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La coscienza collettiva dei movimenti dal basso oltre la memoria selettiva dall’alto
Avendo partecipato l’altro ieri – presso l’Istituto Gramsci di Palermo – alla presentazione del libro di Donatella della Porta “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica”, di cui ci ha parlato Daniela Musumeci nel suo articolo, ritengo opportuno tornare su alcune questioni poste sia dal volume che dalla discussione scaturita dall’incontro con l’autrice. La ricerca condotta dalla sociologa della Normale di Pisa dimostra che in Germania, come anche in altri Paesi occidentali, i cosiddetti imprenditori del panico morale, categoria introdotta in sociologia agli inizi degli anni ‘70, hanno messo in atto già da anni, con l’ausilio degli apparati burocratici e dei media, azioni repressive nei confronti di tutti coloro che criticano la politica colonialista di Israele, usando lo stigma dell’antisemitismo. A farne le spese sono stati e sono in primo luogo intellettuali e artisti, tra questi anche ebrei dissenzienti, a cui viene negata la possibilità di esprimere le proprie idee in convegni o manifestazioni con strumenti indiretti, come la minaccia di sospendere i finanziamenti agli enti organizzatori, o diretti come negare il visto di ingresso nel Paese dove si svolge l’evento.  Queste forme di repressione si fondano su una prospettiva rovesciata che ha ridefinito il concetto di antisemitismo, mirando a farvi rientrare qualunque critica nei confronti dello Stato di Israele, ed è il frutto del senso di colpa vissuto dalla Germania per le responsabilità connaturate con la tragedia dell’Olocausto; non va dimenticato, peraltro, che anche altri Paesi europei condividono le pesanti responsabilità che hanno condotto alla Shoah, motivo per cui questa sorta di ridefinizione semantica dell’antisemitismo ha un’ampia diffusione in Europa e non solo.  Da un dato momento storico in poi, che possiamo individuare negli eventi che dopo la caduta del muro di Berlino hanno portato all’unificazione della Germania, la colpa originaria è stata fatta ricadere sui nuovi capri espiatori del terzo millennio, i migranti, che, essendo prevalentemente arabi e musulmani, vengono tacciati dal mainstream imposto dall’alto di essere i portatori del nuovo antisemitismo. Ecco, quindi, il dato caratteristico di questa prospettiva rovesciata: i colpevoli diventano innocenti e gli innocenti colpevoli, secondo un leitmotiv cavalcato dall’internazionale di destra che oggi governa o avanza in gran parte dei Paesi occidentali e che trova purtroppo anche sponda in formazioni della sinistra storica, come Spd e Verdi in Germania, e che si rafforza ulteriormente con il fermo ed ininterrotto sostegno degli USA alle politiche aggressive di Israele, condiviso sia dai presidenti repubblicani che da quelli democratici (Biden prima ancora di Trump, tanto per citarne uno). La memoria selettiva imposta dall’alto, così come ci ricorda della Porta, rende impossibile la realizzazione di una memoria che faccia risaltare gli elementi universalistici che andrebbero attribuiti a un evento tragico come l’Olocausto (“Se questo è un uomo” di Levi ci riconduce proprio a quel carattere); esso viene, invece, inquadrato come un evento unico e distinto dalle altre forme di razzismo che hanno caratterizzato le politiche coloniali dei Paesi occidentali e, soprattutto, non può mai essere associato alle azioni compiute da Israele. È di tutta evidenza l’incapacità civile di riconoscere il razzismo che c’è dietro questa impostazione, e anche la sinistra in Germania è parte di questa assimilazione: le azioni di boicottaggio portate avanti dal movimento Bds, anche se non sono illegali, vengono stigmatizzate come antisemite.  In Italia, le azioni di panico morale sono meno strutturate e istituzionalizzate, tanto è vero che prendono campo tante forme di mobilitazione, a partire dalle università e dai movimenti di base, finalizzate ad azioni di boicottaggio e ad esprimere piena solidarietà al popolo palestinese. C’è voluto, tuttavia, un po’ di tempo prima che partiti e organizzazioni della sinistra storica si esprimessero esplicitamente contro il genocidio e avviassero azioni di mobilitazione più incisive: Donatella della Porta ci ha ricordato l’importanza della crescente azione dal basso, portata avanti soprattutto dal sindacalismo di base e dai movimenti più radicali (si pensi alla mobilitazione dei portuali di Genova a sostegno della missione di Global Sumud Flotilla), auspicando al contempo che si ricrei una concezione di sinistra della solidarietà simile a quella attuata negli anni ‘70 con i profughi cileni scampati al golpe sanguinario di Pinochet. Da tutto ciò nasce la necessità di una riflessione attenta sul che fare, per superare la difficoltà evocata da Baris, docente dell’Università di Palermo, ad immaginare interventi concreti di contrasto a questa immane tragedia, e che vadano oltre le azioni di boicottaggio la cui importanza è stata in ogni caso sottolineata sia da della Porta che da  Amal Khayal, attivista del CISS che ha partecipato al dibattito in collegamento con un appassionato intervento.  Condivido quanto sostenuto da Giuseppe Lipari, Phd presso la Normale e attivista nei movimenti giovanili, in merito ai cambiamenti determinati dalle iniziative assunte dai movimenti dal basso che sono riuscite ad affermare una nuova coscienza collettiva ed a modificare le modalità di azione degli altri attori sociali della sinistra. Il sostegno diffuso a Sumud Flotilla è il segno tangibile di come in questo caso non si sia creata una situazione di panico morale così come era successo per altre iniziative umanitarie ferocemente stigmatizzate dal mainstream della destra. Il libro della professoressa della Porta è stato scritto un anno fa e da allora ad oggi pare che qualcosa sia cambiato, e anche se la docente della Normale rimane scettica sulla situazione in Germania: la solidarietà concreta nei confronti del popolo palestinese è cresciuta ed assume proporzioni sempre più vaste non solo nel mondo intellettuale ma anche in ampi strati sociali; di fronte all’escalation portata alle estreme conseguenze da Israele con quella che ormai appare a tutti gli effetti come la soluzione finale, le posizioni dei governi iniziano a segnare una certa distanza, almeno nelle dichiarazioni, dopo aver a lungo offerto un sostegno incondizionato. A margine, mi preme sottolineare che queste forme di criminalizzazione del dissenso attuate dagli imprenditori del panico morale ormai hanno come obiettivo tutti i grandi temi che sono al centro del dibattito politico e sociale, dai processi migratori ai cambiamenti climatici, dalle lotte per l’uguaglianza sociale e politica ai movimenti contro le discriminazioni sessuali. L’omicidio di Kirk negli USA e la conseguente reazione scomposta del mondo MAGA che attribuisce alla sinistra la matrice della violenza, trova sponda in Italia grazie a Meloni e a tutto il centrodestra, evocando a sproposito la stagione del terrorismo. Ci vuole una sinistra organizzata e strutturata che sappia mettere in atto azioni di contrasto legale all’offensiva della destra internazionale, responsabile di condurci sul baratro di un nuovo conflitto mondiale e delle forme repressive nei confronti di ogni dissenso anche grazie all’utilizzo martellante dei mass media omologati al sistema di potere. Il solidarismo internazionalistico degli anni ‘70, che ci ha ricordato della Porta, insieme alla capacità di ritrovare i caratteri universalistici delle lotte per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia sociale devono tornare ad essere la cifra della sinistra. L’atroce esperienza della vicenda palestinese, pur nel suo drammatico e attuale epilogo, ci dimostra che il potere dei media di regime, delle istituzioni e delle burocrazie non sempre riesce a condizionare le coscienze; anzi, tanto maggiore è il livello aggressivo delle elités istituzionali nell’affermare le proprie visioni del mondo, tanto più forte potrà essere la presa di coscienza collettiva capace di dare vita a movimenti di lotta in tutto il mondo. Redazione Palermo
