Tag - Intesa Sanpaolo

Le fondazioni Compagnia di Sanpaolo e Cariplo voltano le spalle ai territori, alle persone e al Pianeta
Rappresentanti di 11 comunità che vivono sulle coste del Texas e della Louisiana, insieme a 14 organizzazioni della società civile internazionale, tra cui ReCommon, hanno inviato una lettera alle fondazioni Compagnia di San Paolo e Cariplo – due influenti azionisti della banca – chiedendo di spingere Intesa Sanpaolo a interrompere il finanziamento alle compagnie e ai progetti di produzione del GNL, a disinvestire dal gas fossile e a rafforzare la propria policy Oil & Gas escludendo esplicitamente l’espansione del GNL tra i criteri di finanziamento. Non è arrivata alcuna risposta. Intesa Sanpaolo è conosciuta in Italia come la “banca dei territori”. Negli Stati Uniti, però, finanzia pesantemente l’espansione del GNL, che ha un impatto devastante sulle comunità che vivono vicino ai nuovi gasdotti e terminal per l’export. Un silenzio particolarmente grave, considerando che entrambe le fondazioni dichiarano di operare in favore dello sviluppo sociale, della cultura e della sostenibilità. In quanto azionisti di riferimento, hanno infatti un dovere morale e fiduciario a garantire che la banca sia allineata con questi principi. Flaring dalle torce dell’impianto di Sabine Pass, in Texas, gestito da Cheniere Energy, il più grande degli Stati Uniti. Da qui prende il via la maggior parte del gas “naturale” liquefatto (Gnl) diretto in Europa. Foto © Carlo Dojmi di Delupis/ReCommon Accade invece il contrario. Intesa Sanpaolo è tra le prime 20 istituzioni finanziarie globali nel sostegno all’espansione del GNL e tra le 5 più grandi in Europa. A marzo 2024 la banca ha contribuito a organizzare l’emissione di un’obbligazione da 1.5 miliardi di dollari per Cheniere Energy. A luglio 2025, ha partecipato a una nuova emissione da 1 miliardo per l’espansione del terminal Sabine Pass LNG in Louisiana. Nel 2023 ha sostenuto Next Decade con 278,75 milioni di dollari in un’obbligazione e 1.08 miliardi di dollari di finanziamento per il terminal Rio Grande LNG. Da anni la prima banca italiana finanzia alcune delle più dannose compagnie di GNL e le loro infrastrutture sulle coste del golfo del Messico negli Stati Uniti, tra cui Sabine Pass, Corpus Christi, Golden Pass, Lake Charles, Freeport LNG e Cameron LNG. Il costo umano e ambientale di questi progetti è allarmante. La concentrazione di terminal di GNL, raffinerie e impianti petrolchimici tra Texas e Louisiana sta aggravando una lunga eredità di razzismo ambientale e ingiustizia, esponendo le comunità a rischi sanitari gravissimi, inquinamento dell’aria e dell’acqua e tassi elevati di malattie. Ai sei impianti attualmente operativi si aggiungono oltre 20 nuovi progetti di GNL in fase di proposta. Nell’agosto 2025, un grave incidente di dragaggio al terminal Calcasieu Pass di Venture Global ha sversato tonnellate di fango tossico nei bayou, contaminando pesci, ostriche e gamberi e devastando la pesca locale, già colpita dalle industrie della zona. Nonostante tutte queste evidenze, l’ultima policy Oil & Gas di Intesa Sanpaolo non include nessuna restrizione per il finanziamento al GNL, e resta tra le più deboli d’Europa. “Le organizzazioni della società civile e i rappresentanti delle comunità locali hanno cercato il dialogo con la banca in numerose occasioni, attraverso lettere, appelli pubblici e domande dirette, senza mai ricevere risposta” commenta Susanna De Guio di ReCommon. “Ora i maggiori azionisti della banca – due fondazioni che si definiscono impegnate nel sostegno delle persone e del Pianeta, si stanno comportando nello stesso modo. Il loro silenzio di fronte alla nostra lettera è una chiara presa di posizione contro i territori statunitensi e le loro comunità, che evita le responsabilità della banca nel frenare il cambio climatico”.
