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Il nostro rifiuto della chiamata alle armi
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Negli stessi giorni in cui il parlamento europeo votava prima (26 novembre) per respingere le modifiche al piano di riarmo dei paesi UE, ammettendo in esso anche le cosiddette “armi controverse”, ossia le bombe all’’uranio impoverito, al fosforo bianco, i killer robot ed altri simili ordigni di sterminio e dopo (27 novembre), a larghissima maggioranza, per respingere il “piano di pace” di Trump perché “la pace non può essere raggiunta cedendo all’aggressore, bensì fornendo un sostegno risoluto e costante all’Ucraina e dissuadendo in maniera adeguata la Russia dal ripetere tale aggressione in futuro”, in quegli stessi giorni e sugli stessi temi Edgar Morin – 104 anni lo scorso luglio – scriveva alcune note, pubblicate in Italia su il manifesto e ytali. (28 novembre). Meritano essere citate, per segnare la pericolosa distanza tra chi ha lo sguardo lungo, lucido e libero e gli attuali decisori europei, insieme a gran parte dei media. “È con stupore” – scrive Morin – “che una parte degli umani considera il corso catastrofico degli eventi, mentre un’altra parte vi contribuisce con incoscienza. (…) La visione unilaterale dei media ignora che l’Ucraina è stata una posta in gioco fra l’impero americano e l’impero russo. Prima di Trump, gli Usa avevano satellizzato economicamente, tecnologicamente e militarmente l’Ucraina, la quale sarebbe stata una pistola puntata alla frontiera russa, se fosse passata sotto il controllo della Nato. I nostri media non soltanto sottolineano l’imperialismo russo, ma immaginano che questo potrebbe invadere l’Europa, laddove è peraltro incapace di annettere l’Ucraina in tre anni di guerra. (…) Invece che spingere i due nemici a negoziare, e a stabilire un compromesso sulle basi che ho appena menzionato [qui fa riferimento alle proposte del libro “Di guerra in guerra” del 2023], gli europei contribuiscono alla escalation. (…) Infine noi dobbiamo cercare di pensare la policrisi dell’umanità nelle sue complessità e nei suoi orrori, e dovremmo agire nelle incertezze, ma con l’intenzione di salvare l’umanità dalla autodistruzione”. Invece, nei giorni precedenti (21 novembre) il Capo di Stato maggiore francese, generale Fabien Mandon, parlando all’assemblea del sindaci francesi (merito dei militari è il parlare chiaro) aveva detto che devono preparare le rispettive città a “perdere i figli in guerra” ed anche “a soffrire economicamente perché la priorità deve essere la produzione militare”: solo così ci si prepara al prossimo conflitto armato con la Russia, che il documento strategico nazionale francese prevede tra il 2027 e il 2030. Per questo una settimana dopo (27 novembre) Macron ha annunciato che dalla prossima estate partirà per i giovani francesi il Servizio militare di leva, inizialmente su base volontaria, che sostituisce il Servizio Universale Nazionale che poteva essere anche civile. Per non essere da meno, anche il ministro italiano della difesa Crosetto ha annunciato il disegno di legge per istituire, con un ossimoro, una “leva militare volontaria” anche nel nostro paese, similmente a quanto sta avvenendo in Francia e in Germania (dove è già previsto che possa diventare obbligatoria), per reclutare almeno altri 10.000 giovani italiani come forza di riserva, in aggiunta ai 170.000 militari già nelle Forze Armate. Naturalmente, come evidenziato dalla recente ricerca del Censis, gli italiani sono fortemente contrari sia alla prospettiva di coinvolgimento bellico del nostro Paese, per questo nessuno evoca il ripristino tout court della leva militare obbligatoria, al momento sospesa, che non sarebbe pagante in termini di consenso elettorale. Però è evidente che, in tutta Europa, la direzione è quella di reclutare nuova massa per la guerra, ossia “carne da cannone” per “l’attacco preventivo” alla Russia che sta preparando la Nato, come esplicitato dal generale Cavo Dragone, presidente del Comitato militare dell’Alleanza atlantica (1 dicembre). Al quale bisogna rispondere con la storica formula: “Non un un soldo, né un soldato per la guerra”. Perché questo non sia solo uno slogan da cantare nei cortei pacifisti ma diventi azione politica, e non potendo dichiararsi formalmente obiettori di coscienza, è necessario sottoscrivere personalmente la dichiarazione di obiezione alla guerra, promossa dalla Campagna del Movimento Nonviolento che – mentre nella dimensione internazionale sostiene obiettori di coscienza e disertori di tutti i fronti delle guerre in corso – 1.500.000 ucraini sono considerati “ricercati” dai centri di reclutamento – nella dimensione interna promuove il rifiuto preventivo e individuale di partecipare a qualsiasi forma di preparazione della guerra, a cominciare proprio dal rifiuto della chiamata alle armi. È una campagna che risponde al compito che ci indica Morin per “salvare l’umanità dall’autodistruzione”, ma anche alle indicazioni di un altro saggio del ‘900, Norberto Bobbio, difronte alla precedente corsa agli armamenti: “Saremo i più forti se saremo uniti, se saremo solidali almeno su un punto essenziale: non vi è conflitto che non possa essere risolto con le armi della ragione, specie in questo mondo in cui a causa dell’interdipendenza di tutte le questioni internazionali, la violenza chiama violenza in una catena senza fine. Saremo i più forti se riusciremo ad ubbidire alla voce che nasce dal profondo del nostro animo e che ci suggerisce questo nuovo comandamento: Disarmati di tutto il mondo, uniamoci” (Il terzo assente, 1989). Per difenderci dalla guerra, anziché nella guerra. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano e su asqualepugliese.wordpress.com, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il nostro rifiuto della chiamata alle armi proviene da Comune-info.
Ali Abu Awwad, il Gandhi palestinese e il percorso della nonviolenza nel conflitto israelo-palestinese
> Ali Abu Awwad, soprannominato il Gandhi palestinese [1], è intervenuto lo > scorso 6 novembre all’Istituto del Mondo Arabo di Parigi, su iniziativa delle > “Guerriere della pace [2]”. Questo articolo riporta le parole di questo > “instancabile sostenitore della pace” e della giustizia, ancora troppo poco > conosciuto negli ambienti militanti e politici che prendono posizione sul > conflitto israelo-palestinese. > > Ali Abu Awwad è nato in Cisgiordania da una famiglia di militanti di Fatah, > sua madre era addirittura collaboratrice di Yasser Arafat. È stato > imprigionato più volte, in particolare nel 1993 insieme a sua madre. Entrambi > hanno allora iniziato uno sciopero della fame che ha portato al raggiungimento > del loro obiettivo. Questa esperienza lo ha condotto sulla via della > nonviolenza, alimentata da diversi incontri, nonostante la successiva morte di > suo fratello, ucciso dai proiettili dei soldati israeliani. Come si arriva alla nonviolenza dopo un passato di militanza nell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e la morte di suo fratello? Bisogna non solo non considerarsi una vittima, ma anche percepire l’umanità nell’altro. Ciò implica il riconoscimento dell’altro, punto di partenza indispensabile per costruire una soluzione. Questo riconoscimento richiede la comprensione dell’altro, delle credenze che fondano la sua identità. Ad esempio, i coloni non si considerano tali; allo stesso modo, gli attivisti palestinesi non si considerano terroristi, ma persone che rivendicano giustizia. Poiché queste identità non possono essere modificate, devono essere comprese e rispettate da entrambe le parti. D’altra parte, non è possibile riconoscere i comportamenti e le azioni commesse da entrambe le parti. Nessuno dei due protagonisti tollera tali azioni, ma non bisogna cadere nella vendetta. Ci sono quindi tre fasi per riconciliarsi con questi atti inaccettabili commessi dal proprio nemico: > 1) il riconoscimento reciproco del dolore che questi atti provocano > nell’altro; > > 2) un piano politico che traduca questo riconoscimento reciproco > dell’esistenza dell’altro (gli israeliani vogliono i palestinesi ma non la > Palestina e viceversa); > > 3) un movimento regionale di riconciliazione. Oggi il trauma è collettivo e gli israeliani rimangono molto aggressivi. Per far progredire il pensiero nonviolento, è necessario essere sul campo, vicini alla gente. Come il proprio nemico diventa una vittima? Ali Abu Awwad racconta che, quando faceva ancora parte dei vertici dell’OLP, ricevette una telefonata da un ebreo che, avendo appena perso il figlio ucciso da Hamas, gli chiese di accompagnarlo nel suo lutto. Sua madre accettò di ospitare quell’uomo: per la prima volta vide degli israeliani in lacrime venire da loro. Inoltre, in prigione, la sua esperienza dello sciopero della fame e gli studi che ha fatto durante gli anni di detenzione (perché, come molti palestinesi, ha imparato molto in prigione) gli hanno permesso di capire che la nonviolenza funzionava: se lui stesso vedeva gli israeliani come vittime, allora pensava che anche loro potessero vedere la sua umanità. Tuttavia, la sua vita non è facile: i palestinesi lo vedono come un traditore; gli israeliani come un “palestinese”. Oggi, infatti, ci sono due identità che non possono convivere, un po’ come i siamesi: hanno lo stesso corpo ma due teste, due menti. Ora, poiché i palestinesi non si rassegneranno a essere rifugiati e gli israeliani a partire, la soluzione è: > 1) riconoscere le due identità; > > 2) quindi istituire due Stati che coesistano senza subordinazione. Cosa pensa delle società occidentali e delle loro mobilitazioni? Bisogna innanzitutto riconoscere e ricordare che, sul campo, palestinesi e israeliani non sono uguali. Tuttavia, trasferire il conflitto in Francia tra ebrei e arabi/musulmani è inutile. Senza chiudere gli occhi su ciò che fa Israele, è meglio fare molta educazione senza respingere un palestinese se si è filoisraeliani, e viceversa. Infine, è necessario agire presso i governi e i politici affinché diventino partner di questa soluzione nonviolenta. Cosa significa essere un attivista per la pace in Cisgiordania e come combattere gli estremisti? Anche se la situazione in Cisgiordania non è paragonabile a quella di Gaza, è comunque molto difficile: Israele costruisce strade che aggirano i villaggi, che poi chiude dietro barriere dalle 17 in poi. Manca l’acqua, l’istruzione; è molto umiliante. Tuttavia, di fronte alla chiusura ideologica e securitaria degli israeliani, la risposta dei palestinesi non è né quella di rimanere nel loro angolo, né quella di rispondere con la violenza come fa Hamas. Comprendendo il carburante che sta dietro alle ideologie degli estremisti, è necessario affrontarle con un piano politico concreto basato sul metodo nonviolento. Più precisamente, occorre prendere in mano le comunità per influenzarle positivamente e creare un piano come alternativa politica con cose da guadagnare. Oggi, la gente avrebbe interesse a combattere i leader corrotti di entrambe le parti. Infine, le partnership internazionali sono importanti. RISPOSTE ALLE VARIE DOMANDE DEL PUBBLICO SU: La soluzione di uno Stato federato – AAA: Innanzitutto occorrono due Stati ben distinti. In realtà, esiste già una nazione/patria con due popoli: gli israeliani sono in Cisgiordania e i palestinesi vivono in Israele. Ma questi ultimi vivono in una forma di occupazione o subiscono discriminazioni. La perdita di fiducia degli israeliani dopo il 7 ottobre – AAA: in realtà, Israele imprigiona da tempo le persone che lavorano per la pace. Tuttavia, è certo che i Gandhi o i Luther King della regione non usciranno dalle file del governo israeliano o di Hamas e che bisogna avvicinarli con una strategia: combattere contro i corrotti. Il ruolo delle religioni nel conflitto – AAA: Si tratta di un conflitto dal valore religioso e non religioso. Inoltre, i palestinesi vogliono uno Stato laico, così come alcuni israeliani. Il problema religioso è quindi da ricercarsi in alcuni israeliani per i quali l’ebraismo è più di una religione: è un’identità politica. Tuttavia, alcuni religiosi (rabbini) sono favorevoli alla pace. È rimasto colpito dall’incontro con un rabbino israeliano che si è rifiutato di entrare nella casa di una famiglia di coloni che esponeva uno striscione con la scritta “La terra di Israele appartiene al popolo di Israele”; il rabbino ha persino risposto: “No, questo è inesatto e contrario ai testi biblici e al buon senso politico. Bisogna invertire la proposizione e dire: “Il popolo di Israele appartiene alla terra di Israele”, così come si potrebbe anche dire che il popolo palestinese appartiene a quella stessa terra”. Marwan Marghouti uscirà di prigione? – AAA: Marwan è un simbolo della Rivoluzione. Se uscirà di prigione, sarà un vantaggio. Ma se abbiamo un leader, è per governare uno Stato, non per fare la rivoluzione. Vogliamo un Paese per avere la pace. Gli accordi di Oslo hanno tralasciato la questione degli insediamenti e dei rifugiati. Due Stati consentono di affrontare entrambe le questioni. Note [1] Cfr. il sito che presenta le diverse azioni da lui avviate. [2] «Guerriere della Pace» è un movimento di donne impegnate per la pace, la giustizia e l’uguaglianza. Creato in Francia, riunisce donne di ogni origine e credo, in particolare ebree e musulmane. È stato candidato al Premio Nobel per la Pace 2025. -------------------------------------------------------------------------------- TRADUZIONE DAL FRANCESE DI THOMAS SCHMID CON L’AUSILIO DI TRADUTTORE AUTOMATICO. Rédaction France
Antonio Minaldi a Firenze: il potere o la liberazione
Antonio Minaldi ha concluso a Firenze il suo giro di presentazioni dei suoi libri. Qui allo Spazio Tutto e Uno ha dialogato con Gloria Germani e Giuliana Mieli sul suo ultimo libro Gandhi ad Auschwitz, elogio della nonviolenza (e sue problematiche) recentemente uscito con Multimage. Minaldi ha precisato subito che non si tratta di un testo su Gandhi ma piuttosto di quattro saggi scritti in momenti diversi che vogliono testimoniare il suo percorso biografico che lo ha portato da posizioni vicine alla lotta armata negli anni ’70 fino alla scelta etica della nonviolenza. Il problema del movimento rivoluzionario classico (marxista-leninista) era quello della presa del potere – ha continuato Minaldi nella sua esposizione – : prendendo il potere si poteva poi occuparsi di costruire l’uomo nuovo. Questo modello entra in crisi negli anni ’70, soprattutto grazie al movimento femminista, quando la questione si sposta sull’idea di liberazione: i gruppi di autocoscienza, la contestazione delle gerarchie maschiliste, la nonviolenza come principio etico. L’essere umano deve liberarsi individualmente e collettivamente per produrre una vera rivoluzione A partire da queste stimolazioni dell’Autore si è sviluppato un dibattito molto interessante tra i relatori e il pubblico sull’efficacia della nonviolenza, la visione dell’Essere Umano, la crisi attuale, la contrapposizione tra la visione orientale collettiva e quella occidentale individualista. Redazione Toscana
Proteggere il lupo cattivo
UN GRUPPO DI PERSONE APPASSIONATE DELLA NATURA E DEL LUPO HA SCRITTO UNA LETTERA APERTA DAL TITOLO “BASTA FAKE NEWS SUL LUPO” PER METTERE IN DISCUSSIONE L’IMMAGINE, ALIMENTATA DA INFONDATI ALLARMISMI, PERCEPITA DALLE PERSONE COMUNI CHE È UNICAMENTE QUELLA DEL LUPO CATTIVO. OCCORRE RIBADIRE UNA REALTÀ SEMPLICE, DICE LA LETTERA CHE RACCOGLIE INTERVENTI DIFFERENTI SOTTOSCRITTI DA DIVERSE ASSOCIAZIONI: IL LUPO È UN PREDATORE CHE, SE LASCIATO IN PACE, NON RAPPRESENTA ALCUN PERICOLO VERSO L’ESSERE UMANO PERCHÉ NON È CONCEPITO DAL LUPO COME UNA POSSIBILE PREDA. “È TEMPO DI ABBANDONARE L’IMMAGINARIO DEL LUPO MANGIATORE DI NONNE E BAMBINE INDIFESE CHE DEBBONO ESSERE SALVATE DALL’UOMO ARMATO DI FUCILE E RACCONTARE AI BAMBINI ALTRE VERSIONI E ALTRE STORIE – SCRIVE BRUNA BIANCHI, TRA LE AUTRICI DELLA LETTERA APERTA – CHE LI AIUTINO NON GIÀ AD ACCETTARE L’UCCISIONE, MA CHE PARLINO DI RISPETTO E AMMIRAZIONE, CHE ALLARGHINO LA MENTE E IL CUORE, COME LE STORIE TRATTE DALLA RICCA TRADIZIONE DELLA CULTURA DEI NATIVI AMERICANI E DEGLI ESQUIMESI, O COME LA FIABA CHE LEV TOLSTOJ SCRISSE NEL 1908, IL LUPO…”. A PROPOSITO, CONOSCIAMO QUELLA FIABA? Unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- “Gentilissimi tutti, con la presente, in qualità di esperti e cittadini impegnati da tempo per un corretto rapporto fra fauna selvatica e attività umane, desideriamo proporre elementi di necessaria considerazione perché sia fornita all’opinione pubblica un’equilibrata e obiettiva informazione sul lupo scevra da sensazionalismi ed elementi privi di riscontro scientifico.  Negli ultimi anni, la comunicazione messa in atto da molti giornalisti si è dimostrata totalmente priva di nozioni scientifiche, e al contempo colma di inesattezze, nonché di notizie non corrispondenti al vero, basti vedere gli innumerevoli articoli nei quali si parla di fantomatiche reintroduzioni del lupo, quando in realtà, la sua espansione è frutto solo ed esclusivamente di dinamiche naturali, o ai tantissimi casi di cani lupi cecoslovacchi che vengono puntualmente spacciati per lupi, o ai tanti testi filo-allarmistici corredati da titoloni a lettere cubitali “Allarme lupi”, “ALLARME! Lupi avvistati in zone urbane, LA GENTE HA PAURA” , e così via. Crediamo fermamente che ci sia bisogno di una comunicazione basata sulla consapevolezza e sul rispetto, sia nei confronti di un animale selvatico che è, a tutti gli effetti, un componente fondamentale per l’equilibrio ecosistemico, e sia nei confronti degli utenti che, invece di imparare, ricevono e assorbono questi scritti in maniera totalmente sbagliata e nociva, l’immagine che viene percepita dalla collettività è unicamente quella insana del lupo cattivo e non per quello che è realmente, un predatore ma che, se lasciato in pace, non rappresenta alcun pericolo verso l’essere umano, in quanto quest’ultimo non è concepito dal lupo come una possibile preda. -------------------------------------------------------------------------------- “Negli ultimi tempi assistiamo a una crescente diffusione di notizie allarmistiche sui lupi, spesso prive di un reale fondamento scientifico e basate su episodi decontestualizzati. Titoli sensazionalistici e immagini di lupi avvistati vicino ai centri abitati generano paure infondate tra i cittadini, contribuendo a una percezione distorta della realtà. I lupi, come confermato da studi scientifici e dagli enti di tutela della fauna, non rappresentano un pericolo per l’uomo. Sono animali schivi, il cui ritorno nei nostri territori è segno di un ecosistema più sano. L’aumento degli avvistamenti è dovuto, oltre alla maggiore disponibilità di cibo, anche alla diffusione di fototrappole, videocamere di sorveglianza e smartphone, che permettono di documentare situazioni che in passato passavano inosservate. Inoltre, il disturbo causato da alcune attività umane – come la caccia, il taglio indiscriminato dei boschi, la frammentazione degli habitat e il consumo di suolo – li costringe sempre più spesso a uscire allo scoperto e ad avvicinarsi ai centri abitati. Partecipare agli eventi organizzati da esperti, associazioni di volontari, guardie ecologiche e polizia locale addetta alla fauna selvatica aiuta a conoscere meglio la biologia del lupo. Ad esempio, un aumento degli avvistamenti si registra nei primi mesi dell’anno, quando i giovani lupi in dispersione, non trovando un territorio libero, si avvicinano temporaneamente alle attività umane. Questa fase è naturale e transitoria: come arriva un giovane lupo, così se ne andrà, talvolta nello stesso giorno o nel giro di poche settimane. A queste considerazioni, si unisce la mia diretta esperienza sul campo e di tanti altri che vivono i territori selvatici Come ricercatore e fotografo naturalista da oltre 40 anni, posso affermare con certezza: i lupi non sono un pericolo per noi umani. Pur entrando spesso nei loro territori, non ho mai avvertito la minima sensazione di essere attaccato, anzi mi sono sentito io l’intruso. Al contrario, il mio unico timore deriva da alcuni animali umani, in particolare coloro che svolgono l’attività venatoria (legale e illegale). L’incontro con cacciatori o pescatori illegali, anche in aree protette, in qualsiasi periodo dell’anno, è ciò che realmente mi spaventa e mi fa sentire in pericolo mentre attraverso i boschi e i sentieri del nostro bel Paese. Per questo motivo, invitiamo gli addetti stampa e i giornalisti a consultare esperti locali o nazionali di fauna selvatica prima di pubblicare notizie allarmistiche. Questi professionisti saranno lieti di fornire informazioni corrette, consentendo di realizzare articoli basati su dati scientifici. Chi legge saprà apprezzare nel tempo un’informazione responsabile e affidabile. La protezione dell’ambiente, e quindi anche dei lupi, dipende molto dalla qualità dell’informazione diffusa dai giornali, dai siti web, dai social e da tutti i media. Attenersi ai fatti e rispettare l’articolo 9 della Costituzione italiana, che sancisce la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi, non è solo un dovere professionale, ma un atto di responsabilità verso le future generazioni. Chiediamo ai media e ai politici di trattare l’argomento con maggiore attenzione, consultando esperti e diffondendo informazioni corrette. Creare allarmismo non solo danneggia la percezione di questa specie protetta, ma alimenta tensioni inutili tra cittadini e istituzioni” (Antonio Iannibelli – Fotografo naturalista, guardia ecologica volontaria, studioso di lupi) -------------------------------------------------------------------------------- “La paura del selvatico, in questo caso del lupo, non è biologica, ma culturale. Ovvero non appartiene alla nostra storia bio-evolutiva di animali umani, ma da una cultura oscurantista lunga secoli se non millenni, che oggi è il caso di lasciare all’oblio del tempo. Diversamente da quanto narrato infatti, i nostri antenati preistorici non vivevano nella paura, ma nell’animalità, cioè avevano piena conoscenza del mondo naturale. Noi a quel modo di percepire e vivere il mondo dobbiamo, anzi abbiamo l’obbligo etico, di riferirci. Per questo la conoscenza dei lupi, ma anche di altri selvatici, dovrebbe essere quasi scuola dell’obbligo. Invece delle inutili ore di religione o