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“Giù le armi, su i salari”, sciopero generale a Milano
Il 20 giugno, al grido “Giù le armi, su i salari”, si è svolto un corteo per lo sciopero generale lanciato da alcune sigle del sindacalismo di base, CUB, USB, SGB, SI-COBAS, Sial Cobas. La temperatura non ha fermato le centinaia di persone che si sono assentate dal lavoro riversandosi in Piazza Santo Stefano, proseguendo per le vie del centro di Milano, fino ad arrivare in Piazza della Scala per far sentire con la propria presenza la vicinanza al popolo palestinese e denunciare il genocidio in atto a Gaza. Se era nostro dovere non essere indifferenti prima, a maggior ragione non dobbiamo esserlo adesso,  in un momento in cui perfino gli aiuti umanitari vengono bloccati e criminalizzati. No, non è una guerra, come troppo spesso si legge, perché il termine presuppone la presenza di due eserciti, mentre a Gaza come in Cisgiordania, c’è un esercito solo, quello israeliano. Ciò che sta accadendo realmente è un genocidio. La pace è ciò che auspichiamo, un termine troppo spesso dimenticato, come dialogo, convivenza, umanità. Dal comunicato per il lancio dello sciopero: “Il nostro compito è lottare per un lavoro degno, sicuro, garantito e retribuito. Giusto, eppure incompleto. Nostro compito è anche tornare a casa consapevoli di aver fatto la nostra parte per ciascun e non solo per noi stessi. Questo appello parte da lavoratrici e lavoratori della città e invita chiunque, nel settore pubblico e privato, oltre ogni appartenenza o non appartenenza sindacale, a costruire un fronte ampio di sostegno allo sciopero generale del prossimo 20 giugno. Mentre il mondo chiude gli occhi davanti al genocidio del popolo palestinese per mano dell’alleato israeliano, noi non saremo complici di questo crimine. Invitiamo colleghe e colleghi a dedicare questa giornata di sciopero non tanto all’astensione dal lavoro, ma a partecipare a una grande manifestazione del lavoro a Milano. * Contro colonialismo e genocidio, per l’autodeterminazione * Boicottaggio, disinvestimento, non un’arma a Israele * Nessun aumento delle spese militari, che sottraggono risorse a tutt* per gli interessi di pochi  Scegliamo la parte degli aggrediti, fermiamo l’economia di guerra, denunciamo la pulizia etnica del governo sionista, rigettiamo qualunque forma e qualunque accusa di antisemitismo, non dimentichiamo nessuna vittima di Gaza, l’attacco sistematico ai suoi ospedali, alle sue infrastrutture, alle sue case, al suo futuro. Le nostre figlie e i nostri figli ci guardano, Gaza ci guarda, le decine di migliaia di palestinesi uccisi, incarcerati, torturati, sfollati, affamati ci chiedono di rompere il silenzio ora”. Andrea Mancuso
Presidio di fronte alla sede della Leonardo a Roma
In occasione dello sciopero generale l’Unione Sindacale di Base, che lo ha indetto, ha organizzato diversi presidi di fronte alle sedi della Leonardo Spa (ex Finmeccanica), individuata come una delle principali aziende italiane produttrici di armi controllate dallo Stato, che nomina alcuni membri del consiglio di amministrazione, tra cui esponenti del Partito Democratico, in primis l’ex Ministro degli Interni Minniti. Leonardo viene accusata di partecipare, vendendo armi ad Israele, al genocidio in atto sotto ai nostri occhi a Gaza. Lo sciopero ha pressoché fermato i trasporti pubblici. Hanno partecipato al presidio romano oltre un centinaio di militanti dei diversi settori del sindacato di base. Negli interventi si rivendica la mobilitazione dei portuali, che ha bloccato le navi della morte cariche di armi dirette a Israele e si evidenzia il fatto che siamo ormai entrati in un’economia di guerra, in cui all’esponenziale aumento delle spese militari corrisponde un ulteriore taglio ad uno stato sociale già messo in ginocchio da decenni di politiche liberiste e di austerity. I soldi che non si trovavano per la scuola e la sanità appaiono oggi, quasi miracolosamente, per le politiche di riarmo europeo. La parola d’ordine di USB è scritta nello striscione principale: “Abbassate le armi, alzate i salari!” Significativa è la presenza dei giovani studenti universitari di Cambiare Rotta e i giovanissimi studenti delle scuole superiori di OSA (Opposizione Studentesca di Alternativa), Potere al Popolo, Donne de Borgata e della Rete Disarmiamoli. La manifestazione si chiude con un flash mob organizzato da Ecoreristenze, legata a Cambiare rotta, USB, Ultima Generazione, Abaco (associazione di base dei consumatori) e dal Centro Internazionale Crocevia. Una ventina di militanti sono entrati in un supermercato Carrefour con bandiere e striscioni, lo scontrino della spesa militare e un carrello colmo di armi invitando al boicottaggio di una azienda legata a Israele nell’ambito della campagna internazionale BDS (Boicottaggio Disinvestimento Sanzioni).     Mauro Carlo Zanella
