Tag - saggi

Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica
«Una di quelle affermazioni udite fino alla nausea è che una macchina non può essere creativa». Niente potrebbe suonare più trito di un’affermazione come questa nell’odierno dibattito sulle IA, ma per un testo filosofico apparso settanta anni fa, all’alba della rivoluzione cibernetica di Wiener, McCulloch e John Von Neumann, non riesco invece a immaginare una migliore garanzia di assoluta attualità. Rimandiamo al mittente quindi anche questa sgradevole sensazione di deja-vu. E a scanso di equivoci diciamo subito che La coscienza delle macchine non appartiene – come avverte prudentemente Alberto Giustiniano nell’introduzione – alla fiorente pubblicistica che dalle bacheche degli e-commerce e delle librerie preme per spiegarci come l’intelligenza artificiale migliorerà inevitabilmente le nostre vite e/o ci condurrà altrettanto inevitabilmente all’estinzione. Il saggio, ora tradotto da Orthotes, fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1957 e rivisto dal suo autore nel 1963. In pratica costituì l’esordio americano di Gotthard Gunther e una delle prime, audaci riflessioni filosofiche sulla cibernetica e l’intelligenza artificiale del secolo scorso. Tedesco naturalizzato  americano, di quel contesto Gunther ha rappresentato sicuramente una delle menti imprescindibili e più brillanti, benché,   anche per ragioni linguistiche, un autore per lo più sottotraccia, malgrado il sostegno ricevuto da McCulloch e dal Dipartimento di Stato.  Allievo di  Eduard Spranger, laureato con una tesi di dottorato su Hegel, emigrò all’inizio della Seconda Guerra Mondiale in Sudafrica e di lì negli  USA dove divenne amico tra gli altri di autori di fantascienza come Isaac Asimov  e John W. Campbell. Ignorato dalla filosofia continentale è oggi oggetto di riscoperta da parte di una nuova generazione di ricercatori come Yuk Hui[1] Gunther parte osservando che la logica aristotelica classica risulterebbe inservibile per la cibernetica che, a differenza di altre discipline scientifiche, deve fare i conti con i fenomeni di un’intelligenza meccanica emergente. I principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso, in particolare, non potrebbero aver ragione di quelle intricate capacità riflessive che chiamiamo coscienza e che esulano dal tradizionale binarismo soggetto/oggetto. Per supplire a questa inadeguatezza, la prima parte del saggio introduce i lineamenti di una possibile logica post-classica,  con un set di operatori transgiunzionali, prima di addentrarsi nel nucleo centrale della trattazione. Sul piano storico e metafisico l’idealismo tedesco,  verso cui La coscienza delle macchine riconosce pienamente il suo debito dalle prime pagine, avrebbe infatti introdotto un modo completamente diverso e nuovo di guardare alla riflessione e ai fenomeni dell’autocoscienza, fornendo concettualizzazioni rivelatesi cruciali per il tipo di soggettività richiesta successivamente dalla cibernetica. Gunther, in particolare,  attribuisce a Hegel la prima disamina scientificamente comunicabile dell’interiorità, attraverso un quadro concettuale formato da una pluralità di nuclei. Un modo formale e computabile per descrivere la soggettività e i suoi livelli di consapevolezza, superando i limiti della logica oggettiva bivalente (che alla fine può immaginare la coscienza soltanto nei termini di un “soffio vitale”). Un secolo e mezzo dopo Fichte e Hegel, non c’è più lo spirito del mondo a cavallo ma la bomba atomica e il computer. Nel nuovo mondo di Von Neumann e della teoria dell’informazione, il filosofo intende ora far emergere una coscienza cibernetico-trascendentale anche se non per questo, necessariamente, una coscienza assoluta, cioè “umana”. Più probabilmente, come osserva sempre Giustiniano, si tratterà di  “un’eccedenza di riflessione”, né soggetto né oggetto, la manifestazione di processi in ambienti a riflessività diffusa. Una visione che – ne La coscienza delle macchine come nel successivo Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation (1962)[2] – sembra connettere il pensiero logico-matematico di Gunther direttamente alla rivoluzione cibernetica di Norbert Wiener, saltando tutte le caselle intermedie.  Dopotutto, come osserva Valeria Pinto [3] «Al di là del tratto apparentemente rivoluzionario la cibernetica si iscrive in una metafisica assolutamente conforme al paradigma occidentale, come Gunther positivamente rivendica».  Settanta anni dopo la direzione di questo rivolgimento è ancora oggetto di un dibattito contrastato, non così la sua portata, ormai sotto gli occhi di tutti. [1] Yuk Hui, Machine and Sovereignty, University of Minnesota Press, 2024 [2] Gotthard Gunther, Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation, Self Organizing System, Spartan books, pp. 313-392, 1962 [3] Valeria Pinto, Quel genere di macchine che possono esplodere, apocalissi della tecnica e integrazione della cultura in MECHANE, Rivista di filosofia e antropologia della tecnica, 9/2025 L'articolo Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica proviene da Pulp Magazine.
Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera
Il breve saggio di Charles Olson (1910-1970) che minimum fax ha appena ristampato (esisteva una precedente edizione Guanda del 1972), rivoluzionò alla sua uscita nel 1947, non solo gli studi su Moby Dick e su Herman Melville, ma il modo stesso di concepire e scrivere la critica letteraria. Olson, che fu anche poeta e che avrebbe molto influenzato la Beat Generation, introdusse nella saggistica letteraria non solo una radicale novità di temi, ma soprattutto uno stile e una scrittura assolutamente dirompenti che avrebbero stupito o addirittura scandalizzato il coevo mondo accademico. Alle pagine di analisi e critica del testo, la cui tesi più originale è il leitmotiv shakespeariano che animerebbe e sostanzierebbe il capolavoro di Melville e l’essenza dei suoi protagonisti, Ahab e Ismaele, si alternano pagine libere in cui si descrivono episodi marinari analoghi e, se possibile, ancora più macabri e sanguinosi di quelli raccontati nel romanzo: naufragi, ammutinamenti, cannibalismo. La carriera di navigatore di Melville viene poi delineata nella sue varie fasi esperienziali e narrative, dalla marina mercantile (Redburn), a quella militare (White Jacket), ai contatti con le marinerie non statunitensi (Benito Cereno, Le isole incantate, Billy Budd), all’esotismo e all’espansionismo Pacifico (Typee, Omoo, Mardi), con l’Oceano che, nella visione di Olson, Melville pone come una nuova frontiera, una sorta di West marino in cui si eserciterà, con tutte le sue terribili contraddizioni, il Manifest Destiny della democrazia americana: non la Grande Interiorità di Poe o di Hawthorne, o il Progresso sociale di Whitman, ma l’immensità dello Spazio. E la baleneria vi si impone come grande impresa statunitense, impresa nel senso dell’avventura ma soprattutto impresa nel senso di espansione economica e dominio e gestione delle risorse. A scandirne il massimo controllo nell’epopea manifatturiera di Nantucket emerge una radicalità veterotestamentaria, la dimensione biblica, la legge israelita dell’occhio per occhio, l’eco di Noè e di Giona, del libro della Legge del Sangue, in cui Mosè si contrappone a un Cristo del tutto assente da Moby Dick, un libro empio – come lo stesso Melville lo descrisse a Hawthorne – in cui perfino la perversa benedizione rivolta da Ahab al rampone, Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli, non fa nemmeno cenno alle altre due persone della Trinità. Melville anni dopo viaggerà in Terra Santa e scriverà il lungo poema Clarel quasi per riconnettersi ad un’esperienza cristiana negata nel suo capolavoro e i suoi ultimi personaggi, Bartleby, Benito Cereno, Billy Budd, non saranno che rifrazioni diverse e diversi ritratti di Cristo. Ma tutto questo passa inevitabilmente attraverso Shakespeare: Ahab è un po’ Amleto, e molto Macbeth e, come lui, “ha ucciso il sonno”. Il rapporto tra Ahab e Pip, il piccolo mozzo impazzito dopo essere caduto in mare, rispecchia quello tra Re Lear e il Buffone; il Pequod è la Roma e l’Oriente di Antonio e Cleopatra, l’opera shakespeariana che Melville annotò di più; Fedallah appare e scompare come le Tre Streghe del Macbeth e, se Jago diventerà Claggart in Billy Budd, confermando fino all’ultimo l’influenza su Melville dei personaggi negativi e totalitari del Bardo, sarà invece Ismaele, l’“Orfano”, a correggere Shakespeare in senso democratico dando voce e dignità all’equipaggio marinaro, composito e multietnico, unito fino all’epilogo della tragedia senza alcuna remissione dei peccati: Ismaele perennemente orfano ma, almeno in nome e memoria di tutti gli altri, salvo come Noè dopo il Diluvio.         L'articolo Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera proviene da Pulp Magazine.
Richard Hofstadter / America oggi
La ristampa di Anti-intellectualism in America Life (The Knopf Doubleday Group, Penguin Random House 1963), meritoria iniziativa della Luiss University. Press non è soltanto un’occasione per proporre a distanza di sei decenni un’opera monumentale, ma – letta alla luce degli sviluppi della politica americana recente e meno recente – conferma la ricostruzione storico-culturale di Richard Hofstadter. L’odio per gli intellettuali in America (così il titolo italiano, sintomaticamente ben più forte dell’originale) parte infatti da un assunto bene sintetizzato dal titolo, e ricostruisce nei vari capitoli gli sviluppi storici del contrastato rapporto fra l’America e gli intellettuali, specialmente per quanto attiene alla politica, all’educazione e alla finanza. La tesi più interessante, che oggi possiamo leggere anche in relazione alla politica trumpiana e all’evoluzione del partito repubblicano (ma anche a posizioni non troppo minoritarie all’interno del Partito Democratico) è che alla base della diffusa disistima nei confronti del ceto intellettuale vi sia il rapporto diretto e squisitamente emotivo che l’ideologia religiosa di evangelici, metodisti, battisti e avventisti ha instaurato, già agli albori della storia americana, tra il fedele e Dio, senza la mediazione di un ceto clericale specializzato e quindi dando spazio (splendida la ricostruzione della Parte