: in molti casi per affermare la legittimità dei poteri al comando, la loro continuità con il passato (dunque l’appartenenza di quel passato a sé). In età remota non era misconosciuta l’idea che il suolo conserva impronte del passato così come la consapevolezza che gli oggetti e i monumenti ci sopravvivono (mentre da umani si può passare con disinvoltura da un’epoca all’altra solo si viene inventati come l’Orlando di Virginia Woolf). Si tratta di una “coscienza archeologica” che innegabilmente porta con sé un confronto con il futuro e con le tracce che anche noi lasceremo. L’archeologia moderna organizza e dà una unitarietà ai metodi e alle conoscenze specifiche degli antiquari, adottando una prospettiva universale, il cui obiettivo è indagare e ricostruire la storia degli antenati dell’umanità tutta. Sino alle soglie della modernità (e oltre) sarà ancora presente un marcato dualismo tra scienza e tradizione, che ha permesso il perdurare di interpretazioni fantasiose in particolare dei resti e monumenti (come Stonehenge) che non rientravano nella tradizione classica, e di tanti manufatti antichi, come le urne funerarie (a lungo considerate vasi nati spontaneamente dal suolo) o le punte di freccia in pietra (per secoli credute un prodotto dei fulmini). L’archeologia nasce tra il 1830 e il 1860, quando la storia dell’uomo (grazie ovviamente anche a Charles Darwin) entra a fare parte della storia naturale e finalmente si affranca dalla storia sacra e dalle cronologie bibliche. Mentre il mondo erudito impiega tantissimo tempo ad accettare l’idea della continuità geologica e storica e ad acquisire la consapevolezza dell’antichità dell’uomo e della durata dei tempi preistorici, sono soprattutto studiosi dilettanti e non accademici che iniziano ad accettare le conseguenze delle loro scoperte (la presenza di ossa umane insieme ad ossa di animali estinti) e ad ammettere l’esistenza di uomini vissuti prima di Adamo. Lo studio dei resti materiali del passato, attraverso gli strumenti della tipologia (la prima successione crono-tipologica delle tre età, Pietra-Bronzo-Ferro, viene definita dal danese Thomsen nel 1836) e della stratigrafia (l’esplorazione organizzata del sottosuolo) diventa un modo di ricostruire la storia. Ma nello stesso periodo in cui l’archeologia si forma, e Winckelmann definisce le basi di una cronologia stilistica e di una storia dell’arte classica (che egli pone al vertice di una scala dell’ideale estetico), l’archeologia coloniale nei paesi fuori dall’Europa continentale diventa anche appropriazione fisica di quei passati lontani. Il saccheggio che porta in Europa le opere della statuaria (e non solo) antica – il furto dei marmi del Partenone da parte di Lord Elgin è soltanto il più noto degli eventi – risente ancora del mai sopito spirito del collezionista, nonché di una idea di appartenenza e di identità culturale estendibile a piacimento, e costituisce una delle tante contraddizioni (o delle inevitabili ricadute?) di quell’archeologia che si auto-definisce universale. Nell’introduzione alla nuova edizione, scritta da Schnapp nel 2020, dal titolo curioso L’erosione del passato, l’autore scrive che il passato «lo si può ripudiare, glorificare con la poesia o la mitologia, mantenere vivo con capolavori immortali, ristrutturare applicando regole sofisticate di costruzione e ricostruzione, ma non può essere ignorato. Bisogna accettare il passato e per fare ciò le comunità dispongono di infinite capacità di gestione e di negoziazione. Perché, allora, rivolgere lo sguardo al passato dell’archeologia, invece di provare a delinearne i tratti futuri? Per questo motivo: qualsiasi esplorazione del futuro esige un bilancio critico e un approccio retrospettivo, con l’intento di capire come mai tutte le comunità, indipendentemente dalle loro caratteristiche, sentono il bisogno di dialogare con il passato». Dialogo con un passato che non ci appartiene, e dunque (come qualcosa che non è mai stato né potrà mai essere del tutto nostro) non possiamo dimenticare (nell’accezione di: non riusciamo). C’è chi questa catena ha provato a romperla. Nella conclusione dell’introduzione Schnapp ricorre alla letteratura e in particolare a una poesia di Borges dedicata all’antiquario seicentesco Thomas Browne. È una riflessione sull’erosione della memoria, sulla preoccupazione del sé dopo la morte e sulla consapevolezza che taluni (sappiatelo, lettori amanti della storia e dell’archeologia) non vogliono diventare memoria. Il Browne di Borges dice infatti: «Difendimi, signore, dall’ansiosa / brama di diventare marmo o oblio; / dall’essere colui che sono stato, / che irreparabilmente sono stato».   L'articolo Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo proviene da Pulp Magazine.
Massimo Ilardi / Here to stay
Ormai arrivati a un quarto di secolo, sono molte le analisi, della più varia estrazione teorica, e che oscillano regolarmente tra il bilancio e il rilancio, rispetto alle trasformazioni dell’azione politica che si sono susseguite a partire dai fatti di Genova 2001. Uno dei fenomeni che ha segnalato la «crisi dei paradigmi interpretativi dei conflitti» – come si legge nel sottotitolo di questa bella collettanea di saggi curata da Massimo Ilardi per DeriveApprodi – è senza dubbio costituito dal cuore del libro, ovvero «le rivolte urbane del XXI secolo». E, tra i tanti approcci possibili per un campo di indagine così proteiforme da contenere tanto le rivolte delle banlieues francesi e le iniziative di Black Lives Matter quanto le cosiddette “primavere arabe” o ancora le manifestazioni di Rosarno del 2008 e del 2010, i contributi del saggio si attestano su un taglio generalmente sociologico (dando così conto della propria origine accademica, come programma di ricerca inaugurato da un seminario organizzato nel marzo 2024 dal dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica della Sapienza), ma con frequenti tinte militanti. Un testo di riferimento è allora facilmente individuato in Città di quarzo (1990) di Mike Davis, pubblicato in Italia poco dopo che a Los Angeles, città alla quale è dedicato il saggio, erano scoppiati i violenti riot della primavera 1992, originati dalla circolazione del video del pestaggio di Rodney King da parte della polizia locale. In linea con l’approccio di Davis, così come quello di molti altri studiosi – il più ricorrente, anche per effetto della preminenza nel volume del caso di studio francese, è forse il nome di Alain Bertho, autore negli ultimi quindici anni di vari saggi sull’argomento, ancora inediti in Italia –, le rivolte urbane degli ultimi due decenni sono prese in considerazione, in primo luogo, per il rapporto, al tempo stesso derivativo e trasformativo, con il territorio in cui si sviluppano. Come scrive Ilardi, «[è] dunque il conflitto e non la spazialità artificiale, disciplinata dal lavoro, controllata, neutralizzata e omogeneizzante dello Stato e del mercato che dovrebbe fondare oggi uno spazio pubblico come possibilità di formazione del politico, non quello leninista utile per la conquista dello Stato ma quello che serve per il ribaltamento dei punti di forza sul territorio». In questa citazione vi è uno dei pochi spiragli di futuro di un testo che si apre, tuttavia, sui toni cupi della «drammatica e definitiva sconfitta» di Genova 2001: se la forma-movimento non è forse scomparsa, nell’ultimo ventennio, ma si è attestata sulla rivendicazione di diritti civili e/o sociali, le rivolte urbane hanno di certo preso il sopravvento, a livello quantitativo, pur muovendosi paradossalmente – secondo un’adeguata metafora ripresa da Le temps des émeutes (2009) di Bertho – «tra l’inudibile e l’indecifrabile, tra il silenzio e il rumore». Parallelamente, si è registrato, in qualche Paese europeo, il ritorno ai comitati territoriali – più che “civici”, non aderendo quasi mai alla cornice del civismo liberale – come ad esempio i comitati per la casa: se questi ultimi declinano il proprio legame con i territori in modo certamente diverso dalle rivolte e dai riot, sono senza dubbio questi ultimi a essersi estesi a livello globale (come ricorda il contributo finale, a volo d’aquila, di Eugenio Conti) e a essersi imposti come uno dei fenomeni politici più rilevanti dell’inizio del ventunesimo secolo. Nel volume, si alternano analisi legate a casi di studio specifici – come la “Storia e controstoria delle banlieues” di Agostino Petrillo, già autore di varie ricerche sulle periferie urbane, o anche “Harraga Riot” di Roberto De Angelis, sui territori italiani attraversati dagli harraga (dall’arabo maghrebino, chi migra “bruciando i confini”) – e contributi di impostazione teorica più generale, come quelli di Michele Garau, Nicolò Molinari, Gaia Bacciola e anche di Andrea Cerutti (con una derivazione trontiana, in questo caso, fin troppo evidente). Non mancano anche i contributi di ricerca più chiaramente afferenti agli studi culturali come quelli di Luca Benvenga e Salvatore Benasso, specialisti della trap italiana, e di Fabrio Violante, su quello che può essere definito, con una semplificazione, “cinema francese delle banlieues”. Del resto, in un volume che rivela qui e là una comune matrice teorica post-operaista, nonché un’enfasi trasversale sulla violenza destituente, le città sono «centri della rivolta, come teatro e oggetto di processi di contro-soggettivazione» – come scrive limpidamente Conti nell’ultima pagina del libro – il cui approfondimento rivela, di volta in volta, una complessità così grande e fortemente articolata che «servirebbe un’etnografia del mondo intero per provare a comprendere davvero» quanto sta accadendo, a livello globale. Un orizzonte potenzialmente inesauribile, dunque, ma da tener presente ogni volta che si articolino nuove prospettive di ricerca sull’argomento del volume e si vogliano, magari, evitare i limiti della forma-elzeviro, che pure è stata frequentemente adottata, nel caso delle rivolte urbane, da svariati teorici à la page. Si ricorderà ad esempio quanto scriveva Slavoj Žižek all’epoca dei riot di Tottenham del 2011, riponendo un’eccessiva e squalificante enfasi sul feticismo della merce evidenziato dalle pratiche di saccheggio e mancando il punto politico della questione. Aveva tentato, invece, un’elaborazione teorica più generale del riot, in termini di economia politica, Joshua Clover con Riot sciopero riot, uscito in lingua originale nel 2016. Anche Clover è spesso citato nel volume di DeriveApprodi, ed è forse doveroso, non soltanto per chi scrive, terminare questa recensione ricordando l’autore californiano, a pochi mesi dalla sua scomparsa, con le parole che aprivano il suo saggio: «I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata».       L'articolo Massimo Ilardi / Here to stay proviene da Pulp Magazine.