L’India va allo sciopero generale il 9 luglio
Lo scorso 20 maggio si è svolto in India uno sciopero nazionale contro le riforme del governo Modi e per il rafforzamento delle misure di protezione sociale in tema di lavoro, promosso dalla piattaforma sindacale Central Trade Union (CTU) – che unisce in un unico cartello diverse sigle (BMS, INTUC, AITUC, CITU, AIUTUC tra tutte) – che ha rilanciato come prossima data della mobilitazione il 9 luglio. Lo sciopero (organizzato ogni anno dall’emanazione delle riforme in questione ma quest’anno apparentemente più partecipato) è stato l’occasione per migliaia di lavoratrici e lavoratori di scendere in piazza nelle principali città e nei maggiori centri industriali del Paese per chiedere il ritiro dei quattro codici del lavoro emanati tra il 2019 e il 2020 dal governo nazionalista di estrema destra guidato dal Primo Ministro Modi (Code on Wages, Industrial Relations Code, Occupational Safety, Health and Working Conditions Code e Social Security Code), giustamente definiti dai sindacati “pro-corporate”, cioè che favoriscono le élite imprenditoriali vicine al BJP a scapito dei lavoratori. Sinteticamente queste riforme, sbandierate da Modi come atto di modernizzazione necessaria per attrarre investimenti e creare posti di lavoro, prevedono la flessibilizzazione dei licenziamenti, l’aumento dell’orario lavorativo, la riduzione delle tutele sulla sicurezza e la limitazione del diritto di sciopero. Per fare solo alcuni esempi più specifici: l’Industrial Relations Code alza da cento a trecento il numero di dipendenti oltre il quale un’azienda deve chiedere permessi governativi per licenziamenti o chiusure, aumentando la precarietà e facilitando i licenziamenti, con conseguenze terribili in termini di povertà in un Paese, com’è l’India, con un debole sistema di protezione sociale. L’Occupational Safety, Health and Working Conditions Code, invece, alza a dodici le ore lavorative giornaliere (quattro di straordinario), che in un Paese con un tasso di sindacalizzazione minimo (solo il 6% di chi lavora è oggi sindacalizzato) e con solo un ispettore del lavoro ogni 10.000 lavoratori aumenta notevolmente il lavoro non retribuito. L’Industrial Relations Code a sua volta introduce requisiti più stringenti per organizzare scioperi (come preavvisi di 14 giorni e maggioranze del 75% dei lavoratori per proclamarli), limitando il numero di sindacati riconosciuti per azienda e centralizzando il potere nelle mani di organizzazioni vicine alle imprese (gli effetti disastrosi di questo codice sono stati evidenti nel 2022, quando un ampio movimento di lavoratori portuali fu represso brutalmente proprio perché non aderiva ai requisiti di legalità dell’Industrial Relations Code). Il Code on Wages, che a parole proclama l’introduzione di un salario minimo nazionale, permette ai singoli Stati di fissare soglie più basse, creando disparità regionali e innescando una corsa al ribasso dei salari per attrarre più investimenti delle aziende (si consideri che il salario minimo medio in India è di circa 178 rupie/giorno (2,15€), insufficiente per sopravvivere nelle città metropolitane). Infine, il Social Security Code esclude i lavoratori informali (circa il 93% della forza lavoro) da schemi universali, legando l’accesso a contributi individuali o ad adesioni volontarie delle aziende e lasciando senza copertura milioni di braccianti agricoli, lavoratori domestici e rider, categorie già molto esposte (oltre al fatto che l’imperante informatizzazione delle domande di welfare di fatto esclude milioni di lavoratrici e lavoratori residenti in aree rurali dall’ottenimento dei benefici della protezione