Antisemitismo, antisionismo, razzismo: un libro e una riflessione a più voci
È stato presentato ieri all’Istituto Gramsci Siciliano il libro di Donatella Della Porta Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica (Altreconomia). Il prof. Nicosia, aprendo l’incontro, ha ricordato come il 7 ottobre costituisca una lacerazione politica ed etica che impone una ricostruzione storica. Il prof. Tommaso Baris dell’Università di Palermo ha conversato con l’autrice, dopo averla presentata: Donatella Della Porta è docente di scienze politiche alla Scuola Normale di Firenze ed ha pubblicato molti libri, fra i quali Proteste e polizie (Il Mulino) e No Global sui fatti di Genova 2001. Il suo ultimo scritto esamina l’accusa di antisemitismo usata oggi in Germania in quanto criminalizzazione delle critiche a Israele. Baris: L’antisemitismo è il lato oscuro della coscienza europea che si porta dietro la memoria dell’Olocausto e presume un progetto razzista più ampio, la discriminazione di Rom Sinti omosessuali etc. Ed è un problema non solo tedesco ma anche francese italiano norvegese ucraino polacco. La responsabilità dell’Olocausto è di tutta Europa e attiene alle destre. Com’è potuto accadere che adesso venga rovesciata sulle sinistre? Della Porta: A destra oggi il razzismo si rivolta contro i migranti. In Germania  si parla adesso  di “antisemitismo importato” dai migranti musulmani, dimenticando che un quarto dell’elettorato vota Alternative für Deutschland. È stata negata la connessione fra antisemitismo e razzismo in Francia Germania e Gran Bretagna, cioè proprio nei Paesi che più hanno contribuito alla Nakba. In Israele c’è stata la pretesa, da parte della destra nazionalista, di rappresentare uno Stato religiosamente “pulito”; la diaspora ebraica nel mondo, invece, continua a ripetere “Non in mio nome”. Anche in Germania gli ebrei antisionisti sono i primi obiettivi della repressione. Le “Voci Ebraiche per la Pace” sono state dichiarate associazioni estremiste. L’antisemitismo viene percepito come distaccato dal razzismo. È stato introdotto il “reato di comparazione”: parlare di genocidio è antisemita, paragonare Gaza a un ghetto è reato. Israele non può essere criticato, artisti e intellettuali ebrei ed ebree come Judith Butler o Nancy Fraser sono banditi. Baris: A proposito di comparazione, l’insistenza sul 7 ottobre ricorda l’interrogativo ripetuto contro la Resistenza “E allora le foibe?”. Colonialismo e nazismo, allora come oggi, e non solo rispetto alla Shoah ma anche per l’apartheid in Namibia e Sudafrica, per esempio, sollevano la questione della responsabilità. Della Porta: La memoria induce a chiedersi che fare. In Germania l’Olocausto è stato inteso come una parentesi nella storia gloriosa dell’Occidente. Io credo invece che la Resistenza continuamente rivisitata sia ancora attuale. I bambini arabi in visita ad Auschwitz si identificavano con le vittime, ma veniva detto loro che dovevano identificarsi con i colpevoli, distruggendo così la possibilità di empatia fra i popoli. È mancata la possibilità di costruire identificazione tra popolazione tedesca e palestinesi. È stato criminalizzato il boicottaggio, mentre qui da noi in Italia è stato possibile: al festival del cinema di Venezia, in occasione della partita di calcio con Israele, col movimento BDS, lo sciopero della fame dei lavoratori della sanità, l’iniziativa dei camalli di Genova, le mobilitazioni sindacali. Interviene a questo punto Giuseppe Lipari, collaboratore della prof. Della Porta presso la Scuola Normale di Firenze e si interroga sul che fare di fronte alla “soluzione finale” in Palestina. Anche in Italia, sostiene, viene oppressa la libertà e si muove la dinamica del “panico morale”. L’omicidio Kirk negli USA ha scatenato pure qui da noi accuse di violenza alla sinistra. Esiste poi un controllo governativo sui panel delle lezioni universitarie. Si connette da remoto Amal Khayal, responsabile del CISS a Gaza, dove ha perso tanti amici e parenti e che non manca mai di partecipare alle iniziative per la Palestina. Nel mio Paese non esisteva l’antisemitismo, spiega. I miei nonni convivevano con i vicini ebrei. Del resto, anche i palestinesi sono semiti! Ma il termine “antisemitismo” intende surrettiziamente solo l’odio contro gli ebrei. Il sionismo è altra cosa, è un’ideologia nazionalista, e dunque altra cosa è anche l’antisionismo. Che cosa può fare il movimento antisionista per i palestinesi? La campagna BDS può aiutare a bloccare il genocidio nella striscia di Gaza e così pure il dibattito nelle scuole e all’università. A questo proposito, Baris cita la mozione della Normale di Firenze che rifiuta ogni tipo di rapporto sia economico sia culturale con le istituzioni che collaborino alle azioni militari o alle occupazioni civili nei Territori. Questa mozione è stata definita antisemita, ricorda Dalla Porta: Ebrei allora e Palestinesi adesso sono additati come fonte del male dalle ideologie dell’estrema destra ostili alla cultura “woke” e al “gender”. Ma arte sport musica sono luoghi della politica: anche lì occorre praticare il boicottaggio e costruire solidarietà. Inoltre si può contribuire a fermare lo sterminio con aiuti concreti, come borse di studio per gli studenti profughi, come si fece con i profughi cileni dopo l’undici settembre 1973. Quanto alle scuole, la celebrazione della “giornata della memoria” il 27 gennaio in sé non è un errore né è propaganda, ma bisogna evitarne la banalizzazione e la strumentalizzazione, perché può rischiare di provocare “lo svuotamento semantico dell’antisemitismo” o peggio il suo rovesciamento razzista in chiave antipalestinese. Occorre non dimenticare che l’attuale genocidio in passato ha trovato sponda nel centro-sinistra: Biden e Scholz vendettero armi a Israele. Lipari conclude la serata invitandoci a guardare, pur nella tragedia, il lato positivo: il movimento internazionale, pur con tutte le sue contraddizioni, sta funzionando oltre la rassegnazione e il conformismo, come dimostra la Global Sumud Flotilla. Ci lasciamo proprio per raggiungere il presidio dell’equipaggio di terra alle 20 a Piazza Verdi, cui parteciperà anche Pif. Daniela Musumeci
La memoria cortissima delle comunità ebraiche italiane
Ormai un fatto mi appare acclarato: le comunità ebraiche italiane soffrono di dipendenza patologica da Israele. In particolare, quelle di Roma e Milano si sono distinte per delle dichiarazioni deliranti con cui tacciano di antisemitismo chiunque osi parlare delle sofferenze dei palestinesi di Gaza e Cisgiordania. Le comunità ebraiche italiane […] L'articolo La memoria cortissima delle comunità ebraiche italiane su Contropiano.