Eugenio Borgna / Ascolto gentile
Il rapporto esistenziale di Eugenio Borgna ha momenti che non hanno intervalli nel corso del tempo, nelle giornate trascorse dallo psichiatra lungo la propria esistenza il cui tappeto sonoro è sempre stata la poesia. E dunque questo libro postumo, Gioia, ne è la prova conforme, il riverbero di una continua speranza che non si è sciolta con la scomparsa dell’uomo nel dicembre dello scorso anno. Ogni pagina è sensitiva e vitale, ogni pagina porta devotamente con sé poetesse e poeti con i loro versi, quei versi che emozionalmente conducono al cuore del lettore – e allo sguardo e all’udito – il loro buon sentire. Rilke, Campo, Dickinson, Pozzi, Celan, Leopardi, dialogano con Borgna e la riflessione filosofica – in un incessante rapporto mai venuto meno – di Weil, Hillesum, Canetti, Agostino, Nietzsche. Filosofia che in molti tratti riprende in mano la “gioia” ponendola al centro delle nostre stanze, in presa diretta con le stanze abitate da Borgna nel pieno del suo Novecento – lui, nato nel 1930, ha varcato il secolo arrivando a toccare questo ventennio che sembra oscurare sempre più l’incontro con le parole della gioia “redentrice”. Il cammino esposto in Gioia attraversa tutti i modi del tempo, il tempo intersecato strettamente con la realtà umana. Entra dentro i linguaggi e li regala a chi legge, soprattutto a coloro che spesso sembrano non accorgersi dell’emozione “fragile e leggera” che talvolta li attraversa e scivola via fra luci e ombre. Borgna è convinto, e ci convince, che grazie alla gioia si possa modulare la nostalgia e pacificarsi con i rimpianti che divorano. Nella sospensione del tempo di chi prova gioia non esistono più inferiorità e superiorità, ecco la notizia, si dialoga fuori dalla mondanità, e il riverbero dei versi riportati in questo vademecum dell’anima diventa sempre più comunicativo: diventa un tessuto forte, un piazzale dove le mattonelle sono scrittura pura. Fra luce e grazia ferita, sono soprattutto i poeti (soprattutto i poeti qui seminati da Borgna) a offrici la gratuità di un incontro. In ultimo, sono queste parole di Francesco a donarci un senso, ad appianare la complessità della vita. Abbiamo bisogno dell’insistenza di Borgna, il suo dire che la psichiatria non deve allearsi con la poesia per continuare a vivere per gli umani. Nel mondo delle relazioni umane la gioia non dovrebbe ferire.     L'articolo Eugenio Borgna / Ascolto gentile proviene da Pulp Magazine.
Valerio Renzi / Le radici secche della destra
Valerio Renzi è il curatore di uno dei più interessanti e approfonditi osservatori on line sulla galassia neofascista, la newsletter S’è destra https://sedestra.substack.com/ la cui lettura consigliamo vivamente a chiunque voglia essere informato sulle sempre più inquietanti derive postfasciste nazionali e internazionali. Del suo brillante libro del 2021, Fascismo mainstream, anche questo pubblicato da Fandango, ci siamo già occupati a suo tempo su Carmilla https://www.carmillaonline.com/2022/02/28/dacci-oggi-il-nostro-fascismo-quotidiano/, un testo che ci metteva in guardia contro l’ormai evanescente e quasi ectoplasmatico concetto di democrazia, che in Italia e nel mondo occidentale ha ormai sostituito la democrazia vera, e le ogni giorno più fosche prospettive totalitarie nella conclamata crisi del modello neoliberista, anticipando – punto per punto, come regolarmente è avvenuto pochi mesi dopo l’uscita del volume – l’avvento al potere nel nostro paese di quel fascismo mainstream da decenni ormai sdoganato, infiltrato nelle istituzioni e reso tollerabile e persino attraente alle masse con la complicità del suo principale alleato e fomentatore, una sinistra insulsa e imbelle. Oggi, a disgrazia ormai avvenuta e consolidata, il volume appena uscito analizza le strategie attraverso le quali gli esponenti di un governo non più di centro-destra ma di destra tout court, sostenuto da un parlamento in cui hanno la maggioranza relativa, stiano cercando di stabilire un canone posticcio della cultura nazionale, una sintesi raffazzonata che, nella confusione generale, conceda sempre più spazio ai nomi, ai pretesi valori e ai riferimenti storici della loro parte politica in una sorta di “revisionismo permanente”. L’obbiettivo della guerra culturale per l’egemonia reazionaria di questo governo sarebbe il comminare un rifiorito MinCulPop alla Repubblica nata dalla Resistenza. Il titolo Le radici profonde, si riferisce ovviamente al travisato e abusato classico fantasy Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, assunto impropriamente al ruolo di livre de chevet della destra neofascista italiana fino dagli anni ’70 (quando altrove era stato, nel caso, apprezzato dagli hippies e dalla controcultura underground statunitense e citato in canzoni di gruppi rock come Led Zeppelin, Black Sabbath, Huriah Heep e Rush: un immaginario tutt’altro che destrorso…). In particolare, la citazione è un verso della poesia che uno dei protagonisti dell’epopea tolkieniana, Bilbo Baggins, dedica ad Aragorn, re spodestato che tornerà sul trono alla fine della storia: “Le radici profonde non gelano. Dalle ceneri rinascerà un fuoco” – implicita la distorsione revanchista nell’interpretazione degli “esuli in patria” ultradestri in cui le radici sono ovviamente quelle del fascismo e/o della presunta tradizione (termine che mi rifiuto di scrivere con la T maiuscola come fanno sempre loro…) – una sorta di mitologica e presunta philosophia perennis teorizzata da pensatori in linea con la moda esoterica del primo Novecento, come René Guénon, Frithjof Schuon e Ananda Coomaraswamy, o da poligrafi mestatori come Julius Evola. Di fatto, accenna Renzi, su internet il motto viene spesso attribuito addirittura a Mussolini (il povero Tolkien si sarà rivoltato nella tomba…). Insomma è il simbolo di quelle prospettive antimoderne agitate dagli ex Nipoti della Lupa travestiti da Hobbit: dai Campi Hobbit, festival neofascisti organizzati dall’ala rautiana del Fronte della Gioventù nel 1977 e nel 1981 (e bieca scopiazzatura in nero di Woodstock o del Festival del Proletariato Giovanile al Parco Lambro); alla Compagnia dell’Anello e agli altri penosi gruppi di “rock identitario” o “musica alternativa” (anche qui si scopiazza – male – il rock serio e lo si inverte di segno…); fino alle ostentate predilezioni bibliofile della Premier, sempre pronta ad accorrere al suono del Corno di Boromir capitombolando per Colle Oppio ad onta di Atreju, nome usurpato stavolta non a Tolkien ma all’altrettanto incolpevole Michael Ende di un altro classico fantasy, La storia infinita. Come ben spiega Renzi il fantasy e nella fattispecie Tolkien si presta facilmente, con non eccessive forzature, a rendere pop “la solita solfa evoliana da cui non riusciranno mai davvero ad affrancarsi”. Il pastiche culturale della destra – in linea con