sociale). Tutto ciò si inserisce in un’agenda economica fortemente liberista e centralizzante (i quattro codici trasferiscono competenze dagli stati al governo centrale, riducendo la flessibilità degli stati nel legiferare su temi lavorativi) promossa dal governo a guida BJP dal 2014 in poi, la quale in nome della “modernizzazione” e dello “sviluppo” ha spinto per riforme strutturali che attraggano investimenti stranieri e stimolino la crescita economica riducendo la già debole protezione sociale sul lavoro (si pensi solo che l’India è passata dalla 142ª posizione nel 2014 alla 63ª nel 2020 nella classifica sull’”Ease of Doing Business”, cioè la facilità di fare business, della Banca Mondiale). Nonostante gli altisonanti proclami di creazione di posti di lavoro – in India, dove la domanda di lavoro supera di gran lunga l’offerta (l’età media è 28 anni), la difficoltà a trovare lavoro è un problema sociale di fondamentale importanza – i dati mostrano che gran parte dei nuovi incarichi sono precari o a bassa produttività e la realtà è quella di un Paese sempre più diseguale. Tuttavia, le massicce proteste contro le leggi agricole del 2020 (poi ritirate) già hanno dimostrato la capacità di mobilitazione della società civile e questo è anche l’auspicio per il prossimo 9 luglio. Perché solo l’organizzazione di un fronte unito di massa e la lotta pagano. Redazione Italia
E se per la Palestina si facesse uno sciopero generale, magari europeo? – Video
  Da oltre un anno e mezzo un gruppo di irriducibili cerca in tutti i modi di scuotere un’opinione pubblica troppo tiepida e soprattutto dei governi che spalleggiano un genocidio. Ci hanno provato ancora. Questa volta hanno proposto la loro azione (già ripetuta tante volte, la prima esattamente un anno fa) davanti all’importante Camera del Lavoro di Milano. Ci hanno provato: nessuno li ha cacciati, ma nessuno si è affacciato. Forse, speriamo, qualcuno ci sta pensando. Che non aspettino troppo: ogni giorno muoiono uomini, donne e soprattutto bambini. Per non parlare dei segni che rimarranno dentro quei due milioni di persone costrette a scappare all’interno di una gabbia, a cercare riparo, a inseguire disperatamente qualcosa da mangiare, mentre sentono giorno e notte droni ed esplosioni. La CGIL rimane il sindacato più grande nel nostro Paese, quello che potrebbe mobilitare molte persone, e  che potrebbe trovare interlocutori altrettanto grandi in tutta Europa. I mille distinguo, le infinite sfaccettature, i timori, le continue accuse che hanno immobilizzato gran parte del centrosinistra nostrano, forse stanno trovando una via per far sentire la propria voce. E allora non sarebbe il momento di arrivare finalmente ad uno sciopero nazionale, magari europeo, per spingere con una leva seria verso la fine di questa vergogna planetaria?   Andrea De Lotto
La lunga strada verso il cambiamento: le proteste in Serbia tra speranza e stanchezza
Dopo la grande protesta del 15 marzo, che da un lato ha portato catarsi e dall’altro delusione, le manifestazioni in tutta la Serbia sono continuate su una scala relativamente simile. Le grandi azioni studentesche sono diventate meno frequenti, ad eccezione di un gruppo che ha percorso 1.300 km in bicicletta da Novi Sad a Strasburgo – un atto che metà dell’opinione pubblica ha visto come eroico, mentre i sostenitori di proteste più radicali lo hanno liquidato come una carnevalata. A prescindere da questi sentimenti, i sondaggi mostrano che oltre il 60% dei cittadini sostiene la protesta. Crescono intanto le aspettative di un’articolazione politica, anche se non è ancora chiaro quale forma assumerà. Si è sicuramente manifestata una certa stanchezza, ma questo non è necessariamente un male. Si tratta solo di una domanda che è diventata sempre più frequente nelle ultime settimane: E adesso? Il nuovo “governo della vendetta” Nel frattempo, è stato formato un nuovo governo sotto la guida del professor Dr. Đuro Macut, una figura nominalmente apartitica, ma in nrealtà con chiari legami con il regime. Tuttavia, la nomina più controversa è stata quella a Ministro dell’Istruzione di Dejan Vuk Stanković – meglio conosciuto come analista filo-governativo, alle prese con accuse di molestie sessuali. Piuttosto che offrire soluzioni, il nuovo gabinetto sembra progettato per reprimere il dissenso. Gli attacchi alle figure accademiche sono culminati nell’interrogatorio del rettore dell’Università di Belgrado da parte della polizia, in seguito alle accuse del gruppo “Studenti che vogliono imparare” per presunto abuso d’ufficio. Il rettore ha anche incontrato il nuovo Primo Ministro, ma ha dichiarato che mancava chiaramente la volontà politica di risolvere la crisi. Allora, come si può risolvere questa situazione che dura da sei mesi (o tredici anni?)