seconda) a predicatori improvvisati e spesso fraudolenti che ancora oggi imperversano. A quali estremi di fanatismo questa impostazione conduce appare chiaro da alcuni estratti “storici” di cui abbonda il Capitolo 5, senza dubbio il più interessante e illuminate del libro: “Se una sola porzione della Scrittura fosse falsa, tutto crollerebbe” (Dwight L. Moody, cit. p. 126). “Sarebbe bene distruggere tutti i libri che sono stati scritti fino a oggi, e salvare appena i primi tre versetti della Genesi” (William Jennings Bryan, democratico, tre volte in lizza per la Presidenza nel 1896, 1900, 1908, cit. p. 129) “Leggete la Bibbia… non c’è bisogno che uno legga altri libri, e per questo io sono contrario a tutte le biblioteche” (Dichiarazione di un delegato della Georgia, cit. p. 129) “Se si dovesse decidere tra abbandonare la religione o abbandonare l’istruzione, dovremmo abbandonare la seconda” (Bryan, cit. p. 132) Se il fondamento democratico ed egualitario di questa impostazione è evidente, sono evidenti i rischi che comporta. Già all’inizio dell’Ottocento la diffidenza si diffonde a ogni area della vita americana, pur con esiti alterni: è inevitabile infatti, soprattutto durante i governi democratici e i presidenti più illuminati, che si sia dato spazio alla figura dell’esperto, versione pragmatica dell’intellettuale che fece da supporto, per citare un esempio, ai governi di Theodore, F. D. Roosevelt e J. F. Kennedy. Quello che il traduttore definisce “l’odio per gli intellettuali”, tuttavia, si ripropone ciclicamente: ne sono stati esempi storicamente recenti il maccartismo, la figura di Nixon e, dopo di lui, tutti i presidenti repubblicani, i quali subiscono l’influsso crescente di un fanatismo religioso che, come si sa, porta l’America a ripudiare la dottrina evoluzionista a favore di varie versioni dell’“Intelligent Design” e del Creazionismo, fino agli estremi del Young Earth Creationism, sulla base di una totalmente acritica e anti-scientifica interpretazione della Bibbia: “La Bibbia condanna l’evoluzione…. l’evoluzione deve essere condannata come contraria alla volontà rivelata da Dio” (Bryan, cit. p. 131) Per il lettore italiano l’importanza del ponderoso lavoro di Hofstadter risiede proprio nel farci comprendere meglio l’America di oggi, e persino il rancore dell’amministrazione Trump verso le università più prestigiose, le nomine da lui effettuate ai più alti livelli e il senso di continua improvvisazione della sua politica.         L'articolo Richard Hofstadter / America oggi proviene da Pulp Magazine.
Piero Cipriano / Pensare la salute mentale
Un libro di Piero Cipriano è sempre una lettura stimolante, provocatoria, per molti aspetti sovvertitrice delle rassicuranti certezze dietro alle quali barrichiamo le nostre paure. Per esempio il fatto che ci sia un ben delineato margine tra sanità e malattia mentale e che la psichiatria sia quella branca della medicina capace di stabilire i termini della divisione e di “curare” i malati o comunque in qualche modo di risolvere le crisi. Anche questo suo ultimo lavoro non smentisce il percorso tracciato dalle sue precedenti opere e, se possibile, ne radicalizza ulteriormente l’assunto. In realtà – argomenta Cipriano – lo psichiatra non cura – nel senso di guarisce – il disturbo psichico ma ne nasconde solo i sintomi, aggiusta, rattoppa, riadatta il sofferente a quella stessa realtà che ha provocato la sofferenza. In una società malata il disagio, il disadattamento, è un segno di sanità – il vero malato è chi si integra, chi collabora, chi non ha niente da ridire – lo psichiatra il cui mestiere è riportare alla norma, ristabilizzare gli scompensi – non terapia ma cosmesi – in realtà non è un medico, piuttosto un politico (ai tempi di Hitler c’era un termine preciso che indicava lo scopo che il partito doveva imporre alla nazione: Gleichschaltung, la “messa al passo”). Lo Stato, il capitale, non confida più nella rozza repressione poliziesca (intuizione profetica di Aldous Huxley rispetto a George Orwell: non 1984 – per ora – ma Brave New World) e reprime con più efficacia grazie alla scienza e alla tecnica: citando Ronald Laing, “se curi qualcuno significa che sei delegato dalla società a esercitare su un essere umano un potere persino più grande di quello che eserciti se lo punisci. Poiché ci sono limiti a ciò che si può fare a un carcerato in prigione, mentre non ci sono limiti al trattamento cui si può sottoporre un malato in ospedale”. Dopo Laing, Franco Basaglia ovviamente, uno dei maestri ideali di Cipriano, una rivoluzione in parte riuscita, la legge 180 e la chiusura dei manicomi, ma una rivoluzione fallita, anche, perché il manicomio apparentemente distrutto si trasforma: non più mura e sbarre materiali ma molecole e diagnostica. Il manicomio ora è chimico: dopo la morte di Basaglia nel 1980, la restaurazione degli anni 80/90 parallela all’affermarsi del neoliberismo e del realismo capitalista che – e qui Cipriano cita Mark Fisher – ha esorcizzato “lo spettro di un mondo che potrebbe essere libero”, distruggendo quanto prodotto dalla controcultura degli anni 60/70 compresa la “democratizzazione della neurologia” auspicata