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Il tempo della luce: addio a bob Wilson
Quando il corpo di Robert “Bob” Wilson si è spento ieri l’altro all’età di 84 anni, il Teatro non ha perso solo un regista. Ha perso una vera e propria macchina percettiva. Il suo addio segna la fine infatti di una stagione – forse l’ultima autenticamente utopica – in cui […] L'articolo Il tempo della luce: addio a bob Wilson su Contropiano.
[2025-08-03] Come se niente fosse @ Bilancione occupato
COME SE NIENTE FOSSE Bilancione occupato - Viale Claudio Caligari, fiumicino (domenica, 3 agosto 18:00) Domenica 3 iniziamo questo agosto col botto💣 Dal pomeriggio alla sera saremo alla spiaggia dei Bilancioni portando un vento artistico a gonfiare le nostre e le vostre vele. Questo sarà possibile grazie al ritorno sul litorale di un grande compagno, Caterpillar, che con il suo spettacolo "Come se niente fosse" fa appello agli ultimi umani (18:30h). A seguire avremo cena benefit a cura di Biblidea_Biblioteca Anarchica, uno spazio necessario per la nostra città (ma in generale per il mondo!) e che siamo felici di supportare. Concludiamo con il concerto live di un trio ormai carissimo a noi del collettivo No porto: i Trifidi. Con questa tripletta eccezionale vi aspettiamo domenica a via Claudio Caligari, Fiumicino! Perché..per quest'anno vieni a lottare, stessa spiaggia, stesso mare..🎶
Josip Pejaković, gigante del teatro bosniaco, si spegne a Sarajevo
Il mondo artistico della Bosnia Erzegovina e del resto d’Europa piange la scomparsa di uno dei suoi più grandi talenti: Josip Pejaković. Attore, scrittore, drammaturgo e figura emblematica della cultura balcanica, si è spento a Sarajevo all’età di 78 anni la notte tra il 18 e il 19 luglio 2025. Autentico monumento vivente del teatro, lascia un’opera colossale, segnata dall’impegno e da un profondo umanesimo. Nato il 5 marzo 1948 a Travnik, antica capitale dell’Eyalet di Bosnia (Eyālet-i Bōsnâ) tra il 1699 e il 1850, nonché città natale anche del Premio Nobel Ivo Andrić, celebre a livello mondiale per il romanzo “Il ponte sulla Drina”, Pejaković vi compie gli studi primari e secondari e gli esordi musicali come cantante del gruppo rock locale “Veziri”, prima di orientarsi definitivamente verso il mondo del teatro. Si diploma presso l’Accademia di Arte Drammatica di Sarajevo, dove ha l’opportunità di formarsi con l’attrice Katarina Kaća Dorić e con il celebre regista e sceneggiatore Josip Lešić, per debuttare in breve tempo in scena dando corpo e voce a opere impegnative del calibro delle “Tre sorelle” (Три сестры) di Anton Čechov e “Concerto in un uovo” di Fernando Arrabal. La sua voce profonda e la potente presenza scenica conquistano rapidamente il pubblico di ogni età. Pejaković fu anche una voce critica sin dall’inizio dei conflitti nei Balcani. Membro del comitato editoriale della rivista progressista Novi Plamen, contribuì alla sua crescita quale spazio di dibattito politico, sociale e culturale nell’area post-jugoslava, che sopravvive oggi in formato esclusivamente digitale. Dal 1970 al 2013 è attore stabile del Teatro Nazionale di Sarajevo, il teatro più grande della Bosnia Erzegovina e una delle più importanti istituzioni culturali dell’Europa sudorientale, dove interpreta oltre 50 ruoli principali. Lo si ricorda in grandi classici come “Per chi suona la campana”, “Hasanaginica”, “Re Lear”, “Predstava Hamleta u selu Mrduša Donja (La rappresentazione dell’Amleto nel villaggio di Merduscia di sotto)”, “I fratelli Karamazov” e “Carne selvaggia”. La sua longevità artistica, la sua disciplina e il suo carisma lo hanno reso un punto di riferimento imprescindibile per il teatro bosniaco e, più in generale, per tutta la scena dell’ex Jugoslavia. Josip Pejaković, oltre a essere stato un grande attore e stimato intellettuale, è stato anche autore di numerosi monologhi teatrali intensi e impegnati, tra i quali è importante ricordare “Kako bolan nema Bosne”, “On meni nema Bosne”, “Oj živote”, “O, izbjeglice”, “Država i papci” e “Ućerivanje”. Le sue opere sono state rappresentate in tutta la ex Jugoslavia e affrontano senza filtri i drammi