il pastiche pseudo-filosofico-esoterico del loro guru Evola – usa l’epica tolkieniana mescolando in chiave postmoderna rune e asce bipenni, cristianesimo celtico e paganesimo neonazista: “L’operazione Tolkien ha così due facce: da una parte quella dell’appropriazione di un materiale culturale non proprio, dall’altra quella di traghettare verso il futuro il vecchio armamentario ideologico proveniente dal dopoguerra”. L’esempio più eclatante di questo pastiche che dovrebbe essere l’humus a cui attingono le “radici profonde” è rappresentato dall’inno del Fronte della Gioventù, oggi ereditato da fratelli (e sorelle) d’Italia, Il domani ci appartiene, canzone tratta dal film Cabaret dove viene intonata (non in tedesco ma in inglese, Tomorrow Belongs to Me) da un giovanissimo membro della Hitler Jugend: un finto lied nazista in realtà scritto per un film americano da due compositori, John Kander e Fred Ebb, ebrei e antifascisti. Ricostituita intorno al tradizionalismo integrale di Evola, a base di improbabili rivolte contro il mondo moderno e di fantini che cavalcano tigri in mezzo alle rovine, più nazista che fascista ed elitariamente iniziatica, la cultura della destra radicale, sclerotizzata intorno al culto di pochi scrittori e intellettuali, sempre gli stessi e sempre affrontati in toni agiografici e mai analitici – i collaborazionisti francesi, Pierre Drieu La Rochelle, Robert Brasillach, Louis-Ferdinand Céline, Lucien Rebatet; i rivoluzionario-conservatori tedeschi, Ernst Jünger, Oswald Spengler, Ernst von Salomon; il dannunziano giapponese Yukio Mishima; i simpatizzanti delle Guardie di Ferro rumene, Mircea Eliade, Emil Cioran e il loro guru Corneliu Zelea Codreanu; un unico statunitense, Ezra Pound; qualche tradizionalista, soprattutto il pupillo di Evola, Adriano Romualdi; pochi fascisti o para-fascisti (più Marinetti che Gentile, D’Annunzio o Malaparte); non molto altro… – viene poi svecchiata in parte, si tratta soprattutto di cosmesi, dalla nouvelle droite francese di Alain de Benoist, negli anni ’70-’80, con la lettura distorta e strumentale di Antonio Gramsci (emendata da ogni riferimento alla lotta di classe) e il concetto di “metapolitica” che rimpiazza l’egemonia culturale gramsciana e si insinua nelle aree lasciate sguarnite dal predominio della sinistra (il fantasy è una di queste). Tangentopoli compie il miracolo di proiettare Allenza Nazionale – orfana del crollo del partito neofascista storico, il MSI, e traumatizzata dalla svolta “badogliana” di Gianfranco Fini a Fiuggi ma in compenso quasi estranea, per forza di cose, ai processi per corruzione in corso – nello spazio politico dove Berlusconi la raccoglie e la sdogana, pur imponendo ai vari gerarchetti il programma economico-sociale neoliberale del cesarismo e del populismo che gli è proprio. Dagli anni ’90 inizia il Kampfzeit  revisionista che, con il sostegno di giornalisti e intellettuali di estrazione liberale complici e alleati nell’offensiva feroce contro l’egualitarismo e le conquiste sociali del boom economico, porta all’equiparazione di fascismo (sempre più rivalutato, con la dignità dei “ragazzi di Salò”) e comunismo (sempre più vilipeso e sporcato, con la memoria della Resistenza), alla propria autoassoluzione da ogni connivenza  nella “strategia della tensione” e al parallelo martirologio (stessa lagna di quello per i fucilati di Salò) come principali vittime degli “anni di piombo”: si alza così progressivamente la posta in gioco, fino all’istituzione ufficiale del Giorno del Ricordo, celebrazione che strumentalizza le vittime delle cosiddette foibe per controbilanciare il Giorno della Memoria degli ebrei e il Giorno della Liberazione degli antifascisti. Anche i fasci hanno avuto il loro contentino e possono circolare impunemente per le città italiane con il braccio alzato nel saluto romano – il 10 febbraio e magari il 22 ottobre e, se continua così, sempre, tutte le volte che vorranno. Ma la vittoria del 2022, secondo Renzi, rivela anche dei punti “metapoliticamente” deboli: “ha mostrato con chiarezza tre cose: la mancanza di un personale di area in grado di dare un segno alle politiche culturali; la difficoltà della destra a relazionarsi con la cultura di massa e con i valori che essa esprime; l’incapacità di esprimere un profilo culturale valoriale autonomo, limitando la propria ambizione a escludere dai finanziamenti e gli spazi culturali tutto quello che è percepito come contemporaneo o sperimentale”. Ormai da anni, la crisi del populismo berlusconiano e l’emersione dei successivi governi tecnici e delle larghe intese con i loro nuovi miti di (pretesa) austerità, competenza, rigore, parsimonia, ha portato la destra a millantare un valico ulteriore, incarnarnando il massimo rafforzamento dell’ordine costituito: non più la logica neoliberale della libido, del desiderio e del piacere (l’aspetto superficialmente “simpatico” del berlusconismo), ma il divieto, la negazione, l’imposizione del limite, l’impedimento. Non più “nani e ballerine” ma un’idea di normalizzazione e pulizia drastica: contro gli immigrati, le donne troppo indipendenti, le diversità, i centri sociali, le manifestazioni di protesta. Il presupposto di quello che i nazisti definivano Gleichschaltung, la “messa al passo”, l’allineamento, l’uniformazione. La libertà della maggioranza contro le minoranze, dei “bempensanti” contro i “liberi pensatori”: una Civitas Dei opposta a una Civitas diaboli fatta di periferie sociali e geografiche in cui il panico morale va alimentato inventandosi demoni popolari da reprimere e bravi cittadini arrabbiati da proteggere. Chissà che l’ultima barricata contro l’indottrinamento di questa visione prescrittiva e normativa imposta dal governo – confermata anche dalla presentazione del testo unico per la scuola di Valditara, che recupera il latino e la scuola classista presessantottina ed esalta identità nazionale, patriottismo e colonialismo – non sia forse il mondo queer e meticcio, autenticamente pop, cioè volgare, cioè popolare, del Festival di Sanremo – nazionalpopolare non secondo Gramsci ma secondo Pippo Baudo – estrema e improbabile sacca di resistenza di un inconsapevole marxismo culturale in cui ingovernabili lumpen intellettuali, minoranza rumorosa, sanno ancora spendere qualche timida parola contro la guerra o per il salvataggio dei migranti in mare, parole certo banali ma comprensibili e più sensate dei proclami istituzionali, che possano arrivare ai ragazzi attraverso l’ecosistema digitale. Ribellione, disobbedienza, sabotaggio, in veste camp magari. Sarà forse Elodie – borgatara, proletaria, meticcia, queer, erotica, esotica – la nuova eroina della lotta, ancora tutta da combattere, contro la gabbia opprimente del postfascismo? Certo più lei di Elly Schlein.     L'articolo Valerio Renzi / Le radici secche della destra proviene da Pulp Magazine.
