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La popolazione sudanese come popolazione sacrificata – di Gennaro Avallone
Il mondo trabocca di aree territoriali e popolazioni sacrificate. È questo un dato di lungo periodo che si ritrova nelle origini della storia del modo di produzione e organizzazione della natura che chiamiamo capitalismo. Sono state aree sacrificate quelle della conquista spagnola lungo il 1500. Lo sono state le aree africane della caccia alle [...]
BASTIONI DI ORIONE 30/10/2025 – HALLOWEEN MOSTRA IL TRIONFO DELLA NECROPOLITICA GENOCIDIARIA: LA DISUMANIZZAZIONE DELL’AVVERSARIO PASSA DAL DARFUR, TRANSITA DALLE FAVELAS CARIOCA E DALLA WAR ON DRUG E SEGUE IL TRAFFICO DI ARMI TURCHE@0
In questa puntata di Bastioni cercando di renderci conto dell’entità reale dell’orrore attorno a El-Fasher e in generale di quanto è stato prodotto negli ultimi 3 anni dalla rapacità emiratina sul territorio del Sudan, ci siamo fatti accompagnare da Matteo Palamidesse in quel deserto di umanità ai confini con il Ciad; per poi spostare la […]
BASTIONI DI ORIONE 30/10/2025 – HALLOWEEN MOSTRA IL TRIONFO DELLA NECROPOLITICA GENOCIDIARIA: LA DISUMANIZZAZIONE DELL’AVVERSARIO PASSA DAL DARFUR, TRANSITA DALLE FAVELAS CARIOCA E DALLA WAR ON DRUG E SEGUE IL TRAFFICO DI ARMI TURCHE@1
In questa puntata di Bastioni cercando di renderci conto dell’entità reale dell’orrore attorno a El-Fasher e in generale di quanto è stato prodotto negli ultimi 3 anni dalla rapacità emiratina sul territorio del Sudan, ci siamo fatti accompagnare da Matteo Palamidesse in quel deserto di umanità ai confini con il Ciad; per poi spostare la […]
MSF denuncia le atrocità di massa a El Fasher (Sudan) e lancia un appello urgente per il rispetto dei civili
396 feriti e oltre 700 persone curate da MSF in quattro giorni Medici Senza Frontiere (MSF) denuncia le orrende atrocità e le uccisioni di massa, sia indiscriminate sia mirate a determinati gruppi etnici, che hanno raggiunto l’apice questa settimana all’interno e nei dintorni di El Fasher. MSF ribadisce il timore che un gran numero di persone siano in grave pericolo e che le Forze di Supporto Rapido (RSF) e i loro alleati impediscano loro di raggiungere aree più sicure, come Tawila dove MSF è operativa. “Tra il 26 e il 29 ottobre, abbiamo ricevuto 396 feriti e curato oltre 700 nuovi arrivati da El Fasher in un pronto soccorso dedicato dell’ospedale. Le lesioni principali sono ferite da arma da fuoco, fratture e lesioni dovute a percosse e torture. Alcuni hanno ferite infette o lesioni dovute a interventi chirurgici eseguiti a El Fasher in condizioni disperate senza praticamente accesso a forniture mediche e farmaci. Le persone arrivate e sopravvissute a Tawila hanno urgente bisogno di cure mediche e nutrizionali, assistenza psicosociale, riparo, acqua e assistenza umanitaria” afferma la dott.ssa Livia Tampellini, vicecoordinatrice delle emergenze di MSF. I team di MSF a Tawila erano pronti a gestire un afflusso di massa di sfollati e feriti dopo la caduta di El Fasher, capitale dello stato del Nord Darfur a 60 chilometri di distanza, il 26 ottobre scorso, dopo 17 mesi di assedio e pesanti attacchi. Negli ultimi mesi, ondate di persone sono fuggite a Tawila dopo ogni inasprimento delle violenze a El Fasher, che, secondo le Nazioni Unite, ospitava ancora 260.000 abitanti alla fine di agosto. Tuttavia, negli ultimi cinque giorni poco più di cinquemila persone sono riuscite a raggiungere Tawila, secondo agenzie umanitarie in loco che parlano di massacri, persone bloccate e sottoposte a torture, rapimenti a scopo di riscatto, violenze sessuali ed esecuzioni sommarie a El Fasher, nelle città vicine e lungo le vie di fuga. “I numeri degli arrivi non quadrano, mentre crescono le testimonianze di atrocità su larga scala. Dove sono tutte le persone scomparse che sono sopravvissute a mesi di carestia e violenza a El Fasher?” si chiede Michel Olivier Lacharité, responsabile delle emergenze di MSF. “In base a ciò che riferiscono i pazienti, la risposta più probabile, anche se spaventosa, è che vengono uccisi, bloccati e inseguiti mentre cercano di fuggire. Chiediamo urgentemente alle RSF e ai gruppi