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Seconda parte
LE OMBRE DELLA GERMANIA Dalla disfatta del 1945 alla guerra genocidaria a Gaza a cui siamo costretti ad assistere in mondovisione, la traiettoria tedesca della memoria della Shoah è stata tutt’altro che lineare. Se guardiamo ai processi di giustizia del dopoguerra, il quadro è impietoso. Cito la storica Mary Fulbrook, su circa un milione di tedeschi coinvolti a vario titolo nello sterminio dei civili ebrei, solo 6.655 furono condannati alla fine del Novecento, meno del numero di persone impiegate nella sola Auschwitz. In La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963), Hannah Arendt ricorda che il cancelliere Konrad Adenauer temeva che un grande processo riaprisse tutti gli orrori e ravvivasse l’ostilità internazionale verso la Germania. Entrambe le Germanie dovettero fare i conti con un consenso al nazismo diffuso fino alla sconfitta: in Germania Ovest si preferì riabilitare la maggior parte degli ex nazisti, reintegrandoli nella vita pubblica; in Germania Est si commemoravano genericamente i “caduti del fascismo”, secondo la prassi sovietica di non riconoscere esplicitamente il genocidio degli ebrei, mentre molti quadri minori del passato nazista venivano assorbiti nella nuova identità antinazista. A ciò si aggiunse la campagna staliniana contro i “cosmopoliti senza radici”, che alimentò sospetto verso gli ebrei, accusati di alto tradimento e talvolta giustiziati. Nel ventennio successivo alla riunificazione, la centralità pubblica della Shoah si è stabilizzata come parte della grammatica civile della Repubblica Federale. Nel 2008 Angela Merkel dichiarò alla Knesset che la sicurezza di Israele rientra nella ragion d’essere della Germania, impegno ribadito anche dai governi successivi fino a quello odierno. Nel 2018 la Germania ha istituito a livello federale, e poi diffuso nei Länder, gli incarichi di commissario per l’antisemitismo. La maggior parte dei commissari non è ebrea e i mandati risultano spesso ampi e poco tipizzati. Come ha scritto la redazione di Jewish Currents in un articolo del 2023, un «anti-antisemitismo concepito in modo discutibile» è talvolta divenuto meccanismo di legittimazione della germanicità. Parliamo di figure, per lo più bianche e cristiane, che si presentano come portavoce “ufficiali” degli ebrei, mettono in scena una ebraicità di facciata (foto con kippah, simbolismi) e entrano frequentemente in conflitto con ebrei di sinistra in solidarietà alla Palestina, tra cui figli e nipoti di sopravvissuti, che vengono oggi arrestati con l’accusa di antisemitismo. È il terreno in cui tornano il «filosemitismo invadente» di Jean Améry, l’«allosemitismo» di Zygmunt Bauman e, sul piano geopolitico, il filosemitismo bellico di cui scrive Enzo Traverso: l’ebreo ridotto a nient’altro che un oggetto/simbolo codificato attraverso il quale passa la redenzione tedesca. Sempre la stessa Germania che ha costruito una solida Erinnerungskultur sulla Shoah e si vanta di una cultura della memoria e della disponibilità a fare ammenda per le pagine sanguinose del proprio passato, ha atteso fino al 2021 prima di riconoscere il genocidio coloniale contro la popolazione dei Nama e degli Herero avvenuto nell’attuale Namibia tra il 1904 e il 1908. E tutt’ora si rifiuta di parlare di alcun tipo di riparazione o compensazione. LA DIDATTICA DELLA SHOAH «Oggi si dà per scontato che la memoria della Shoah sia stata sempre centrale nelle coscienze occidentali, ma non è così: i sopravvissuti ebrei del nazifascismo, una volta rientrati dalle camere della morte, furono perlopiù accolti con repulsione dall’Europa cristiana e per decenni non furono ascoltati. Basti pensare a Primo Levi: Se questo è un uomo esce nel 1947 presso una piccola casa editrice; il riconoscimento pubblico arriva solo nel 1958 con Einaudi, che inizialmente lo aveva rifiutato. Nel dopoguerra si registrano violenze antiebraiche in tutta Europa; in Polonia nascono aggressioni e pogrom contro i superstiti ebrei dei campi nazisti, e nel 1967–68 una campagna antisemita di Stato che spinge all’esodo circa 13.000 ebrei. Ci furono episodi analoghi in Slovacchia e in Ungheria. Nell’URSS e nell’Europa orientale seguirono invece le campagne “anticosmopolite”, come il processo Slánský a Praga nel 1952. La memoria della Shoah come oggi la conosciamo prende forma soprattutto dopo il 1989. Il crollo del Muro, l’allargamento a Est e la necessità di un linguaggio memoriale comune fanno della Shoah il perno simbolico dell’Europa che si rifonda. Come ha scritto Tony Judt, la memoria della Shoah ha funzionato da “biglietto d’ingresso” all’Unione Europea, spesso però senza piena assunzione di responsabilità. L’Italia mostra tutti i limiti di un’istituzionalizzazione senza responsabilità. La legge del 2000 sulla Giornata della Memoria non menziona il fascismo e piuttosto insiste su chi “si oppose”, alimentando il mai sopito mito degli “italiani brava gente”. In Polonia, l’emendamento del 2018 alla legge sull’Istituto della Memoria Nazionale ha introdotto restrizioni sul modo di parlare del collaborazionismo polacco e dell’etichetta “campi polacchi”, con effetti raggelanti sul dibattito pubblico. In questa cornice, la Shoah ha iniziato a essere raccontata come “una storia di progresso”, una cesura morale che avrebbe rimesso l’Europa sulla retta via; un “inciampo nella storia” dell’Europa illuminista, una frattura spazio-temporale che confermerebbe, per contrasto, la virtù del percorso europeo. Questa narrazione teleologica produce due esiti nefasti che oggi vediamo manifestarsi in tutta la loro chiarezza; sacralizzazione ed eccezionalità da una parte, banalizzazione e negazione dall’altra. Credo che ricucire la Shoah alle genealogie della violenza europea (o forse meglio dire della violenza della storia del mondo) non relativizzi, ma chiarisca. Segregazioni, spoliazioni, colonizzazioni, campi e lavori coatti sperimentati nelle periferie imperiali aiutano a comprendere la peculiarità storica dello sterminio nazifascista, reso possibile da un apparato tecno-burocratico che fuse amministrazione, industria e logistica statale propria dell’epoca moderna. Per uscire dal monopolio del dolore e dalla competizione tra vittime, la didattica sulla Shoah va intrecciata con le storie rimosse del colonialismo e dei genocidi dimenticati nel Sud Globale. Forse, questo riposizionamento potrebbe disinnescare le guerre identitarie e culturali a cui assistiamo nel presente. La posta in gioco non è una graduatoria del male, ma un vocabolario condiviso che tenga insieme Shoah, colonialismi e altre violenze di massa senza eliminare le specificità di ognuna, così che la memoria possa essere terreno fertile per costruire alleanze e resistenze contro la violenza razziale». Link alla prima parte dell’intervista. Redazione Italia