educazione fisica, andrebbero introdotte nelle scuole ore di educazione all’animalità. In questo senso anche i media possono, devono, fare la loro parte, evitando di seminare terrore antiscientifico, ma invece spronando a conoscere, ad usare un ragionamento scientifico, a tornare ad una logica animale che noi tutti possediamo dalla nascita, ma che ignoriamo, dimentichiamo, neghiamo. I lupi rappresentano un valore, soprattutto in questi tempi oscuri, un valore per l’ambiente, per la biodiversità, per la società”. (Francesco De Giorgio – Etologo antispecista. Presidente di Sparta Riserva dell’Animalità)  -------------------------------------------------------------------------------- Per tutti i motivi sopra riportati, riteniamo che sia di fondamentale importanza, soprattutto in un momento così critico e nefasto per la fauna selvatica, che i giornalisti si avvalgano di quel principio fondamentale chiamato etica, e che si adoperino in una comunicazione sana ed equilibrata, come deontologia comanda, onde evitare allarmismo, isteria collettiva e gente che si sentirà legittimata ad agire con metodi subdoli e irrispettosi delle leggi vigenti. -------------------------------------------------------------------------------- “Il Lupo (Canis lupus) è tutelato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 12 della Direttiva n. 92/43/CEE sulla salvaguardia degli habitat naturali e seminaturali, la fauna e la flora, rientrando negli allegati II e IV, lettera a) ed è specie particolarmente protetta ai sensi dell’art. 2 della legge n. 157/1992 e s.m.i. È, inoltre, tutelato in quanto presente nell’Allegato II della Convenzione internazionale relativa alla conservazione della vita selvatica e dell’ambiente naturale in Europa (Berna, 19 settembre 1979), esecutiva in Italia con la legge n. 503/1981. L’uccisione di un esemplare di Lupo è sanzionata penalmente dall’art. 30 della legge n. 157/1992 e s.m.i., in caso di uccisione da parte di soggetto privo di autorizzazione alla caccia può integrare anche il reato di cui all’art. 625 cod. pen. (furto aggravato ai danni dello Stato). La diffusione di notizie false o tendenziose riguardo il Lupo può integrare gli estremi dell’art. 656 cod. pen., mentre il procurato allarme può integrare gli estremi previsti nell’art. 658 cod. pen.” (Gruppo d’Intervento Giuridico Onlus – Associazione ambientalista)  -------------------------------------------------------------------------------- “Ultimamente, affrontare serenamente il tema legato alla tutela della Natura, sembra essere un’ impresa davvero ardua; ci si siede un attimo, si accede ai social con la speranza di estraniarsi da tutte le notizie nefaste inerenti alle guerre, ai femminicidi, alla criminalità che, ormai, ha raggiunto livelli inenarrabili, agli innumerevoli fatti di cronaca nera che purtroppo vedono coinvolti anche tantissimi bambini, e ci si trova, invece, a essere letteralmente bombardati da articoli sul lupo, o meglio, contro il lupo, un continuo martellamento che ha la funzione di una vera e propria coercizione cognitiva, lupi descritti come demoni enormi e cattivi, lupi onnipresenti e famelici, lupi, e ancora lupi… Essendo un’assidua frequentatrice di boschi, sinceramente, non ho mai riscontrato pericolosità negli animali selvatici che, nella maggior parte delle volte, si sono dimostrati elusivi, schivi e non interessati alla mia persona, anzi, mi è capitato, più e più volte, di vederli scappare via non appena si fossero resi conto della mia presenza; fortunatamente, la comunicazione fuorviante messa in atto da molte testate giornalistiche, non mi ha portata a rinunciare alla mia passione: conoscere, studiare e difendere la Vita selvatica. Oggi come oggi, in un mondo reale davvero violento, è necessario che ogni testata giornalistica si esprima in rispetto di tutti gli utenti che, come me, desiderano essere informati in maniera corretta, e non resi “schiavi” di paure ataviche e ingiustificate. Credo fermamente che sia doveroso, da parte di chi gestisce le testate giornalistiche sui social, intervenire tempestivamente onde alienare e condannare i commenti di tutti coloro che istighino al bracconaggio, o che, in qualche maniera usino un linguaggio offensivo e irrispettoso, anche questi sono forme di violenza a tutti gli effetti che vengono percepite, e assorbite, da tanti minorenni lasciati, purtroppo, da soli davanti a un cellulare, o a un PC che sia, c’è davvero bisogno di una comunicazione costruttiva e istruttiva, la prepotenza e sopraffazione non devono essere tollerabili, è innegabile che una comunicazione faziosa e fuorviante sia causa di comportamenti scellerati, e persino di atti illeciti; camminate tranquillamente nei boschi, ma prestate attenzione agli esseri umani che sono soliti lasciare montagne di rifiuti, appiccare incendi, a commettere altri gravissimi reati , e queste pratiche non appartengono di certo alla fauna selvatica che, se lasciata in pace, non rappresenta fonte di pericolo, basta rispettare alcune regole come quella di non dare cibo, non inseguire, non disturbare, non avvicinarsi, e tenere i nostri cani al guinzaglio, per il resto, Viva il lupo! (Daniela Stabile – Attivista/volontaria, appassionata di fauna selvatica, ma prima di tutto un’utente che respinge fortemente gli attacchi incessanti alla propria mente, e al lupo)  -------------------------------------------------------------------------------- “Chi ha paura del lupo?” IO VOGLIO MOLTO BENE AL LUPO, poiché è il migliore amico del nostro popolo; oltre a ciò, egli ulula alla luna e per questo motivo ci dona gioia. Mi piace, come lui parla con noi. Il lupo è realmente il nostro migliore fratello. Egli ulula di notte, e noi ce ne rallegriamo. Fa un bel suono Il suo modo di ululare. (Recheis-Bydlinski, Sai che gli alberi parlano?, 2011, p. 100). Così ha scritto un bambino di nove anni in una delle “scuole di sopravvivenza” fondate negli anni Settanta del Novecento per i nativi americani. Lì Eddie Jaye Benton ha potuto conservare una cultura millenaria di ammirazione, rispetto, reverenza per ogni creatura vivente, in particolare per il lupo, l’animale che nella cultura occidentale è stato demonizzato, torturato e perseguitato per secoli con un accanimento che non ha eguali. Un tale rovesciamento completo di civiltà oggi sta raggiungendo il suo apice. L’immagine demoniaca del lupo, predatore insaziabile che non risparmia gli umani, riemerge con insistenza nei media. Perché questa irresponsabile campagna di denigrazione basata su disinformazione, immaginari antichi, fantasie di invasione e sull’idea di un nemico irriducibile con il quale la convivenza è impossibile e la cui sola esistenza è pericolosa? Chi la fomenta e a chi giova? Da dove proviene, in particolare la rabbia degli allevatori, come quella suscitata da un disegno infantile, apparso sul “Diario amico” , una pubblicazione distribuita nelle scuole del Verbanio Cusio Ossola, che ritrae mucche in atteggiamento di protesta contro il loro sfruttamento, invita a mangiare frutta e verdura, osa dire la verità, ovvero che gli allevamenti sono crudeli? A far esplodere la rabbia sono state alcune frasi di una bambina di 12 anni scritte a corredo del disegno, eppure, del “Diario amico” si è chiesta la soppressione e la questione è stata portata al Parlamento. È “l’ideologia vegan-animalista”, a parere della CIA-Agricoltori delle Alpi, a dover essere bandita dalle scuole, una “ideologia” che descrive il bosco (la natura, la vita) come un luogo dove si possono incontrare “simpatici animali”, ma in cui si annida il predatore. La paura è sempre stato il mezzo privilegiato per esercitare il dominio specie sull’infanzia, ma bambini e bambine, come antidoto alla paura hanno la risorsa della compassione, si identificano istintivamente con l’animale sfruttato e maltrattato e, a differenza di tante persone adulte, non sono inclini all’apatia e all’indifferenza. La compassione può essere offensiva solo in un mondo dominato dalla violenza, da una visione della vita come teatro di lotta, guadagno e affermazione di potere. E dovremmo dire loro anche che gli animali sono oggetti, che esistono solo per la nostra utilità? Si possono uccidere per svago o per nutrirsene, anche se non è per noi una questione di sopravvivenza? Non è del lupo che dobbiamo avere paura, ma di questa volontà di soffocare anche il più piccolo segno di protesta che non esita a ricorrere all’intimidazione dell’infanzia, comportamento ben poco onorevole. I messaggi rivolti all’infanzia, infatti, sono in misura crescente rivolti all’uccisione: è giusto nutrirsi di animali tormentati e uccisi, è doveroso accettare la guerra, è un piacere la caccia, il tutto ammantato di false teorie e distorsioni. È tempo di abbandonare l’immaginario del lupo mangiatore di nonne e bambine indifese che debbono essere salvate dall’uomo armato di fucile e raccontare ai bambini altre versioni e altre storie che li aiutino non già ad accettare l’uccisione, ma che parlino di rispetto e ammirazione, che allarghino la mente e il cuore, come le storie tratte dalla ricca tradizione della cultura dei nativi americani e degli Esquimesi, o come la fiaba che Lev Tolstoj scrisse nel 1908, Il lupo, in cui il romanziere e autore influente di pedagogia antiautoritaria suggerisce ai bambini di rinunciare all’alimentazione carnea e coltivare un rapporto con la natura improntato alla nonviolenza.  Invece di dare risonanza a infondati allarmismi, di far risuonare l’eterno grido “Al lupo! Al lupo!”, la stampa potrebbe avere un ruolo importante nel contrastare la spirale della violenza: raccogliere e diffondere voci diverse e tratte da diverse fonti, ad esempio dando conto di quelle ricerche che hanno dimostrato come la riduzione del numero dei lupi non incida che in percentuale minima sull’uccisione di pecore e bovini, o quelle che hanno accertato che i lupi isolati, senza il supporto di un branco decimato dalla caccia, non possono che rivolgersi agli animali domestici. E in altri mille modi che la sensibilità e l’informazione rigorosa di giornalisti e giornaliste potranno suggerire loro”. (Bruna Bianchi – Docente di Storia delle donne e Storia del pensiero politico all’Università Ca’ Foscari di Venezia, studiosa del pacifismo, del femminismo e della nonviolenza, scrive costantemente su Comune) -------------------------------------------------------------------------------- Con la speranza che si possa intraprendere un cammino davvero istruttivo, e certi di un’ ampia collaborazione da parte dei signori giornalisti affinché il lupo, la fauna selvatica, e gli stessi esseri umani, smettano di essere strumentalizzati, porgiamo i nostri più cordiali saluti. Le parti scriventi: Bruna Bianchi, Daniela Stabile, Stefano Deliperi, Antonio Iannibelli, Francesco De Giorgio, Sottoscrivono il testo le seguenti associazioni: AVC Associazione Vittime Italian Wild Wolf Network, Gruppo D’ Intervento Giuridico, Sparta Riserva Dell’ Animalità, CABS Italia, l’antibracconaggio  -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI BRUNA BIANCHI: > I lupi, la caccia, la guerra -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Proteggere il lupo cattivo proviene da Comune-info.