armati alleati di risparmiare i civili e consentire loro di mettersi in salvo. Esortiamo inoltre tutte le parti diplomatiche coinvolte, compreso il “Quad” che include Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto, a usare la loro influenza per fermare questo bagno di sangue” aggiunge Lacharité di MSF. Tra il 26 e il 28 ottobre, i nuovi arrivi da El Fasher, principalmente donne, bambini e anziani con livelli catastrofici di malnutrizione, sono stati portati via in camion. Altri, comprese le vittime di colpi di arma da fuoco, viaggiavano a piedi, nascondendosi durante il giorno e camminando di notte per evitare uomini armati sulle strade principali. Tra le persone arrivate il 27 ottobre, 70 bambini con meno di cinque anni erano gravemente malnutriti e il 57% di loro affetto da malnutrizione acuta grave. Il giorno successivo, il team di MSF ha effettuato uno screening su 120 uomini arrivati da El Fasher, il 20% dei quali affetto da malnutrizione acuta grave. Questi scioccanti indicatori evidenziano l’assoluta agonia sopportata dalle persone a El Fasher e nei campi circostanti. Più di un anno fa l’area è stata dichiarata zona colpita da carestia e da allora è stata esclusa dall’accesso al cibo e a beni di prima necessità, con persone che arrivano a nutrirsi di mangime animale per sopravvivere. Diversi testimoni oculari hanno raccontato a MSF che un gruppo di 500 civili e soldati delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze Congiunte, hanno provato a fuggire il 26 ottobre ma sono stati uccisi o catturati dalle RSF e dai loro alleati. I sopravvissuti denunciano che le persone sono state separate per sesso, età o identità etnica percepita e molte sono rimaste in attesa di un riscatto, per somme che vanno dai 5 ai 30 milioni di sterline sudanesi (da 7.000 a 43.000 euro). Un sopravvissuto ha detto di aver pagato 24 milioni di sterline sudanesi (34.000 euro) ai suoi rapitori per salvarsi la vita e fuggire. Un altro ha riportato scene estremamente raccapriccianti di combattenti che schiacciavano con i loro veicoli diversi prigionieri. MSF ha allestito un centro sanitario all’ingresso di Tawila, potenziando le cure di emergenza, le cure chirurgiche e altri servizi medici presso l’ospedale. La maggior parte del personale sudanese di MSF a Tawila ha parenti uccisi a El Fasher durante la settimana. Gli sfollati già presenti nella città vanno incontro ai nuovi arrivati nella speranza di riconoscere un volto familiare tra le persone affamate e traumatizzate o in cerca di notizie dei loro parenti scomparsi. Non c’è più tempo da perdere per aiutare gli altri sopravvissuti: è necessario che possano spostarsi in aree più sicure e ricevere assistenza salvavita.         Medecins sans Frontieres
Sudan: Amnesty International sollecita la fine degli attacchi dei paramilitari contro i civili del Darfur
Amnesty International ha sollecitato i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Fsr) a porre fine agli attacchi contro la popolazione civile di El Fasher, nello stato sudanese del Darfur settentrionale. “Le notizie provenienti da El Fasher sono terribili. Le Fsr devono porre immediatamente fine agli attacchi contro i civili e le infrastrutture civili, consentire l’ingresso in città degli aiuti umanitari e garantire percorsi sicuri a coloro che stanno tentando di fuggire”, ha dichiarato Tigere Chagutah, direttore di Amnesty International per l’Africa orientale e meridionale. “Da 18 mesi la popolazione di El Fasher è sottoposta a un assedio brutale da parte delle Fsr. È giunto il momento che le Nazioni Unite, l’Unione africana e altri attori internazionali agiscano con urgenza per prevenire ulteriori sofferenze. Tutti i responsabili delle atrocità in corso devono essere chiamati individualmente a risponderne”, ha aggiunto Chagutah. “Le Fsr sono note per aver commesso violazioni dei diritti umani su vasta scala sia nel Darfur che nel resto del Sudan, tra cui attacchi su base etnica contro le comunità non arabe, uccisioni intenzionali di civili, violenza sessuale contro donne e ragazze: massacri che ricordano quelli che ebbero luogo nello stesso Darfur due decenni fa. La comunità internazionale deve agire