Domenico Calcaterra / Ovvero la Funzione Calvino
Su certi autori non si smette di lavorare; o meglio, non si può smettere di lavorare. Uno di questi è indubbiamente Italo Calvino, uno che (a differenza di Moravia o Tobino) non è mai entrato in fase calante di notorietà, e che non ha mai mancato di lettori, ma che ci pone ancora sfide interpretative. Per farla breve, come mettere insieme il Calvino realistico, potremmo dire addirittura neorealista, degli esordi (cito a mero esempio Il sentiero dei nidi di ragno) con quello metaletterario, postmodernista, sperimentalista delle Città invisibili o Se una notte d’inverno un viaggiatore? Dobbiamo pensare a uno scrittore che a un certo punto si è accorto di aver sbagliato il suo approccio alla narrazione, che ha in qualche modo rinnegato una parte della sua opera (quella che arriva fino a La giornata di uno scrutatore, che Calcaterra indica come punto di svolta, e non è il solo a vederla così)? Oppure le due fasi della produzione di Calvino sono comunque da inquadrare in un processo di crescita, di evoluzione, di maturazione, nel quale si ritrovano ripetutamente temi, immagini, idee, domande alle quali lo scrittore risponde in modo diverso, ma animato dagli stessi interessi e spinto dalle stesse inquietudini? In questa raccolta di saggi Calcaterra, che dà prova di conoscenza profonda e attenta dell’opera del grande ligure, intende “dimostrare testi alla mano la continuità tra il Calvino degli esordi e quello cosmicomico e combinatorio”, quindi propende per la seconda ipotesi interpretativa; e va detto che difende la sua tesi in modo assai convincente, riuscendo anche a offrire prospettive inedite su alcuni testi che crediamo di conoscere anche troppo bene. Soprattutto il critico ci apre gli occhi su quello che potrei definire un dato di fatto: la “presenza nel primo Calvino di nuclei concettuali e motivi strutturali che diventeranno cruciali ed esclusivi nelle opere dei decenni successivi”. Tra questi, in particolare, “l’attitudine a concepire il discorso letterario nel suo sviluppo come un ragionamento (ricerca di un modello e di un metodo), che può condurre a rischiarare una verità etico-morale, anche se di per sé utopica”. E in questi termini mi viene da dire “ecco il Calvino che conosco!” – segno che Calcaterra ha un argomento cogente nel suo libro. Ovviamente, trattandosi di una raccolta di saggi (in parte già pubblicati in diversi periodi), abbiamo anche ripetizioni, sovrapposizioni, e manca l’impianto ordinato e ferreamente strutturato della monografia accademica; ciononostante, il critico riesce a delineare il processo che porta Italo dalle tragicomiche disavventure di Pin alle vertiginose meditazioni di Palomar. Se il valore di un saggio sta in quel che ci dice, ma anche nelle riflessioni che suscita, il semplice fatto che me ne abbia suggerite diverse attesta il valore degli scritti di Calcaterra. Mi viene da chiedermi, quindi: ma la ricerca di un metodo, di un modo affidabile di consentire al “mondo scritto” (la letteratura) di accedere al “mondo non scritto” (il reale), e di rappresentarlo, e di misurarlo, di analizzarlo, non risente anche del prima, cioè dell’orgia retorica del ventennio fascista? Non è una reazione a quel diluvio di parole in libertà, la cui vuotezza si manifestò brutalmente l’8 settembre 1943? Inoltre, si sarebbe potuto mettere Calvino nel contesto degli altri scrittori della sua generazione? Calcaterra giustamente menziona, e non una sola volta, Levi e Volponi quali compagni di strada (specie riguardo al rapporto con le scienze); ma a me, leggendo le sue pagine, tornava continuamente in mente quel Fenoglio che Italo venerava come vero grande cantore (e cronachista) della Resistenza; e non mi pareva tanto lontano da un altro grande il cui valore ancora non è stato riconosciuto a sufficienza, e cioè Luigi Meneghello. Tutti e tre hanno dovuto lavorare sul linguaggio, in modo radicale, per liberarsi dai liquami dell’ideologia, della propaganda e della retorica littoria, esempio nefasto di quel “falso uso” delle parole e delle immagini che Calvino denunciava in Due interviste su scienza e letteratura. Ultimo, ma non in ordine di importanza, il caveat di Calcaterra: l’autore del Cavaliere inesistente e delle Città invisibili non è né un giocoliere delle narrazioni, né un attardato illuminista. A tutti gli effetti è un autore del Novecento, ben consapevole dei suoi drammi e dei suoi disastri, che non manca di un suo lato oscuro (al metodo il critico contrappone la nevrosi che individua tra le pieghe dei suoi testi); un autore che ha prediletto le forme brevi, e proprio per questo ci richiede di non leggere una sola delle sue opere e fermarci lì. Anche solo per questo ammonimento, Il sistema Calvino è un libro da leggere.   L'articolo Domenico Calcaterra / Ovvero la Funzione Calvino proviene da Pulp Magazine.
Madhumita Murgia/ L’unione fa la forza
Fin dal titolo, deliberatamente agli antipodi dell’argomento di cui parla, Essere umani si presenta come un libro diverso. Ci risparmia le spiegazioni riduttive e quelle ipercomplicate. Va dritto al cuore del problema: cosa stanno facendo, gli esseri umani, con questo potentissimo strumento? Di base, Madhumita Murgia è ottimista. La sofisticazione, la complessità e le capacità dell’intelligenza artificiale ci potrebbero davvero aiutare a migliorare la vita nostra e degli altri. Giornalista che si occupa da più di dieci anni di tecnologia per testate come “Wired” e “Financial Times”, Murgia ha cominciato a indagare sugli usi dell’IA andando a cercare le persone la cui vita, grazie a questo strumento, è cambiata. Non sempre e non del tutto in meglio, anche se non è facile capire quale è il meglio e quale è il peggio. I migranti che lavorano da remoto inserendo dati, gli autisti di Uber, i rider che portano il cibo pronto, sono tra le persone che beneficiano dell’intelligenza artificiale e nel contempo ne sono le vittime. Gli algoritmi con cui lavorano le piattaforme che gestiscono questi lavori sono opache e le persone che ci lavorano non li conoscono; non hanno alcun controllo, alcuna comprensione. Tutto è anonimo ed estraneo, e quando c’è un problema, quando qualcosa non torna, non esiste un interlocutore, non esiste un referente. Gli algoritmi sembrano neutri ma sono in realtà pensati e scritti da esseri umani, con pregiudizi e convinzioni da cui sono guidati nel loro lavoro, anche senza esserne consapevoli. I siti di pornografia (uno degli ambiti più lucrativi) rubano immagini di volti “qualunque”, volti di persone normali a cui aggiungono un corpo che segue l’immaginario maschile (quello deformato della pornografia ovviamente) e che esegue gli atti e i comportamenti che quell’immaginario richiede. Sono violenti, totalmente irrispettosi delle donne. Vedere la propria immagine trattata così è un’esperienza devastante da cui è difficile uscire. Il riconoscimento facciale è praticato da moltissime amministrazioni pubbliche attraverso telecamere poste nei luoghi di passaggio, piazze, metropolitane, angoli di strade, senza che i cittadini lo sappiano e senza alcuna considerazione per la tanto decantata privacy. Con la scusa della sicurezza, può essere utilizzato contro chiunque. Anche le applicazioni di IA a problemi sanitari o di assistenza sociale o di prevenzione dei crimini si sono rivelati fallaci e spesso dannosi. I casi dell’Olanda e dell’Argentina, in cui l’IA è stata applicata per predire la delinquenza giovanile o le gravidanze adolescenziali, hanno mostrato come i dati su cui i sistemi di IA si basano sono parziali e soprattutto di parte, e possono generare delle soluzioni che danneggiano le persone che si immaginavano di aiutare. Ma chi altro se ne accorge oltre le vittime? Di certo non le amministrazioni pubbliche o i servizi sociali, che anzi tendono a pensare di aver finalmente trovato nei sistemi di IA la soluzione poco costosa e funzionale dei loro problemi. La statistica non è una fotografia neutra della realtà. Altri esempi ci vengono dall’uso di ChatGPT. Si tratta dell’IA generativa, un sistema che impara man mano che interagisce con l’utente. Di base quello che ha imparato viene da tutto quello che nell’arco degli ultimi vent’anni abbiamo messo dentro internet: libri, articoli, blog, commenti, pubblicità, video, musica, immagini. ChatGPT lo usano in tanti e spesso in modo innocuo e pigro, per risparmiare tempo, per scrivere senza fare la fatica di pensare cosa e come scrivere. E già così ci si può immaginare che l’IA possa sostituire alcune professioni, copywriter e disegnatori in primis, e lo fa dopo avere imparato senza pagare una lira e senza riconoscere alcun merito alle fonti. Non stupisce che la questione del diritto d’autore sia delle più delicate e urgenti. Ma c’è un aspetto che Murgia mette in evidenza e che disturba assai: ChatGPT (e chissà i suoi successori) sono programmati per dare delle risposte. Se non le sanno se le inventano. Frugano tra i miliardi di dati che hanno e tirano fuori qualcosa. È successo a un avvocato, di farsi assistere da una chatbot per preparare un’udienza, e trovarsi in aula con dei riferimenti a sentenze inesistenti: si è vergognato oltremodo. Sono anche programmati (diciamo che “li disegnano così”) per dare delle risposte gradite, accondiscendenti: fungono da psicoterapeuti per persone che cercano conferme e mai confronti. Addirittura, secondo un recente articolo di “The Atlantic”, guidano passo passo una persona che dice di volersi tagliare le vene. Inquietante. Ma non è un saggio politico, questo libro. Nell’aprirci gli occhi sugli effetti indesiderati dell’IA, nel ricordarci che si tratta di un potentissimo strumento statistico e non di un’intelligenza come quella umana, con le sue sfumature e le sue qualità emotive e sentimentali, Murgia ci ricorda anche che viviamo in una società, che apparteniamo a una comunità, che non siamo individui isolati. Anche se spesso sembra che ognuno stia chiuso nella sua bolla e abbia pochissimi contatti con gli altri, è nel momento in cui le persone si parlano, si raccontano le proprie esperienze, si mettono insieme per agire, che lo strumento IA diventa meno potente. L’unico modo per far fronte allo strapotere dell’intelligenza artificiale (e dei gruppi che se ne avvantaggiano economicamente) è quello di unire le forze, di confrontare i vissuti, di agire insieme. Una ricetta vecchia come il mondo, e non facile da applicare, ma che tuttora è l’unica che funziona. Come dice la stessa Murgia: «Se l’IA sta già modificando, nel piccolo e nel grande, ciò che significa essere umani, cosa accadrebbe se, tutti insieme, rivendicassimo la nostra umanità?» L'articolo Madhumita Murgia/ L’unione fa la forza proviene da Pulp Magazine.
Andrea Daniele Signorelli / AI e nuovo feudalesimo
Nel clima turbolento e cinico del Trump 2.0, Silicon Valley è diventata Big Tech. Gettata la maschera un po’ cascante del tecno-progressismo, Google e soci si sono calati l’elmetto, sempre accomodanti con un comparto militare che ha trovato in Peter Thiel un nuovo dominus nella palude politica americana. Andrea Daniele Signorelli è un giornalista esperto che su testate come “Wired”, “il Tascabile” e “Domani” segue da vicino la scena dell’innovazione tecnologica e le cronache incensanti della sua autonarrazione. Da questa fabula prende le mosse anche Simulacri digitali, che, per capirsi, non è l’ennesimo agile volumetto per chi vuole capire se le IA generative miglioreranno la sua vita o, al contrario, la condurranno a una anticipata estinzione, ma una riflessione allargata, in particolare, all’evoluzione dello storytelling e della tecnologia in rapporto alle nostre società. L’autore scomoda dalle prime pagine Jean Baudrillard e una delle sue più note concettualizzazioni, quella di “Simulacra” – evocata entusiasticamente ma piuttosto a vanvera anche dal classico cinematografico Matrix – domandandosi se ai giorni nostri l’approdo trionfante del capitalismo digitale l’abbia effettivamente realizzata. Se,  in altre parole, la sua narrazione sia in grado oggi non solo di rappresentare falsamente la propria offerta, modulando opportunamente le nostre aspettative, ma anche di generare ipso facto,  dal nulla, la realtà stessa che volenti o nolenti siamo indotti a condividere. Cercandone una controprova, e limitandosi all’ultimo decennio, sappiamo che non sono certo mancati gli esempi di ciò che in un passato non troppo remoto veniva stigmatizzato come “vaporware”: ovvero, annunci di prodotti rivoluzionari e paradigmatici di un futuro annunciato ma mai realmente pervenuto,  con cui Silicon Valley ha potuto superare i suoi momenti di impasse scatenando la corsa degli investitori grazie a  tecnoutopie miliardarie rivelatesi dei fallimenti che hanno lasciato dietro di sé soltanto una scia di colossali buchi neri. Tra queste un posto d’onore spetta sicuramente alle auto autonome, annunciate a più riprese da colossi come Google e Tesla e sempre a un passo dalla consegna, ma anche il mitico Web3, la rete di contenuti e servizi totalmente decentrata e abilitata dalla blockchain che secondo alcuni  guru della rete avrebbe dovuto restituire ai comuni mortali il controllo del Web (e dei propri dati personali), sottratto alla plebe da tecno-oligarchi come Zuckerberg. Proprio al padrone di Facebook viene fatto risalire anche il più incredibile azzardo di marketing del decennio, quello del cosiddetto “Metaverso”, un termine ombrello pescato dal museo cyberpunk che,  mettendo disinvoltamente assieme giochi come Fortnite e altri shooter immersivi come Overwatch o Apex Legend con una nuova generazione di dispositivi VR come Oculus,  ha ipotizzato che,  grazie anche alla spinta claustrofobica dei lockdown,  la gente in futuro avrebbe preferito partecipare a un meeting o fare la spesa in Realtà Virtuale anziché nel più familiare contesto ibrido di “online + offline”. Un flop annunciato in cui Signorelli ravvisa lucidamente anche un significativo distacco – e un madornale errore strategico di Facebook – dalla tendenza dominante che, sovrapponendo e intrecciando sempre più intimamente l’esperienza digitale con la realtà fisica, si è affermata con successo negli ultimi tre decenni grazie alla rete mobile, a Google Map, agli smartphone, e poi agli smartwatch: una linea evolutiva precisa, che nel prossimo futuro potrebbe semmai convergere con esperimenti finora scarsamente gettonati, ma non inverosimili, come la realtà aumentata. Un discorso a parte riguarda naturalmente l’intelligenza artificiale generativa e l’exploit dei modelli linguistici che utilizzano reti neurali avanzate, entrati nella nostra routine quotidiana attraverso piattaforme chatbot come Gemini o Chat GPT. Il saggio analizza in particolare il desiderio inconscio di trasformare in senso antropomorfo anche il rapporto strumentale con comuni oggetti quotidiani – la nostra auto, ecc. – che nella vicenda pratica della cibernetica ha quasi sempre portato il campione umano a instaurare relazioni di apparente “intimità” anche con bot assai più primitivi della generazione attuale. Un impulso che bilancia, per altri versi, la robotizzazione delle nostre posture e dei nostri gesti quotidiani nei contesti professionali e lavorativi del neocapitalismo. Per Signorelli, d’altro canto, si rivelano narrazioni entrambe smaccatamente interessate sia la trama di un marketing stucchevole e ottimista alla Marc Andersen, per lo più associato all’avvento delle IA dai media mainstream, sia, all’estremo opposto, il pessimismo apocalittico di un filosofo come Nick Bostrom e di altri pensatori alla moda che tendono a denunciarle,  per contro,  come una “minaccia esistenziale” alla Terminator per la nostra specie. Come dimostrerebbe anche la parabola dello stesso Elon Musk – passato in pochi anni dai sermoni sulle AI cattive al lancio di Grok, il chatbot sboccato e senza filtri di X – gli opposti corni del discorso tendono oggi a convergere nel concreto interesse di una superclasse privilegiata che, grazie a una concentrazione finanziaria senza precedenti, ammiccare sempre più apertamente a un modello di società tecno feudale.  Un ceto di intoccabili che dietro al paravento di una confusa escatologia, fluttuante nella galassia  del transumanesimo o basata sull’altruismo Long Term,  si è ormai autonominata la sola in grado di decidere l’innovazione tecnologica anche per conto del futuro genere (post) umano.   L'articolo Andrea Daniele Signorelli / AI e nuovo feudalesimo proviene da Pulp Magazine.