della guerra, dell’esilio, dell’identità e della memoria collettiva attraverso un linguaggio in grado di unire umorismo nero, dolcezza e ribellione. Nel corso di oltre cinquant’anni di carriera, Pejaković è stato insignito di innumerevoli premi e riconoscimenti, sia in patria sia all’estero. Già nel 1974 ricevette la Medaglia d’oro al Festival di Zemun per “Oj živote” (Oh vita) e il premio “6 Aprile” della Città di Sarajevo (Šestoaprilska nagrada grada Sarajeva). Nel 1977 ricevette il prestigioso “Premio Sterija” per il ruolo di Omer Pasha Latas, il generale serbo naturalizzato turco ottomano dalla Croazia nel XIX secolo, al quale fecero seguito numerosi riconoscimenti alla carriera. Ottenne anche diversi premi dell’Associazione degli artisti figurativi della Bosnia Erzegovina, tra cui l’Anello di Tmača nel 2008 per il suo ruolo in “Lungo viaggio verso la notte (Long Day’s Journey into Night)” e, nel 2012, il premio “Argento di Muci” per la sua interpretazione in “Predstava Hamleta u selu Mrduša Donja (La rappresentazione dell’Amleto nel villaggio di Merduscia di sotto)” di Ivo Brešan ispirata all’opera di William Shakespeare. Nel 2018 riceve uno dei più alti riconoscimenti del teatro bosniaco: la “Zlatni lovorov vijenac” (Corona d’alloro dorata) del Festival Internazionale del Teatro MESS di Sarajevo, fondato nel 1960 da Jurislav Korjenić e inizialmente consacrato al teatro sperimentale, che ne celebra la “carriera impressionante, il contributo straordinario al teatro, e l’impegno incrollabile contro la guerra e il nazionalismo”. Parallelamente alla carriera teatrale, Pejaković partecipa anche a film e serie televisive di grande impatto come “Silent Gunpowder (Gluvi barut)” di Bahrudin Čengić (1990), “Il cerchio perfetto (Savršeni krug)” di Ademir Kenović (1997), e “All for Free (Sve džaba)” di Antonio Nuić (2006), confermando anche nel cinema il suo talento versatile. Artista dalla rara poliedricità, è stato anche regista teatrale presso il Teatro Nazionale di Sarajevo tra il 2001 e il 2003. Nel 2021 è stato nominato membro onorario dell’Accademia Bosniaco-Americana delle Arti e delle Scienze. La sua passione e comprensione profonda della cultura bosniaca lo portano a scrivere un volume dedicato alla “Sevdalinka” pubblicato da Art Rabic nel maggio 2022, nel quale difende il canto urbano, doloroso e poetico, nato dall’incontro tra le tradizioni slave e ottomane che hanno prodotto il genere musicale popolare conosciuto anche come “sevdah”. Insieme al musicista Antonije Pušić (artisticamente noto con il nome di Rambo Amadeus), nel 2022 aveva proposto la candidatura della sevdalinka quale patrimonio culturale immateriale dell’UNESCO, riconoscimento che è stato effettivamente ottenuto nel dicembre 2024. La pratica della sevdalinka è oggi trasmessa in famiglia, nelle scuole, nei conservatori e nei laboratori musicali, rappresentando un potente elemento identitario e di coesione per le diverse comunità del Paese, a prescindere dalle origini etniche o culturali. In questo rappresenta un’ideale eredità di Josip Pejaković e del suo impegno culturale di ampia visione, un artista amato da tutte le generazioni, al di là delle appartenenze e delle divisioni. La sua opera, attraverso le molteplici interpretazioni e i testi prodotti, offre uno specchio critico della società e un canto d’amore ferito per una terra tormentata, dove la cultura non è mai stata chiusa in un cassetto nemmeno sotto le bombe e l’assedio. Nonostante il drastico peggioramento delle condizioni di salute, Pejaković è rimasto attivo fino alla fine dei suoi giorni. Negli ultimi dieci anni ha subito ben 17 interventi chirurgici, ma non ha mai smesso di scrivere, esibirsi o di difendere la cultura bosniaca attraverso la partecipazione a conferenze e incontri pubblici. All’inizio del mese di marzo 2024, per esempio, si era recato a Bruxelles per numerosi incontri istituzionali e due spettacoli in occasione della Festa dell’Indipendenza della Bosnia Erzegovina, il 2 e 3 marzo, presso il centro culturale MIR.   Anna Lodeserto
Quando il teatro è trasformazione sociale