subito per impedire alle Fsr di ripetere tali atrocità”, ha concluso Chagutah. Ulteriori informazioni Il conflitto in corso in Sudan è iniziato nell’aprile del 2023. Ha causato l’uccisione di decine di migliaia di persone e 12 milioni di sfollati, dando luogo alla più grande crisi umanitaria al mondo. Le Fsr, il gruppo paramilitare che si sta scontrando con le Forze armate del Sudan (Fas), sta assediando El Fasher dal maggio del 2024. Il 26 ottobre le Fsr hanno dichiarato di aver conquistato alcune zone di El Fasher, l’ultima grande città del Darfur ancora sotto il controllo delle Fas. Queste, il giorno dopo, hanno annunciato il loro ritiro. A El Fasher viveva oltre un milione e mezzo di abitanti, comprese centinaia di migliaia di persone sfollate da altre zone del Darfur nei primi anni Duemila e durante l’attuale conflitto. Si stima che prima dell’attacco del 26 ottobre si trovassero intrappolate in città circa 260.000 persone. Amnesty International aveva già denunciato i crimini di guerra commessi dalle Fsr e dalle milizie arabe loro alleate, responsabili congiuntamente di attacchi su base etnica contro i masalit e altre comunità non arabe nel Darfur occidentale. Amnesty International
In Sudan la più grave crisi umanitaria al mondo
Dichiarazione del Vicedirettore generale dell’UNICEF Ted Chaiban * Nel Darfur e nel Kordofan, la malnutrizione acuta grave è in forte aumento. 1,4 milioni di bambini vivono in zone colpite dalla carestia o a rischio di carestia. * Solo nel Darfur settentrionale, quest’anno 150.000 bambini rischiano di soffrire di malnutrizione acuta grave, la forma più letale.  * 14 milioni di bambini non frequentano la scuola, ovvero 4 bambini su 5 in Sudan: un’intera generazione persa senza istruzione. “Vi parlo (…)  dopo aver lasciato il Darfur, al termine di una missione che mi ha portato anche a Khartoum. Quello che ho visto è allarmante. Il Sudan è la più grande crisi umanitaria al mondo. Il conflitto si sta intensificando e i bambini ne stanno pagando il prezzo più alto. Ogni giorno la violenza sta lacerando le comunità. A Jebel Marrah ho parlato con donne con i loro bambini in fuga dall’assedio di Al Fasher, costrette ad attraversare una serie di posti di blocco armati e derubate di tutti i loro averi e del loro denaro, molestate e aggredite, distrutte e lasciate senza nulla. Ho ascoltato racconti strazianti di famiglie che hanno sofferto la fame per giorni. Nel Darfur e nel Kordofan, la malnutrizione acuta grave è in forte aumento. 1,4 milioni di bambini vivono in zone colpite dalla carestia o a rischio di carestia. Senza cure urgenti, migliaia di loro moriranno. Solo nel Darfur settentrionale, quest’anno 150.000 bambini rischiano di soffrire di malnutrizione acuta grave, la forma più letale.  A Tawila, i casi sono aumentati da centinaia a oltre 2.000 al mese da aprile. Tawila è il luogo principale in cui si sono radunate le persone in fuga da Al Fasher. I genitori mi hanno detto che i loro figli non vedono un’aula scolastica da anni. Questa è la realtà per milioni di persone. Ben 14 milioni di bambini non frequentano la scuola, ovvero 4 bambini su 5 in Sudan: un’intera generazione persa senza istruzione. Le malattie sono ovunque. Colera, difterite, malaria e dengue mietono giovani vite mentre i sistemi sanitari collassano. La violenza priva i bambini della sicurezza. In soli sei mesi, nel Darfur settentrionale sono state verificate almeno 350 gravi violazioni, tra cui omicidi e mutilazioni. E dobbiamo ricordare che Al Fasher è una città che è sotto assedio da più di sedici mesi. 130.000 bambini sono intrappolati, tagliati fuori dal cibo, dall’acqua e dall’assistenza sanitaria. Non c’è modo sicuro per entrare o uscire. Tra la devastazione di cui sono stato testimone, ho visto anche la resilienza. Le comunità riparano le scuole affinché i loro bambini possano riprendere l’istruzione. In uno spazio a misura di bambino, i bambini ridevano e giocavano. Disegnavano le case che hanno perso e i loro sogni per il futuro. Ho incontrato gli operatori dell’UNICEF, i colleghi delle Nazioni Unite e i nostri partner, compresi gli operatori sanitari in prima linea che, nonostante sfide inimmaginabili, hanno fornito vaccini orali contro il colera e zanzariere a 8 milioni di persone per combattere il colera e la malaria, hanno curato più di 250mila bambini affetti da malnutrizione acuta grave e hanno riparato e installato sistemi idrici per garantire l’approvvigionamento idrico a 11 milioni di persone, compresi coloro che sono rimpatriati. Ma le necessità urgenti crescono ogni giorno e ciò di cui il Sudan ha bisogno è un accesso senza restrizioni, finanziamenti e una via politica per porre fine al conflitto”. foto/video: https://weshare.unicef.org/Package/2AM408Q4DHL5 UNICEF