Quale memoria? Shoah, Nakba e colonialismo sullo sfondo di Gaza. Prima parte
Intervista  di Marco Biondi divisa in due parti a Micol Meghnagi, sociologa che si occupa della costruzione dei processi memoriali della Shoah, del colonialismo italiano e della Nakba. Collabora con diverse testate giornalistiche tra cui Internazionale, Altreconomia, Jacobin, Micromega e il Manifesto. In questa intervista, analizziamo la costruzione della memoria della Shoah, dal dopoguerra a oggi, sullo sfondo del genocidio a Gaza, così come il tema dell’antisemitismo e del razzismo istituzionalizzato. Facendo mie le parole di Meghnagi, le lotte antirazziste sono interdipendenti, non cancellandone le differenze ma legandole in alleanza, nominandone le asimmetrie dei contesti e sottraendole alle strumentalizzazioni politiche. ANTISEMITISMO E ISLAMOFOBIA: QUAL È LA TRAMA COMUNE ? Vi è molto più in comune di quello che si crede tra un ebreo degli anni Venti in Europa e un musulmano del Sud Globale. Il fatto che non si riescano a cogliere le molteplici analogie è anche dovuto ad una profonda mancanza di conoscenza della storia ebraica come quella dei popoli soggiogati dal colonialismo europeo. Antisemitismo e islamofobia sono due facce della stessa grammatica di esclusione prodotta dalla modernità europea: ieri l’“ebreo” come nemico interno su cui proiettare ansie e crisi; oggi il “musulmano” come nuovo capro espiatorio. Entrambe costruiscono gerarchie del dolore, normalizzano politiche securitarie e coloniali e servono a dividere le stesse classi subalterne. Un antirazzismo coerente rifiuta la competizione vittimaria: tiene insieme le storie specifiche (Shoah, colonialismo, Nakba) e ne legge le connessioni strutturali, senza lasciare spazio alle strumentalizzazioni politiche». CHIESA CATTOLICA, ANTIGIUDAISMO E ANTISEMITISMO: PUÒ CHIARIRE DEFINIZIONI E INTRECCI STORICI ? In breve, a livello terminologico per antigiudaismo si intende genericamente l’ostilità principalmente di matrice teologica cristiana contro gli ebrei intesi come collettività, per antisemitismo ci si riferisce all’elaborazione moderna, a base “razziale”. Il confine è spesso labile ma è bene tracciarlo. Con antiebraismo intendo invece l’insieme delle pratiche e dei pregiudizi storici contro gli ebrei in senso ampio. Su questi temi, rimando al lavoro dello storico Simon Levi Sullam, e al suo libro “L’archivio antiebraico: il linguaggio dell’antisemitismo moderno” (Editori Laterza, 2008). Nel corso dei secoli, l’antiebraismo si è manifestato nei contesti più disparati, da quelli spirituali e religiosi a quelli laici e secolarizzati, in ambienti di destra come di sinistra, tra conservatori e progressisti. L’antigiudaismo ha funzionato da collante dell’Europa cristiana; un pregiudizio che, pur non essendo “razziale” in senso moderno, ha prodotto esclusione, spoliazione, ghettizzazione, violenza sistematica e norme discriminatorie. La differenza con l’antisemitismo moderno sta nell’immutabilità dello “status ebraico”: nell’antigiudaismo la conversione poteva teoricamente mutarlo, mentre tra Ottocento e Novecento l’idea di “sangue” lo rendeva indelebile. Questa suddivisione non è ovviamente didascalica. La cacciata degli ebrei e dei musulmani dalla Spagna nel 1492, per esempio, insieme agli statuti di limpieza de sangre, ha anticipato quelle logiche classificatorie razziste proprie dell’epoca moderna. Tra il II e il IV secolo, la Chiesa ha elaborato un compatto e duraturo sistema teologico che giudicava gli ebrei, intesi in modo collettivo, come popolo carnale, considerato colpevole in blocco dell’uccisione di Cristo, maledetto, immorale, diabolico e idolatra, che ha modellato il rapporto maggioranza/minoranza entro un sistema sociale. Certamente, le aperture del secondo Novecento, dal dialogo ebraico-cristiano a Nostra Aetate, hanno segnato un cambio di rotta importante, ma il superamento dei retaggi secolari non è mai automatico né immediato. L’antisemitismo è invece un concetto relativamente recente, coniato dal giornalista tedesco Wilhelm Marr alla fine dell’800. L’età moderna, insieme ai processi di secolarizzazione, alimentò l’illusione che l’ostilità verso gli ebrei fosse in via di estinzione proprio mentre, con l’emancipazione civile e politica, si consolidavano nuove forme di ostilità “politica”. Alla domanda «Chi è un ebreo?» non fu più possibile rispondere con i vecchi criteri: nell’immaginario moderno l’ebreo poteva integrarsi, convertirsi, mimetizzarsi e tuttavia restare tale. Il bersaglio dell’antisemita non era più solo una minoranza marginale ma un soggetto percepito come onnipresente e minaccioso per l’ordine sociale. L’antisemitismo moderno nasce in Occidente, all’incrocio tra cristianesimo politico, nazionalismi e razzismo “scientifico”, ma non resta confinato lì: tra la fine dell’’Ottocento e la prima metà del Novecento, viene importato e ibridato dal colonialismo europeo nel mondo arabo, anche tramite la circolazione dei Protocolli dei Savi di Sion (diffusi, fra l’altro, al Cairo negli anni Venti e Trenta) e la propaganda nazista in arabo durante la Seconda guerra mondiale. Ciò avviene mentre si disgrega l’Impero ottomano, e prendono forma il nazionalismo arabo e il sionismo. Dopo la Shoah, con la nascita di Israele nel 1948 e la conseguente Nakba palestinese, i rapporti tra ebrei e musulmani nel così detto Medio Oriente si sono incrinati, forse in modo irrimediabile. Tra il 1948 e il 1967, in paesi come la Libia, Iraq, Yemen e Afghanistan si