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La Cina fa il Plenum di tecnologia
Da lunedì a giovedì di questaa settimana, a Pechino si svolge la IV sessione plenaria (plenum) del XX comitato centrale del Partito comunista cinese (Pcc). Se ti è venuta voglia di cambiare pagina dopo aver letto queste prime due righe, ripensaci: al di là della denominazione stantia, di sovietica memoria […] L'articolo La Cina fa il Plenum di tecnologia su Contropiano.
“Oggi si scrive una pagina di Storia”
UNA FOLLA OCEANICA A NAPOLI PER LA PALESTINA “Oggi si sta scrivendo la Storia a Napoli e nelle altre 80 città italiane che hanno invaso le strade per gridare: basta al genocidio, basta a ogni forma di complicità, basta a ogni relazione istituzionale ed economica con Israele, basta con le armi.” Una fortissima mobilitazione: quarantamila persone, dicono i numeri forniti dagli organizzatori. Uno tsunami umano che, stamattina a partire dalle 9, ha invaso piazza Garibaldi per partecipare allo sciopero generale in solidarietà con la popolazione palestinese. Sciopero indetto dai sindacati di base USB, CUB, SGB e altre sigle, e sostenuto dalla “flottiglia di terra” Movimento Globale a Gaza Campania, da associazioni, dall’UDAP (Unione Democratica Arabo-Palestinese), dalla Rete delle Comunità palestinesi, dal Centro Culturale Handala Ali e dai collettivi studenteschi. La imponente, che ha visto marciare tutti insieme lavoratori e lavoratrici, studenti, uomini, donne manifestazione, padri e madri – molti con bambini sulle spalle – scandendo un unico, ininterrotto coro che ha inondato la città, è stata civile e pacifica. “È una giornata epica, oggi siamo tantissimi. Dobbiamo fermare noi cittadini, studenti, lavoratori questa follia che sta attraversando il mondo e che ha oscurato la coscienza. Ma non è finita, perché questo Paese, questa città hanno ancora una coscienza da spendere. Palestina libera!”, lo grida dai megafoni un organizzatore. E tutti lo ripetono in un urlo collettivo che, come un’onda sismica, si allarga sulla folla a perdita d’occhio. Si avverte da subito che questa non è una manifestazione come le altre: c’è un’atmosfera che si carica sempre di più di un’emozione partecipata e fortemente sentita, ma si avverte anche tanta rabbia e fermezza nella condanna unanime, senza più contrattazioni. Dalla folla si alzano grida contro ogni forma di complicità, di silenzio o di parole timide e balbettanti. Ora è solo il tempo di azioni reali e concrete. Si chiede una presa di posizione chiara dell’Italia, ora, subito, senza più alcuna ipocrisia. La notevole adesione testimonia la forza del sentimento popolare, ma “siamo consapevoli che serve una strategia politica internazionale”. “Una manifestazione immensa, come non vedevo a Napoli dagli anni ’70. Ci sono tutti: lavoratori, studenti, attivisti e migliaia e migliaia di cittadini. Grazie, Napoli”, ha detto con voce commossa al megafono un anziano attivista del Centro Culturale Handala. Bandiere, striscioni, cori: un tripudio di colori e di voci di solidarietà. L’atmosfera è veramente carica di un’emozione intensa che stringe tutti in un unico senso di appartenenza. È appartenenza a una stessa umanità che qui oggi si vuole recuperare. Un cartellone scandiva: “E criature so’ tutt’ egual” – i bambini sono tutti uguali. Quella di oggi aveva una valenza enorme perché la mobilitazione per la Palestina e il sostegno alla missione umanitaria si sono incrociati con le rivendicazioni sociali, con lo sciopero per la