Sui nuovi mondi
SI POTREBBE COMINCIARE DA QUELLE COMUNITÀ CHE, TRA INEVITABILI FRAGILITÀ, COSTRUISCONO RELAZIONI SOCIALI DIVERSE NELLA VITA DI OGNI GIORNO, NEI PICCOLI PAESI COME NELLE CITTÀ. ENZO SCANDURRA HA INSEGNATO URBANISTICA PER OLTRE QUARANT’ANNI: IL SUO INVITO A METTERE AL CENTRO IL FARE DI QUELLE ESPERIENZE CHE CERCANO NUOVI MONDI TRA MUTUO SOCCORSO E DEMOCRAZIA COMUNITARIA, È ACCOMPAGNATO DA ALCUNE DOMANDE. COME APRIRE UNA DISCUSSIONE SU UN CONCETTO ABBANDONATO, IL SOCIALISMO, IN ITALIA? SIAMO IN GRADO DI ALLONTANARCI DA INUTILI RIUNIONI E LITI SU LEADER E FORMAZIONE DI NUOVI ALLEANZE? E SE RINUNCIASSIMO A QUESTO PER VIVERE “COME SE”, COME SE IL SOCIALISMO FOSSE GIÀ PRATICATO? QUESTE E ALTRE DOMANDE HANNO PERÒ BISOGNO DI UN ÀNCORA: “MOLTI DI QUELLI CHE PARLANO DI SOCIALISMO COL SOLITO LINGUAGGIO, CON QUEL TRABOCCHETTO CHE AFFERMA CHE NON HANNO IMPORTANZA I MEZZI ATTRAVERSO I QUALI SI RAGGIUNGE QUESTO FINE, SARANNO COLORO I QUALI, CAMBIANDO SISTEMA, IL SOCIALISMO LO OSTACOLERANNO… NON SI PUÒ PRATICARE LA VIOLENZA PER COSTRUIRE UN MONDO DAL QUALE SI VUOLE ESPELLERLA” San Michele Salentino. Foto di Attacco Poetico -------------------------------------------------------------------------------- C’è un dibattito sul socialismo a venire? Ben venga in questo Paese anestetizzato, dalla coscienza atrofizzata, dalla mancanza di qualsiasi stupore per ogni cosa. Come sempre, si scontrano diverse analisi e visioni; tutte partono dal rifiuto di come va il mondo adesso, delle guerre, delle mediocri personalità che ci governano, delle disuguaglianze, delle ingiustizie, delle sopraffazioni, delle miserie e della crisi climatica che ci minaccia; insomma dal rifiuto del capitalismo e dell’ideologia neoliberista che rischia di trasformare il pianeta in un deserto. Eppure mi sento a disagio a parlare di questo tema in termini teorici: quale socialismo; quando il socialismo? Anziché immergerci in queste dotte analisi e pensieri, compito spropositato, preferirei pensare alla vita quotidiana delle tante piccole comunità disseminate un po’ ovunque, che senza parlare direttamente del tema, lo vivono con il proprio corpo, le fatiche del vivere, i piccoli conflitti, la gioia di fare insieme e di cenare insieme, l’amicizia, l’amore per le cose e la natura. Non è forse questo il socialismo? Oppure mi sbaglio? Penso a quel bel quadro di Pellizza da Volpedo e ci sembra che in esso, nelle sue figure ottocentesche, ci sia l’immagine del socialismo. Piuttosto che cercarlo nelle teorie, si potrebbero osservare queste comunità, la vita in piccoli paesi quasi abbandonati, il ritorno a pratiche di vita desuete, a un’economia che non abbia il fine del profitto, ma la produzione di beni materiali necessari alla vita quotidiana (La Restanza di Vito Teti). Lo sguardo della sinistra dovrebbe ruotare di 180 gradi e rivolgersi verso queste comunità e il loro modo di vita. Si impara solo spingendosi ai limiti per inoltrarsi su sentieri nuovi, mai praticati. Abbandonare le inutili riunioni, gli stanchi dibattiti, le liti nella sinistra, il leaderismo, la ricerca del Capo, la formazione di nuovi schieramenti e lasciarli soli questi politici, che si azzuffino pure per futili motivi, per contendersi qualcosa di cui non abbiamo bisogno. Senza il nostro riconoscimento essi sono personaggi inutili, senza alcun potere, persino ridicoli. E se appunto rinunciassimo a tutto questo e decidessimo di vivere “come se”, come se il socialismo fosse già praticato? E se ci immergessimo, noi non più giovani, in questo nuovo mondo di resistenza (femminismo, movimenti giovanili, studenti, ecc.)? Bisogna partire da se stessi, rinunciare al dover essere, al presidenzialismo, ai propri privilegi perché se uno sta più bene degli altri, ci saranno sempre quelli che stanno meno bene di lui. E rinunciare al dominio del patriarcato che affiora anche ai livelli istituzionali (vedi Nordio, Roccella). Partiamo dalle città, i luoghi dove vive e lavora la maggior parte delle persone (destinate a crescere nel tempo). Nulla ci impedisce di pensare (come già immaginava Murray Bookchin) che esse possano diventare “culle di comunità”, dove gli abitanti sono legati da vincoli comunitari e dove la solidarietà e la convivenza ne sono i requisiti fondamentali. Oggi siamo ben lontani da questa situazione, il capitalismo e l’ideologia neoliberista stanno trasformando le nostre città in luoghi di disperazione, di solitudine, di una guerra silenziosa tra ricchi e poveri. In primo luogo, bisogna abbandonare l’idea di metropoli, quel non-luogo di flussi e merci devastatore di territori e luoghi. Perché le persone abitano i luoghi fisici e non i flussi. Ma se si vogliono salvare le città (“Non si salva il pianeta se non si salvano le città” è il titolo di un bel libro di Giancarlo Consonni), bisogna ridefinire il concetto di democrazia, ovvero il suo perno fondamentale che consiste nella (crisi della) rappresentanza. Una democrazia reale si fonda sul volere/potere dei cittadini che si organizzano in comunità che, in quanto tali, prendono decisioni sull’organizzazione della propria vita; in sostanza comunità autogovernanti e di mutuo soccorso. Esperienze di tal genere si sono realizzate anche in Italia, purtroppo, in situazioni di emergenza come a L’Aquila (post terremoto), e durante l’epidemia di Covid. Una comunità non è un semplice aggregato di individui, afferma Debbie Bookchin (vedi Pratiche urbane e alleanze dei corpi, ne il manifesto del 20.11.2025): “una forma di organizzazione che chiamiamo comunitarismo. Si tratta di un progetto profondamente educativo in cui ci riappropriamo del senso di solidarietà e impariamo di nuovo ad autogovernarci”. Perché è proprio dalle città che nascono e si moltiplicano movimenti antagonisti al potere autocratico, come recentemente avvenuto a New York. Le città sono diventate fiere futili di eventi, di spettacoli, di turisti mossi dall’ansia di consumare, di rapine da parte di fondi immobiliari stranieri e non che le spolpano di ogni ricchezza e bellezza. Ma tanto più diventano prigioni per motivi di sicurezza, tanto più crescono movimenti antagonisti, per ora isolati, silenziosi, afoni. Casematte di un possibile risveglio? Esempi virtuosi di un altro mondo? È sufficiente questo? No, credo di no. Bisogna anche impegnarsi a cambiare i nostri governanti, a combattere per sostituirli con rappresentanti più onesti e capaci. Ma solo a partire dalle esperienze di questi nuovi mondi inascoltati e invisibili dalla politica, senza le quali ogni rinnovamento diventa impossibile. C’è poi il problema delle istituzioni; quelle in cui riponevamo la nostra fiducia non esistono più. Il neoliberismo si è mosso nella direzione di neutralizzarle: governi che decidono senza parlamenti, leggi che stanno per introdurre il presidenzialismo (leggi: fascismo), aggiungiamo il tentativo di eliminare i sistemi di controllo internazionali e quelli nazionali (Corte dei Conti, Banca d’Italia, magistratura). Difficile quindi contare in esse, piuttosto ci si dovrebbe interrogare su come risanare e rafforzare le “vecchie istituzioni” (Onu), e al tempo stesso crearne di nuove sovranazionali per affrontare problemi nuovi, sconosciuti in altre epoche, per esempio quelli connessi alla minaccia climatica (Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra; Progettare il futuro. Per un costituzionalismo globale). Crediamo però che molti di quelli che parlano di socialismo col solito linguaggio, con quel trabocchetto che afferma che non hanno importanza i mezzi attraverso i quali si raggiunge questo fine, saranno coloro i quali, cambiando sistema, il socialismo lo ostacoleranno, come già accaduto nella storia. Non si può praticare la violenza per costruire un mondo dal quale si vuole espellerla. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTA INTERVISTA A STEFANIA CONSIGLIERE: > Perché è difficile riconoscere mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Sui nuovi mondi proviene da Comune-info.