NATO ALL’INTERNO DEL TEATRO DELL’OPPRESSO PER METTERE IN SCENA PROBLEMI CONCRETI DELLE COMUNITÀ LOCALI E LASCIARE CHE IL PUBBLICO PROPONGA SOLUZIONI, IL TEATRO-LEGISLATIVO HA IMPARATO AD ANDARE OLTRE ALLE PROPOSTE DI LEGGE. NEL TEMPO SI È ADATTATO A CONTESTI DIVERSI, SPESSO SENZA LA PRESENZA DELLE ISTITUZIONI, DIMOSTRANDO DI ESSERE UN POTENTE STRUMENTO DI TRASFORMAZIONE SOCIALE. IL COLLETTIVO GIOLLI HA RACCOLTO ESPERIENZE E INTERVISTE TRA EUROPA E STATI UNITI CHE MOSTRANO COME IL TEATRO-LEGISLATIVO SI POSSA APPLICARE NELLE SCUOLE, NEI QUARTIERI, NEI COMUNI, CON ASSOCIAZIONI O MOVIMENTI MA ANCHE CON PERSONE INIZIALMENTE DISGREGATE, DA UNIRE ATTORNO A UN TEMA COMUNE. ALFABETI PER UNA NUOVA CULTURA POLITICA Foto tratte dalla pag. fb Giolli Cooperativa Sociale  -------------------------------------------------------------------------------- A prima vista, l’accoppiata teatro e legge può sembrare improbabile. Del resto, il mondo del teatro raramente si intreccia con quello, più rigido e formale, delle istituzioni. Eppure, tra il 1993 e il 1996, a Rio de Janeiro, accadde qualcosa di sorprendente: Augusto Boal, uomo di teatro, ideatore del Teatro dell’Oppresso, venne inaspettatamente eletto Vereador (consigliere comunale). Di fronte a questa nuova responsabilità, Boal avrebbe potuto scegliere: lasciare da parte la politica per continuare con il suo metodo teatrale, oppure accantonare la scena per dedicarsi alla carriera istituzionale. Ma fece qualcosa di diverso: provò a fondere i due mondi. Nacque così il Teatro- Legislativo, un esperimento unico che portava il teatro dentro le istituzioni e le istituzioni dentro la vita reale. In estrema sintesi, si trattava di un percorso bidirezionale: dalla società alle istituzioni e ritorno. Con il teatro come mediatore, la voce degli oppressi — abitanti delle favelas, persone con disabilità, studenti neri, persone LGBTQIA+ — trovava ascolto e potere. I gruppi creavano spettacoli a partire da bisogni reali, cercavano possibili soluzioni attraverso il Teatro-Forum, poi Boal raccoglieva queste idee, le elaborava con una piccola equipe chiamata “cellulametabolica” e le trasformava in proposte di legge da presentare al Consiglio Comunale. Il risultato? Oltre 40 proposte presentate, di cui 13 approvate, nonostante Boal fosse all’opposizione. Ma il processo non si fermava lì: ogni proposta discussa o votata tornava alle comunità attraverso un evento chiamato “Camera in Piazza”, in cui veniva raccontato e condiviso ciò che accadeva in aula. Un vero e proprio circuito democratico che andava dal basso verso l’alto e viceversa. Da allora, il Teatro-Legislativo è diventato un riferimento per chi vuole coniugare arte, cittadinanza attiva e politica dal basso. L’idea si è diffusa nel movimento mondiale del Teatro dell’Oppresso, anche al di fuori di contesti istituzionali. Con il progetto europeo COFA – Community Organising for All, il collettivo Giolli ha raccolto esperienze e interviste a dieci attivisti e teatranti tra Europa e Stati Uniti che hanno sperimentato, in vari modi, questa forma di teatro trasformativo. Come si concretizza un percorso di Teatro-Legislativo? Uno dei percorsi più ricorrenti, raccontato in molte esperienze raccolte dal progetto COFA – Community Organising for All, segue una struttura ben precisa. Ecco le tappe. 1. Dalle storie alla scena. Tutto comincia da un gruppo di comunità: un collettivo omogeneo, spesso composto da persone che condividono una condizione di marginalizzazione o oppressione (ad esempio giovani disoccupati, migranti, persone con disabilità, studenti neri). Si raccolgono storie reali, esperienze vissute, e da queste si costruisce un Teatro-Forum — una forma teatrale interattiva dove il pubblico può intervenire per cercare soluzioni ai problemi messi in scena. 2. Teatro-Forum aperto alla comunità. Lo spettacolo viene rappresentato davanti alla comunità locale. Se dal dibattito emerge che il problema ha una dimensione politica o normativa, si decide di avviare una sessione di Teatro-Legislativo. A volte, invece, si parte direttamente da un tema già in discussione a livello istituzionale, così da inserirsi in un dibattito esistente. 