difesa del lavoro e della sicurezza sul lavoro. Il grido dei portuali di Genova, “Bloccheremo tutto”, è diventato il grido di tutti: un fiume in piena che ha attraversato le strade della città. Un’ondata di indignazione che non può più essere contenuta: “Oggi, e la Storia ce lo ricorda, assistiamo alla consapevolezza della gente comune che prende le redini della lotta e chiede a voce alta azioni concrete da parte del governo.” Non è più il tempo delle dichiarazioni e dell’incertezza: è ora di agire. Quando i popoli scendono nelle piazze, cambiano la Storia. È questo uno dei tanti comunicati letti. Lo sciopero ha riguardato trasporti, scuole, università, fabbriche, logistica, settori del pubblico impiego, commercio, energia. C’erano gli studenti, tanti, tantissimi universitari e delle scuole superiori, e c’erano i loro professori. Hanno sfilato a testa alta dietro ai loro striscioni: “Rivogliamo la cultura, la conoscenza contro ogni tentativo da parte del ministro dell’Istruzione di impedire di parlare di Palestina nelle classi. Noi siamo la Palestina. Nessuno può rubarci il futuro.” Il portavoce del collettivo studentesco parla e, a tratti, la voce si incrina per l’emozione: “Non ruberete i nostri sogni, i sogni dei giovani palestinesi. Non ucciderete la conoscenza per comprare armi e finanziare lager in Albania.” Gli studenti lo sanno che questo è stare dalla parte giusta della Storia. “Oggi, contro le politiche del Governo, ci riprendiamo il diritto allo sciopero.” E qualcuno aggiunge un dato che è anche una speranza: qualche centinaio di studenti palestinesi ha conseguito la maturità nella sola scuola rimasta a Gaza. È un fiume umano che da Piazza Garibaldi comincia a scivolare verso la Stazione Centrale. Gli organizzatori hanno spiegato quale sarebbe stato l’itinerario. “Questa non è una passeggiata”, hanno avvertito, “ma un presidio itinerante, una risposta simbolica ma potente al ‘Bloccheremo tutto’, in coerenza con la griglia lanciata dai portuali di Genova e divenuto slogan di riferimento in tutte le manifestazioni successive.” Il corteo si è diretto verso la Stazione Centrale, invadendo ogni spazio e “occupando” i binari, generando il blocco temporaneo della circolazione ferroviaria. Ma la Stazione non è riuscita a contenere la marea umana, che continuava a costituire un lunghissimo corteo e occupava tutta la piazza. Qui, sui binari, sono stati letti comunicati da parte di rappresentanti dei sindacati. Il messaggio era chiaro e forte: “Se non si ferma il genocidio, noi bloccheremo ogni luogo, ogni fabbrica, ogni istituzione”. E ancora: messaggi con una portata sociale che hanno accomunato tutte le categorie di lavoratori presenti. “I soldi frutto del nostro lavoro devono essere spesi per i lavoratori, per le famiglie, le aziende, la salute, l’istruzione e la ricerca, la sicurezza sul lavoro. E a questo proposito vogliamo denunciare che ancora oggi è morto un lavoratore, senza che nessuno risponde di questi omicidi, perché in Italia non è previsto il reato di omicidio sul lavoro.” E concludevano: “La nostra Costituzione è il faro che ci guida. No alle armi, no alla guerra: non saremo mai complici del futuro di morte che ci state preparando”. Una dottoressa, a nome del foltissimo gruppo di sanitari ospedalieri presenti, ha preso la parola per esprimere quanto sia aberrante non poter salvare vite umane, vedere morire bambini di fame e di stenti oltre che per le bombe. Ha ricordato tutti i colleghi sanitari che sono morti, che hanno speso