da Timothy Leary. Ora l’epoca squadernata dalla “Iron Lady” Margaret Thatcher, non a caso ex ricercatrice in chimica, biochimizza “la sofferenza psichica escludendo ogni possibile causa sociale o politica o economica” e apre il campo al mercato farmacologico delle “psicomafie multinazionali” come la Big Pharma e agli psichiatri dell’American Psychiatric Association, ligi alle sue direttive. Se non esiste la società ma solo l’individuo e i “cervelli rotti” vanno riparati, allora il binomio diagnosi-farmaco trionfa: per favorire un mercato iatrogeno si inventano patologie inesistenti come la depressione o il disturbo bipolare (in realtà stress, stanchezza, ansia da prestazione: un problema politico e non una malattia) ed esplode improvvisamente un’epidemia psichica, anzi una vera pandemia che dichiara, su sette miliardi di persone, quasi quattrocento milioni di depressi e sessanta milioni di bipolari (e “solo” venti milioni di schizofrenici), avviati alla farmacodipendenza da benzodiazepine e antidepressivi, senza risparmiare neanche i bambini che un nuovo Erode etichetta ADHD – soggetti a deficit dell’attenzione con iperattività: quasi quattro milioni di bambini americani vengono trattati con anfetamine per questo disturbo con la complicità dei loro insegnanti. Perfino l’antitesi di quella dimensione chimica concentrazionaria, non più fatta di molecole che chiudono la mente ma che la aprono, quegli alcaloidi considerati droghe e per decenni repressi o marginalizzati, ora inizia a essere cooptata e addomesticata stravolgendone l’uso da anticapitalistico a pro-capitale. Per questo l’entusiasmo che Cipriano manifestava in alcuni dei suoi ultimi libri per il cosiddetto Rinascimento psichedelico, inteso come recupero della controcultura degli anni ’60/’70 in cui le molecole psichedeliche erano viste come il propulsore di una rivoluzione non solo individuale ma anche sociale e politica, sembra essersi ridimensionato. Il cosiddetto Microdosing di LSD, psilocibina, mescalina, ecc. diventa bieco strumento di potenziamento cognitivo e accrescimento neuronale per fighetti creativi miliardari, genietti della Silicon Valley, talenti (o presunti tali) in espansione, imprenditori sulla scia di Zuckerberg o Musk: le multinazionali chimiche rubano le medicine tradizionali dei nativi, le brevettano, le depotenziano, le impasticcano e le commercializzano (a caro prezzo) in farmacia (ci viene spontaneo pensare però che, ahimè, anche Albert Hoffman quando sintetizzò gli alcaloidi della Claviceps purpurea scoprendo l’LSD-25, stava lavorando per la Sandoz di Basilea, oggi Novartis International AG, una multinazionale…). Di nuovo il realismo capitalista disposto anche a decriminalizzare certe sostanze psicoattive purchè implementino la performatività e non la visione, sottraendole alla sfera sacrale, sciamanica, spirituale, l’unica che sia foriera di un reale cambiamento della persona, proprio come certe forme di yoga estirpate dal percorso interiore degli ashram vengono smerciate in palestra ridotte a pura ginnastica e fitness. Il gregge non deve svegliarsi ma perpetuare il suo confortevole sonno. Le pecorelle smarrite vanno ricondotte all’ovile se ancora utili come forza lavoro e trattabili (nevrotici e depressi, curati magari con una terapia psichedelica attenuata, non visionaria, che restituisca loro una produttiva dis-felicità) o abbandonate al loro destino se inutili e intrattabili (schizofrenici, maniaci, deliranti, consegnati agli antipsicotici depot a vita). Un po’ come un tempo il proletario incurabile era confinato nella gabbia del manicomio mentre il borghese curabile – ovviamente abbastanza benestante da potersela permettere – poteva ricorrere alla cura psicanalitica o a qualche sua declinazione psicoterapica. Ben poco è cambiato in fondo se non la cognizione, fattasi forse più profonda, che “La trascendenza – ovvero trascendere il linguaggio, lo spazio, il tempo, l’ego, la meità – è la massima nemica del potere. Il potere, che si declina in Stato e capitale, teme più di tutto la trascendenza”. Questo e molto altro ci racconta Cipriano inframmezzando riflessioni teoriche e filosofiche, esposizioni storiche e farmacologiche, con il racconto bruciante delle sue esperienze vissute in prima persona con pazienti e degenti dei vari Dipartimenti di salute mentale dove ha lavorato, dell’SPDC romano dove ha trascorso diciassette anni e del SerD dove attualmente si occupa di adolescenti con nuove dipendenze. C’è rabbia, scoramento ma anche molta speranza nelle sue parole: certo è duro, è faticoso procedere con coerenza nel nostro paese, con un governo come l’attuale certo ancora più duro. Cipriano dichiara che se non potrà lavorare con nuove terapie in Italia si trasferirà in Svizzera o Perù. Ci auguriamo vivamente che non debba farlo, sarebbe una grave perdita per noi tutti che condividiamo le sue idee e un sollievo invece per i molti che ostacolano ogni nuova prospettiva di cambiamento: se esiste ancora qualche speranza, flebile forse ma viva e vera, questa risiede anche in medici, pensatori e uomini come lui.         L'articolo Piero Cipriano / Pensare la salute mentale proviene da Pulp Magazine.