registrano pogrom, punizioni collettive ed espulsioni di ebrei, che trovano rifugio soprattutto in Israele e in Occidente, tra cui la mia famiglia. In alcuni casi, come riportano gli storici Avi Shlaim ed Ella Shohat, nazionalismo arabo e movimento sionista concorsero all’esodo degli “ebrei arabi” dai paesi d’origine per perseguire i propri rispettivi interessi. IN CHE MODO L’ANTISEMITISMO È USATO COME STRUMENTO POLITICO E QUALI EFFETTI OSSERVA DOPO IL 7 OTTOBRE 2023? «La strumentalizzazione dell’antisemitismo è stata certamente facilitata dalla definizione approvata nel 2016 dall’IHRA (International Holocaust Remembrance Association), un organismo intergovernativo istituito alla fine del secolo scorso con lo scopo di promuovere la memoria della Shoah. Tuttavia, oltre a richiamare atteggiamenti indubbiamente antisemiti (come evocare un complotto ebraico globale o negare la Shoah), la definizione include 11 esempi applicativi, 7 dei quali riguardano la critica allo Stato di Israele, spostando così il baricentro dal pregiudizio antiebraico alla sfera del dissenso politico. Sebbene gli autori la qualificano non giuridicamente vincolante, in pochi anni dalla sua pubblicazione è stata adottata da numerosi Stati membri dell’Unione Europea e dagli Stati Uniti d’America. Dal 7 ottobre 2023, in vari contesti culturali e accademici europei e nordamericani si è prodotto, un clima di censura e repressione diretto principalmente a persone di origini palestinesi e a tutti coloro che esprimono solidarietà alla Palestina, in Germania, dispositivi amministrativi e culturali oggi richiedono dichiarazioni di adesione alla “ragion di Stato” pro-Israele a persone migranti principalmente di origini arabe, come se l’antisemitismo fosse un fenomeno “importato” dall’esterno quando invece affonda radici storiche in Occidente. Siamo in un’impasse: destre post-fasciste e governi occidentali strumentalizzano l’antisemitismo mentre lo alimentano; e i governi israeliani lo brandiscono cercando sponde proprio in quelle destre che ammiccano a chi, ottant’anni fa, deportava gli ebrei. In un Occidente che fatica a tenere insieme confini ed elettorati, Israele viene letto da molte destre come modello etno-nazionale, un popolo, una fede, un nemico (i palestinesi). Sono fantasie ideologiche (Israele non è monolitico), ma spiegano la convergenza fra filosionismo retorico e politiche identitarie. Ma non si cada in errore: il fatto che l’antisemitismo venga strumentalizzato non significa che non esista. Tutto il contrario. Uno dei pericoli di averlo distorto e strumentalizzato è dato dalla possibilità di girarsi dall’altra parte e dire: non è un problema. L’antisemitismo va necessariamente collocato dentro la sfera più ampia del razzismo: oggi il razzismo in Europa si è trasformato, le vittime sono i migranti, spesso persone arabe, nere, e/o musulmane, e lo vediamo nel cimitero dei nostri mari, così come nei i Centri di permanenza per il rimpatrio (CPR) e nelle normative sull’immigrazione che colpiscono i più vulnerabili. Infine, metto in guardia dalle letture selettive. Parlo di Occidente in quanto modello egemonico entro il quale viviamo, ma anche l’Oriente (dal Marocco alla Siria, dalla Russia all’India) non è immune da forme proprie di colonialismo e discriminazione razziale. Riconoscerlo non relativizza nulla, anzi rende l’antirazzismo coerente, l’antisemitismo non appartiene a una sola cultura o parte politica; e nessuna politica contro di esso sarà credibile se non si intreccia con la lotta contro tutte le gerarchie razziali, compresi islamofobia e razzismo anti-nero con il rifiuto delle strumentalizzazioni che lo trasformano in un’arma retorica. Credo che nessuna lotta contro l’antisemitismo possa essere efficace senza una presa di distanza netta dalle sue strumentalizzazioni politiche volte a sostenere le prassi di occupazione, colonizzazione ed eliminazione sistematica dei palestinesi». Redazione Italia
Fermare Israele
Il dibattito tra chi sostiene che la soluzione del conflitto mediorientale stia nella formula “due popoli, due Stati” e chi invece ipotizza la costituzione di un’unica entità statale, testimonia la giusta volontà di trovare una soluzione che salvi i palestinesi dallo sterminio, ma diventa una discussione sterile se si cerca di entrare troppo (e troppo astrattamente) nel merito delle ipotesi, perché ciò che solo conta in questo momento è fermare Israele prima che sia troppo tardi. Israele si presenta oggi come un tragico incidente della storia. Di base, si tratta del classico caso di interpretazione integralista, assolutizzata ed escludente, di una credenza religiosa che pensa di potersi imporre a dispetto di tutto e di tutti. Uno degli aspetti più caratteristici e deleteri di questo estremismo religioso è quello che si esprime attraverso l’idea della “guerra santa”. Una distorsione che in vari momenti della storia ha interessato in particolare tutte le religioni monoteiste come il Cristianesimo e l’Islam, mettendone in discussione quello che per altro verso va considerato il loro indubbio e positivo valore storico. Il sionismo rappresenta oggi questo tipo di estremismo, capace di mettere in gioco la stessa sopravvivenza del popolo palestinese sottoposto agli orrori del genocidio in corso. Bisogna fermare Israele! Non ci sono alternative! Se ciò non avverrà, domani, quando il presente sarà storia, ci chiederemo come sia stato possibile. Piangeremo i morti, ma ciò non basterà, perché resterà comunque aperta una ferita che prima di rimarginarsi potrebbe produrre altri conflitti, odi permanenti e ipotesi di vendette. Il male purtroppo, molto spesso, non produce altro che male. Oggi pagano i palestinesi. Domani pagheremo tutti, compreso il mondo ebraico che dovrà portare la macchia di questa onta, esattamente come la memoria delle crociate pesa ancora, a distanza di secoli, sul mondo cristiano. Fermare la follia sionista non è facile. Molte cose giocano a suo favore. La memoria dell’Olocausto, innanzitutto, che pesa più di qualunque altro misfatto del passato, proprio perché avvenuta entro le mura di casa nostra, sotto i nostri occhi e non in terre lontane. Qualcuno sostiene che da