? Aumentare la pressione: il blocco delle emittenti pubbliche Alcuni analisti ritengono che solo uno sciopero generale abbinato a mezzi di comunicazione liberi possa davvero fare pressione sul regime. In questo contesto, la questione della Radio Televisione della Serbia (RTS) è diventata centrale. Dal 14 aprile gli studenti hanno bloccato la RTS, chiedendo un concorso pubblico per selezionare i membri dell’Organismo di regolamentazione dei media elettronici (REM), come previsto dalla legge ma ripetutamente ignorato. Il blocco è terminato dopo 14 giorni, quando la Commissione parlamentare per la cultura e l’informazione ha finalmente annunciato un concorso per l’elezione dei membri del REM, dopo quasi sei mesi di inattività istituzionale. La RTS, pur essendo un’emittente pubblica, è stata a lungo un importante pilastro della propaganda governativa: “Nessun regime nella storia moderna della Serbia ha fatto così tanto affidamento sulla costruzione di un’immagine che non ha nulla a che fare con la realtà”, afferma il professore di sociologia Dalibor Petrović, aggiungendo che “il regime sa che se perde la battaglia per la narrazione, perderà anche tutte le altre, ed è per questo che ora ricorre a imitazioni scadenti delle azioni degli studenti”. Ecco perché la liberazione della RTS è un passo fondamentale per garantire che un giorno le elezioni – che prima o poi si terranno – possano essere considerate legittime. Un momento del blocco della televisione pubblica. Foto di Gavrilo Andrić Percorsi di risoluzione: “Questo è l’ultimo treno per il cambiamento” Mentre il governo organizza contro-manifestazioni, contro-studenti, contro-camminatori, trova contro-professori e diffonde contro-propaganda attraverso i suoi contro-media, gli studenti rimangono fermi nelle loro richieste originarie, anche se ciò significa perdere un anno accademico. Ma il mantenimento dello status quo non mette a rischio solo un anno? La situazione attuale potrebbe mettere in pericolo anche lo stesso movimento studentesco e portare all’esaurimento? È tempo di uno sciopero generale, di un governo esperto di transizione? È tempo di elezioni anticipate? Sciopero generale e governo di transizione Nonostante il fallimento di due tentativi di sciopero generale, gli studenti sono convinti che esso rimanga la forma di pressione più efficace. Uno di quelli che hanno partecipato alla marcia fino a Strasburgo sottolinea che gli studenti non vogliono solo il sostegno, ma l’impegno attivo di altri cittadini: “A volte sembra che la gente dica: ‘Ok, c’è una protesta, mi presenterò come se fosse una fiera. Farò qualcosa, sosterrò gli studenti, ammirerò la loro lotta e basta. Poi tornerò nella mia zona di comfort mentre gli studenti lotteranno per me”. Credo che sia giunto il momento di smetterla. Solleviamoci a livello nazionale e facciamo la cosa giusta dopo decenni e decenni di errori”. Tuttavia, uno sciopero generale potrebbe essere difficile da realizzare, in parte perché un terzo dei membri del sindacato appartiene al partito SNS al potere. Allo stesso modo, l’opzione di un governo di transizione composto da esperti appare lontana, poiché le autorità al potere – un fattore essenziale in questo processo – non mostrano alcuna volontà di percorrere questa strada. Convocazione di elezioni anticipate La convocazione di elezioni anticipate è molto probabilmente il prossimo passo, ma ci sono grossi problemi con le liste elettorali, la manipolazione e l’acquisto di voti. Tuttavia, il 25 aprile, l’assemblea della Facoltà di Scienze Tecniche ha votato a favore della richiesta di indire elezioni parlamentari anticipate, proponendo agli studenti coinvolti nel blocco di compilare una lista elettorale indipendente. È stata anche avanzata la proposta di creare un Fronte