Paul Schrader / Il cinema come arte della noia
È un giovane entusiasta e “malato” di cinema – un’arte, come tutte le forme di intrattenimento, estremamente malvista nella rigida prospettiva calvinista della  famiglia di origine che si è appena lasciato alle spalle – il ventiquattrenne Paul Schrader che nel 1971, laureando alla UCLA (University of California, Los Angeles), pubblica una tesi su  Il trascendente nel cinema. Mentre collabora a riviste di cinema, due anni prima di firmare la prima sceneggiatura, una decina prima della regia di American Gigolò (1980), Mishima (1985), o, una vita più tardi, Il collezionista di carte (2021) – solo per citare alcuni dei suoi film più noti – il futuro sceneggiatore di Taxi Driver (1976) e Toro scatenato (1980) è interessato alle forme che considera più spirituali della rappresentazione cinematografica.  E, prima di chiunque altri, a tre maestri che hanno avuto un’influenza intellettuale diretta sulla sua maturazione giovanile: il francese Robert Bresson, il giapponese Yasujirō Ozu e il danese Carl Theodor Dreyer. In una eco più o meno consapevole dell’educazione religiosa ricevuta, Schrader, “un prodotto  della chiesa cristiana riformata di Grand Rapids”, definiva mezzo secolo fa lo “stile trascendentale” come quella forma filmica che aspira a proiettarsi “al di là della normale esperienza sensoriale” o, detto in altre parole, a misurarsi con il Sacro. Alla ricerca di una “forma universale di rappresentazione”, che lo liberi dalle identità, che si tratti dei legami con la cultura di appartenenza o della personalità specifica che un artista di cinema esprime attraverso la scrittura e la regia, dichiara che: “lo stile trascendentale tende a massimizzare il mistero dell’esistenza”. Nel suo impeto giovanile, Schrader punta il dito sul naturalismo convenzionale, non solo di Hollywood, con il suo carico di psicologismo e di protagonismo attoriale, non meno che sulle tattiche dell’espressionismo intentate dalla generazione precedente (Dreyer compreso). All’opposto, Bresson a Ovest e Ozu a Est, hanno sviluppato strategie ritualmente “inespressive”, volte a svuotare, con il flusso esuberante e imprevedibile della realtà, le convenzioni narrative e le costruzioni finzionali della narrazione cinematografica  – come la trama o la characterization – prosciugando  anche l’enfasi per processi tecnici stessi come il montaggio, la colonna sonora, ecc. Nella sua tesi Schrader – che nelle conclusioni allarga il suo orizzonte a figure multidisciplinari come Michael Snow e al cinema expanded di George Maciunas e Andy Warhol – individua anche le tecniche di questa “arte della noia”,  che l’avanguardia del tempo ha codificato, cifrando direzioni artistiche più o meno distinte. Tra queste la ripresa abnorme e meticolosa del quotidiano, per smantellare il fantoccio della realtà; la disparità che, come una crepa, si insinua tra il protagonista e il suo ambiente; infine la stasi che lasciando affiorare la sospirata attesa filmica dell’Altro, trascende questa disparità senza poi risolverla. La “noia” stessa è, tecnicamente, la chiave che il filmaker utilizza, per liberare la partecipazione dello spettatore (per fare un esempio di maniera:  insistendo un piano sequenza e aggirando  invece l’artificiosità e le convenzioni narrative del montaggio). L’approccio “trascendentale”, che in altri contesti artistici si sarebbe forse definito “minimale”, in questi ultimi anni è stato spesso ribattezzato slow cinema, definizione a ombrello che, alla  larghissima, abbraccia il cinema di Theo Angelopoulos, Roberto Rossellini, o Chantal Akerman, non meno che di Aleksandr Sokurov o Abbas Kiarostami. Una definizione d’altro canto anche pigra perchè, come sottolinea Schrader nell’introduzione all’edizione del 2018, in tutti questi anni assieme alle mappe sono cambiati anche i territori del cinema e dai lunghissimi secondi che costellano i drammi familiari di Ozu si è arrivati alle 10 ore di Il cavallo di Torino (2011) di Bela Tarr. Che cosa è cambiato? Secondo lo sceneggiatore della ex Nuova Hollywood, sono successe soprattutto due cose: Gilles Deleuze e Andrei Tarkovsky. Il filosofo francese, sulla scorta di Bergson, con il concetto di immagine tempo, ha fornito una base teorica al cinema che, a partire dal secondo dopoguerra, “plasma l’introspezione attraverso la durata”, e non attraverso una storia, come avviene invece nell’immagine movimento.  Dal canto suo, Tarkovsky afferma un nuovo paradigma estetico che dà forza all’immagine attraverso “il carattere del tempo che scorre dentro un’inquadratura”. Con Tarkovsky, d’altro canto, finisce anche virtualmente – salvo rare eccezioni – un tipo di cinema che, almeno fino agli anni ’70, ha visto convivere nelle sale i film di Bresson – o, se per quello, di Pasolini – accanto a Star Wars. Lo slow cinema è oggi per lo più una faccenda di festival e, secondo Schrader, a ripercorrerne la sua storia, ha assunto soprattutto tre direzioni artistiche, simboleggiate da altrettante figure allegoriche.  La telecamera di sorveglianza.  Ovvero, il cinema erede del Neo Realismo teorizzato da André Bazin negli anni ’50, che da Rossellini e via Jean Marie Straub e certo documentario antropologico approda nel nuovo millennio ad esempio alla “trilogia della morte” di Gus Van Sant (Gerry, Elephant, Last Days, 2002-2007). La galleria d’arte. In pratica, il cinema sperimentale, che da Walter Ruttmann, passando per i classici Oscar Fisherman e Norman McLaren, si arriva all’ultimo Godard ma secondo Schrader anche all’ultimo Terence Malick. Il Mandala. Ovvero la meditazione. Dal pioniere Andy Warhol – i 10 minuti di Blow Job erano forse meno spirituali di altre durate? – a Kiarostami e al Kim Ki-Duk di Primavera, estate, autunno, inverno…e ancora primavera (2003) e a Twenty cigarettes (2011) di James Benning. La mappatura di un fenomeno articolato e complesso che l’autore presenta nel libro anche graficamente attraverso un diagramma riassuntivo a tre dimensioni.  Una mappa che, ovviamente, non esaurisce né completa le emersioni, in continua metamorfosi, del territorio, e cioè del Trascendente, che come osserva Gabriele Pedullà nell’introduzione “è tra noi, partecipa delle nostre esistenze miserevoli, alla lettera prende corpo nelle sofferenze del mondo”. L'articolo Paul Schrader / Il cinema come arte della noia proviene da Pulp Magazine.