quel momento, al culmine dei tanti orrori della “seconda guerra dei trent’anni”, (come viene ormai sempre più spesso definito il periodo che va dal 1914 al 1945), si cominciò a delineare un nuovo modo di vedere la storia, al centro della quale non stava più “la figura dell’eroe vincente”, quanto piuttosto quella della “vittima”. Certamente un grande passo in avanti nel modo di vedere le cose. Una spinta alla speranza del cambiamento rivoluzionario in favore degli sfruttati e degli oppressi, che tuttavia, come tutte le cose di questo mondo, poteva essere ribaltata mostrando il suo possibile lato oscuro. A partire dall’inizio degli anni Settanta, Israele ha giocato sulla (falsa) identificazione di antisionismo ed antisemitismo, autoproclamandosi depositaria dell’eredità dell’Olocausto. L’attenzione ed il valore dell’essere “vittima”, come motore di una nuova etica della pace e dell’uguaglianza tra possibili “fratelli diversi”, è stata in questo modo trasformata in una sorta di diritto alla “pretesa della vittima vendicata”. Una follia che equivale a dire: “io sono per sempre la vittima, e chi è contro di me, a prescindere da ciò che io faccia e da ciò che lui dica, è per sempre il carnefice”. Sul piano della ragione sarebbe fin troppo facile smontare simili pretese, ma purtroppo a fare gioco è anche il profondo senso di colpa che attraversa l’Occidente per quanto avvenuto in passato, e che viene artatamente trasformato, da motore verso l’affermazione di un più radicale senso di giustizia, ad un passivo bisogno di espiazione: “tu sei per sempre il colpevole e non hai diritto di parola”. In questi suoi sporchi giochi Israele può poi contare, come suo ulteriore punto di forza, sull’appoggio incondizionato dell’Occidente, Usa in testa, che si serve dello Stato ebraico sul piano geopolitico, come avamposto armato nel cuore del mondo islamico, potendo anche, all’occorrenza, distinguere (sempre molto timidamente) la propria posizione da quella dello Stato sionista, giocando tra guerra e diplomazia. Come fermare dunque Israele? In realtà, anche su questo, sul piano puramente ipotetico la risposta sarebbe facile: ISOLAMENTO TOTALE dello Stato sionista, sia politico che valoriale, da parte del resto del mondo, motivato da un senso di repulsa e di sdegno che considera il genocidio in atto a Gaza come qualcosa di scandaloso che non ha bisogno di altre parole. Rottura dei rapporti diplomatici e commerciali. Se possibile espulsione dall’ONU, e al culmine dell’isolamento eventuale intervento di forze di interposizione. Sto sognando? Può darsi! In ogni caso la possibilità che le cose si evolvano positivamente e che Israele sia infine fermato, non credo possa essere affidata ai giochi delle diplomazie degli Stati, che nulla hanno potuto (o voluto) in quasi ottanta anni di arbitrio sionista. La sola ed unica speranza sta nella crescita di un movimento che sia in grado di mobilitare decine di milioni di persone in tutto il mondo. Solo in questo modo, creando una opinione pubblica a livello globale che si opponga al genocidio, si potranno piegare le politiche degli Stati, dando anche voce e visibilità alle forze ebraiche antisioniste, oggi messe all’angolo. Si farà in tempo a fermare le mani sporche di sangue dei sionisti? Non lo so! Quello che certamente so è che non vorrei che tra cinquanta o più anni, i nostri nipoti, oggi bambini, siano costretti a fare i conti con tutti i mali e le eredità di una catastrofe che la nostra generazione non ha saputo fermare. Per approfondire: Ilan Pappé, Dieci miti su Israele (Tamu ed.)- Ilan Pappé e Noam Chomsky, Palestina e Israele: che fare? (Fazi, ed.) e tanto altro (N.d.R.) Antonio Minaldi
La legge truffa sull’antisemitismo
La proposta di legge della Lega tendente a rendere l’antisemitismo reato perseguibile è talmente strumentale nel suo palese intento di criminalizzare qualunque intervento a sostegno della Palestina contro il genocidio in atto, da non meritare alcun tipo di commento che vada oltre un sentimento di repulsa. Malgrado ciò, approfittiamo della circostanza per fare un paio di riflessioni di natura generale inerenti a questo tipo di interventi legislativi. La prima questione riguarda il fatto che, se proprio si vuole creare un reato che condanna “le manifestazioni di odio” religioso, ma anche etnico razziale o di altro genere, (cosa tutt’altro che semplice, come vedremo di seguito), è innanzitutto necessario avere una prospettiva di ordine generale, evitando di fare leggi ad hoc con riferimenti a situazioni parziali. Detto in soldoni: non ha nessun senso fare una legge particolare contro l’antisemitismo invece di un provvedimento che comprenda pure la lotta all’islamofobia, o anche l’incitamento all’odio nei confronti di qualunque altra fede religiosa, compreso il cristianesimo, le religioni orientali ecc. Evidentemente si continua a giocare sporco strumentalizzando il senso di colpa per l’Olocausto degli ebrei che è ormai da tempo parte del nostro comune sentire di cittadini dell’Occidente. La seconda questione è forse ancora più delicata. Se è giusto condannare le espressioni di odio, specialmente quando queste appaiono come possibili presupposti per atti di violenza fisica, o anche solo simbolica, bisogna tuttavia stare attenti a preservare il principio del diritto di critica e di libera espressione del pensiero, che non deve riguardare necessariamente solo le scelte contingenti, ma che in linea di principio può rivolgersi anche ai contenuti “dogmatici” di ogni singola professione di fede. In sostanza, e giusto per capirci, la Bibbia e il Corano non sono testi sacri per tutti, e i loro contenuti dottrinali non possono essere ritenuti al di sopra del giudizio critico di chi in essi non si riconosce, soprattutto in ragione delle molteplici e spesso contrastanti interpretazioni che ne danno gli stessi “credenti”. Chiarisco subito che, pur essendo il sottoscritto ateo e “razionalista”, certe polemiche di natura “dottrinale”, per quanto legittime, non mi sembrano sempre appropriate, se non spesso addirittura controproducenti. Penso piuttosto che sia molto più utile, in nome del necessario incontro tra popoli e culture diverse, mettere in risalto quegli aspetti storicamente positivi che indubbiamente tutte le religioni hanno avuto, limitandosi, sul piano dei contenuti, a condannare, (possibilmente insieme credenti e non credenti), le interpretazioni “integraliste” tendenti allo scontro e all’esclusione dell’altro e del diverso. In pratica: no al sionismo genocidario; no alla jihad islamica (nella sua interpretazione di “guerra santa”); no alle sette evangeliche cristiane più estreme. Non credo di stare dicendo nient’altro che cose di puro buonsenso. Purtroppo però a confondere le acque fanno gioco provvedimenti volutamente ambigui come, per l’appunto, il progetto leghista che confonde antisemitismo e antisionismo, e che, in fin dei conti, usa la legge e il diritto come armi per limitare le libertà (la libertà di opinione innanzitutto) e per imporre dominio politico in un modo che è tipico dei regimi autoritari. Antonio Minaldi