SUDAN: IL CONFLITTO DIMENTICATO A RISCHIO “SCENARIO LIBICO”, 25 MILIONI I DENUTRITI
Un attacco di droni ha colpito questa mattina le vicinanze dell’aeroporto internazionale della capitale del Sudan, Khartoum. Il raid avviene a un giorno dalla riapertura dello scalo per la prima volta in oltre due anni di guerra civile tra l’esercito regolare e le Forze di Supporto Rapido, le milizie paramilitari. I voli nazionali avrebbero dovuto riprendere una volta completati i preparativi tecnici e operativi. Non vi è stata alcuna rivendicazione immediata di responsabilità e non sono state rilasciate informazioni sulle vittime o sui danni. L’aeroporto è chiuso da quando, ad aprile 2023, sono scoppiati gli scontri che hanno causato gravi danni alle infrastrutture vitali della capitale. Testimoni hanno riferito di aver sentito i droni nel centro e nel sud di Khartoum e i suoni delle esplosioni nell’area dell’aeroporto dalle 4.00 alle 6.00 ora locale. L’attacco è il terzo in sette giorni contro la capitale da parte dei droni, che la scorsa settimana hanno preso di mira la capitale Khartoum per due giorni consecutivi, colpendo anche due basi militari nel nord-ovest della città. Nel conflitto dimenticato iniziato nell’aprile del 2023, 12 milioni di persone sono fuggite dalla propria abitazione (4 milioni quelle che hanno lasciato il Sudan), 30 milioni necessitano di aiuti umanitari e 25 milioni vivono l’insicurezza alimentare. Per porre un argine al conflitto dimenticato e alla gravissima crisi umanitaria, i Missionari Comboniani chiedono al Governo Italiano, tramite i canali di Nigrizia, un intervento urgente per istituire corridoi umanitari protetti per i civili bloccati senza cibo a El Fasher, città assediata in Darfur. Altra notizia che andiamo ad approfondire riguarda la banca BNP Parisbas: la scorsa settimana è stata condannata da un tribunale di Manhattan a pagare oltre 20 milioni di dollari a tre rifugiati sudanesi, ora residenti negli Stati Uniti, che le avevano fatto causa con l’accusa di avere contribuito ai crimini del regime, quello di Omar al-Bashir, al quale la banca aveva offerto i suoi servizi tra il 1997 e il 2011. Crollo delle azioni in borsa, con i vertici della banca e gli investitori che ora temono di vedersi sommergere da migliaia di richieste di risarcimento, dopo che il “caso pilota” è andato a segno. A detta degli analisti di BDL Capital Management “il numero potenziale di vittime coinvolte – circa 23.000 persone – espone la banca a un rischio teorico di risarcimenti fino a 150 miliardi di dollari”. L’approfondimento con Brando Ricci, giornalista di Nigrizia. Ascolta o scarica
Suliman e Fatima contano i morti e i torturati in famiglia
A casa di Suliman e Fatima al Cairo è arrivato un ragazzo: è spaventosamente magro e provato nel corpo e nello sguardo da vessazioni e torture. E’ il loro nipote Abdullah Abdel-Rahman, che racconta la sua storia: arrestato dalle Forze di Supporto Rapido a El Fashir insieme ad altri quattro giovani il giorno della caduta di Zamzam, è stato torturato insieme agli altri tre; gli altri sono morti per le sevizie e per la fame, mentre lui è stato gettato in una discarica vicino a Zamzam. Questo succedeva il 10 agosto, mentre infuriava la battaglia. Lì nella discarica è stato individuato e messo in salvo da uomini delle Forze Congiunte, che lo hanno caricato sui loro veicoli e trasportato fino ad Al-Judud; qui Abdullah è stato affidato ad alcuni sudanesi che si recavano nelle zone aurifere al confine tra Sudan ed Egitto (molto sudanesi cercano lavoro in quella zona: forse questa attività è uno dei