Alessandro Lolli / La fama? Non quindici minuti ma quindici follower
Giulio Cesare, l’uomo più famoso del suo tempo, dovette coniare monete con la propria effigie per poter veicolare la propria immagine all’interno dei confini dell’Impero Romano. Anche al culmine del suo cursus honorum, la carriera romana nella cosa pubblica, il suo volto era noto per lo più soltanto ai nobili e ai maggiorenti dell’Urbe. Duemila anni dopo, la situazione sarebbe irriconoscibile, non solo per gli uomini e le donne dell’antichità. I social network hanno letteralmente capovolto l’aforisma attribuito ad Andy Warhol, rendendo praticamente chiunque una possibile celebrità – non per i fatidici quindici minuti di gloria, ma per quella quindicina di “amici” o di followers disposti a dispensare attenzione e likes anche ai non famosi. Tra le due epoche, si inserisce la favolosa parabola del divismo e della celebrità novecentesca, inaugurata dal cinematografo e proseguita con lo sport e la musica pop, che ha industrializzato la fama universale a partire dai primi proto-famosi dell’Illuminismo: Voltaire, Benjamin Franklin, Jean-Jacques Rousseau – che fu anche il primo a lamentarsi delle conseguenze della celebrità. Alessandro Lolli ripercorre in Storia della fama. Genesi di otto miliardi di celebrità non solo l’evoluzione di un fenomeno sociale le cui origini risalgono almeno alle comunità paleolitiche, ma anche la qualità formale di un’esperienza che fino a pochi anni fa – dalla rockstar al sindaco del capoluogo – riguardava soltanto una cerchia ristretta a poche migliaia di persone. Ed è qui che emerge il primo problema: in che senso possiamo accostare la “celebrità” di un odierno micro-influencer a quella di Alessandro Magno (che, per inciso, impose assai prima di Cesare la propria effigie al conio dei Macedoni)? Per Lolli, l’unica qualità formale che possiamo associare alla fama, in qualsiasi epoca, è la sostanziale asimmetria tra il conoscente e il conosciuto: tra me e Bob Dylan, tra la celebrità e il suo ammiratore. Il selfie che li ritrae per un attimo nella stessa cornice semantica non deve trarre in inganno: quello che per il fan sarà un giorno memorabile, per il suo idolo è semplicemente un martedì. Questa disarmonia non è priva di conseguenze sul piano esistenziale. Un fan, passando attraverso un’esperienza intensamente deludente, può trasformarsi con quasi altrettanta facilità in un hater implacabile, in un odiatore altrettanto appassionato, non appena la celebrità si dimostri indegna del piedistallo ideale su cui era stata collocata. È una dialettica a cui i social ci hanno abituati su base praticamente quotidiana, a partire dalla metà degli anni ’10, mentre in passato era soprattutto oggetto di narrazioni come Re per una notte di Martin Scorsese o di una parabola drammatica come quella di Mark David Chapman. Se la struttura degli attuali social media come YouTube, Twitch e – in misura assai più obliqua e pervasiva – TikTok offre oggi inequivocabilmente un palcoscenico, reintroducendo dalla finestra il ruolo dello spettatore e quella “navigazione passiva” che Internet pretendeva di aver cacciato dalla porta nei lontani anni ’90, non meno rilevante è stata la rivoluzione dei social network, inaugurata all’inizio del secolo da Facebook e proseguita da X, Instagram, Snapchat, ecc. Qui la mossa vincente di Zuckerberg è stata sicuramente il superamento dell’anonimato – un vero e proprio tabù della vecchia Internet dei forum e delle chat ante MSN – legando un corpo fisicamente individuabile alla login e trasformando l’identità stessa in un proscenio spettacolare attraverso il feed del proprio profilo. Dribblando le interpretazioni puramente neurologiche (iperstimolazione, dipendenza fisiologica, ecc.) e psicologiche (narcisismo di massa, ecc.) delle nuove piattaforme digitali, Lolli propone la vecchia meccanica della celebrità come base della socialità (e dell’alienazione) “famogena” veicolata oggi dai like e dalle reaction di otto miliardi di persone attraverso i social: «Tutte le relazioni che abbiamo sui social network, comprese quelle a noi più vicine, sono stilizzate dalla fama, sono attraversate dalle sue strutture, dal palcoscenico, dal pubblico: lo stile della comunicazione dispone ciascuno di noi alternativamente sopra o sotto il palco» (p. 171). In pratica, non mi limito a mettere un like a un tuo post, ma lo faccio pubblicamente, “con un miscuglio di emozioni”, sapendo di essere visto e, a mia volta, commentato, ecc. La novità non consiste tanto nella relazione – “divistica”, da “opinionista”, ecc. – in sé, quanto nella dimensione istillata reciprocamente tra soggetti sottoposti a questa “osservazione di secondo ordine” nella loro vita online quotidiana. Il testo, che sviluppa il suo percorso attraverso un sentiero analitico chiaro, estremamente piacevole alla lettura, accenna nell’ultima parte anche alla dimensione politica che la celebrità di massa e la prospettiva degli artificial influencer proiettano per il prossimo futuro. L'articolo Alessandro Lolli / La fama? Non quindici minuti ma quindici follower proviene da Pulp Magazine.