“L’antisemitismo” e l’attentato a Washington
Il paradosso è che si trattava di un evento per portare aiuti umanitari a Gaza. Stiamo parlando della serata organizzata al Capitol Jewish Museum di Washington nel corso della quale sono stati uccisi due giovani funzionari dell’ambasciata israeliana, Sarah Milgrim e Yaron Lischinsky, rispettivamente 26 e 30 anni. Leggendo le cronache emerge un altro paradosso: entrambi erano impegnati per la pace e a creare un ponte tra Israele e Palestina e immaginiamo fossero anche loro contro il genocidio in atto a Gaza, al di là delle disquisizioni lessicali. Il profilo dell’attentatore, Elias Rodriguez, non è quello di un disperato, un fanatico, magari sottoproletario, ma di uno dei tanti che assiste impotente al massacro e alla distruzione della comunità palestinese con la complicità dei governi occidentali che negli ultimi giorni ipocritamente hanno ventilato ipotetici provvedimenti contro Israele. Rodriguez, 30 anni, quindi coetaneo di chi ha ucciso, era laureato, in passato per alcuni mesi sembra avesse militato nel Party for Socialism and Liberation, per poi uscirne. Insomma non un “fondamentalista”. L’esasperazione lo ha portato a compiere un atto ingiustificabile e che non cambierà di certo il corso degli eventi. Del resto la storia ci ha dimostrato ampiamente che l’omicidio politico, anche quando indirizzato contro il tiranno, difficilmente cambia le cose. In questo caso, oltre a spezzare la vita di due giovani innocenti prossimi al matrimonio, ha dato il via alla solita campagna contro “l’antisemitismo”, cavallo di battaglia delle cancellerie e dei media mainstream, quando è evidente che non si tratta di questo, come confermano le prime dichiarazioni dell’attentatore. Ma ogni occasione è buona per mischiare le carte, generare confusione, con il risultato di non saper distinguere quando in effetti ci si trovi di fronte a veri episodi di antisemitismo. Qui la malafede imperversa ed è noto che ogni critica è oggetto di tale accusa, anche quando a profferirla è un ebreo. Moni Ovadia ne sa qualcosa e con lui quegli ebrei della diaspora che a partire dal dopo 7 ottobre hanno gradualmente manifestato contro i crimini israeliani a Gaza e in Cisgiordania. E a proposito di cattiva informazione può essere efficace riportare quanto è successo alcuni giorni fa alla trasmissione di approfondimento “Fuori TG”, che va in onda dal lunedì al venerdì su Rai 3. Si parlava della campagna di Trump contro le università americane, in particolare Harward, e le conseguenze che sta provocando sulla ricerca. In studio era presente Antonio Di Bella e in collegamento con Harward una professoressa italiana che vi insegna da 14 anni. Di Bella oltre a condannare i provvedimenti di Trump subito si affanna a denunciare “l’antisemitismo negli atenei” e – parole testuali –  parla “di una vera e propria caccia all’ebreo”. Per fortuna la professoressa prima di rispondere alla domanda da studio provvede a smentire Di Bella, che ascolta basito, e precisa che insegna da diversi anni nell’università e non ha mai assistito a nessuna caccia all’ebreo. In questo caso c’è stato chi non si è fatto intimorire e ha messo le cose in chiaro, ma è emblematico come si costruiscono notizie ad arte. Sicuramente ci sono stati episodi di intolleranza ma da qui a parlare di “caccia all’ebreo”, come si fosse assistito ad una nuova “Notte dei cristalli”, ce ne corre. Tornando all’attentato di Washington l’auspicio è che il gesto disperato e omicida di Rodriguez non faccia proseliti, perché è evidente che oltre ad essere inammissibile dal punto di vista morale e politico, non fa che mettere in difficoltà le moltitudini che in questi mesi hanno manifestato contro il genocidio di Gaza, e avvallare i provvedimenti liberticidi che l’ineffabile Trump ha subito messo in atto, con il rischio che anche i codini governi europei lo possano imitare, proseguendo su una linea liberticida già praticata, vedi Germania, nei mesi successivi al 7 ottobre. La mobilitazione contro il criminale Netanyahu, il suo governo e il colonialismo israeliano, il sostegno incondizionato alla causa palestinese non possono essere messi in difficoltà da gesti di questo tipo.         . Sergio Sinigaglia
Ottanta manifestanti per Gaza arrestati dopo aver occupato la biblioteca della Columbia University
A New York, la polizia ha arrestato ottanta manifestanti alla Columbia University mercoledì, dopo che questi avevano occupato la biblioteca principale del campus per chiedere di disinvestire da Israele. La Columbia Palestine Solidarity Coalition afferma che diversi studenti sono stati ricoverati in ospedale dagli agenti di pubblica sicurezza. Almeno un manifestante è stato portato via in barella. La presidente ad interim della Columbia, Claire Shipman, ha dichiarato: “La Columbia condanna fermamente la violenza nel nostro campus, l’antisemitismo e tutte le forme di odio e discriminazione di cui oggi siamo stati testimoni”. Un gruppo di attivisti pacifisti ebrei della Columbia University si è recato a Washington per fare pressione sui membri del Congresso e per condannare l’uso delle accuse di antisemitismo come arma per mettere a tacere chi critica l’occupazione israeliana della Palestina e l’assalto a Gaza.   Democracy Now!