pochi lavori possibili in questo momento). Nella dolorosa e tristissima vicenda di Abdullah ci sono stati anche tanti incontri positivi, con persone che lo hanno di fatto salvato: così è stato per i cercatori d’oro che gli hanno pagato il biglietto per arrivare ad Assuan e da lì al Cairo. “Oggi lo abbiamo ricoverato al Pronto Soccorso”: così termina il messaggio di Suliman. Le notizie continuano la sera: il nuovo messaggio dice che all’ospedale hanno deciso di fargli esami del sangue approfonditi, ecografie ed altro; il ragazzo soffre di rigidità allo stomaco perché per quattro mesi ha mangiato soltanto mangime per animali e pane secco. In un successivo messaggio vengo a sapere che la madre di Abdullah è la cugina di Suliman e che in questi giorni è lì a casa con lui e Fatima. Aggiunge che appena avranno i risultati delle varie analisi andranno dal medico, ma “le sue condizioni sono molto critiche”. Non mancano purtroppo i lutti in famiglia ed ecco che ricevo l’elenco: “Sei persone sono morte di fame nel campo profughi di Naivasha e nessuno ne ha saputo nulla”. Sembra che i vicini si siano accorti della loro morte soltanto pochi giorni dopo. Questa precisazione mi lascia di stucco: anche in un campo profughi, anche fra tenda e tenda può esserci così tanta distanza da ignorare l’agonia e la morte di sei persone? Forse non ho capito bene. Questa parte del messaggio si conclude con: “Che Dio abbia pietà di loro e li perdoni”. Segue l’elenco dei nomi che voglio qui riportare perché non è un numero a essere stato ucciso da questa insulsa e gravissima guerra di fazioni, ma sono persone specifiche, ognuna còlta a un certo stadio della vita – con il suo carattere, la sua voce, i suoi modi, i suoi pensieri, con i suoi sogni per un futuro che è svanito con violenza inenarrabile. Eccoli: Hajja Mariam Tandel Suleiman Hajja Saliha Suleiman Bedi Madre Amani Fath Al-Rahman Bambino Saber Salem Mustafa Bambino Saeed Salem Mustafa Bambino Sabry Salem Mustafa Ho fatto bene a scriverli anche perché scrivendoli me li sono immaginati: i loro nomi chiamati dalla mamma e loro, i bambini, che corrono. La comunicazione con il mio amico Suliman continua per Whatsapp. Due giorni dopo ricevo un articolo intitolato “Darfur e la sua reputazione offuscata a causa dei Janjaweed”. Mi sembra un pezzo importante perché ristabilisce la verità delle cose anche per tutti quelli che, poco informati, prendono con superficialità le notizie che arrivano (di rado, a dire il vero) dal Sudan. Soprattutto illumina il Darfur di una luce diversa da quella che implicitamente gli si dà sentendolo nominare solo per atti di brutalità, feroci assassini e stragi gratuite. “In tutto il Darfur non troverete mai una persona che uccida il proprio fratello per il suo bestiame, tranne i Janjaweed”. Se conflitti si sono verificati tra le varie tribù, movimenti e organizzazioni dei diversi Stati del Darfur – continua l’articolo – si è trattato di contrasti di tipo politico-sociale. Per il resto il Darfur era e rimane terra di diversità e convivenza e la sua gente sostiene i valori della generosità, del coraggio e della protezione dei propri ospiti; non certo dell’odio, del saccheggio e dell’omicidio, modalità che sono sempre e solo appartenute ai Janjaweed, con i vari nomi che negli anni questa milizia si è auto-attribuita: Guardie di Frontiera, Ambaga, Consiglio del Risveglio, Forze di Supporto Rapido. E dietro ci sono sempre loro, impegnati ad annientare le comunità, a impadronirsi delle terre e degli animali, a distruggere i villaggi e a uccidere i loro abitanti. E quello che nel 2023 hanno fatto nei vari Stati del Darfur oggi lo stanno ripetendo ancora in Darfur e purtroppo anche in tutto il Sudan, compresa la sua bella capitale Khartoum. La distruzione di un Paese. Il genocidio di un popolo. Ieri però è arrivato un nuovo messaggio in Whatsapp: Abdullah verrà dimesso dall’ospedale domenica prossima perché “le sue condizioni sono in continuo miglioramento”. Questa sì che è una bellissima notizia. Da una telefonata che infine riusciamo a fare vengo a sapere che Abdullah era arrivato a casa loro non camminando sulle sue gambe, ma accompagnato e sostenuto da altri