“Don’t Buy Into Occupation”. Ancora complicità italiane nel genocidio dei palestinesi
C’è un fiume di denaro che continua a scorrere dall’Europa verso le aziende che sostengono l’occupazione israeliana e la guerra a Gaza, nonostante le varie condanne internazionali e la millantata adesione dei governi occidentali al rispetto dei diritti dei palestinesi. È quanto emerge dal quinto rapporto annuale “Don’t Buy into […] L'articolo “Don’t Buy Into Occupation”. Ancora complicità italiane nel genocidio dei palestinesi su Contropiano.
Dieci anni perduti. Rapporto sul sabotaggio dell’Accordo di Parigi
A pochi giorni dall’inizio della COP30 di Belém, in Brasile, ReCommon lancia oggi il rapporto “Dieci anni perduti – Come i protagonisti dell’estrattivismo fossile italiano hanno minato l’Accordo di Parigi”. Lo studio si concentra sulle attività dei protagonisti del comparto fossile e finanziario pubblico e privato oggetto delle campagne dell’associazione: ENI, Snam, SACE e Intesa Sanpaolo, di fatto tutti impegnati a sabotare l’Accordo di Parigi. Alla COP21 tenutasi nel 2015 nella capitale francese, vale la pena ricordarlo, i Paesi firmatari dell’accordo, compresa l’Italia, avevano promesso di «tenere le temperature ben al di sotto di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali, e proseguire l’azione volta a limitare l’aumento di temperatura a 1,5 gradi rispetto ai livelli pre-industriali». Dalla COP21 di Parigi, in Italia si sono succeduti cinque governi ed ENI ha prodotto in totale circa 6,39 miliardi di barili equivalenti di petrolio e gas, dichiarando ogni anno la propria volontà di aumentare la produzione di combustibili fossili almeno fino al 2030. Così la più importante multinazionale italiana potrebbe sforare del 73% (2024) e dell’89% (2025) i parametri previsti dagli scenari di zero emissioni nette (NZE) dell’Agenzia Internazionale dell’Energia per raggiungere l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura entro 1,5 gradi. Nello stesso lasso di tempo, Snam e le altre grandi società di trasporto del gas hanno speso fino a 900mila euro in attività di lobbying a Bruxelles, riuscendo a ottenere quasi 50 incontri con i massimi funzionari politici della Commissione Europea per discutere i loro progetti di gasdotti da costruire o acquisire. La società di San Donato Milanese è divenuta in pochi anni il più grande operatore della rete di trasporto del gas in Europa per infrastrutture controllate, corrispondenti a oggi a una rete di oltre 40mila chilometri di gasdotti, terminal di rigassificazione per 28 miliardi di metri cubi di capacità annua gestita, depositi di stoccaggio per 16,9 miliardi di metri cubi. Piani di investimento incentrati su petrolio e gas che non sarebbero possibili senza la mediazione e il supporto delle istituzioni finanziarie, a partire da quelle pubbliche. Controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, SACE è l’agenzia di credito all’esportazione italiana. Il suo ruolo è quello di rilasciare garanzie – cioè un’assicurazione pubblica – sia alle aziende, i cui progetti all’estero possono essere assicurati, sia alle banche commerciali, per garantire i prestiti ai progetti esteri delle aziende. Negli ultimi 10 anni, SACE ha rilasciato garanzie per il settore dell’energia fossile pari a 22,18 miliardi di euro. È l’operatività di SACE a fare dell’Italia il primo finanziatore pubblico dell’industria fossile in Europa e il quarto a livello globale. C’è, infine, il più grande gruppo bancario privato italiano: Intesa Sanpaolo. Secondo gli ultimi dati disponibili, nel solo 2024 i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte della banca di Corso Inghilterra sono aumentati del 18% rispetto all’anno precedente, raggiungendo la cifra di 11 miliardi di dollari, mentre gli investimenti sono saliti del 16% (10 miliardi a inizio 2025). ENI si conferma come la corporation fossile più finanziata da Intesa Sanpaolo; forte è anche la crescita del sostegno a Snam (+60% negli investimenti e +96% di finanziamenti nel 2024). «Quando si parla di crisi climatica c’è chi ha maggiori, incomparabili, responsabilità rispetto al singolo individuo: i gruppi industriali e finanziari, che sono parte strutturale di un sistema improntato sull’energia fossile. L’Italia non fa eccezione», commenta Simone Ogno di ReCommon. «Per troppo tempo questa crisi è stata raccontata come un fenomeno astratto, nascondendo così il fatto che ne stiamo già pagando letteralmente le conseguenze sul piano materiale. Crisi climatica significa infatti impatti sociali, economici e ambientali. È arrivato il momento che i responsabili siano in prima fila a pagare i costi di questa crisi», conclude Ogno.     Re: Common
Ci serve davvero il gas di Trump?