3. Arrivano i “Policy Rangers”. Tra gli invitati ci sono i cosiddetti “policy rangers” (come li definisce l’attivista americana Katy Rubin): non solo politici e funzionari pubblici, ma anche attivisti, operatori sociali, educatori, tecnici — chiunque abbia potere o influenza sul tema trattato. 4. Analisi collettiva e immaginazione politica. Dopo un riscaldamento partecipativo, si rivede lo spettacolo con l’intento di andare oltre i personaggi: il pubblico è guidato ad analizzare il contesto strutturale della storia. Il facilitatore (chiamato Jolly) pone domande come: Quali problemi riconoscete nella scena? Sono reali nella vostra esperienza? Quali leggi, norme, regolamenti o strutture contribuiscono a crearli? Che nuove regole o pratiche vorreste vedere? Il pubblico interviene, gli attori reagiscono e il Jolly facilita il dialogo, mentre un secondo facilitatore annota in tempo reale su uno schermo tutto ciò che emerge.. 5. Scrittura delle proposte. I partecipanti, divisi in piccoli gruppi, scrivono proposte di legge o di policy. Non è necessario che siano tecnicamente perfette: l’importante è esprimere bisogni e visioni concrete. 6. Selezione partecipata. I “policy rangers” leggono le proposte davanti a tutti, le raggruppano per temi e ne selezionano 2 o 3 che appaiono più generali, efficaci e applicabili. 7. Emendamenti dal vivo. Le proposte vengono mostrate su un grande schermo. Il pubblico può suggerire modifiche o emendamenti, che vengono discussi e integrati in tempo reale. 8. Voto e priorità. Si passa poi a un voto pubblico, per stabilire quali idee sono considerate più urgenti o trasformative. È il momento in cui la collettività si esprime su ciò che ha più potenziale per generare cambiamento. 9. L’impegno dei decisori. I “policy rangers” si assumono un impegno concreto, davanti a tutti: dichiarano pubblicamente quali azioni porteranno avanti nelle successive otto settimane. 10. Il follow-up. Due mesi dopo, il gruppo promotore verifica cosa è stato fatto. Si redige un rapporto pubblico, che viene condiviso con la comunità per dare trasparenza al processo e stimolare ulteriori azioni. Questo tipo di percorso non è solo uno strumento teatrale, ma un vero esercizio di democrazia partecipata, dove la creatività collettiva si traduce in azione politica concreta. E se Boal diceva che “tutti possono fare teatro, anche i legislatori”, oggi sappiamo che tutti possono anche contribuire a scrivere le regole del gioco. A partire da una scena. Perché il Teatro-Legislativo favorisce la partecipazione Il Teatro-Legislativo stimola la ricerca di soluzioni concrete a partire dall’esperienza diretta di chi vive il problema. Il punto di partenza non è l’astrazione tecnica, ma la voce di chi subisce l’ingiustizia. Questo rende il processo fortemente partecipativo: chi normalmente resta ai margini prende la parola, elabora collettivamente il proprio punto di vista e contribuisce attivamente a progettare un cambiamento reale e attuabile. In questo modo, il Teatro-Legislativo non solo abbatte le barriere tra cittadini e istituzioni, ma si configura come uno strumento concreto di democrazia dal basso, capace di unire riflessione critica, creatività e azione politica. Un nuovo modo di fare politica dal basso? Il Teatro-Legislativo nasce da una convinzione forte: le proposte che emergono dalla base, se discusse e approfondite in modo collettivo, possono trasformarsi in strumenti reali di cambiamento e contribuire alla soluzione concreta dei problemi di una comunità. Il Teatro-Legislativo si fonda su sei pilastri ideologici e metodologici: 1. Schieramento politico dalla parte degli oppressi. Il Teatro-Legislativo parte da un posizionamento chiaro: si mette al fianco delle persone socialmente e politicamente più deboli, riconoscendo le disuguaglianze strutturali e cercando di combatterle attraverso l’azione collettiva. 2. Pedagogia della coscientizzazione. I facilitatori, chiamati Jolly, non impongono soluzioni né trasmettono verità preconfezionate, non usano la propaganda o la manipolazione. Seguendo il pensiero di Paulo Freire, il loro compito è aiutare i gruppi a interrogarsi sul presente, a problematizzare le proprie condizioni e a immaginare alternative. 