Educazione all’affettività e scelta nonviolenta
MA COME PUÒ ESSERE POSSIBILE AFFRONTARE IN PROFONDITÀ LA QUESTIONE DELL’“EDUCAZIONE SESSUOAFFETTIVA”, CIOÈ IL MODO CON IL QUALE COSTRUIAMO RELAZIONI, ACCETTANDO CHE SI POSSANO SOSTENERE STRATEGIE CHE CONTEMPLINO L’USO DEL DOMINIO E DELLA REPRESSIONE DI ALTRI ESSERI UMANI NELLE CARCERI, NEI CENTRI DI DETENZIONE PER MIGRANTI, APPOGGIANDO GUERRE? COME POSSIAMO IMMAGINARE DI INTRAPRENDERE STRADE DIVERSE SE NON ABBIAMO CHIARO CHE, PROPRIO SUL TERRENO EDUCATIVO, MOLTO DISCENDE DA UN SISTEMA PATRIARCALE CHE HA FATTO DA SOTTOFONDO A TANTE VISIONI DEL MONDO? “ECCO IL PUNTO. INCAMMINARSI PER LA STRADA, PESANTE, DIFFICILE, PIENA DI CONTRADDIZIONI, DELLA NONVIOLENZA, ANCHE SU QUESTO TERRENO, SE VOGLIAMO SPERARE CHE I CONTI POSSANO ALMENO IN PARTE TORNARE – SCRIVE MIMMO CORTESE, PRENDENDO SPUNTO DA UN INTERVENTO DI CHRISTIAN RAIMO – LADDOVE LE RELAZIONI, CHE SPESSO BORDEGGIANO TRA L’URTO E LA DEFLAGRAZIONE, NON PRENDONO LA FORMA DELLA DISTRUZIONE O DEL DOMINIO SU CHI HAI DI FRONTE…” Foto MòMò Murga di Andria -------------------------------------------------------------------------------- Qualche giorno fa, Christian Raimo, ha scritto un post interessante sulla questione “educazione sessuoaffettiva”. Raimo mette al centro il desiderio e “tutto il casino che porta con sé” da quando si è piccoli adolescenti fino alla più tarda età. “Questo genere di questioni – dice Raimo – riguardano il ragazzino che si fa le seghe in classe perché non riesce a controllarsi, la storiella tra una ragazzina musulmana e il coatto con le famiglie dei due che vogliono fare una strage (…) la ragazzina che a 16 anni è innamorata del tipo che ce n’ha 22 e che è rimasta incinta e vuole lasciare la scuola e andare a vivere con lui, quello che si vuole ammazzare perché la ragazza l’ha mollato (…) il prof che fa i complimenti alle sue studentesse 15enni quando si mettono scollate, il ragazzino brufoloso e isolato che non se lo fila nessuno e che da quando si è dichiarato a una sua compagna viene trattato come la merda da tutti…”. Non mi capita molto spesso di essere d’accordo con le posizioni di Raimo. Tuttavia questo testo mette al centro i nodi veri della questione. Sono le contraddizioni con le quali non solo i bacchettoni fasciobigotti e oltranzisti di questo governo non vogliono misurarsi affatto ma che anche un pezzo di mondo laico, riformista, progressista, di sinistra (radicale o moderata che sia) affronta raramente, entrandovi nel cuore. Per ognuna delle situazioni srotolate da Raimo l’esito, il bivio, a un certo punto, è sempre quello: come mettersi in relazione con chi ti sta accanto, con chi hai di fronte, in particolare quando si manifestano attrazione, o repulsione, per le azioni, le scelte, i comportamenti di queste persone. Quando, e perché, scattano (con l’acclarata e indiscutibile preminenza nei maschi) la spavalderia, o la coercizione, l’imposizione. E, dall’altro lato, come reagire ai tentativi di sottomissione, di annientamento, di annichilimento. Con una violenza maggiore, rinunciando, soccombendo, oppure in altri modi? Il confine tra fare la cosa giusta e quella sbagliata è molto spesso un foglio trasparente di carta velina, e può bastare un nonnulla per lacerarla, oltrepassando quella soglia tra noi e l’altro, violando corpi e fragili trame di esistenze. Spessissimo, proprio stare nell’incertezza, nella contraddizione, appesi per una manica a un ramo traballante, caduchi sopra il vuoto, può farci individuare punti d’appiglio, possibilità inimmaginate, forze ed energie nascoste. Ma come può essere possibile anche solo abbozzare una questione così importante se accettiamo che si possano sostenere strategie che contemplino l’uso del dominio, della repressione e della sopraffazione verso altri esseri umani, dai luoghi vicini – carceri, centri di detenzione per migranti, oppure nella propaganda armata dei nostri militari nelle scuole di ogni ordine e grado – fino al sostegno politico, economico e militare di qualsivoglia causa che abbia scelto le armi e la guerra per imporsi o per difendersi uccidendo, terrorizzando? Come potremo mai essere credibili agli occhi di quei ragazzi e quelle ragazze se pensiamo e sosteniamo che la violenza, la sopraffazione, l’assassinio – singolo o generalizzato che sia – siano pratiche in qualche misura possibili. Dicendo magari loro che noi, comunque, distribuiremo eventualmente violenza… con parsimonia, con moderazione, picchieremo e assassineremo meno di quanto non facciano i cattivi di turno, solo un pochino, solo per il tempo necessario, solo per una giusta causa. Come possiamo immaginare di intraprendere strade diverse se non abbiamo chiaro che, proprio sul terreno educativo, molto discende da un sistema patriarcale che ha fatto da sottofondo e da trasversale fondamento a visioni del mondo, culti, religioni, filosofie, ideologie e soprattutto concezioni del potere e dell’azione politica di una parte enorme dell’umanità nella sua storia. Che le rotture di questa terrificante e secolare temperie sono avvenute principalmente per l’elaborazione teorica e pratica di una grande parte del femminismo e del lungo cammino percorso dall’azione e dalla lotta nonviolenta. Ecco il punto. Incamminarsi per la strada, pesante, difficile, piena di contraddizioni, della nonviolenza, anche su questo terreno, se vogliamo sperare che i conti possano almeno in parte tornare. Laddove le relazioni, che spesso bordeggiano tra l’urto e la deflagrazione, non prendono la forma della distruzione o del dominio su chi hai di fronte, su chi è diverso da te, sulla persona che la tua immaginazione travolge nel desiderio ma trovano un terreno comune, condiviso, nel quale riconoscersi, come ad esempio ha illustrato tutto il lavoro e la ricerca di studiose come Pat Patfoort. Conflitti che, per questa via, diventano motore autentico di trasformazione. Laddove anche il linguaggio – un ambito e uno strumento fondamentale nella vita de3 ragazz3, luogo, per loro, di creatività, rinnovamento e metamorfismo – non può essere piegato alla propaganda del bellicismo blustellato neonazionalista e neoliberista, all’ipocrisia degli intellettuali e giornalisti demoprogressisti che, gli uni e gli altri insieme, scientemente fanno – vergognosamente – della parola protezione sinonimo di scelta armata e militare, della parola forza sinonimo di guerra, della parola diplomazia sinonimo di vassallaggio. Un linguaggio distorto, vile e menzognero. Dimenticando, oscurando, che protezione significa cura, rimanda all’atto del coprire, del custodire, del salvaguardare persone e cose importanti, significative: atti impossibili da immaginare attraverso l’uso di bombe, fucili, cacciabombardieri, droni assassini; che diplomazia vuol dire tessere possibilità, parlare, ascoltare, trovare soluzioni, impegnarsi nella stesura di documenti da condividere, di testi preziosi per incardinare il futuro, di “diplomi”, giustappunto, non accettare, per convenienza propria, o anche solo per pavidità, i dettati del prepotente di turno, o di piegarsi al volere del monarca; che infine la parola forza, la più deformata e stravolta, definisce l’azione trasformativa, creativa e produttiva – una delle più importanti in mano all’umanità, dalle braccia che hanno lavorato la terra, fin dai primordi, alla capacità singola e collettiva di cambiare il mondo, di lottare, di generare condivisa prosperità e bellezza – viene vilipesa e piegata quotidianamente, brutalmente traslitterata in quel “passeremo all’uso della forza” che nella più svellata e impudente menzogna e ipocrisia vorrebbe darle l’inaccettabile significato – ordinario e sottinteso – di violenza, atrocità e sopraffazione, quale è ogni scelta repressiva, militare, ogni avventura armata, ogni guerra. È quindi del tutto conseguente, se ammettiamo, già in premessa – nelle nostre scelte personali e politiche, nel nostro linguaggio, nelle nostre azioni quotidiane – che violare esseri umani, anche solo in certe situazioni, è un’opzione possibile, che su questa strada nessuna educazione, né sessuale, né affettiva, né sentimentale potrà mai sussistere e avere una possibilità e le nostre parole, in particolar modo quelle scambiate con le giovani generazioni, saranno solo un vociare vuoto, indistinto, senza significato. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI EMILIA DE RIENZO: > L’educazione all’affettività: un modo di stare, non un corso -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Educazione all’affettività e scelta nonviolenta proviene da Comune-info.
Qualche appunto su “Gandhi ad Auschwitz”
Il libro di Antonio Minaldi (uno dei leader storici del Movimento studentesco a Palermo egli anni Settanta) è, com’egli stesso dice. il frutto di un percorso che l’ha portato dall’idea che la violenza fosse accettabile ad un suo rifiuto. La sua ‘trasformazione’ mi pare bella, coraggiosa, onesta, totalmente apprezzabile. Vorrei evidenziarne alcuni passaggi che condivido e poi anche altri che mi risultano problematici.   Passaggi notevoli  Nel libro trovo alcuni principi-cardini della nonviolenza. Innanzitutto trovo molto opportuno inserire la trattazione della nonviolenza quale modalità di relazione fra gli esseri umani nel quadro più complessivo delle «quattro forme di dominio, dell’umanità sulla natura e sugli animali, e poi all’interno stesso del consesso umano, dell’uomo sulla donna e sull’uomo stesso» [25]. Altrettanto opportuni i chiarimenti tendenti ad evitare delle rappresentazioni parossistiche se non caricaturali della nonviolenza: «credo che anche il militante nonviolento non possa non accettare (per esempio) il principio del diritto alla “legittima difesa” [29-30]». O sulla stessa tematica: «Quando ogni ragionevole limite di sicurezza e di integrità personale e collettiva viene messo in discussione, la scelta non può che riferirsi a se stessi o al proprio gruppo di appartenenza, ma non può costituire motivo di giudizio negativo nei confronti di quanti dovessero adottare, nell’esercizio del legittimo diritto di resistenza, modalità di lotta e di difesa che prevedono un qualche esercizio della forza (anche armata), purché quest’ultimo sia messo in atto in comprovate  condizioni di stretta necessità e secondo un criterio di minimizzazione del danno» [30-31]).   Tasselli mancanti Sarei stato altrettanto lieto di trovare altre precisazioni che, se non mi sono sfuggite, mancano. Innanzitutto non mi è chiaro in cosa, secondo lui, consista, concretamente, la nonviolenza. Se non sbaglio, non ne viene data una definizione. Indicativo mi sembra il fatto che non si faccia mai riferimento a pratiche concrete di nonviolenza: oltre al caso ipotetico di un Gandhi «che si stende sui binari per fermare i treni che portano gli ebrei verso il campo di sterminio» [20], e su cui sono spese parole di nuovo per me condivisibili – cioè «Gandhi (o chi per lui, posto che abbia la stessa visibilità), che si immola di fronte alla barbarie nazista, sarebbe diventato un monito etico dal valore universale e caratterizzato da una estrema potenza evocativa da consegnare come fulgido esempio ai tempi futuri e alle future generazioni» [28] – viene citato solo, e una sola volta, il «paradigma della disubbidienza civile, come “arma disarmata”, che diviene il dato che materializza ogni lotta di resistenza e di opposizione e che prende il posto di qualunque tentazione violenta o armata»).  