ragazzi sudanesi, anche loro in fuga. Ora riesce a camminare e anche a “chiacchierare”. Circa il nutrimento, per il momento bisogna limitarsi a latte e succhi di frutta, oltre alle flebo. Suliman continua a ringraziare per una piccola somma che con una rapida colletta avevo inviato non appena saputa la notizia di questo arrivo inaspettato: senza quei soldi non avrebbe potuto pagare gli esami medici, le cure e la degenza ospedaliera. Perché è tutto a pagamento per gli stranieri. “Anche se devo parlare devo pagare soldi in Egitto” dice, con tono più amaro che ironico. Solo quando si ottiene l’asilo politico si può andare nell’ospedale dell’Onu o anche in un ospedale normale a carico (non intero) dell’Onu stessa. Gli chiedo del suo asilo politico, quanto manca per avere la convocazione: ancora quattro mesi, sarà a dicembre (dal dicembre scorso che ha presentato la domanda). E’ arrivato in questi giorni il suo amico italiano Domenico, già console (o qualcosa del genere) in Sudan e gli ha portato diverse scatole della sua medicina per la prostata. E anche questa è una buona notizia. Il figlio Ahmed, che lavora nelle zone aurifere del nord Sudan occupandosi della telefonia satellitare, gli invia tutti i mesi i soldi dell’affitto, e anche le figlie, una dagli Stati Uniti e l’altra dalla Germania si danno da fare come possono. Affetto e premure non mancano dalla famiglia stretta, ma oggi Suliman ha una voce diversa, quella di una persona sfinita, che ha completamente esaurito la sua “sabur” (pazienza, proverbiale in lui). Glielo dico. Mi risponde che i motivi sono il vivere fra persone malate – Abdullah, la moglie Fatima, lui stesso – e “la povertà”. Ma come si può non essere immensamente, eternamente tristi e pieni di dolore quando non ci sono più la tua casa, la tua città, il tuo Paese, la tua gente? Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ https://www.pressenza.com/it/2025/07/suliman-fatima-e-la-tenace-resistenza-di-al-fashir-in-darfur/         Francesca Cerocchi
Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed (Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano -ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale, la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina (Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale). Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste, ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”. Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan finito” dice laconicamente il mio amico per telefono. Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti a non finire. E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi. “Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non puoi abitare e non puoi andartene. Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese, brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il futuro. Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100 dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa). Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi. Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del Mar Rosso. Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire), avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo: molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno” ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”. Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha poca acqua lì alla foce); è un caldo secco. La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco: “Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”. Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”. La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad oltranza, come quel 25% di Al Fashir. Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ Francesca Cerocchi
Darfur: il 97% della popolazione senza acqua a sufficienza denuncia COOPI