Il gas naturale liquefatto (GNL) è stato uno dei temi caldi dell’ultima campagna elettorale per le presidenziali statunitensi, dal momento che l’ex presidente Joe Biden aveva introdotto una moratoria sulle nuove approvazioni per la costruzione di terminal per l’export, mentre Donald Trump prometteva di promuovere una rapida espansione del settore. Sappiamo tutti come è andata a finire e anche come la complessa partita dei dazi, intavolata dall’inquilino della Casa Bianca, abbia compreso un passaggio molto rilevante sul GNL a stelle e strisce e sulla sua invasione dei mercati europei. Il governo Meloni, notoriamente molto amico dell’amministrazione Trump, non si è fatto trovare impreparato, potendo contare sull’entusiasta sostegno del campione nazionale. ENI, infatti, lo scorso luglio si è prodigata per firmare un contratto con la società americana Venture Global per l’acquisto di 2 milioni di tonnellate di gas l’anno per i prossimi 20 anni. Trump visita il terminal GNL di Cameron, 14 maggio, 2019 (Foto di Shealah Craighead, Official White House ), Pubblico Dominio. A partire dal 2022 l’Italia ha incrementato le proprie importazioni di GNL, utilizzando i terminali esistenti di Panigaglia, Adriatic LNG e OLT Toscana, e ampliando la capacità con l’entrata in funzione del nuovo FSRU di Piombino (maggio 2023) e, più recentemente, di Ravenna. Secondo ARERA, nel 2024 l’Italia ha importato circa 14,7 miliardi di metri cubi di GNL, pari a circa il 25 % delle importazioni complessive di gas. Le principali provenienze del GNL sono Qatar, Stati Uniti e Algeria, che insieme coprono circa il 95 % del totale. In questo contesto, le forniture statunitensi hanno assunto un ruolo crescente, fino a rappresentare oltre un terzo del GNL importato dall’Italia nel 2024. Prima di ENI, quindi, c’era già Snam, che gestisce gli impianti qui sopra citati ed agisce come ponte logistico e infrastrutturale che permette all’Italia di ricevere il GNL dagli USA. Non poteva mancare il sostegno finanziario a questo nuovo patto transatlantico basato sul gas: la più importante banca del nostro Paese, Intesa Sanpaolo, ha fiutato da qualche anno l’appetibilità economica del business del GNL, con finanziamenti e investimenti direttamente nelle principali compagnie sviluppatrici ed in mega terminal di esportazione. La banca ha sostenuto colossi come Cheniere Energy, Woodside, Venture Global e NextDecade, quest’ultima promotrice del terminal Rio Grande LNG in Texas, un progetto duramente criticato da comunità locali e ambientalisti per l’impatto su clima, salute e biodiversità. Ma tutto questo gas serve davvero? La capacità di esportazione di GNL esistente è già sufficiente per soddisfare la domanda futura con i terminali di esportazione in funzione. Con lo spropositato numero di proposte di espansione sul tavolo, gli esperti dell’Institute of Energy, Economics and Financial Analysis (IEEFA) prevedono un eccesso di offerta di GNL nei prossimi due anni, prima di quanto inizialmente stimato. IEEFA ritiene che i principali Paesi importatori di GNL ridurranno la domanda entro il 2030. Le importazioni di GNL in Europa sono diminuite del 20% dal 2021 e tre quarti dei terminal di importazione potrebbero essere inutilizzati entro il 2030. Ciò significa che gran parte delle infrastrutture rischierebbe di restare largamente sottoutilizzata. Eppure il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin ha recentemente firmato a Roma una dichiarazione congiunta con gli Stati Uniti per rafforzare la cooperazione energetica e incentivare l’import di GNL americano. Nell’accordo si parla esplicitamente di “favorire investimenti nelle infrastrutture di importazione e rigassificazione in Italia, nonché nelle infrastrutture di esportazione statunitensi”. Così facendo, il governo non solo ignora le analisi indipendenti sul rischio di forniture eccessive, ma espone il Paese a un doppio fallimento: da un lato l’aumento della dipendenza da combustibili fossili in contrasto con gli obiettivi climatici, dall’altro la possibilità concreta che le nuove infrastrutture diventino stranded assets, cioè investimenti inutilizzati che finiscono per gravare sui cittadini attraverso tariffe e sussidi. La gran parte dei terminal per l’esportazione di GNL, che negli Stati Uniti si sono moltiplicati rapidamente negli ultimi anni, sono concentrati nel Golfo del Messico, tra gli stati della Louisiana e del Texas, in zone che sono già state siti di industrie petrolchimiche e sono vulnerabili agli eventi estremi e che sono abitate prevalentemente da comunità afro-americane e a basso reddito. Delle sei mega infrastrutture già operative, 3 sono già in fase di ampliazione, altre 4 sono in costruzione, e nella regione sono state presentate oltre 20 proposte per nuovi terminal o espansioni di quelli presenti. Il ritorno di Trump, con la sua agenda pro-gas e pro-fossili, trasforma il GNL in un’arma geopolitica al servizio delle corporation industriali e finanziarie. Il governo della Meloni si accoda senza battere ciglio, firmando accordi con Washington proprio mentre la domanda europea crolla e gli analisti parlano apertamente di una bolla. Si ignorano i dati, si ignorano le comunità e si ignora la scienza, pur di rafforzare un sistema basato sui combustibili fossili che ci condanna a costi inutili e a infrastrutture destinate a restare vuote. E il prezzo non è solo finanziario: ogni nuovo terminale significa più emissioni climalteranti, più impatti devastanti sulle comunità locali e sugli ecosistemi già sotto pressione. Altro che sicurezza energetica: questa è una scommessa miope che rischia di lasciare solo macerie finanziarie, sociali ed ecologiche. Sei dei nuovi progetti sarebbero concentrati intorno ai due distretti di Calcasieu Parish e Cameron Parish. L’organizzazione statunitense RAN ha stimato che, fossero costruiti tutti, in un anno di operazioni potrebbero causare la morte prematura di 77 persone per la contaminazione locale prodotta. Aggraverebbero inoltre i danni alla salute per le persone residenti, la discriminazione ambientale, perdita delle economie locali, oltre a contribuire al cambio climatico. Preoccupazioni più che legittime, come conferma un grave incidente accaduto lo scorso agosto, presso il terminal Calcasieu Pass della Venture Global, il già menzionato partner del Cane a sei zampe. Durante un’operazione di dragaggio tonnellate di fanghi si sono riversati nei bayou, gli specchi d’acqua tipici dell’ecosistema del delta del fiume Mississippi, e nel lago Big Lake, danneggiando enormemente le attività di pesca, molto diffuse nell’area, con tossine sconosciute. Solo a inizio settembre, Venture Global e le autorità locali hanno ammesso che gli sversamenti avevano compromesso, tra le altre, le coltivazioni di ostriche.