Effettivamente, se ci si ferma a questo, se la teoria (e la pratica) della nonviolenza fosse tutta qui – nessun riferimento alla ‘curvatura’ dell’ahimsa, che è astensione dall’offendere, nella direzione del satyagraha, che è la “forza della verità” (verità intesa come volta all’ascolto e riguardosa anche della parte con cui si confligge), l’impressione di restare ancora troppo alla superficie, al piano generale che tende a diventare generico, sarebbe davvero invincibile. Ci si potrebbe chiedere – naturalmente con tutto il sincero rispetto possibile e immaginabile nei confronti dell’autore, di cui è preziosa la testimonianza di entusiasmo per la scoperta della nonviolenza – se il libro non avrebbe guadagnato in chiarezza e condivisibilità se fosse stato edito dopo un più lungo e meditato periodo di maturazione.   Un caso cruciale: Israele vs. Palestina L’impostazione data da Minaldi alla più volte richiamata questione, tragica e attuale, “Israele-Palestina” rispetto a quella ‘normalmente’ filopalestinese tout court, costituisce forse una buona cartina di tornasole per vedere quanto essa si distingua dal pensiero non-nonviolento. Sostanzialmente, mi pare, le sue pagine obiettano a chi approva il ricorso alle armi da parte di Hamas che la nonviolenza ‘conviene’: «d’altra parte va considerato che l’altra sola possibile via che porta alla sconfitta dell’aggressore è quella di tipo militare. Una possibilità che si presenta comunque fattualmente difficile, visto che in genere l’oppressore e dominante è anche colui che è militarmente più forte. Ma poi soprattutto perché la sconfitta della violenza armata attraverso le armi, per la sua stessa intrinseca contraddittorietà, quasi mai produce in termini di pace, i frutti sperati» (p. 43). È una obiezione non di poco rilievo, ma avrebbe bisogno di una indispensabile esplicitazione delle possibili dinamiche concrete dell’alternativa alla reazione militare.  Se tali esplicitazioni non si offrono, mi pare che si presti il fianco a un’obiezione che circola insistentemente: “Concretamente, alla luce della nonviolenza, cosa possono fare i palestinesi?”. Per non risultare anch’io elusivo mi corre l’obbligo di accennare – sia pur rapidamente – alla risposta che darei alla citata domanda: i palestinesi possono rendere chiaro all’avversario il fatto di voler essere disarmati (senza combattere neanche con le pietre). E rendere chiaro ciò significa impegnarsi nel mostrare senza possibilità di equivoco che si ha fermo rispetto e anzi, meglio, riguardo per lui; che la propria rinuncia all’uso della violenza è dettata non da paura o da impotenza o da tattica dovuta alla situazione di inferiorità in cui ci si trova, bensì da precisa scelta, dunque dal coraggio di non volere fargli alcun male, né sul piano fisico né su quello verbale né su quello psicologico, e di ricercare il suo ascolto e il dialogo con lui, e di essere fermamente disposti a soffrire anche unilateralmente per questo. È qui che l’ahimsa si fa satyagraha. E questo, anche tra i palestinesi, a livello di massa, non è stato quasi mai attuato: piuttosto, tra loro, è stata realizzata una tendenziale assenza di violenza per inferiorità di forze o una violenza ‘a bassa intensità’ del tutto inefficace sul piano concreto nella prima intifada che aveva solo valore simbolico di (dignitosissimo) coraggio (nel senso ordinario del termine) e di non accettazione dell’oppressione, ma non di coraggio nonviolento. È stata purtroppo attuata anche una violenza (quella che chiamiamo terroristica) contro i civili, uguale e contraria ancorché di proporzioni moltissimo differenti, a quella di Israele (che va chiamata un terrorismo allo stesso modo terroristica, ancorché si tratti – e questa è un’aggravante – di terrorismo di Stato). Invece, è la comunicazione, in parole, comportamenti e atteggiamenti, della scelta che rassicura l’avversario che non ha, né avrà, alcun motivo di ricorrere alla violenza, a disarmarlo per sua stessa persuasione (e a ottenere il favore di tutta l’opinione pubblica internazionale). La nonviolenza è una teoria della comunicazione, è un’arte della buona comunicazione, del creare comunità – anche quando confligge. È solo a questo punto, e in quest’ottica, che, nel caso che l’avversario intendesse ricorrere alla violenza – ormai non più per difendersi dal contrattacco (violento) dei palestinesi (che a loro volta si stanno difendendo) ma per imporre il suo dominio (occupazione, imposizione di leggi etc.) – che entra in azione la disobbedienza civile e, ancor prima, la noncollaborazione ed altre forme di lotta, sempre rispettose, riguardose, coraggiose, che la storia della nonviolenza fa conoscere (per es., ma non solo, ad opera di Gene Sharp) e che la creatività permette di incrementare ulteriormente. Senza queste esemplificazioni concrete il discorso di Minaldi rischia di restare tutto interno al paradigma “dicotomico” (troppo incidentalmente problematizzato qua e là nel testo). Mi limito ad una citazione, in cui peraltro è utilizzato pienamente il linguaggio bellico (che metto in corsivo): «Se dunque io voglio formulare giudizi che riguardino il presente e non solo fatti passati in giudicato dalla storia, in modo che il mio dire abbia valore non solo valutativo, ma anche performativo, io devo necessariamente trascendere la flemma dello storico e prendere partito. Per tornare ai nostri esempi, se “Il nazismo è stato sconfitto”, si dà invece il caso che “Israele deve essere sconfitto”. Questa circostanza mi impone il dovere di schierarmi, secondo quello che mi detta la mia coscienza e l’insieme delle opinioni che ho maturato rispetto alla vicenda in corso. Un dovere che si presenta come non facile (ma che è comunque necessario), per chi ha fatto della nonviolenza una scelta etica ed esistenziale, specialmente in una situazione in cui vi è un confronto tra forze armate. Uno scontro tra l’uso illegittimo della forza perpetrato da parte dell’aggressore, portatore di morte e di distruzione, e l’uso della forza da parte di chi reagisce ad un atto di imperio, che, come abbiamo visto, deve essere considerato legittimo anche da parte di chi è schierato, in senso etico e in linea di principio, contro l’uso della violenza. Una necessaria presa d’atto della possibilità di usare la forza lasciata alla scelta di chi subisce, in nome della legittima difesa e del diritto di resistenza. In queste circostanze di confronto estremo non si può eludere la questione dei mezzi necessari (purché pur sempre leciti) per giungere, in nome del bene e della giustizia, ad una conclusione positiva, a cui si può pervenire solo con la sconfitta chiara e definitiva dell’aggressore» [41-42]. Ho riportato con ampiezza le parole di Minaldi per evidenziare come, a mio parere, resti forte una visione dicotomica del mondo e orientata non alla soluzione quanto più possibile condivisa del conflitto ma alla sconfitta dell’Altro: una parte ha ragione e deve vincere, l’altra ha torto e deve perdere; l’alternativa presupposta è tra «la flemma dello storico» (= equidistanza) e il «prendere partito», senza che sembri possibile altra strada: l’equivicinanza – categoria pratica particolarmente appropriata alle Terze parti (quali noi, non palestinesi e non abitanti in Palestina, siamo) – è ignorata.   La vicenda del Sudafrica Dei processi attuati dal Sudafrica di Mandela (e Tutu), nella transizione dall’apartheid alla vita successiva, l’autore offre una rappresentazione che non mi sembra condivisibile. Infatti non mi risulta che la “Commissione per la verità e la riconciliazione£ (che Minaldi non nomina neppure) avesse come scopo il «biasimo collettivo» [45] come colpa da espiare: questo sarebbe un concetto (socialmente) penale e non riparativo. La Commissione mirava, piuttosto, alla narrazione delle “verità” (=dei punti di vista, delle interpretazioni) dei carnefici e soprattutto delle vittime, per le vittime: il riconoscimento e l’assunzione di responsabilità dei crimini commessi – dall’una e dall’altra parte in conflitto. Sono stati questi fattori a permettere la riconciliazione.   La gestione dei sentimenti A proposito di ciò che si prova nei confronti dell’avversario – e del linguaggio conseguente che si adotta, spesso di odio – l’autore scrive: «Un sentimento si prova e basta. Chiedersi se sia giusto o lecito provarlo non ha alcun senso. Chiedersi poi se sia ammissibile manifestarlo pubblicamente è cosa che mette in gioco un numero talmente alto di variabili che non credo sia possibile, e forse neppure utile, arrivare a stabilire delle regole generali» [48]. Mi chiedo se sia costretti a scegliere fra due sole possibilità: giudicare i sentimenti (dunque stabilire se sia giusto o meno provarli) oppure lasciarli manifestare pubblicamente, quali che siano (cioè anche se sono di carattere distruttivo). Non esiste forse una terza possibilità, che è la via della nonviolenza, consistente nel prendere atto dei propri sentimenti ed educarsi incanalarli in direzione costruttiva? Che io avverta “aggressività” nei confronti di un essere che minacci me o persone o oggetti a me cari è fisiologico, inevitabile, funzionale alla mia sopravvivenza: trasformare questa “aggressività” psicologica in aggressione, in violenza o in opposizione ferma e coraggiosa, riguardosa, nonviolenta, questo invece appartiene alla sfera delle opzioni culturali.   La nonviolenza è una “scienza” Mi auguro, in conclusione, che questo libro-testimonianza segni l’inizio – e non la conclusione – di un percorso. La nonviolenza è una scienza (sociale), su cui ormai esistono molti libri di studiosi che ne hanno analizzato le pratiche e organizzato la teoria. Una delle più apprezzate esponenti di questa prospettiva è Pat Patfoort che non a caso, nel suo Costruire la nonviolenza (La Meridiana,  Molfetta 1992, 47),  ha messo bene in luce un atteggiamento, purtroppo, diffuso: le persone possono tranquillamente dire una frase come «non ho mai studiato il greco o l’informatica, perciò non so niente di greco e di informatica; non ho mai studiato la nonviolenza ma credo di essere nonviolento». ANDREA COZZO Redazione Palermo
«Valentina, mi vergogno del mio Paese!» – Lettera di un tedesco a una babushka ottantaquattrenne russa