la loro vita per salvare vite umane: 1167 sanitari palestinesi uccisi. “Abbiamo chiesto al Presidente della Regione De Luca che blocchi le forniture sanitarie con marchio israeliano e di escludere Israele dal prossimo PharmExpo della Salute e del Benessere, che si svolgerà dal 24 al 26 ottobre alla Mostra d’Oltremare di Napoli.” Seconda tappa: l’Università, dove già c’era un presidio di studenti che si sono uniti al corteo, che ha continuato a sfilare lungo tutto il Rettifilo fino a Piazza Municipio, per portarsi poi verso il secondo luogo di “occupazione simbolica”: il Porto di Napoli, per manifestare contro le grandi società – comprese le navi da crociera – che con Israele mantengono rapporti e traggono grandi profitti. Ma anche qui solo una parte dei manifestanti è riuscita ad entrare nell’area interna del Porto. Migliaia di persone sono rimaste rimaste in presidio fuori, nella grande area con vista sui resti archeologici. Gli slogan non si sono fermati mai. Lo slogan più gridato: “Genocidio, miseria e lutto: bloccheremo tutto”. Il corteo ha poi ripreso a sfilare per portarsi davanti alla Prefettura, simbolo del Governo, in Piazza del Plebiscito, occupando ogni punto dell’immensa piazza. Qui i manifestanti hanno espresso tutta la portata sociale della mobilitazione con slogan che chiedevano al Governo interventi a tutela della gente comune, del lavoro e del welfare, e interventi concreti e immediati per salvare ciò che resta di Gaza. “A cosa serve l’eventuale riconoscimento dello Stato della Palestina, come stanno facendo ormai molti Stati, se non resterà più niente della Palestina e dei palestinesi?”, ha gridato con una nota di disperazione nella voce Jamal della comunità palestinese di Napoli. Napoli oggi ha mostrato il suo volto più autentico: città di pace, di accoglienza, di Resistenza e di grandi mobilitazioni. L’ultimo grido che ha scosso la bellissima Cattedrale neoclassica: “Gaza resiste, la Palestina esiste”. E resiste Napoli, che continuerà nel pomeriggio la mobilitazione alla ex Nato di Bagnoli, dove è atteso il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella per l’apertura dell’anno scolastico. Redazione Napoli
Macron alla guerra, anche contro i lavoratori
E’ vero, ci capita di ricorrere spesso alla frase: “dio confonde coloro che vuol perdere”. Ma ci siamo obbligati da quel che quasi ogni giorno vediamo fare  ai principali “leader” europei. E dire che per fortuna siamo atei… La Francia, due giorni fa, ha ospitato il vertice dei “volenterosi” ed […] L'articolo Macron alla guerra, anche contro i lavoratori su Contropiano.
Dossier Milano # 7 | Il futuro di Piazzale Loreto e la necessità di una svolta pubblica a partire dai municipi – di Angelo Junior Avelli
Il progetto di riqualificazione di Piazzale Loreto, al momento, sulla carta, è congelato, e non soltanto per la bufera che ha investito Milano con lo scandalo dell’urbanistica e le indagini della Procura, sul sistema di potere che girava intorno alla Commissione Paesaggio e ad un network - altamente selezionato - di manager e superconsulenti [...]
Unione europea: cronaca di una deriva senza fine – di Paolo Punx
C'era una volta un continente europeo, che nello scacchiere internazionale appariva uno dei pochi a possedere e propagandare la necessità di un welfare state e la tutela di alcuni inalienabili diritti universali. Ben inteso, sia il welfare che la tutela dei diritti rappresentavano il tentativo keynesiano di rispondere alle lotte che nel novecento avevano [...]