Timothy Morton / Join the trip!
Le narrazioni postmoderne sono morte, le narrazioni postmoderne sono vivissime. Forse è all’interno di questo paradosso, già intuito da qualche altro recensore anglofono, che potrebbe iscriversi con maggior certezza Hell (2024) di Timothy Morton – ora tradotto da Valerio Cianchi per Timeo – e risolvere così, almeno in modo provvisorio, il possibile dubbio di chi si approcci al libro e al suo titolo in modo un po’ naif: si tratta di un libro di critica letteraria sull’opera del poeta inglese William Blake (1757-1827), o di un libro di “ecologia cristiana”? Come si può dare una sintesi, o una compresenza, di queste due piste di ricerca, che in principio sembrano un po’ distanti? Nella scrittura, innanzitutto; per un pensatore a-dialettico – che ogni tanto bordeggia il misticismo ma non se ne lascia, infine, rapire – la scrittura permette la compresenza di questi elementi, senza necessariamente produrne una sintesi ulteriore rispetto alle risultanze formali della scrittura stessa. Quest’ultima, del resto, risulta essere gratia plena, nel suo tentativo di fornire la traccia personale di un approccio teorico che non si lascia ingabbiare dalle astrazioni della teoria né dagli esiti più facili, e intrinsecamente soggettivisti, del memoir o del personal essay. Una prova eccellente di saggismo, dunque, che già per questo merita in pieno di essere affrontata; a invogliare la lettura non manca, tuttavia, anche un côté forse più pruriginoso, quello per cui Morton – con mossa largamente anticipatrice, nell’esordio – si prefigura i tanti e le tante cui «verrà voglia di andare su Twitter e scrivere: “Ma che cazzo, Timothy Morton è un cristiano rinato”». In effetti, Hell è anche il racconto di una conversione, avvenuta il 28 marzo 2023, al cristianesimo – per essere più precisi, in qualità di born-again Christian, un “cristiano rinato” – declinata, comunque, secondo modi assai peculiari ed eterodossi: se si gratta la patina, comunque leggera, di moralismo, virato in chiave anti-social, della citazione appena riportata, le posizioni di Morton evitano ogni possibile deriva integralista o “religionista” – neologismo dell’autore, che non sarebbe forse dispiaciuto a un altro gnostico estremamente sui generis come Blake – risultando idealmente e politicamente molto distanti e anzi contrapposte alla destra cristiana che sosteneva George W. Bush, nonché all’alt-right come brodo di cultura del trumpismo. In questo senso, il libro, pur occupandosi di tutt’altro, offre stoccate molto argute sull’attuale panorama (anti-)woke, rivelando la «tremenda violenza proiettiva dell’attuale estrema destra» che utilizza la parola woke «in maniera derisoria verso la consapevolezza politica» – non solo in quanto woke, ma come consapevolezza politica in generale – e «a cascata finisce per deridere gli alleati bianchi delle persone nere e poi il dialetto afroamericano prima dell’abolizione della schiavitù». Meglio ancora, e nei termini sincretici adottati dalla scrittura di Morton in questo libro: «Non è difficile accorgersi di come l’attuale bullismo “antiwoke” della destra prenda la forma del Diavolo che mi stuzzica a puntare una pistola contro me stesso o contro gli altri. Shaitan è il diavolo nelle vesti di un jinn accusatorio o un pubblico ministero nel libro di Giobbe. “Woke” significa che mi ritrovo in un processo farsa shaitanista». Se la rapida liquidazione del dibattito pro o contro le posizioni woke evidenzia nettamente la caratura ideologica di quel dibattito, la scrittura di Morton non smette mai di sottolineare il proprio posizionamento politico in uno scenario poco rassicurante, e a tutti gli effetti infernale, così descritto: «Morte del pianeta alla nostra sinistra, fascismo alla nostra destra, mentre gli umani e le altre forme di vita arrancano nella gola angusta che vi corre nel mezzo». Un primo, fondamentale passaggio, è quello di individuare la propria relazione con il Nobodaddy di Blake: una «figura paterno-divina vuota: un padre di nessuno e un nessun padre», e proprio per questo carica di tratti autoritari e oppressivi, che il grande traduttore di Blake, Ungaretti, aveva tradotto, con un latinismo, “babbonemo” e che Cianchi decide invece di tradurre, con altrettanto sofisticata e riuscitissima scelta, “Padreserto”. Ripensare il sacro, e insieme l’ecologia, come suggerisce nel suo complesso il libro di Morton, è un’opzione effettivamente praticabile solo dopo aver fatto i conti – anche dal punto di vista psicanalitico, come dichiara Morton: «Freud è uno dei buoni in questo libro – non Freud di per sé, ma la psicanalisi, dalla quale ho tratto enormi benefici» – con il cinismo del “Padreserto”. A quel punto, suggerisce Morton, sarà molto più facile identificare il sacro come «sentore della biologia, la sua fenomenologia» e cioè più come senzienza senza “oggetto” né “soggetto” (o anche, senza “servo” né “padrone”) che non come esperienza soggettiva: qualcosa dove «tutto ride», come nella Laughing Song (“Canzone ridente”, 1789) di Blake, oppure esulta in Cristo, come nella biosfera di Morton. Passaggio particolarmente delicato, quest’ultimo – «La biosfera è il corpo di Cristo», recita una delle più icastiche affermazioni del libro –, se letto nell’insieme dell’opera di Morton, rispetto alla quale Hell sembra essere continuazione e insieme deviazione consistente. La biosfera continua ad essere un iperoggetto, secondo la teorizzazione forse più nota di Morton, in quegli Iperoggetti (NERO, 2018) pubblicati, tra l’altro, da quello stesso comitato di lettura che oggi propone Inferno; la biosfera, tuttavia, è un iperoggetto peculiare, retto da quella forma biosociale di solidarietà che l’endosimbiosi teorizzata da Lynn Margulis e abbracciata anche da Morton in Humankind (NERO, 2022) e con i toni forse “animisti”, più che cristiani, di Ecologia oscura (Luiss University Press, 2021). Ne cosegue che l’endosimbiosi costituisce forse una declinazione forse troppo laica e orizzontale per questo nuovo approccio di Morton, che pure, per altri versi, continua a celebrare, come in Humankind, la «subscedenza» in luogo e in opposizione alla tradizionale «trascendenza», come caratteristica precipua di quell’altro iperoggetto eterodosso che è la specie umana. Deviare, almeno parzialmente, da quanto già proposto non è in fondo un problema per un pensatore rizomatico e anti-teleologico come Morton – «La bellezza elimina ogni traccia delle frecce teleologiche», scrive l’autore, in un altro dei tanti apoftegmi del libro – ma rischia di corroborare l’obiezione avanzata da Livio Santoro per gli altri volumi di Morton, in un’esaustiva rassegna pubblica nel 2022: «Tuttavia, […] poco o nulla Morton ci dice su come debba avvenire questa necessaria riorganizzazione dei piaceri, né suggerisce in tal senso concreti indirizzi d’intervento politico-sociale. Il suo resta un approccio all’apparenza ancorato solo al pensiero, cosa che giustamente invita i critici a dubitarne. Ma, nonostante ciò, il suo valore per la pratica resta, o almeno si spera, per quanto in modi che vanno ancora individuati». L’individuazione dei modi e delle pratiche può, a tutti gli effetti, avvenire in un secondo momento, dopo essere intervenuti sull’immaginario, che ha una preminenza, come si diceva, tutta postmoderna nella riflessione più squisitamente politica di Morton. Occorre, innanzitutto, unirsi al trip vissuto dall’autore e poi rielaborato e riproposto  nella sua scrittura; un trip che è debitore della cultura techno e acid, dalla fine degli anni Ottanta a oggi – un altro inequivocabile punto di riferimento del libro, oltre a Blake – perché, se da un lato è vero che da quello spartiacque storico in poi campeggia lo slogan thatcheriano TINA (There Is No Alternative), come sapeva bene Mark Fisher, c’era anche un graffito molto evidente nella Central Line della metropolitana di Londra, a Tottenahm Court Road, che appunto recitava: JOIN THE TRIP.   L'articolo Timothy Morton / Join the trip! proviene da Pulp Magazine.
Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere
Serge Latouche, filosofo, economista e obiettore di decrescita, condensa in un centinaio di pagine una riflessione sul fallimento dell’urbanistica e sull’insignificanza dell’arte nel mondo contemporaneo. Il paradigma di uno sviluppo continuo e inarrestabile divora ogni cosa, anche l’idea del bello. La società mercificata produce continuamente consumo, immondizia e bisogni. Non mancano architetti e urbanisti di valore che progettano singoli edifici ecologici e perfettamente vivibili, ma sul piano globale l’architettura non ha arginato la cementificazione, la devastazione del territorio, e soprattutto non ha plasmato degli spazi di condivisione per la collettività e una nuova estetica condivisa. Alla base di questo pensiero c’è l’idea sottintesa che l’architettura sia la disciplina che forma la società e nello stesso tempo ne è il riflesso, e che l’estetica dell’architettura sia in qualche modo conforme all’educazione delle persone e alla loro moralità. Il pensiero che l’architettura sia sopra e dentro tutto; la sua valutazione critica – con un po’ di esercizio – alla portata di ciascuno; e che da essa si possa desumere lo spirito di una civiltà, molto di più che dall’arte, perché dalle opere d’arte presumiamo di desumere lo spirito di un determinato artista piuttosto che quello della collettività di appartenenza. Non stonerebbe, tra le pagine di Latouche, il pensiero del viaggiatore e critico d’architettura Robert Byron, che nei primi anni Trenta del XX secolo scriveva: «L’architettura è la più universale delle arti. […] I dipinti si trovano nelle gallerie, la letteratura nei libri. Le gallerie devono essere visitate, i libri devono essere aperti. Gli edifici invece sono sempre con noi. La democrazia è un fatto urbano, l’architettura è la sua arte» (R. Byron, Il giudizio sull’architettura, Umberto Allemandi & C., Torino 2006). Parole che riecheggiano Cornelius Castoriadis, più volte richiamato da Latouche: «Si può affermare, senza rischio di essere contraddetti, che gli individui sono soggetti a una paideia diversa per effetto del solo contesto urbano, se per esempio vivono a Siena o a La Courneuve». Così per Latouche la crisi dell’abitare, nelle nostre città senza mura cinte da periferie rivestite di manifesti pubblicitari, è una crisi politica e sociale. Il progetto della decrescita, che è funzionale alla costruzione di una società (e quindi di una architettura) diversa, porta con sé valori etici ed estetici e la speranza di re-incantare il mondo, riplasmando un’idea del sacro legata ai luoghi. Ma per restituire senso e pienezza alla bellezza – e al sostantivo tanto abusato – l’arte deve recuperare un significato attivo. Il concetto di arte priva di funzione, distaccata dall’artigianato, è nato nella modernità, con l’ascesa della borghesia, insieme all’immagine dell’artista come figura geniale che segue la propria fiamma interiore (ed è quindi legittimato a disinteressarsi, se lo desidera, della collettività di cui è parte). L’arte è oggi, nella visione di Latouche come in quella di Jean Baudrillard negli anni Settanta del XX secolo, un universo autoportate dominato dall’economia. I nuovi artisti sono inventati dal giornalismo e dalla critica, con l’obiettivo di far funzionare il mercato. Essi, come scrive Castoriadis, creano, più che opere, prodotti “che condividono con tutti gli altri prodotti della loro epoca il medesimo cambiamento nella determinazione della propria temporalità: studiati non per durare, ma per non durare”. L’arte è esibizionista, fine a sé stessa, ed è arte perché dichiarata tale (ben oltre i ready-made di Duchamp) anche perché – se non venisse dichiarata – nessuno la riconoscerebbe. Finché persiste questa impasse, la bellezza non è alla portata di tutti e l’arte non può essere uno strumento di cambiamento del mondo. Nella critica alla società dei consumi di Latouche alcuni punti soprattutto meritano ulteriori riflessioni che – mi rendo conto – tracimano da una semplice recensione. Il disinteresse, tutto e solo moderno, per la durata delle architetture e dei manufatti distingue profondamente il paesaggio antico e premoderno da quello contemporaneo. La nostra società e l’architettura sono caratterizzate, inoltre, dall’assenza di reimpiego, nei materiali, nelle forme architettoniche, molto spesso anche negli spazi. Le necessità di tutela impongono ristrutturazioni filologiche degli edifici storici che, se da un lato sono comprensibili ed evitano le devastazioni dei decenni passati, dall’altro tolgono una possibilità di rinascita agli edifici antichi. La funzione abitativa di molti centri storici si va perdendo, non soltanto in aree urbane ma in tantissimi piccoli paesi delle campagne italiane. Si costruiscono villette ai margini del paese invece che ristrutturare le case nel centro, dotate di stanze piccole e condizioni di luce e di visibilità dell’esterno che non riteniamo più adatte all’abitare a cui aspiriamo. Si torna a vivere nei piccoli centri per sfuggire al caldo, all’inquinamento, al traffico e ai costi delle grandi città, ma questo non comporta la ricostruzione di un tessuto di collettività condivisa. La casa è più spesso nuova e libera sui quattro lati. I vecchi spazi di condivisione persistono formalmente, con poche sacche di resilienza. L’assenza di una nuova estetica rimarcata dal filosofo francese è evidente anche nel fatto che, nonostante quanto detto poc’anzi, continuiamo a considerare belli i centri storici antichi, eredi di culture differenti da quella attuale. Jeff Bezos sceglie di sposarsi a Venezia, non alla periferia di Mestre. Quella stessa Venezia che Marinetti nel Manifesto del Futurismo del 1909 avrebbe voluto distruggere; un’ipotesi che ci inorridisce ma che non ci impedisce di fare di quel centro storico un oggetto di mercificazione colonizzato dall’economia. In questa fase di museificazione e gentrificazione dei nuclei storici, che va di pari passo con la costruzione di una bellezza statica e innocua, il dilemma e l’ambiguità della conservazione si pongono più che in altri periodi storici. Dovremmo domandarci come mai l’eredità materiale del passato sembri portare da sola il peso della bellezza. Perché continuiamo a trovare belli i centri storici delle città europee, palinsesti medievali e post medievali? Siamo davvero noi i produttori di questa estetica, noi ad aver deciso che quelle forme sono di nostro gusto, nello stesso tempo condannandole, di fatto, a non servire più a niente se non a colmare le memorie delle nostre fotocamere durante le vacanze? Non sembriamo del tutto consapevoli del paradosso che in molti contesti la conservazione e la tutela sono le uniche forme di reimpiego delle architetture antiche che mettiamo in atto, un sistema di protezione da parte di uno sviluppo che si dice sostenibile (Latouche in una vecchia intervista aveva definito lo sviluppo sostenibile una invenzione linguistica, un “ossimoro grazioso”: S. Latouche, Decrescita o barbarie, Castelvecchi, 2018). Scrive il filosofo nell’introduzione che decrescita significa «arte di vivere bene, in sintonia con il mondo», e «abbandonare il culto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la crescita». Non è un programma ma un orizzonte di senso, che si nutre di altri pensieri destinati al ri-abitare e alla ri-sacralizzazione degli spazi esistenti per interrompere la produzione continua di nuovi luoghi. Tra le otto R indicate già altrove dal filosofo per re-incantare il mondo (“rivalutare, riconcettualizzare, ristrutturare, ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare”) devono trovare spazio anche una riabilitazione del gusto; la riscrittura dell’arte come componente fondamentale dell’esistere, sulla scia di Castoriadis, per il quale le grandi opere d’arte erano finestre sul caos che svelavano e inventavano un cosmo; la ridefinizione dello spazio urbano con edifici di altezza media (non grattacieli né villette) autoefficienti da un punto di vista energetico e tra i quali sia possibile passeggiare. Ma si tratterebbe soprattutto di prendere atto dell’esistenza delle numerose persone che aspirano all’arte o ne sentono il bisogno. Tra i resilienti Latouche iscrive i writers che «si ribellano contro la pubblicità, quindi contro l’estetica della società di mercato e contro il monopolio pubblicitario della bellezza» (e infatti la tendenza è quella di trasformare la loro arte in valore estetico, v. Banksy). Il compito è molto arduo, anche solo limitandosi all’arte. Come riconoscere le finestre sul caos, distinguendo la grande opera da quella dozzinale? I produttori di gusto e di estetica sono esistiti anche nell’era pre-globalizzazione e la tendenza è sempre stata, anche sul piano dell’architettura, di utilizzare le resistenze (anche un centro storico lo è, se inteso come luogo con una anima) per mantenere il mito dell’arte e della cultura, distruggendolo poi nel reale. Uno degli obiettivi principali potrebbe allora consistere – è la mia personale forma di comprensione di quell’orizzonte di senso, per nulla immediato, che si chiama decrescita – proprio nel togliere l’arte, e la materialità passata che interseca i nostri spazi dell’abitare, dalla sfera del futile, del diletto e del bello. Una strada difficile, non ortodossa e non tracciata.     L'articolo Serge Latouche / L’arte perduta di vedere la bellezza, l’arte di vivere proviene da Pulp Magazine.