A 80 anni dalla fine della guerra, la Germania si sta nuovamente preparando alla guerra. E ancora una volta l’obiettivo è la Russia. Ho colto questa occasione per scrivere a una mia amica russa anziana – i nomi e i luoghi sono stati resi anonimi – nata poche settimane dopo l’invasione tedesca. Ci conosciamo da oltre un quarto di secolo e in questo periodo ci siamo visitati spesso, in Russia e in Germania. Lei rappresenta tutti i miei amici in Russia, anzi, in tutta l’area post-sovietica, compresa l’Ucraina, l’ovest e il Donbass. Valentina, amata babushka (significa nonna o donna anziana in russo, Ndt) al quarto piano del complesso residenziale sovietico in una città di mezzo milione di abitanti nella provincia russa! Ti scrivo con grande preoccupazione e infinita tristezza. 84 anni fa sei venuta al mondo nel momento più sbagliato possibile! Nel bel mezzo della più terribile delle guerre. E siamo stati noi tedeschi a scatenarla. È costata la vita a quasi 27 milioni di cittadini sovietici. Non hai mai conosciuto tuo padre. Era uno dei giovani uomini che sono stati mandati al fronte fin dall’inizio e lì sacrificati. Una tua sorella è morta poco dopo, ancora bambina, di fame e malattie. LA GUERRA Lascio che sia tu a raccontarlo. Quando ci siamo conosciuti alla fine degli anni Novanta, mi hai scritto: > Quando sento la parola “Germania”, la prima cosa che mi viene in mente è “la > guerra”. Ci sono due ragioni per questo. La prima l’ho vissuta in prima > persona. Sono nata nell’agosto del 1941, due mesi dopo l’inizio della guerra. > Avevo tre giorni quando mio padre partì per il fronte, dove morì dopo quattro > mesi. Non ho mai visto mio padre in vita mia, e ho sempre desiderato averne > uno. Era una situazione tipica per tutti i bambini del dopoguerra. Solo pochi > uomini tornarono dal fronte. > > Mia madre mi raccontò degli anni della guerra: nel villaggio dove vivevamo non > c’erano truppe tedesche; rimasero sull’altra sponda del fiume. A 13 chilometri > dal nostro villaggio c’era, e c’è ancora oggi, una stazione ferroviaria molto > grande – direi una delle più grandi del nostro Paese – che i tedeschi > bombardarono. > > Mia madre fu evacuata dal villaggio insieme a tre dei suoi cinque figli (di 6 > e 4 anni e io) a circa 100 chilometri più a est. Viaggiammo in treno, > ovviamente senza comfort né riscaldamento, ma era già inverno. Avevo pochi > mesi e quando i miei pannolini erano bagnati, mia madre se li avvolgeva > intorno al corpo per asciugarli un po’ con il calore del suo corpo. A volte > eravamo costretti a scendere dal treno perché gli aerei tedeschi ci > bombardavano. Ci sedevamo da qualche parte non lontano dal treno, a volte > nella neve, mia madre con noi bambini. Una volta l’aereo volava così basso che > si poteva vedere il volto del pilota. Mia madre raccontava che rideva; > ricordava ancora il suo volto dopo 50 anni. Pensava che fosse un aereo da > ricognizione. Le donne si chinavano sui loro bambini, anche se tutte sapevano > che così facendo non potevano salvarli dalle bombe. Ma tutte le madri sono > così. > > Durante l’evacuazione abbiamo vissuto in un altro villaggio. In quella casa > c’era anche una donna con dei bambini. Non avevano molto da mangiare e poi > siamo arrivati anche noi! Ma il cibo, di solito patate e pane, veniva sempre > distribuito tra tutti quelli che erano in casa. In primo luogo lo ricevevano i > bambini. Siamo rimasti evacuati per alcuni mesi. Avevo altri due fratelli, di > 14 e 16 anni. Sono rimasti nel nostro villaggio e, come tutti i loro coetanei, > hanno dovuto scavare trincee. Durante la guerra, una delle mie sorelle è morta > di fame e malattie all’età di quasi cinque anni. > > Anche dopo la guerra la vita è stata molto difficile. Di giorno mia madre > lavorava nel kolchoz (azienda agraria collettiva sovietica, Ndt.), per lo più > nei campi, a sette chilometri da casa nostra. Di solito faceva il tragitto a > piedi. E di notte cucinava il pane per il kolchoz, potendo tenere > gratuitamente un decimo della produzione. È così che ci ha sfamati tutti. Non > ho quasi mai visto mia madre dormire. A volte, quando ci ripenso, non riesco a > capirlo: come può un essere umano sopportare una cosa del genere? Doveva > essere molto forte. Io, per esempio, non posso dire con certezza se sarei > altrettanto forte. Ricordo ancora che tutti i bambini, nonostante la fame e le > devastazioni, volevano andare a scuola e per lo più studiavano con piacere. E Gennadij, il tuo defunto marito, mi scrisse allora di quel periodo: > Anche dopo la guerra la vita era complicata, soprattutto alla fine degli anni > Quaranta. C’era fame. Mia madre era costretta a macinare la farina dai gusci > dei semi di girasole. Oggi per me è inconcepibile, ma allora mangiavamo > quello. Poiché mia madre non riusciva a frantumare completamente i gusci, > nella farina spesso rimanevano piccoli pezzetti. Tutto ciò che mia madre > cucinava lo mangiavamo con il sangue in bocca, perché questi pezzetti ci > laceravano le gengive. > > Non so perché, ma oggi non associo più la Germania alla guerra. La Germania di > oggi è un paese diverso con una generazione diversa. Ma tutti noi, tedeschi e > russi, dobbiamo trarne le conseguenze e non dimenticarlo. So che gli studenti > tedeschi imparano molto poco sulla guerra durante le lezioni di storia e > alcuni credono fermamente che siano stati solo gli inglesi e gli americani a > vincere la guerra. Non è la strategia migliore nascondere proprio uno dei > fatti più importanti della storia. E ora ancora una volta tu: > Il secondo motivo per cui associo la Germania alla guerra sono i film > dell’epoca sovietica. C’erano sempre film sulla guerra in cui i tedeschi > apparivano disgustosi, rozzi e brutali. Ma direi che ora non odio questo Paese > e i tedeschi. Ora in questo Paese, come in Russia, vive un’altra generazione. > Ci sono ancora persone che hanno vissuto la guerra. Ma non dovrebbero > insegnare l’odio alle generazioni più giovani, bensì raccontare com’era, > affinché i giovani possano trarne le proprie conclusioni. “NON PROVIAMO ODIO” “Non proviamo odio.” – “Oggi in Germania vive una generazione diversa.” – “Non abbiamo combattuto contro i tedeschi, ma contro i fascisti.” – “Non dobbiamo dimenticare; dobbiamo raccontarlo alle giovani generazioni, affinché non si ripeta!” Quante volte ho sentito queste frasi dal 1996! Durante i miei corsi di formazione interculturale per il Goethe Institut e altre organizzazioni tedesche nell’ex Unione Sovietica. A Mosca, a Jelez (regione della Terra Nera), a Kazan sul Volga, a Ufa sugli Urali, a Novosibirsk e a Irkutsk, non lontano dal Baikal. A Minsk e nella provincia bielorussa. Ad Almaty e nella steppa kazaka. A Kiev, a Donetsk e nelle piccole città del Donbass orientale. E sono sempre stato io ad affrontare questo argomento. Mai le mie partecipanti russe, bielorusse, kazake o ucraine. Mai e in nessun luogo sono stato guardato in modo strano perché sono tedesco. Che dono prezioso ci avete fatto. Che grandioso contributo alla civiltà per un mondo più pacifico! (Da noi questo contributo è ancora più sconosciuto dei crimini che i nostri padri e nonni hanno commesso da voi nell’Unione Sovietica). Se solo molte più persone qui in Germania potessero vederlo e apprezzarlo! LA FINE DELLA GUERRA FREDDA Valentina, tu sei una bambina russa della guerra, io sono un bambino tedesco occidentale della Guerra Fredda. Ho assorbito il timore dei russi fin dalla nascita. Per metà della mia vita ho avuto paura della guerra. Una guerra che avrebbe distrutto completamente entrambi gli Stati tedeschi! Quanto ero felice dopo la fine della Guerra Fredda, così positiva per noi tedeschi. (Per voi, per te non lo è stata. È iniziato un periodo difficile, lo so.) Che grandi opportunità politiche si sono aperte per un breve e meraviglioso battito di ciglia della storia mondiale per il nostro comune continente eurasiatico! Si profilava già all’orizzonte un continente di pace e cooperazione per i prossimi cento anni. Michail Gorbaciov, che io ammiro e che tu non apprezzi, nel 1990 a Bonn parlò addirittura di “pace eterna”… Poco più di un decennio fa, noi tedeschi eravamo il secondo popolo più amato in Russia dopo quello bielorusso. E adesso? Noi, “l’Occidente”, abbiamo rovinato tutto! Non abbiamo mostrato abbastanza rispetto nei confronti vostri e del vostro Paese, al quale dobbiamo essenzialmente la fine pacifica della Guerra Fredda e la riunificazione. Negli Stati Uniti hanno subito esultato con sfacciato trionfalismo: “Per grazia di Dio l’America ha vinto la Guerra Fredda!” E poi l’Occidente, ubriaco di vittoria e accecato dall’arroganza, ha sistematicamente ignorato per decenni il vostro bisogno di sicurezza. La colpa principale – la maggior parte del mio Paese non è d’accordo con me su questo – di ciò che sta accadendo ora in Ucraina e di ciò che potrebbe ancora accadere è quindi nostra! (So che preferiresti che non ne parlassi. Non vuoi avere nulla a che fare con la politica. Ma purtroppo la politica si “interessa” a noi! Non possiamo sfuggirle). SI RICOMINCIA… Valentina, ora sei anziana e malata, e tutto sta per ricominciare! I politici e i media stanno letteralmente scatenando una guerra contro il tuo Paese, la Russia. Eppure nessuno di loro ha idea di cosa stia parlando: non sanno più cosa significhi la guerra, ammesso che lo abbiano mai saputo. Hanno perso ogni contatto con la realtà e giocano pericolosamente con i pesi. Il tono diventa ogni giorno più stridente, la data viene continuamente anticipata: 2030, 2029… ora dovremmo aver già alle spalle l’ultima estate di pace… Secondo il nostro Cancelliere federale, che non ne ha mai abbastanza, non siamo già più “in pace” e il nostro Ministro degli Esteri promette che la Russia rimarrà “sempre un nemico”. (La nostra ex ministra degli Esteri, femminista convinta, voleva già “rovinarvi” tre anni e mezzo fa). Ogni giorno ci sono nuove notizie terrificanti sulla cosiddetta guerra ‘grigia’ e “ibrida” che il vostro Paese starebbe già da tempo conducendo contro di noi. Una guerra contro la Russia sarebbe “inevitabile”, “Potrebbe essere stasera”, titolano i media. Farneticano di “capacità bellica” e “potenza di combattimento”. I genitori sono invitati a “sacrificare” i propri figli. Diplomazia e comprensione sono ormai parole offensive! Chiunque sostenga una politica di distensione, chiunque ricordi Willy Brandt ed Egon Bahr, viene sommerso da scherno e derisione. Con il vostro presidente, che per molto tempo ha voluto collaborare con noi, «non si può parlare». Secondo loro, egli capisce solo il «linguaggio della forza». E così hanno avviato – “non importa quanto costa” – un programma di riarmo da miliardi di euro finanziato dal debito pubblico, che porterà noi e i nostri figli alla rovina anche senza una guerra. L’anno prossimo qui saranno nuovamente dispiegati missili a medio raggio che potrebbero colpire anche la tua città. Valentina, mi sento male! E mi vergogno da morire. Non riconosco più il mio Paese. Mai nella mia vita avrei creduto possibile ciò che sta accadendo qui ora! No, la gente qui in Germania non vuole la guerra. Non vuole un’escalation, ma non fa nulla per impedirla! Invece si affanna su mille questioni secondarie. I nostri politici, che non ho votato, e i nostri media mainstream, che scrivono tutti la stessa cosa, glielo hanno martellato nella testa per anni e ha funzionato: ora hanno più paura del vostro presidente che di una guerra che, nel peggiore dei casi, potrebbe trasformarsi in una guerra nucleare. Valentina, 84 anni fa sei venuta al mondo nel bel mezzo della più terribile delle guerre – e in che modo raccapricciante la tua vita sta ora volgendo al termine! NON VI CONSIDERERÒ MAI NEMICI! Ci può essere solo una conseguenza: noi, le cosiddette persone comuni di tutti i paesi, dobbiamo ora restare uniti. Non dobbiamo permettere che ci rendano nuovamente nemici e ci mettano gli uni contro gli altri. Valentina, oltre 35 anni fa, nell’autunno del 1988, ho organizzato con alcuni amici un viaggio di pace e riconciliazione nell’Unione Sovietica: a Minsk, Mosca e Leningrado. Volevamo vedere con i nostri occhi e sentire con le nostre orecchie quali crimini i tedeschi avevano commesso contro la popolazione locale durante la seconda guerra mondiale. A Chatyn, in Bielorussia, nel cimitero che ospita 186 villaggi bielorussi dati alle fiamme, abbiamo incontrato spontaneamente persone provenienti dalla Siberia e abbiamo chiesto loro perdono a nome di tutti i cittadini sovietici. E lì, noi tedeschi e russi, abbiamo potuto solo piangere insieme in modo straziante! Noi, perfetti sconosciuti, ci siamo abbracciati. Da allora, e forse anche prima, ho impresso nel mio DNA che questo non deve mai più ripetersi! Noi esseri umani, che viviamo in Russia, Germania o Ucraina (occidentale e Donbass), apparteniamo tutti allo stesso mondo. Non siamo sulla terra per ucciderci a vicenda e distruggere il nostro prezioso e unico pianeta. Mai, cara babushka della provincia russa, considererò te e i tuoi connazionali dei nemici! La guerra deve finire, la corsa verso l’abisso deve essere fermata il più rapidamente possibile. Dobbiamo tutti imparare di nuovo a rispettarci, ad ascoltarci, a perdonarci. Prima o poi, in un futuro che speriamo non troppo lontano, i nostri paesi dovranno tornare ad essere amici. Per i nostri figli e nipoti. Abbiamo solo questa opzione per il futuro! Farò tutto il possibile per questo. Ogni giorno. Finché ci sarò. Te lo prometto. -------------------------------------------------------------------------------- Questo articolo è stato ripreso da Pressenza per gentile concessione di Globalbridge. La sua diffusione è consentita solo con l’esplicito consenso di globalbridge.ch. -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dal tedesco di Thomas Schmid con l’ausilio di traduttore automatico. Pressenza Berlin