CURAMI – PRIMA DI TUTTO LA SALUTE: “IL FUNERALE DEL WELFARE IN EUROPA”
La puntata di sabato 5 luglio, intitolata “Il funerale del welfare in Europa”, ospita Marco Bersani, socio fondatore e coordinatore di Attac Italia. Conducono la puntata Antonino Cimino e Donatella Albini. Curami è una trasmissione di Radio Onda d’Urto in onda il sabato mattina dalle 12.00 alle 12.30 di Donatella Albini, medica del centro studi e informazione sulla medicina di genere, già delegata alla sanità del Comune di Brescia, e di Antonino Cimino, medico e referente di Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute- di Brescia. La trasmissione viene replicata mercoledi prossimo alle 12.30. La puntata di sabato 5 luglio. Ascolta o scarica
Disabilità e povertà: il welfare ignora i bisogni reali
In Italia povertà e disabilità si intrecciano in modo sistemico e drammatico, alimentandosi reciprocamente. Un circolo vizioso che colpisce centinaia di migliaia di famiglie, costrette a vivere condizioni di grave deprivazione economica, isolamento sociale e mancanza di risposte adeguate. Per la prima volta, una ricerca nazionale realizzata da CBM Italia ETS insieme alla Fondazione Emanuela Zancan scatta una fotografia nitida – e impietosa – di questo fenomeno. La ricerca “Disabilità e povertà nelle famiglie italiane”, rappresenta un punto di svolta. Ha coinvolto quasi 300 persone con disabilità e i loro nuclei familiari, distribuiti nelle regioni del Nord, Centro e Mezzogiorno. L’indagine, attraverso un approccio quantitativo e qualitativo, ha ricostruito condizioni economiche, relazionali, abitative, educative e sanitarie. Un lavoro che ha dato voce a chi, troppo spesso, resta fuori dal dibattito pubblico e fuori dalle statistiche. Povertà: la condizione normale delle famiglie con disabilità I dati parlano chiaro: il 73% delle persone con disabilità vive in famiglie che fanno fatica ad arrivare a fine mese. Questa percentuale sale al 76,4% se si considera solo chi ha limitazioni gravi. La povertà, però, non è solo reddito. È mancanza di servizi, salute, relazioni, opportunità. Ed è così che va letta la disuguaglianza strutturale che colpisce chi vive la disabilità. Tra i dati più allarmanti: Il 62% non può affrontare una spesa imprevista di 500 euro. Due su tre non possono permettersi una settimana di vacanza all’anno. Quasi uno su tre ha rinunciato a spese mediche per motivi economici. Il 55% delle famiglie vive senza alcun supporto da parte delle istituzioni. Ma c’è di più. L’isolamento relazionale e istituzionale è la cifra dominante di queste famiglie. Oltre il 70% dichiara di non avere reti amicali di supporto, e la metà non partecipa ad alcuna forma di associazionismo. Un welfare cieco, rigido e standardizzato Il rapporto smaschera una gestione rigida e burocratica della disabilità, basata su procedure standardizzate che ignorano la pluralità dei bisogni. Le famiglie non chiedono elemosina, ma servizi umani e personalizzati. Nove su dieci dichiarano che ciò che serve davvero non sono i contributi economici una tantum, ma una presa in carico globale, che guardi alla persona nel suo contesto di vita. L’attuale modello di welfare italiano – troppo spesso centrato su prestazioni economiche passive – si rivela incapace di affrontare il disagio multidimensionale che colpisce queste famiglie. Serve un cambio di paradigma: meno modulistica, più relazioni. Capacità nascoste: chi è fragile, spesso sostiene gli altri Nonostante le difficoltà, il 34% delle persone con disabilità coinvolte nello studio offre aiuto alla propria rete informale, sotto forma di supporto morale o compagnia. Questo dato rompe un altro stereotipo tossico: le persone con disabilità non sono solo portatrici di bisogni, ma anche risorse relazionali e sociali. Eppure, anche qui, le opportunità mancano: solo una persona su cinque ha accesso a percorsi di formazione e inserimento lavorativo. Il carico di cura – spesso in capo ai genitori – limita le possibilità occupazionali e acuisce le vulnerabilità economiche. Le famiglie