Il greenwashing di Intesa Sanpaolo
Nel 2024, la Great Green Investment Investigation, inchiesta giornalistica guidata dalle piattaforme olandesi Follow the Money e Investico, ha preso in esame 1.277 fondi di investimento che utilizzavano la sigla “ESG” nel proprio nome e li ha confrontati con i database sull’industria fossile messi a disposizione dalla ong tedesca Urgewald. Oltre il 40% di questi fondi “sostenibili” erano in realtà investiti in compagnie di combustibili fossili. Un dato che denuncia, in termini concreti, il problema del greenwashing nel settore finanziario, evidenziando come una quota rilevante di fondi “ESG” possa includere attività contraddittorie rispetto agli obiettivi dichiarati. Avendo notato il problema significativo del greenwashing nei fondi finanziari sotto la sua supervisione, l’ESMA (European Securities and Markets Authority) ha introdotto nel maggio 2024 delle nuove linee guida volte a combattere pratiche ingannevoli di finta sostenibilità, garantire maggiore trasparenza e responsabilità nelle valutazioni ambientali, uniformare e rafforzare l’integrazione dei criteri ESG nei processi di investimento e reporting all’interno del mercato finanziario europeo. Nello specifico, tra i diversi criteri di esclusione presenti nella nuova normativa ESMA, i fondi di investimento allocati nel mercato europeo e che presentano nel proprio nome termini relativi ad “ambiente”, “impatto”, “sostenibilità” devono escludere quelle corporation che derivano una parte significativa dei ricavi da: * Estrazione di carbone fossile e lignite * Estrazione, raffinazione o distribuzione di petrolio e gas * Produzione di energia elettrica con un’intensità di emissioni di gas serra superiore a 100g CO₂e/kWh Un impatto diretto? Nel mercato europeo, industrie del comparto fossile come Eni e Snam non dovrebbero più rientrare in fondi di investimento che utilizzano termini legati a ESG. Questo è quello che ha portato Eurizon, asset manager della prima banca italiana Intesa Sanpaolo, a dover togliere il riferimento ESG da alcuni dei propri fondi tra cui il fondo “Eurizon Bond Corporate Smart ESG”, di circa 246 milioni di euro, che è diventato “Eurizon Bond Corporate EUR LTE”. Una scelta di comodo: togliere il riferimento all’ESG invece di fare pulizia e disinvestire finalmente dalle compagnie di combustibili fossili presenti nel fondo tra cui Eni, Snam, Exxon, Shell, TotalEnergies. Fino a pochi giorni fa, un fondo di investimento pieno delle major del settore oil&gas veniva venduto come “sostenibile”. Nonostante le nuove linee guida dell’ESMA rappresentino un importante passo avanti per sopperire alla discrepanza sostanziale tra le dichiarazioni di sostenibilità e le reali esposizioni agli asset considerati non sostenibili, i criteri dell’autorità europea non escludono esplicitamente quelle compagnie che stanno espandendo il proprio business nel settore del carbone, petrolio e gas e che quindi non sono allineate con gli obiettivi degli Accordi di Parigi. È necessario quindi un urgente intervento regolatorio più ambizioso ed incisivo per porre fine all’abuso del termine ESG che maschera un greenwashing sistemico. Nel frattempo, il 20 Maggio, Snam ha emesso un nuovo Sustainability-Linked Bond di due miliardi di dollari, destinato principalmente al mercato statunitense. Si tratta del più grande Sustainability-Linked bond in dollari mai emesso da una corporation europea e segna il debutto di Snam sul mercato USA. È il segnale di una fuga dai vincoli UE? Una strategia per mantenere accesso a funding “green” in mercati meno normati? 