La luna al suo comando. Storia della Resistenza non armata
Come Centro Pace di Forlì abbiamo deciso di ricordare il 4 novembre, non perché festa, ma memoria di un’attività umana che deve essere posta fuori dalla Storia: la guerra. Per fare ciò abbiamo invitato Lorella Berletta, giornalista di Milano e autrice del libro di memorie “La luna al suo comando. Storia di Felice Magliano, internato militare italiano”. Il libro ha anche la prefazione di Liliana Segre e una nota introduttiva di Gianfranco Pagliarulo. L’incontro è stato introdotto da Raffaele Barbiero del Centro Pace e presentato magistralmente dal prof. Alfredo Alietti, sociologo dell’Università di Ferrara. Qui un breve estratto: https://www.facebook.com/reel/709942051582427 All’indomani dell’8 settembre 1943, dopo l’armistizio dell’Italia con gli Alleati dai 600.000 agli 800.000 militari italiani fecero una scelta coraggiosa e di dignità: di fronte alla richiesta se continuare a servire i nazisti e i fascisti sotto la Repubblica di Salò preferirono il lavoro coatto (gli “schiavi di Hitler”, così vennero soprannominati) in Germania in condizioni di estrema privazione e di trattamento inumano. La Germani nazista per loro inventò la definizione di “Internati Militari Italiani (IMI)” e perciò persero formalmente la definizione di prigionieri di guerra che li tutelava anche attraverso la convenzione di Ginevra (vedi nota) e la Croce Rossa Internazionale. Per il tempo restante fino alla fine della guerra furono adibiti alle mansioni più dure che i tedeschi di volta in volta decidevano e con condizioni da “schiavi”. In base ai dati accertati e alle stime morirono nei campi di internamento dai 37 ai 50.000 militari. Le uniche visite che ricevevano erano quelle dei fascisti di Salò che ben vestiti e ben nutriti andavano a chiedere se volevano cambiare idea ed arruolarsi per la Repubblica di Salò. Pochi cedettero, alcuni solo per poi fuggire arrivati in Italia, alcuni passarono poi con i partigiani. L’autrice ci ha mirabilmente parlato della storia di questa persona che merita di essere conosciuta (ci sono anche video registrati durante l’intervista).  Non riuscirei a restituire in modo corretto in poche righe di riassunto quanto riferito con passione dall’autrice del libro raccontando l’esperienza di prigionia e, soprattutto, la vita dopo il rientro in patria di Felice Magliano. Lascio questo compito al libro e ai video. Certo è che sugli IMI calò un pesante silenzio, da una parte perchè considerati traditori e dall’altra perchè non avevano imbracciato le armi contro i nazifascisti. La loro forma di Resistenza, che potremo catalogare come NON OBBEDIENZA, merita invece grande attenzione e studio per capire quello che fu un fenomeno collettivo anche se lo diventò per la somma delle singole prese di posizione, non guidate né da una strategia, né da alcun indirizzo politico, ma solo dalla propria coscienza individuale. Una serata “bella”, alternativa alla propaganda militare e militarista di cui stiamo incominciando a vedere i pericolosi segni che ci vogliono ri-abituare all’idea che con la guerra si possono risolvere i conflitti. Dagli internati invece vene sempre un forte NO: ai nazifascisti, alla guerra e un SI’ alla vita e all’Italia. Una lezione da ricordare in questi tempi bui di ri-armo incondizionato e di ricerca del nemico a tutti i costi.   Raffaele Barbiero Centro Pace di Forlì   Note e riferimenti bibliografici: Lorella Beretta, La luna al suo comando. Storia di Felice Magliano, internato militare italiano, edizioni Castelvecchi, collana Papaveri Rossi, Roma 2025. Convenzioni di Ginevra: la prima Convenzione di Ginevra (1864) stabiliva la protezione dei feriti e dei malati in guerra, mentre la Seconda Convenzione (1929) si occupava del trattamento dei prigionieri di guerra. Entrambe erano antecedenti all’esteso corpo di norme attuali, che venne completamente rivisto e ampliato solo dopo la seconda guerra mondiale, nel 1949. Mario Avagliano–Marco Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una Resistenza senz’armi 1943-45, Il Mulino, Bologna 2020 https://www.soprintendenzapdve.beniculturali.it/giorno-della-memoria-padova-il-tempio-dellinternato-ignoto-e-il-museo-nazionale-dellinternamento-per-non-dimenticare-gli-internati-militari-italiani-nei-lager-nazisti-2/ https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/scritto_e_parlato/2025_04_16_Scr_Internati_MarcoBrando.html Redazione Romagna
Napoli R1PUD1A la guerra
In Piazzetta Aldo Masullo, associazioni, scuole e cittadini si uniscono all’appello di EMERGENCY per trasformare il principio costituzionale del ripudio della guerra in un gesto collettivo di memoria e impegno civile. Promosso da EMERGENCY, al Vomero un flash mob che fa “rumore per la pace” e trasforma un principio costituzionale in un gesto collettivo e in una memoria viva. “ Ripudiamo la guerra, abbracciamo la pace. ” Napoli, città abituata al suono della vita, sceglie di farsi sentire ancora una volta per ciò che conta davvero: la pace. L’iniziativa nasce per riaffermare il valore della pace e per ribadire, con un gesto semplice ma dal forte significato simbolico, che la guerra non rappresenta il popolo italiano. È questo il messaggio che sabato 8 novembre, dalle ore 12 , risuonerà in Piazzetta Aldo Masullo , nel cuore del Vomero, dove associazioni, cittadini, studenti, insegnanti e volontari parteciperanno al flash mob – sit-in collettivo “Facciamo rumore” , promosso da EMERGENCY nell’ambito della campagna nazionale “R1PUD1A” . Un flash mob per ricordare che la pace non è un’utopia, ma una scelta quotidiana che si rinnova nei gesti, nelle parole e nella cura reciproca. IL SIGNIFICATO DELLA CAMPAGNA R1PUD1A Il nome della campagna, R1PUD1A , gioca graficamente con numeri e lettere: l’“1” sostituisce la “I” e richiama direttamente l’articolo 11 della Costituzione italiana : “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli…” Un articolo spesso citato, talvolta dimenticato, che torna a risuonare tra le voci e i suoni di una piazza decide di ricordare come la pace non sia un’astrazione, ma un impegno quotidiano. Quel principio costituzionale deve diventare azione, voce, presenza . UN PROGETTO PER SCUOLE E TERRITORI EMERGENCY rilancia iniziando questo principio attraverso un progetto ampio e concreto, rivolto a scuole e territori: una piattaforma di educazione alla pace che invita a riflettere su quanto la guerra colpisca la vita dei civili ea diffondere l’idea che la pace non è semplice assenza di guerra, ma una scelta attiva che richiede partecipazione. R1PUD1A vuole raggiungere tutti i territori, essere inserito stabilmente nei programmi scolastici e nelle agende delle amministrazioni locali. Scegliere di “ripudiare la guerra” diventa più forte se accompagnato da educazione permanente, eventi e continua sensibilizzazione. OBIETTIVI DELLA CAMPAGNA * Diffondere il valore della pace in un momento storico in cui aumentare conflitti e spese militari. * Coinvolgere attivamente i cittadini, in particolare le scuole, che possono scaricare kit e materiali didattici per organizzare attività in classe. * Far vivere l’articolo 11 non come una citazione astratta, ma come un impegno concreto, calato nei singoli contesti. Qualsiasi soggetto — cittadini, scuole, istituzioni — può aderire all’iniziativa. Napoli , insieme a oltre 300 comuni italiani, ha già aderito alla campagna. IL FLASH MOB UN GESTO SEMPLICE E POTENTE CHE TRASFORMA IL VALORE COSTITUZIONALE IN AZIONE CONCRETA , IN CORPO , IN COMUNITÀ , PERCHÉ “LA SOLIDARIETÀ È UNA FORZA IMMENSA CHE APRE ALLA DIGNITÀ E ALLA SPERANZA CONDIVISA”, SPIEGANO GLI ORGANIZZATORI. Dopo l’intervento iniziale di EMERGENCY , che spiegherà il senso dell’evento, seguirà la lettura dell’articolo 11 della Costituzione Italiana , per ricordare come, dopo le tragedie dei conflitti mondiali e milioni di morti, “L’Italia non vuole più fare la guerra”. Ha scelto la rinascita, la pace e la solidarietà come principi fondativi della propria Costituzione. Come ricorda EMERGENCY, la nostra storia ci insegna a non tacere, a impegnarci insieme per abolire la guerra , per risolvere i conflitti con la diplomazia e la politica , e per non dimenticare mai le vittime . Poi esploderà il rumore . La piazza si riempirà di suoni, voci e strumenti di ogni tipo: un “rumore collettivo” per attirare l’attenzione e trasformare l’indignazione in partecipazione. Seguirà il silenzio , a capo chino, come segno di dolore e consapevolezza: un silenzio pieno di memoria e di rispetto per tutte le vittime, ma anche di impegno — quello di continuare a ripudiare la guerra ogni giorno , in nome della vita e del futuro delle prossime generazioni. VIENI A PARTECIPARE TUTTI SONO INVITATI A PARTECIPARE “ARMATI” DI FISCHIETTI, TAMBURI O QUALSIASI OGGETTO CHE FACCIA RUMORE, PER CREARE INSIEME UN GRANDE SUONO COLLETTIVO CHE CATALIZZI L’ATTENZIONE E RIAFFERMI IL NO ALLA GUERRA . Tutti sono invitati a indossare un capo con i colori di EMERGENCY : il bianco e il rosso . * Il bianco simboleggia la pace e gli sforzi di EMERGENCY per costruire un mondo senza guerre. * Il rosso rappresenta il coraggio, l’impegno contro i conflitti, l’emergenza medica e la necessità di cura, ma è anche il sangue, la vita umana che EMERGENCY si impegna a salvare. È un vero atto di resistenza civile , un modo per riaffermare che la pace non è assenza di conflitto, ma presenza di giustizia, dialogo e solidarietà . Perché la pace “è un fatto di popolo: nasce dal basso, cresce nella partecipazione, si costruisce nei gesti quotidiani”. E quando il rumore si placherà, resterà un silenzio pieno — di memoria, di dolore, ma anche di promessa: quella di non smettere mai di ripudiare la guerra e di credere, ostinatamente, che un altro mondo sia possibile. Chiuderanno l’evento gli interventi dei soggetti partecipanti. All’iniziativa di EMERGENCY aderiscono: ANPI Napoli Vomero – Sezione Aedo Violante , IoCiSto APS Associazione per il Sociale , Libreria IoCiSto Presidio Permanente di Pace , FIAB Cicloverdi di Napoli , insieme ad altre realtà associative del territorio. Durante la manifestazione sarà allestito un punto informativo dove sarà possibile ricevere indicazioni sulla campagna R1PUD1A e aderire formalmente all’iniziativa. RIPUDIARE LA GUERRA Ripudiare la guerra non è solo rispettare un principio costituzionale, ma è un obbligo morale : significa scegliere la vita, la solidarietà, il futuro delle prossime generazioni. Nessuno può restare in silenzio di fronte ai conflitti: il messaggio che resta è che dobbiamo impegnarci tutti per costruire un mondo fondato sul dialogo, sulla cooperazione e sulla pace . Gina Esposito