«L’85% della popolazione sfollata a El Fasher (Sudan, Nord Darfur) non ha accesso a beni e servizi essenziali e nella città restano attive solo tre fonti di approvvigionamento idrico: ben il 97% della popolazione è al di sotto degli standard minimi di accesso all’acqua». A lanciare l’allarme è l’organizzazione umanitaria italiana COOPI – Cooperazione Internazionale, attiva in Sudan da oltre 20 anni. El Fasher – città già sotto assedio da quasi un anno e colpita da bombardamenti continui – in seguito all’attacco dello scorso aprile ai danni del campo per sfollati interni di Zamzam, ha subito un forte peggioramento della situazione umanitaria, con «migliaia di famiglie sfollate accampate in rifugi di fortuna o costrette a dormire all’aperto, senza accesso ad acqua pulita né a servizi igienici di base», spiega Ennio Miccoli, Direttore di COOPI Cooperazione Internazionale. «L’accesso umanitario e la capacità di risposta – aggiunge – sono estremamente limitati e ampiamente insufficienti a soddisfare i bisogni delle migliaia di persone recentemente sfollate, che si aggiungono ai 47.561 sfollati interni già presenti a El Fasher. Noi siamo presenti sul campo per supportare la popolazione civile, la più colpita dal conflitto, cercando di migliorare condizioni di vita molto critiche». Dal 2023 il Sudan è teatro di quella che è considerata la più grave crisi umanitaria al mondo, in cui più di 12 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case, diventando sfollate interne o rifugiandosi in Paesi confinanti come Ciad, Sud Sudan ed Egitto. La situazione è ulteriormente peggiorata proprio nell’aprile 2025 con l’attacco al campo sfollati di Zamzam, uno dei più grandi del Nord Darfur, che ha costretto oltre 500mila persone a fuggire in poche ore verso El Fasher. Attualmente nella città di El Fasher «la maggior parte dei punti d’acqua vicini è ormai inaccessibile a causa della violenza continua, e quelli ancora attivi sono sovrasfruttati e necessitano urgentemente di riparazioni. Nel frattempo, l’impennata dei prezzi del carburante ha ulteriormente compromesso il funzionamento dei sistemi di pompaggio dell’acqua», racconta un operatore COOPI presente a El Fasher. Inoltre, aggiunge, «le pessime condizioni igienico-sanitarie e il ricorso diffuso all’evacuazione in spazi aperti aumentano notevolmente il rischio di epidemie, come il colera o la diarrea acquosa acuta. A causa della grave carenza idrica, molte famiglie sono costrette a dare priorità all’acqua potabile rispetto all’igiene personale, con gravi rischi per la salute, soprattutto nei luoghi sovraffollati». In risposta a questa emergenza COOPI – Cooperazione Internazionale ha avviato un intervento umanitario d’urgenza dal titolo “Provision of Life Saving assistance for IDPs in emergency in El Fasher locality, North Darfur region”, con il sostegno del Sudan Humanitarian Fund di OCHA, garantendo il trasporto di acqua potabile, il monitoraggio della qualità dell’acqua, la distribuzione di contenitori e kit di emergenza e la costruzione di latrine, contribuendo a ridurre i rischi sanitari per la popolazione colpita e a garantire standard igienici di base. «Da aprile stiamo portando avanti i primi interventi di emergenza, con la distribuzione quotidiana di 70mila litri di acqua potabile per oltre 9mila sfollati, la consegna di due contenitori da 20 litri a 1.000 famiglie vulnerabili e la costruzione di 50 latrine d’emergenza nei nuovi campi informali sorti improvvisamente, ma si tratta solo di una prima risposta ai bisogni più urgenti. Le necessità della popolazione sono ancora enormi, il nostro impegno al fianco delle persone sfollate proseguirà quindi nel tempo», conclude Ennio Miccoli. Dal 2004, COOPI è attiva in Sudan e nel Nord Darfur per sostenere le comunità vulnerabili, attraverso un approccio multisettoriale volto a migliorare l’accesso a servizi essenziali come rifugi, sicurezza alimentare e mezzi di sussistenza, acqua, igiene e riduzione del rischio di disastri. Dallo scoppio della guerra civile nell’aprile 2023, l’organizzazione ha intensificato i propri sforzi umanitari, ampliando la presenza sul territorio e rafforzando la risposta d’emergenza per far fronte ai bisogni urgenti delle popolazioni colpite. Negli ultimi vent’anni in particolare COOPI ha realizzato 129 progetti raggiungendo oltre 4 milioni di beneficiari. Attualmente COOPI è attiva in Sudan principalmente nei settori sicurezza alimentare, acqua e igiene e riduzione dei rischi e preparazione ai disastri. Redazione Italia