Esposto contro la trasmissione di Iacona. L’accusa: antisemita. Le reazioni: intimidazione alla stampa
Un esposto sottoscritto e indirizzato al coordinatore nazionale per la lotta contro l’antisemitismo presso la Presidenza del Consiglio chiede di verificare se l’ultima trasmissione di Presa Diretta sia stata parziale e antisemita. A presentarlo sono stati l’onorevole Carlo Giovanardi, l’avvocato Iuri Maria Prado e il semiologo Ugo Volli, puntando il dito contro la puntata andata in onda domenica su Rai 3 e accusando Riccardo Iacona di parzialità, per aver documentato le vittime palestinesi e dato voce a posizioni critiche verso Israele, come quella della relatrice ONU Francesca Albanese. Molte le reazioni a questa iniziativa, definita subito un modo per contrastare la libertà di espressione e la cronaca a tutto tondo dei fatti. Per l’UsigRai “l’esposto contro Presa Diretta è un atto intimidatorio”. “Un reportage e un approfondimento necessari quelli di Presa Diretta su Gaza andati in onda lunedì scorso” si legge nella nota dell’esecutivo UsigRai. “Un lavoro giornalistico che per contenuti rappresenta in pieno il ruolo informativo del servizio pubblico della Rai. Vedere e ascoltare cosa sta succedendo a Gaza, dove ancora oggi i reporter stranieri non possono entrare e i giornalisti locali vengono uccisi a centinaia, è l’unico modo per capire cosa sta subendo ancora, dopo un anno e mezzo da quel tragico 7 ottobre, la popolazione della Striscia. Le questioni aperte sono molte, a partire dalla sorte degli ostaggi israeliani in mano ad Hamas. Ma il tentativo di fermare con un esposto il lavoro della redazione di Presa Diretta, è un atto intimidatorio nei confronti di chi lavora esclusivamente al servizio dei cittadini e del loro diritto ad essere informati. L’Usigrai è al fianco delle colleghe e dei colleghi di Presa Diretta.” Anche per la Rete #NOBAVAGLIO “l’esposto è un atto di vera e propria intimidazione contro Riccardo Iacona, la sua redazione e il servizio pubblico”. “Omettere e non documentare gli orrori che si stanno verificando a Gaza e in Cisgiordania – dove si sta modificando la geografia e la demografia con vere e proprie azioni di guerra, bombardamenti che hanno raso al suolo abitazioni, scuole, strutture sanitarie e reti idriche – è qualcosa di inaccettabile. Per questo motivo chiediamo in un’interrogazione ai vertici della Rai di difendere il prezioso lavoro di inchiesta di Presa Diretta e che siano respinti atti di intimidazione nei confronti di un giornalismo che svolge la sua funzione di servizio pubblico”, dicono in una nota Angelo Bonelli e Peppe De Cristofaro, membri della Commissione bicamerale di Vigilanza Rai. “È semplicemente incredibile: per una volta che il servizio pubblico, con Presa Diretta, ha avuto il coraggio di raccontare l’orrore che sta vivendo la popolazione civile di Gaza, si scatena l’attacco” scrive Sandro Ruotolo, responsabile Informazione della segreteria del Pd ed europarlamentare. “La Rai, invece di essere difesa per aver dato voce a chi spesso non ne ha, viene trascinata nel mirino di chi vuole un’informazione addomesticata, unilaterale, sottomessa. Ma davvero vogliamo decidere, a posteriori, quali morti si possono raccontare? Davvero chi mostra i civili sotto le bombe deve difendersi dall’accusa di antisemitismo? Il vero tema, come ci ricorda oggi anche il Liberties Media Freedom Report 2025, è che la libertà d’informazione è sotto attacco. In Italia i giornalisti RAI sono sotto pressione e la censura politica è ormai all’ordine del giorno. Presa Diretta ha fatto il suo dovere: informare. Difendere Riccardo Iacona e la sua redazione significa difendere il diritto dei cittadini a conoscere la verità. Non c’è libertà senza verità. Non c’è verità senza libertà di stampa. Noi saremo sempre dalla parte del giornalismo libero”. Duro il giudizio dei 5 Stelle. “L’esposto presentato contro la puntata di Presa Diretta del 27 aprile è, di fatto, un’intimidazione. Si accusa Riccardo Iacona di aver raccontato la devastazione di Gaza senza ‘bilanciare’ con riferimenti agli attacchi di Hamas. Questo non solo è falso, perché nel corso della puntata sono stati ricordati, ma chi conosce il lavoro di Iacona sa che Presa Diretta è un raro esempio di correttezza dell’approfondimento, di rigore e ricerca dei fatti” scrive il capogruppo M5S in commissione di vigilanza Rai Dario Carotenuto. Raccontare le conseguenze umane dei bombardamenti israeliani non equivale a giustificare Hamas, così come dare voce a un relatore ONU non è in nulla diverso da ciò che deve fare il giornalismo. Semmai è vero che troppo tardi la Rai ha dato voce a Francesca Albanese, oscurando una voce italiana e autorevole sulla crisi mediorientale. E dobbiamo ribadire che è un diritto dei cittadini, prima ancora che un dovere dell’informazione pubblica, raccontare il massacro in corso in Palestina, che non significa giustificare in nessun modo il terrorismo, ma significa fare informazione su quello che proprio oggi Amnesty International definisce un ‘genocidio in diretta streaming’. E quindi questo significa anche tutelare l’immagine della Rai che non può chiudere gli occhi davanti a questo drammatico passaggio della storia. In Rai servirebbero più voci come quella di Iacona: indipendenti, rigorose, capaci di affrontare con coraggio e onestà intellettuale ciò che altri non raccontano”. Un grazie a “Riccardo Iacona e alla redazione di Presa Diretta per aver mandato in onda una pagina di Servizio Pubblico”, arriva dal Presidente della Federazione nazionale della Stampa Italiana, Vittorio Di Trapani. “Fare informazione – sottolinea –  non è accontentare una parte, ma raccontare i fatti. Ed è quello che Presa Diretta ha fatto rompendo un muro di silenzio che da oltre 1 anno oscura la guerra a Gaza e l’ignobile situazione umanitaria. In risposta a chi presenta intimidatori esposti contro Presa Diretta, ci aspettiamo un pubblico ‘grazie’ a Iacona e la sua squadra da parte del vertice della Rai”. Articolo 21 è vicina ai colleghi di Presa Diretta e ribadisce che siamo davanti all’ennesimo attacco alla libertà di stampa. I giornalisti debbono essere liberi di decidere cosa raccontare.   Articolo 21