Guerra della monetaQualche episodio recente su cui riflettere.
BANCHIERI CENTRALI CONTRO TRUMP
Uno di loro, primo straniero alla testa della Bank of England (dal 2013 al
2020), ha appena vinto le elezioni in Canada (dopo essere stato l’ottavo
Governatore della banca centrale del Paese, tra il 2008 e il 2013): Mark Carney.
La seconda, mentre Meloni il 17 aprile scorso raggiungeva Washington per
incontrare Trump, ha nuovamente abbassato il tasso di interesse sui depositi,
rallentando l’apprezzamento dell’euro sul dollaro: Christine Lagarde. Il terzo,
da Trump nominato nel 2017, ha rischiato non poco di essere defenestrato perché,
a differenza di Lagarde, i tassi non li abbassa: Jerome Powell. Sono i tre
banchieri centrali, assieme alla Cina, la più rilevante spina nel fianco di
Trump.
Trump ha bisogno del dollaro debole, per favorire l’esportazione e ridurre il
peso del debito pubblico americano, ormai (quasi) fuori controllo. Il dollaro
debole, però, smette di essere valuta di riserva sicura, spinge alla vendita e
non all’acquisto di T-bond (Titoli del Tesoro americano), il rendimento di
questi ultimi sale invece di scendere. I dazi, a ben vedere, sono solo un’arma
negoziale, il cui scopo a lungo termine è senz’altro la parziale (quanto
complicata) reindustrializzazione degli USA, ma la cui principale finalità è un
nuovo Plaza Accord, o Mar-a-Lago Accord, nel quale Cina ed Europa si impegnino
ad apprezzare (per qualche anno) renminbi ed euro nei confronti del dollaro. Il
2025, però, non è il 1985; la Cina non è il Giappone; l’Europa non è la sola
Germania non ancora unificata. Ma, soprattutto, i maggiori banchieri centrali
non sono sintonici con le mosse di Trump; di più, uno di loro ha vinto le
elezioni, in Canada, proprio contro le battute di Trump sul 51° Stato.
IL DENARO MODERNO
In un discorso del 2 marzo 2018, Mark Carney, ancora banchiere centrale, spiega
come funziona il sistema monetario. Con una chiarezza inusuale, perché la parola
del banchiere centrale ha il compito di nascondere quanto dice, Carney distingue
e illustra tre tipi di moneta: le banconote; le riserve, ovvero moneta digitale
emessa dalle banche centrali e che le banche commerciali detengono in quelle
centrali, come riserve appunto, per regolare le transazioni tra di loro; la
moneta bancaria, ovvero i depositi elettronici che le banche commerciali creano
quando erogano prestiti ai mutuatari (l’80% del denaro che circola nell’economia
reale).
Le banche centrali hanno il monopolio dell’emissione di moneta legale (quella
che lo Stato deve sempre accettare per il pagamento delle tasse; quella che
serve per estinguere un debito), emettendo due tipi di moneta in particolare:
banconote (cartacee; circolante), per cittadini e imprese; riserve, per le
banche commerciali. In verità, anche le banconote vengono stampate, dalle banche
centrali, sulla base della richiesta delle banche commerciali, che mediano
l’accesso dei cittadini alla moneta legale. Le riserve di banca centrale,
invece, sono inaccessibili per i cittadini, riguardano solo le banche
commerciali e, quindi, le transazioni interbancarie.
> Ma come emettono moneta legale, le banche centrali? Senz’altro stampando
> banconote, quando serve. Ma non è principalmente così che aumenta la base
> monetaria (banconote più riserve).
Le banche centrali, prevalentemente, emettono moneta legale aumentando le
riserve per le banche commerciali e fanno ciò acquistando titoli di Stato nel
mercato interbancario. Aumento della base monetaria e riduzione del tasso di
interesse viaggiano di pari passo. Non vi è alcun automatismo, invece, per quel
che riguarda le scelte delle banche commerciali: nella concessione dei prestiti
a cittadini e imprese; nella riduzione del tasso di interesse applicato ai
prestiti, a fronte della riduzione di quello principale (della banca centrale).
È la creazione di moneta bancaria, ex nihilo, a contraddistinguere la scena
capitalistica: così, il migliore tra gli economisti borghesi, Joseph Schumpeter,
ci ha insegnato. Nella sua celebrazione del capitalismo, credito significava
innovazione più imprenditore, grande industria. Oggi significa, assai più
spesso, immobiliare, nonché consumo per chi (tante e tanti) è afflitto da bassi
salari; a stringere, profitti per le banche commerciali. Come ha dimostrato il
2008, però, il castello di carta (tra cartolarizzazioni, appunto, e derivati)
può crollare con drammatica facilità, imponendo salvataggi che passano per le
riserve delle banche centrali ma, soprattutto, per l’aumento del debito pubblico
e conseguenti politiche di austerità. Il salvataggio delle banche too big to
fail, dopo il 2008, è costato alla fiscalità generale (ai cittadini) più di 20
trilioni di dollari.
Sarà casuale che Trump vuole allentare controlli e vincoli prudenziali per le
banche? È difficile prevedere cosa accadrà, dopo?