chiedono politiche per conciliare lavoro e cura, servizi diurni e sostegno al “dopo di noi”. Il nodo politico: se non esisti nelle statistiche, non esisti nelle politiche La ricerca evidenzia una lacuna gravissima: in Italia non esiste una rilevazione sistematica che colleghi disabilità e povertà. Il dato è spezzettato, non integrato, poco utilizzabile per politiche pubbliche mirate. Questa assenza di numeri non è neutra: rende invisibili bisogni reali, impedisce una pianificazione efficace e alimenta l’inerzia politica. Secondo i dati Eurostat 2022, il 32,5% delle persone con disabilità gravi in Italia è a rischio povertà, contro il 23,8% della popolazione generale. Eppure, a livello nazionale, non esistono piani organici che affrontino la questione in modo strutturale, se non nella frammentazione di progetti locali. Le quattro strade per uscire dall’emergenza Il rapporto CBM-Zancan non si limita alla denuncia. Indica quattro direzioni concrete per cambiare rotta: Abbattere i muri dell’isolamento: serve un welfare che parli, ascolti, raggiunga le persone. Investire in servizi umanizzati, capaci di leggere la persona e il contesto, non solo l’incartamento medico. Riconoscere e valorizzare le capacità delle persone con disabilità, anche nel lavoro e nella formazione. Promuovere opportunità inclusive, con progettualità che accompagnino il “durante e dopo di noi”. Conclusione: il tempo della carità è finito, è l’ora dei diritti Il diritto all’abitare, alla salute, al lavoro, alla relazione: non si tratta di concessioni, ma di diritti costituzionali. Questo rapporto lo dimostra in modo inequivocabile: non è più accettabile che le famiglie con disabilità siano abbandonate, invisibili, lasciate a cavarsela. Se lo Stato non cambia approccio, non è solo inefficiente: è complice della disuguaglianza. Abbattere i muri, investire nei servizi, riconoscere le persone con disabilità come soggetti attivi: è una questione di giustizia, non di assistenza. > Disabilità e povertà: il welfare ignora i bisogni reali Redazione Italia
Guerra della moneta
Qualche episodio recente su cui riflettere. BANCHIERI CENTRALI CONTRO TRUMP Uno di loro, primo straniero alla testa della Bank of England (dal 2013 al 2020), ha appena vinto le elezioni in Canada (dopo essere stato l’ottavo Governatore della banca centrale del Paese, tra il 2008 e il 2013): Mark Carney. La seconda, mentre Meloni il 17 aprile scorso raggiungeva Washington per incontrare Trump, ha nuovamente abbassato il tasso di interesse sui depositi, rallentando l’apprezzamento dell’euro sul dollaro: Christine Lagarde. Il terzo, da Trump nominato nel 2017, ha rischiato non poco di essere defenestrato perché, a differenza di Lagarde, i tassi non li abbassa: Jerome Powell. Sono i tre banchieri centrali, assieme alla Cina, la più rilevante spina nel fianco di Trump. Trump ha bisogno del dollaro debole, per favorire l’esportazione e ridurre il peso del debito pubblico americano, ormai (quasi) fuori controllo. Il dollaro debole, però, smette di essere valuta di riserva sicura, spinge alla vendita e non all’acquisto di T-bond (Titoli del Tesoro americano), il rendimento di questi ultimi sale invece di scendere. I dazi, a ben vedere, sono solo un’arma negoziale, il cui scopo a lungo termine è senz’altro la parziale (quanto complicata) reindustrializzazione degli USA, ma la cui principale finalità è un nuovo Plaza Accord, o Mar-a-Lago Accord, nel quale Cina ed Europa si impegnino ad apprezzare (per qualche anno) renminbi ed euro nei confronti del dollaro. Il 2025, però, non è il 1985; la Cina non è il Giappone; l’Europa non è la sola Germania non ancora unificata. Ma, soprattutto, i maggiori banchieri centrali non sono sintonici con le mosse di Trump; di più, uno di loro ha vinto le elezioni, in Canada, proprio contro le battute di Trump sul 51° Stato. IL DENARO MODERNO In un discorso del 2 marzo 2018, Mark Carney, ancora banchiere centrale, spiega come funziona il sistema monetario. Con una chiarezza inusuale, perché la parola del banchiere centrale