Assemblea degli azionisti 2025, Intesa Sanpaolo si conferma la prima banca fossile italiana
Intesa Sanpaolo, la più importante banca italiana, continua ad aumentare i suoi finanziamenti e investimenti a favore di petrolio e gas. Nel giorno della sesta assemblea degli azionisti consecutiva a porte chiuse, l’istituto di credito torinese ha risposto alle domande scritte presentate da ReCommon di fatto ribadendo il suo forte e incessante impegno in favore del comparto fossile. Nel 2024, i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte del Gruppo Intesa Sanpaolo sono aumentati del 18% e ammontano a 11 miliardi di dollari. Anche gli investimenti sono in crescita: a gennaio 2025 sono saliti del 16% rispetto al gennaio 2024, per un totale di 10 miliardi di dollari. ENI si conferma come la multinazionale più finanziata da Intesa Sanpaolo tra quelle con i maggiori piani di espansione nell’estrazione di energie fossili su scala globale. Anche SNAM, colosso europeo nel trasporto di gas, entra con forza negli interessi della prima banca italiana, con un innalzamento del 60% negli investimenti e quasi un raddoppio (96%) dei finanziamenti nel 2024 rispetto all’anno precedente. Di fatto Intesa Sanpaolo non ha risposto in maniera adeguata alle domande poste da ReCommon sui numerosi progetti fossili sostenuti, ribadendo che non intende apportare significativi aggiornamenti sulle sue policy relative al carbone e all’oil&gas, nonostante numerosi competitor europei si stiano muovendo con più coraggio nella direzione di ridurre il sostegno al comparto fossile: le francesi BNP Paribas e Crédit Agricole, per esempio, dall’anno scorso hanno smesso di comprare bond nel settore oil&gas, mentre l’olandese ING ha interrotto i finanziamenti alle compagnie con nuovi progetti di estrazione di petrolio e gas e dall’anno prossimo smetterà di finanziare nuovi progetti per terminal di esportazione del GNL. Tuttavia, le linee guida che si è data la banca torinese impedirebbero finanziamenti a progetti in Paesi dove sono in atto conflitti armati, come in Mozambico, dove Intesa Sanpaolo potrebbe entrare a sostegno dei nuovi impianti per l’estrazione del gas al largo della costa e su terra promossi da ENI, che rispondono rispettivamente al nome di Coral North FNLG e Rovuma LNG. Anche su questo punto però non c’è chiarezza, mentre vale la pena rammentare che l’altro principale istituto di credito italiano, UniCredit, già dal 2023 aveva dichiarato che non finanzierà Rovuma LNG e lo scorso ottobre si è chiamato fuori anche da Coral North FNLG, progetto che attualmente è in attesa di chiudere l’accordo di investimento e su cui Intesa invece non si è mai espressa nonostante le sollecitazioni da parte di numerose organizzazioni della società civile internazionale. I progetti per l’estrazione del gas nella provincia settentrionale del Mozambico di Cabo Delgado hanno contribuito a esacerbare una situazione già profondamente segnata dal conflitto in atto promosso da milizie islamiste, che finora ha provocato oltre 4mila vittime e circa un milione di sfollati. «Intesa Sanpaolo dovrebbe prendere posizione pubblicamente evitando di finanziare nuovi progetti di estrazione e liquefazione in Mozambico, considerata anche la profonda crisi che sta attraversando il Paese, e fare così un passo in controtendenza rispetto ai grandi investimenti nel settore del GNL degli ultimi anni e al forte sostegno a Eni che proprio in Mozambico è capofila dei progetti Coral North FLNG e Rovuma LNG» ha dichiarato Susanna De Guio di ReCommon. «Ci sorprende inoltre che le assemblee degli azionisti della più importante banca italiana continuino a svolgersi a porte chiuse, azzerando la partecipazione democratica che noi di ReCommon abbiamo esercitato attraverso lo strumento dell’azionariato critico» ha dichiarato Daniela Finamore di ReCommon.     Re: Common