sociale, un’ampia rete di gruppi che sostengono gli studenti e combattono la corruzione. Le reazioni delle autorità suggeriscono che considerano questa proposta una minaccia reale ed è certo che, anche nel caso di un maggiore controllo, ci saranno tentativi di manipolare il voto in vari modi. Un altro ostacolo è l’avversione degli studenti per i partiti politici, risultato di anni di tattiche di regime. Essi ritengono che qualsiasi futuro governo o lista elettorale da loro sostenuta debba includere membri senza affiliazioni partitiche pregresse – un’idea che, per quanto nobile, sembra utopistica nell’attuale realtà politica. A questo proposito, lo scrittore e attivista Vladimir Arsenijević afferma: “Un anello mancante fondamentale in tutto questo è il contatto diretto con i veri attori politici. Che piaccia o no, gli unici che possono incanalare l’energia scatenata dagli studenti, e poi sostenuta da vari gruppi sociali, attraverso gli strumenti istituzionali sono i partiti politici. Senza di essi, non ci può essere alcun cambiamento. Tranne, forse, uno puramente rivoluzionario per il quale, direi, nessuno è pronto”. Raduno dei cittadini. Foto di Stefan Kostić Pluralismo di opinioni e ascesa della destra Mentre cittadini e studenti cercano di trovare la soluzione migliore alla crisi, le tensioni ideologiche stanno diventando più visibili all’interno degli stessi gruppi di protesta. Sebbene le loro richieste formali siano ideologicamente neutre, le ultime settimane hanno messo a fuoco le differenze di valore sottostanti. A proposito di valori, Arsenijević avverte che mentre le proteste si bloccavano, i gruppi di estrema destra hanno sfruttato la pausa, infiltrandosi nei raduni sotto la bandiera dell’unità. “Ora vediamo ogni sorta di simboli iper-ortodossi, insegne cetniche, nostalgie territoriali imperialiste, slogan sul recupero del Kosovo, bandiere e simboli russi – mentre allo stesso tempo c’è una forte e tacita censura di altri simboli”. Sembra esserci un’aspettativa di tolleranza e comprensione da parte della sinistra: “Molti cittadini sembrano credere che questo sia un sacrificio che vale la pena fare, perché presumibilmente nulla è peggiore del regime di Aleksandar Vučić, nemmeno questo sincretismo revisionista o il sogno di un’utopia nazionalista post-Vučić in cui tutti i serbi vivono insieme felici e contenti”. Ciò solleva la questione di come cittadini così divisi possano trovare un terreno comune nel “giorno dopo”. Può un movimento sostenere il pluralismo interno senza un chiaro quadro di valori? Oppure è giunto il momento di tracciare linee chiare tra coloro che lottano per il cambiamento democratico e coloro che cercano un nuovo autoritarismo? E adesso? Tra sogni di libertà e realtà “Ogni nazione ha il governo che si merita. Non possiamo limitarci a parlare di quanto siano insensate le azioni del regime. Ognuno di noi deve dire: non lo accetto”, afferma Miodrag Zec, professore di economia in pensione, aggiungendo che l’esito finale dipende da ognuno di noi. Qualunque sia la strada da seguire, è chiaro che la soluzione non è a portata di mano, ma richiede la decisione quotidiana e persistente di non accettare l’ingiustizia. Isidora Cerić, laureata in filologia, sottolinea che la forza del movimento studentesco sta nell’organizzazione orizzontale, nella perseveranza e nella mancanza di desiderio di soluzioni preconfezionate. La loro pazienza non è una debolezza, ma una decisione consapevole di non impegnarsi in meccanismi che hanno fallito più volte con i cittadini: “In una società in cui ogni forza politica si misura in base ai numeri, alla portata, all’intensità e ai risultati immediati, questo tipo di resistenza sembra improduttivo. Ma forse è proprio questo il suo vero valore: rifiutarsi di giocare al gioco della produttività”. E così, anche se il cammino da percorrere è incerto, forse la vera risposta non sta nel quando o nel come, ma nella quotidiana domanda: Lo accetto? Perché dalla risposta dipende se il sogno di libertà si sposterà un giorno dagli anfiteatri studenteschi alle istituzioni statali e alla vita quotidiana di tutti i cittadini. E nel frattempo, tutto ciò che possiamo sperare è una perseveranza radicale. Foto di Gavrilo Andrić, Lav Boka, Stefan Kostić Dijana Knežević