Lorenzo Iovino, Daniele Piccione, Roberto Taddeo / Mostrologia fiorentina
Dopo il successo della sua opera enciclopedica in tre volumi – MDF, La storia del Mostro di Firenze, Mimesis 2023 – di cui già ci siamo occupati su “Pulp Magazine” e su quelle di “Carmilla” Roberto Taddeo inaugura la collana di true crime da lui curata per Mimesis, Le notti della Repubblica, con un altro monumentale volume dedicato al cold case più insolubile e sanguinoso di tutta la storia criminale del nostro paese dal secondo dopoguerra a oggi. Coadiuvato da Lorenzo Iovino e Daniele Piccione, e affiancato da un nutrito gruppo di studiosi e ricercatori che, a vario titolo e con competenze professionali molteplici, hanno approfondito i fatti del Mostro, Taddeo propone una dettagliata silloge di saggi e articoli di diversa lunghezza volti a chiarire, indagare e scandagliare la tortuosa galassia di informazioni, teorie, testimonianze che, sedimentate negli anni, confermate o smentite da processi e sentenze, tracciano la minacciosa e imperscrutabile mappa di un vero e proprio labirinto – come il titolo precisa – un labirinto di cui il testo, ultimo di un’imponente letteratura scrupolosamente documentata nell’appendice bibliografica, non pretende, come altri che lo hanno preceduto, di cartografare una improbabile via di uscita ma, ed è già molto, di indicare solo verosimili e praticabili linee di percorso. Diviso in dieci sezioni più un’appendice con un’intervista al procuratore Paolo Canessa, PM al primo processo Pacciani, il libro non trascura alcuno degli aspetti anche minori della tragica vicenda. Si parte dalla mappa concettuale che delinea storia e contesto generale dei fatti criminali e dalla descrizione sociologico-ambientale della Firenze degli anni del Mostro per analizzare poi la sequenza dei singoli delitti, da quello d’esordio del 1974, ai due del 1981, da quello di altra tipologia ma collegato all’uso della stessa arma del 1968, agli altri quattro che dal 1982 al 1985 hanno annualmente insanguinato le campagne dell’hinterland fiorentino. Ci si sofferma sui testimoni oculari, sugli identikit, sugli avvistamenti e le comunicazioni – dall’Anonimo fiorentino al Cittadino amico – tramite lettere o telefonate, anonime e non, e perfino messaggi medianici di presunti veggenti e sensitivi, esplorando così anche il sottobosco magico-esoterico toscano dal quale emergono o con il quale hanno contatti regolari, molti degli ambigui personaggi coinvolti nelle indagini. Si ripercorrono gli accertamenti giudiziari di tutti i principali indiziati: la cosiddetta “pista sarda” e i loschi fratelli Salvatore e Francesco Vinci (irreperibile da decenni il primo, ritrovato cadavere carbonizzato nella sua auto dopo essere stato torturato e mutilato nel 1993 il secondo); i “compagni di merende” Mario Vanni (inventore dell’espressione…), Giancarlo Lotti e naturalmente Pietro Pacciani, con attenzione anche a opache figure di testimoni oculari o fiancheggiatori come Lorenzo Nesi o Giovanni Faggi; non mancano accurate ricostruzioni della terrorizzante galassia di delitti collaterali apparentemente del tutto scollegati da quelli del Mostro ma sempre segnati da qualche enigmatica concomitanza con esso: il misterioso rapimento di Rossella Corazzin, mai ritrovata, e le deliranti dichiarazioni in carcere del pluriomicida psicopatico Angelo Izzo a base di sacrifici umani, sette esoteriche neo-templari ed eversione di estrema destra; l’incomprensibile sbudellamento passato per suicidio (vero e proprio harakiri) di Elisabetta Ciabani, fiorentina in vacanza in Sicilia; le tre ragazze strangolate senza segni di violenza carnale e ritrovate sempre nei dintorni di via Bolognese a Firenze nel 1972, 1974 e 1984; la mattanza di prostitute assassinate in circostanze mai chiarite nel loro domicilio dove esercitavano il mestiere, quattro tra il 1982 e il 1984; l’omicidio di Milva Malatesta e del suo bambino di tre anni, ritrovata nella sua auto bruciata in condizioni molto simili di quelle di Francesco Vinci ucciso con modalità analoghe una settimana prima, impedendo così a entrambi di testimoniare al processo di primo grado contro Pacciani. In una lunga sezione poi l’analisi del caso a parte, il più romanzesco di un contesto già abbastanza romanzesco, quello che sposta l’attenzione da Firenze a Perugia: la scomparsa sul Trasimeno del noto e stimato gastroenterologo Francesco Narducci, il suo presunto suicidio o omicidio, il probabile scambio del cadavere ripescato nel lago (due diversi cadaveri in realtà), ordito, con la connivenza di alcuni membri delle forze dell’ordine, dalla potente e facoltosa famiglia per evitare l’autopsia, la riesumazione a distanza di decenni del corpo e gli esami conseguenti, e poi le tortuose indagini dell’Ispettore Napoleoni in cerca dei “feticci” collezionati dal possibile mandante dei delitti, il “dottore perugino che un era bono a trombare” secondo le parole di Pacciani. Un’altra sezione più breve è dedicata all’ultimo indiziato e possibile Mostro, l’ex legionario e mercenario fascista Giampiero Vigilanti, ulteriore indistricabile fonte di interrogativi che, di nuovo, mette i delitti in relazione con il torbido ambiente della destra radicale. In chiusura varie puntualizzazioni sulle indagini più recenti di cui occasionalmente si fa menzione sulla stampa corrente, in termini spesso sensazionalistici e fuorvianti, esami sul DNA impossibili ai tempi dei fatti, che avrebbero introdotto già nuovi elementi e nuove piste ma che, smentendo i trionfalistici titoli di alcuni periodici, il testo considera più forieri di ulteriori domande che di risposte risolutive. Le poche verità assodate che concretamente si possono dedurre dall’inestricabile groviglio sono abbastanza deludenti per molti ricercatori: non esiste un solo Mostro di Firenze, un unico assassino seriale come Zodiac o lo Strangolatore di Boston, ma un gruppo criminale collettivo diviso in due livelli, “operatori” e “mandanti” (che talvolta potrebbero scambiarsi i ruoli ed essere contemporaneamente presenti sulle scene dei crimini); tutti gli indiziati e molti testimoni e fiancheggiatori hanno una qualche complicità a diverso titolo e grado di coinvolgimento con gli autori diretti degli omicidi, nessuno è innocente: meno di chiunque Pacciani che – ad onta della simpatia popolare e della strumentalizzazione (anche politica: la lotta denigratoria di Berlusconi contro la Magistratura) suscitata negli anni ’90 dalla sua controversa figura – è innegabilmente l’autore materiale di almeno alcuni (non tutti) dei delitti perpetrati. Non possiamo affermare altro più di questo che non sia pura illazione. Il libro, che è un testo serio e scientifico, non si spinge oltre. Per questo motivo ne consigliamo vivamente la lettura agli appassionati e cultori di true crime e/o di mostrologia. L'articolo Lorenzo Iovino, Daniele Piccione, Roberto Taddeo / Mostrologia fiorentina proviene da Pulp Magazine.