Assemblea degli azionisti 2025, Intesa Sanpaolo si conferma la prima banca fossile italiana
Roma, 29 aprile 2025 –Intesa Sanpaolo, la più importante banca italiana, continua ad aumentare i suoi finanziamenti e investimenti a favore di petrolio e gas. Nel giorno della sesta assemblea degli azionisti consecutiva a porte chiuse, l’istituto di credito torinese ha risposto alle domande scritte presentate da ReCommon di fatto ribadendo il suo forte e incessante impegno in favore del comparto fossile. Nel 2024, i finanziamenti a carbone, petrolio e gas da parte del Gruppo Intesa Sanpaolo sono aumentati del 18% e ammontano a 11 miliardi di dollari. Anche gli investimenti sono in crescita: a gennaio 2025 sono saliti del 16% rispetto al gennaio 2024, per un totale di 10 miliardi di dollari. ENI si conferma come la multinazionale più finanziata da Intesa Sanpaolo tra quelle con i maggiori piani di espansione nell’estrazione di energie fossili su scala globale. Anche SNAM, colosso europeo nel trasporto di gas, entra con forza negli interessi della prima banca italiana, con un innalzamento del 60% negli investimenti e quasi un raddoppio (96%) dei finanziamenti nel 2024 rispetto all’anno precedente. Di fatto Intesa Sanpaolo non ha risposto in maniera adeguata alle domande poste da ReCommon sui numerosi progetti fossili sostenuti, ribadendo che non intende apportare significativi aggiornamenti sulle sue policy relative al carbone e all’oil&gas, nonostante numerosi competitor europei si stiano muovendo con più coraggio nella direzione di ridurre il sostegno al comparto fossile: le francesi BNP Paribas e Crédit Agricole, per esempio, dall’anno scorso hanno smesso di comprare bond nel settore oil&gas, mentre l’olandese ING ha interrotto i finanziamenti alle compagnie con nuovi progetti di estrazione di petrolio e gas e dall’anno prossimo smetterà di finanziare nuovi progetti per terminal di esportazione del GNL. Tuttavia, le linee guida che si è data la banca torinese impedirebbero finanziamenti a progetti in Paesi dove sono in atto conflitti armati, come in Mozambico, dove Intesa Sanpaolo potrebbe entrare a sostegno dei nuovi impianti per l’estrazione del gas al largo della costa e su terra promossi da ENI che rispondono rispettivamente al nome di Coral North FNLG e Rovuma LNG. Anche su questo punto però non c’è chiarezza, mentre vale la pena rammentare che l’altro principale istituto di credito italiano, UniCredit, già dal 2023 aveva dichiarato che non finanzierà Rovuma LNG e lo scorso ottobre si è chiamato fuori anche da Coral North FNLG, progetto che attualmente è in attesa di chiudere l’accordo di investimento e su cui Intesa invece non si è mai espressa nonostante le sollecitazioni da parte di numerose organizzazioni della società civile internazionale.  I progetti per l’estrazione del gas nella provincia settentrionale del Mozambico di Cabo Delgado hanno contribuito a esacerbare una situazione già profondamente segnata dal conflitto in atto promosso da milizie islamiste, che finora ha provocato oltre 4mila vittime e circa un milione di sfollati. «Intesa Sanpaolo dovrebbe prendere posizione pubblicamente evitando di finanziare nuovi progetti di estrazione e liquefazione in Mozambico, considerata anche la profonda crisi che sta attraversando il Paese, e fare così un passo in controtendenza rispetto ai grandi investimenti nel settore del GNL degli ultimi anni e il forte sostegno a Eni che proprio in Mozambico è capofila dei progetti Coral North FLNG e Rovuma LNG» ha dichiarato Susanna De Guio di ReCommon.  «Ci sorprende inoltre che le assemblee degli azionisti della più importante banca italiana continuino a svolgersi a porte chiuse, azzerando la partecipazione democratica che noi di ReCommon abbiamo esercitato attraverso lo strumento dell’azionariato critico» ha dichiarato Daniela Finamore di ReCommon.