Antonio Forza, Rino Rumiati / “Scienze cognitive e processo penale: un auspicabile incontro”
Ci sono dei libri che tutti dovrebbero leggere. Uno di questi è L’errore invisibile. Dalle indagini alla sentenza, opera di due rinomati studiosi: Antonio Forza, avvocato cassazionista, docente di psicologia del giudizio e delle decisioni nonché di neuropsicologia forense, e Rino Rumiati, ordinario di psicologia generale. Preceduto da una prefazione di Giovanni Canzio, già Presidente della Suprema Corte di Cassazione, il volume, composto da un’introduzione, otto densi capitoli e una corposa bibliografia, si apre con una scorrevole ricognizione del processo penale italiano e, partendo dal dato di fatto che nell’ultimo trentennio in Italia sono stati registrati oltre trentamila casi di ingiusta detenzione, pone subito all’attenzione del lettore una cruciale domanda: da dove derivano questi errori? Per rispondere, Forza e Rumiati esaminano la complicata materia delle cause che conducono all’errore giudiziario, nella loro valutazione quasi sempre frutto di vizi investigativi determinatisi durante la raccolta delle prove, la cui erronea valutazione, il travisamento, mantengono la loro forza condizionante nella fase processuale. Concentrandosi sulla psicologia degli inquirenti, gli autori ribaltano così la corrente dottrina processuale penalistica, che di rado si sofferma sul soggettivismo degli operatori del processo. “Il dibattito sull’errore giudiziario – notano – è approdato solo di recente su un terreno più propriamente psicologico”, e non sono molti gli studiosi che “hanno cercato di ricondurre ai limiti e ai condizionamenti della psiche umana le cause di questi errori”. Sulla scorta delle più recenti evidenze delle scienze comportamentali, delle neuroscienze cognitive, della psicologia sociale, i capitoli successivi si soffermano poi sui meccanismi che presiedono alla registrazione e organizzazione dei dati nel nostro cervello, alla concettualizzazione della realtà fenomenica, ai sistemi intuitivo e razionale che governano (il primo infinitamente più del secondo) i processi mentali. È forse la parte più affascinante del saggio, con l’analisi delle “trappole cognitive” dell’Homo sapiens, l’esposizione dei concetti di bias (tendenze sistematiche della mente fondate su percezioni errate) e delle euristiche (strategie cognitive che tutti assumiamo inconsapevolmente), le scorciatoie del pensiero e la ricorrente e inconsapevole distorsione delle informazioni che assumiamo, la fallibilità della memoria e il fenomeno dei falsi ricordi, il ruolo e il peso delle intuizioni e delle emozioni nei processi decisionali, le illusioni percettive (“distorsioni della comprensione che avvengono attraverso i sensi o i pensieri che difficilmente riusciamo a modificare”), la sovrastima delle proprie abilità ed altro ancora: in generale, tutti quei fenomeni mentali, quegli automatismi psicologici che governano l’essere umano e determinano effetti – spesso drammatici – in ogni ambito sociale, com’è nel caso della giustizia penale. Concetti spiegati e presentati con l’ausilio di esempi sperimentali e il puntuale richiamo agli studi più aggiornati delle scienze cognitive. Un capitolo è inoltre dedicato alla psicologia degli inquirenti, con le insidie del “senso comune” e della “psicologia ingenua”, del “ragionamento causale” e della “correlazione illusoria”. Gli appassionati dell’arte del racconto e di semiologia troveranno poi di grande interesse la parte dedicata alla “narratività come modalità di pensiero”, con le varie teorie evolutive sull’abilità prettamente umana nello storytelling, poiché “l’investigazione altro non è che una verifica di ipotesi”, un “processo comunicativo” in cui essa può trovare conferma o confutazione. L’ultimo capitolo analizza i sistemi di intelligenza artificiale e gli strumenti di indagine predittiva che sempre più negli ultimi anni vengono impiegati nel corso delle indagini dalle forze di polizia, un utile aiuto ma anche un pericoloso strumento nei processi decisionali degli inquirenti, al quale bisogna porre dei limiti con opportuni interventi normativi, per adattare le indagini e le fasi dibattimentali “alle nuove tecnologie nel rispetto dei principi di trasparenza, della presunzione di non colpevolezza nonché del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio”. In definitiva, “i sistemi giuridici si fondano sul presupposto che la ragione e l’intelligenza umana rappresentino un sistema unitario, così come vuole il senso comune, e che il pensiero e la coscienza umana funzionino secondo un unico livello di consapevolezza”: niente di più distante dalla realtà. L’evidenza della ricerca scientifica, dopo decenni di esperimenti, attesta che siamo preda di pregiudizi, ragioniamo per schemi e per stereotipi, e che “la mente degli esseri umani è intimamente e naturalmente esposta a distorsioni” – e qui un appassionato di filosofia ricorderebbe gli idola, di Bacone. La nostra specie è incapace di prendere decisioni perfettamente e compiutamente razionali. Ci avvaliamo di una “razionalità limitata”, “siamo privi della consapevolezza dell’influenza dei bias cognitivi che si annidano nei processi mentali attraverso i quali si sviluppa la decisione”, in quanto generati sotto il livello di coscienza. Come tutti, gli inquirenti sono individui condizionati dagli errori sistematici e dalle irrazionalità umane, dunque gli autori auspicano “un rinnovato progetto culturale di ricostruzione dei modelli di formazione dei giuristi e, in special modo, delle figure professionali dell’investigatore e dell’inquirente” con particolare riguardo alle tecniche di debiasing (sviluppo della consapevolezza e depurazione dei bias cognitivi) ed educazione al pensiero critico. Siamo insomma davanti a un libro che affronta temi di estrema rilevanza, i cui approdi esondano l’ambito delle scienze forensi: ridurre il più possibile l’errore giudiziario è un obiettivo che ogni società civile e democratica deve perseguire, ma le conoscenze di base dei meccanismi e dei processi che presiedono al funzionamento della mente dovrebbero essere patrimonio di ciascuno, non da ultimo perché ci aiuterebbero nelle interazioni sociali e a capire noi stessi. Da questa lettura si esce certo arricchiti, ma anche con un malcelato senso di inquietudine, augurandosi di non incappare mai nelle maglie della giustizia. L'articolo Antonio Forza, Rino Rumiati / “Scienze cognitive e processo penale: un auspicabile incontro” proviene da Pulp Magazine.