ha il compito di nascondere quanto dice, Carney distingue e illustra tre tipi di moneta: le banconote; le riserve, ovvero moneta digitale emessa dalle banche centrali e che le banche commerciali detengono in quelle centrali, come riserve appunto, per regolare le transazioni tra di loro; la moneta bancaria, ovvero i depositi elettronici che le banche commerciali creano quando erogano prestiti ai mutuatari (l’80% del denaro che circola nell’economia reale). Le banche centrali hanno il monopolio dell’emissione di moneta legale (quella che lo Stato deve sempre accettare per il pagamento delle tasse; quella che serve per estinguere un debito), emettendo due tipi di moneta in particolare: banconote (cartacee; circolante), per cittadini e imprese; riserve, per le banche commerciali. In verità, anche le banconote vengono stampate, dalle banche centrali, sulla base della richiesta delle banche commerciali, che mediano l’accesso dei cittadini alla moneta legale. Le riserve di banca centrale, invece, sono inaccessibili per i cittadini, riguardano solo le banche commerciali e, quindi, le transazioni interbancarie. > Ma come emettono moneta legale, le banche centrali? Senz’altro stampando > banconote, quando serve. Ma non è principalmente così che aumenta la base > monetaria (banconote più riserve). Le banche centrali, prevalentemente, emettono moneta legale aumentando le riserve per le banche commerciali e fanno ciò acquistando titoli di Stato nel mercato interbancario. Aumento della base monetaria e riduzione del tasso di interesse viaggiano di pari passo. Non vi è alcun automatismo, invece, per quel che riguarda le scelte delle banche commerciali: nella concessione dei prestiti a cittadini e imprese; nella riduzione del tasso di interesse applicato ai prestiti, a fronte della riduzione di quello principale (della banca centrale).  È la creazione di moneta bancaria, ex nihilo, a contraddistinguere la scena capitalistica: così, il migliore tra gli economisti borghesi, Joseph Schumpeter, ci ha insegnato. Nella sua celebrazione del capitalismo, credito significava innovazione più imprenditore, grande industria. Oggi significa, assai più spesso, immobiliare, nonché consumo per chi (tante e tanti) è afflitto da bassi salari; a stringere, profitti per le banche commerciali. Come ha dimostrato il 2008, però, il castello di carta (tra cartolarizzazioni, appunto, e derivati) può crollare con drammatica facilità, imponendo salvataggi che passano per le riserve delle banche centrali ma, soprattutto, per l’aumento del debito pubblico e conseguenti politiche di austerità. Il salvataggio delle banche too big to fail, dopo il 2008, è costato alla fiscalità generale (ai cittadini) più di 20 trilioni di dollari. Sarà casuale che Trump vuole allentare controlli e vincoli prudenziali per le banche? È difficile prevedere cosa accadrà, dopo? PERCHÉ LUCREZIA REICHLIN HA RAGIONE In un editoriale del “Corriere della Sera” dello scorso primo maggio, Lucrezia Reichlin ha sostenuto che la crisi del dollaro è una grande occasione per l’euro. Ciò, in primo luogo, se la BCE saprà prendere la stessa direzione della Cina, avanzando con l’euro digitale. L’affermazione di quest’ultimo, infatti, introdurrebbe un sistema di pagamento sicuro, alternativo a quelli attualmente egemoni e denominati in dollari, Visa e MasterCard i principali. La condizione fondamentale affinché l’euro emerga come valuta globale alternativa al dollaro, però, è un’altra. Scrive Reichlin: > «Per competere davvero con il dollaro, l’area dell’euro avrebbe bisogno di > strumenti di debito congiunti permanenti e di larga scala, creando un mercato > profondo liquido paragonabile ai titoli del Tesoro statunitensi». Solo in questo modo, continua Reichlin, l’euro sarebbe considerato valuta di riserva affidabile e un mercato comune dei capitali (con una piazza affari comune, per esempio a Francoforte) potrebbe davvero prendere piede. Immaginate se i 300 miliardi l’anno che dall’Europa procedono verso Wall Street si radicassero, invece, nella stessa