PERCHÉ LUCREZIA REICHLIN HA RAGIONE
In un editoriale del “Corriere della Sera” dello scorso primo maggio, Lucrezia
Reichlin ha sostenuto che la crisi del dollaro è una grande occasione per
l’euro. Ciò, in primo luogo, se la BCE saprà prendere la stessa direzione della
Cina, avanzando con l’euro digitale. L’affermazione di quest’ultimo, infatti,
introdurrebbe un sistema di pagamento sicuro, alternativo a quelli attualmente
egemoni e denominati in dollari, Visa e MasterCard i principali. La condizione
fondamentale affinché l’euro emerga come valuta globale alternativa al dollaro,
però, è un’altra. Scrive Reichlin:
> «Per competere davvero con il dollaro, l’area dell’euro avrebbe bisogno di
> strumenti di debito congiunti permanenti e di larga scala, creando un mercato
> profondo liquido paragonabile ai titoli del Tesoro statunitensi».
Solo in questo modo, continua Reichlin, l’euro sarebbe considerato valuta di
riserva affidabile e un mercato comune dei capitali (con una piazza affari
comune, per esempio a Francoforte) potrebbe davvero prendere piede.
Immaginate se i 300 miliardi l’anno che dall’Europa procedono verso Wall Street
si radicassero, invece, nella stessa Europa, finanziando ricerca e innovazione,
sanità e reddito di cittadinanza (continentale): sarebbe, l’Europa, la stessa
iattura tecnocratica conosciuta dopo il 2008 e fino alla pandemia? Pensate se
anche i 30mila miliardi di risparmi privati europei, invece di essere aggrediti
da BlackRock o di essere mobilitati per l’industria bellica (così vuole il White
Book sul riarmo), fossero utilizzati per far proliferare Silicon Valley
pubbliche, e non private, in giro per il continente: sì, sarebbe un’altra
Europa.
Reichlin dimentica – va precisato – che, per rendere sostenibile il debito
pubblico europeo, servirebbe un regime fiscale progressivo e altrettanto
federale, ostile a Irlanda e Lussemburgo, nemico dell’elusione fiscale agita
dalle corporation multinazionali tutte e in modo sistematico da decenni.
Eurobond, patrimoniale, tassa per le grandi imprese al 40%: l’Europa da
conquistare.
CONTRO IL FASCISMO, DEMOCRATIZZARE L’EURO
I movimenti sociali e una sinistra radicale degna di questo nome, in Europa,
dovrebbero imporre, dal basso o democraticamente, il programma di Lucrezia
Reichlin – con le implementazioni fiscali segnalate. Affinché questo accada, in
primo luogo bisogna vincolare l’emissione di eurobond al rilancio del welfare:
istruzione, sanità, previdenza. Welfare contro keynesismo di guerra. E infatti
vero che il programma di Reichlin è più che caro anche a Draghi, il quale però,
schiettamente, propone eurobond per finanziarie l’industria bellica. Meglio di
von der Leyen, perché piano tutto sommato federalista, ma sempre di armi e di
morte si tratta.
Di più: euro digitale contro stablecoins (vincolate al dollaro) senz’altro, ma
chi controlla la moneta digitale pubblica? Per uscire dal sistema chiuso delle
riserve di banca centrale, dovremmo immaginare un’emissione di moneta legale
che, digitalmente, finisca nelle mani delle cittadine e dei cittadini europei –
nel senso che vivono e lavorano sul suolo europeo. Direttamente, senza la
mediazione delle banche commerciali. La parola d’ordine che qualche anno fa
propose Christian Marazzi, ovvero «Quantitative Easing for the People», avrebbe
così uno strumento nuovo, di importanza significativa, per ambire alla
realizzazione.
> Le guerre culturali mi paiono decisive. E il fascismo si articola, da sempre,
> con sessismo e razzismo: se non si battono questi, il fascismo riemerge senza
> sosta. La proposta che avanzo è al contempo troppo ambiziosa (o irrealistica?)
> e alquanto insufficiente. Si colloca, tatticamente, nel solco del
> tecno-riformismo europeo, con l’intento deliberato di radicalizzarne in senso
> trasformativo, direi sovversivo, il programma. L’obiettivo concreto è anche
> “antico”: reddito di cittadinanza e welfare universale.
Il caos sistemico rafforzato dalla seconda Amministrazione Trump, però, impone
un terreno di confronto inedito per il capitalismo e la politica europei: cedere
ai ricatti di Trump e Vance, rompere l’Europa e procedere verso una nuova guerra
civile analoga alle due del Novecento (il sostegno americano a AfD va,
esplicitamente, in questa direzione; come quello di Putin a Orbán e Le Pen,
d’altronde); avanzare nel senso di un prudente keynesismo che guarda alla Cina
per ripensare il multilateralismo globale. Non vi è, a mio avviso, un tertium
datur. Meloni lo sa, per questo è più preoccupata di quanto non voglia far
sembrare.
Di fronte al bivio, nella consapevolezza che senza 1917 niente Keynes, solo uno
scarto europeo dalla morsa di Trump può salvarci dalla catastrofe globale. Dal
basso, ovviamente; auspicando che, anche dall’alto, qualche spiraglio si apra.
Immagine di copertina di PublicDomainPictures da Pixabay
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