Fred Vargas / Cimentarsi con l’iper-oggetto, o come far funzionare la società
Un iper-oggetto è un oggetto, oppure un evento, che si manifesta nel mondo in una molteplicità di forme che gli conferisce complessità tale da renderlo impossibile da percepire come un’unità finita e compatta. La categoria definita dal filosofo Timothy Morton si rivela particolarmente adeguata riguardo al complesso rapporto tra l’ambiente, le attività umane e il collasso. Una relazione fatta di economia, di politica, di sistemi di produzione, di società e di ecosistemi legati da una rete fittissima di reciproche relazioni in un gioco di influenze dove cessano di esistere i fenomeni isolati nella misura in cui ogni elemento che subisce una variazione genera una serie di cambiamenti a catena estremamente difficile da prevedere o anche solo da calcolare a posteriori. Fotografare l’iper-oggetto in questione con un solo grande quadro d’insieme, una ripresa a volo d’uccello, non è solo arduo, ma forse non è nemmeno utile. Gli angoli d’attacco sono innumerevoli e solo affrontandoli con metodo e precisione si può inquadrare la situazione. Quest’operazione la fa Fred Vargas che, dopo L’Umanità in pericolo, torna a uscire dal suo genere d’elezione per tornare a scrivere di argomenti urgenti quanto spinosi. Nel saggio Un nuovo modo di vivere Vargas affronta il problema società-ambiente-collasso da una prospettiva tanto ben definita quanto capillare nelle sue diramazioni: il petrolio e, in particolar modo, gli effetti di una sua eventuale fine sul nostro modo di vivere. In una società globalizzata che soprattutto grazie all’oro nero ha ridotto le distanze costruendo sul suo impiego più che massiccio i propri delicatissimi equilibri politici ed economici, la rottura di quello che l’autrice definisce l’asse finanziario-energetico, ovvero il meccanismo che rende conveniente l’estrazione petrolifera grazie a un ritorno energetico sostenibile in rapporto all’energia richiesta e ai costi, è un evento radicale dalla portata tanto ampia quanto profonda. Una rivoluzione che, se affrontata senza l’adeguata pianificazione, rischia di sconvolgere il funzionamento della società umana nella sua totalità con un prezzo tremendo da pagare in termini economici e umani. Parlando di dati, di fatti e di numeri, il discorso di Vargas poggia su fondamenta più che solide, il suo background scientifico viene fuori in tutto il suo rigore e le sue affermazioni non sono costruite sul nulla. Poi, se è vero che chi scrive non ha la preparazione adatta a valutare l’interpretazione dei dati, è vero che l’importanza di un libro, specie se di questo genere, non è data tanto dalle conclusioni a cui giunge quanto dalle domande che solleva e dall’attualità delle parole chiave attorno a cui aggrega i ragionamenti. Ed è qui che sta la forza di Un nuovo modo di vivere. Al di là delle previsioni dell’autrice, il senso del libro sta nell’individuare i meccanismi tanto basilari quanto poco conosciuti o considerati che fanno funzionare la società e quanto, alterandoli in una delle loro componenti fondamentali, la nostra vita di ogni giorno ne uscirebbe sconvolta. Il petrolio è una di quelle chiavi di volta che tengono insieme la dimensione storica e quella quotidiana e dalla trattazione di Vargas, costruita intorno a questa precisa consapevolezza, emerge il bisogno urgente, non più procrastinabile di una visione del futuro. Più di tutte è questa la parola chiave che emerge: futuro. La sua problematizzazione è necessaria e attuale, specie in un sistema in costante accelerazione un cui i problemi che non possiamo non affrontare ci arrivano addosso con una velocità pericolosamente alta. Vargas lo dice con la chiarezza che le conferisce la sua padronanza sulla scrittura che non ha bisogno di ulteriori presentazioni, unite a una narrazione rigorosa e priva di una certa retorica ambientalista che tende a romanticizzare e a moralizzare una questione che, al contrario, ha bisogno di un atteggiamento razionale e improntato a una stretta funzionalità. L'articolo Fred Vargas / Cimentarsi con l’iper-oggetto, o come far funzionare la società proviene da Pulp Magazine.