Europa, finanziando ricerca e innovazione, sanità e reddito di cittadinanza (continentale): sarebbe, l’Europa, la stessa iattura tecnocratica conosciuta dopo il 2008 e fino alla pandemia? Pensate se anche i 30mila miliardi di risparmi privati europei, invece di essere aggrediti da BlackRock o di essere mobilitati per l’industria bellica (così vuole il White Book sul riarmo), fossero utilizzati per far proliferare Silicon Valley pubbliche, e non private, in giro per il continente: sì, sarebbe un’altra Europa. Reichlin dimentica – va precisato – che, per rendere sostenibile il debito pubblico europeo, servirebbe un regime fiscale progressivo e altrettanto federale, ostile a Irlanda e Lussemburgo, nemico dell’elusione fiscale agita dalle corporation multinazionali tutte e in modo sistematico da decenni. Eurobond, patrimoniale, tassa per le grandi imprese al 40%: l’Europa da conquistare. CONTRO IL FASCISMO, DEMOCRATIZZARE L’EURO I movimenti sociali e una sinistra radicale degna di questo nome, in Europa, dovrebbero imporre, dal basso o democraticamente, il programma di Lucrezia Reichlin – con le implementazioni fiscali segnalate. Affinché questo accada, in primo luogo bisogna vincolare l’emissione di eurobond al rilancio del welfare: istruzione, sanità, previdenza. Welfare contro keynesismo di guerra. E infatti vero che il programma di Reichlin è più che caro anche a Draghi, il quale però, schiettamente, propone eurobond per finanziarie l’industria bellica. Meglio di von der Leyen, perché piano tutto sommato federalista, ma sempre di armi e di morte si tratta. Di più: euro digitale contro stablecoins (vincolate al dollaro) senz’altro, ma chi controlla la moneta digitale pubblica? Per uscire dal sistema chiuso delle riserve di banca centrale, dovremmo immaginare un’emissione di moneta legale che, digitalmente, finisca nelle mani delle cittadine e dei cittadini europei – nel senso che vivono e lavorano sul suolo europeo. Direttamente, senza la mediazione delle banche commerciali. La parola d’ordine che qualche anno fa propose Christian Marazzi, ovvero «Quantitative Easing for the People», avrebbe così uno strumento nuovo, di importanza significativa, per ambire alla realizzazione. > Le guerre culturali mi paiono decisive. E il fascismo si articola, da sempre, > con sessismo e razzismo: se non si battono questi, il fascismo riemerge senza > sosta. La proposta che avanzo è al contempo troppo ambiziosa (o irrealistica?) > e alquanto insufficiente. Si colloca, tatticamente, nel solco del > tecno-riformismo europeo, con l’intento deliberato di radicalizzarne in senso > trasformativo, direi sovversivo, il programma. L’obiettivo concreto è anche > “antico”: reddito di cittadinanza e welfare universale. Il caos sistemico rafforzato dalla seconda Amministrazione Trump, però, impone un terreno di confronto inedito per il capitalismo e la politica europei: cedere ai ricatti di Trump e Vance, rompere l’Europa e procedere verso una nuova guerra civile analoga alle due del Novecento (il sostegno americano a AfD va, esplicitamente, in questa direzione; come quello di Putin a Orbán e Le Pen, d’altronde); avanzare nel senso di un prudente keynesismo che guarda alla Cina per ripensare il multilateralismo globale. Non vi è, a mio avviso, un tertium datur. Meloni lo sa, per questo è più preoccupata di quanto non voglia far sembrare. Di fronte al bivio, nella consapevolezza che senza 1917 niente Keynes, solo uno scarto europeo dalla morsa di Trump può salvarci dalla catastrofe globale. Dal basso, ovviamente; auspicando che, anche dall’alto, qualche spiraglio si apra. Immagine di copertina di PublicDomainPictures da Pixabay SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Guerra della moneta proviene da DINAMOpress.
L’apprendimento sui bordi
Appunti da Peter Høeg ai gruppi operativi ricombinanti. di P. Nicolosi (rattus) Non era un argomento che si trattasse mai, Humlum e Katarina furono le prime persone che io abbia sentito parlare del tempo. Ma era alla base di tutto. … Continua a leggere→