3. Visione olistica dell’essere umano. Il Teatro-Legislativo coinvolge mente, corpo ed emozione. La parola non è l’unico strumento di conoscenza: anche il gesto, il suono, l’immaginazione sensoriale e l’azione scenica diventano strumenti per comprendere e trasformare la realtà. 4. Orientamento al futuro e al cambiamento. Il presente viene analizzato attraverso la scena, ma con uno sguardo rivolto alla trasformazione: ciò che accade sul palco serve a progettare un futuro più giusto e condiviso. 5. Fiducia nei soggetti oppressi. Il Teatro-Legislativo rifiuta la delega agli esperti. Crede nella capacità delle persone direttamente coinvolte nei problemi, di elaborare le proprie soluzioni e di essere protagoniste della trasformazione. 6. Sperimentazione continua. Non esiste un unico “format” di Teatro-Legislativo. Ogni percorso si adatta al contesto, si costruisce insieme ai partecipanti, evolve nel tempo. È un processo vivo, che cresce insieme ai gruppi con cui si lavora. Tutto questo basta a definirlo una nuova forma di politica dal basso? Forse sì. O almeno, una pratica radicalmente diversa da quella tradizionale, in cui la cittadinanza attiva si esprime attraverso l’arte e la co-decisione. Esperienze: dal Brasile all’Europa Il Teatro-Legislativo non è rimasto confinato alla sua esperienza originaria, quella in cui Boal fu eletto consigliere comunale a Rio de Janeiro e condusse per quattro anni un progetto ufficialmente sostenuto dal Comune. Al contrario, si è adattato a contesti diversi, spesso anche senza la presenza diretta delle istituzioni o in collaborazione con esse in forme nuove. Alcuni esempi? A Graz, in Austria, persone senza dimora hanno preso parte a un percorso di Teatro-Legislativo per elaborare un regolamento più umano dei centri di accoglienza: le proposte sono arrivate fino al consiglio comunale. In Portogallo, il Teatro-Legislativo è stato utilizzato per creare proposte di riforma del sistema di borsedistudiouniversitarie, e anche per contribuire alla riscrittura della legge sulla gioventù, coinvolgendo direttamente studenti e giovani attivisti. Nel Tirolo austriaco, una ministra regionale ha promosso un percorso di Teatro- Legislativo per riformare la legge sulla disabilità: Il processo ha coinvolto centinaia di persone con disabilità e le loro associazioni. Negli Usa, a New York, il collettivo TONYC ha lavorato con il Comune per introdurre una carta d’identità valida con nome elettivo per persone transgender, emersa da un percorso di Teatro-Legislativo. E ancora: nel Regno Unito, l’organizzazione Active Inquiry ha co-condotto un processo di TL sul tema dell’assistenza sanitaria, coinvolgendo gruppi di cittadini e riuscendo a far dialogare i risultati con parlamentari locali. Dove e come applicare il Teatro-Legislativo? I contesti in cui il Teatro-Legislativo può essere sperimentato sono molteplici. Ogni volta che si tratta di proporre, cambiare o far rispettare una norma o un regolamento, il Teatro-Legislativo può entrare in gioco. Si può applicare: a livello locale, ad esempio in una scuola, un quartiere o un Comune; su scala più ampia, fino a raggiungere province, regioni o parlamenti; con gruppi già organizzati (associazioni, movimenti), ma anche con persone inizialmente disgregate, da unire attorno a un tema comune. Il Teatro-Legislativo può servire per proporre nuove leggi o regolamenti; rendere effettive norme già esistenti; rafforzare e unificare movimenti frammentati; creare consapevolezza e senso di appartenenza intorno a una causa comune. Come ricorda José Soeiro, sociologo e attivista portoghese: “Non fissiamoci solo sulla produzione di nuove leggi: il Teatro-Legislativo può agire in diverse aree di trasformazione sociale”. L’importante è che sia un processo vivo, condiviso e concreto, capace di rendere visibile l’invisibile e trasformare l’indignazione in azione collettiva. -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Mazzini, GiolliCoop -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quando il teatro è trasformazione sociale proviene da Comune-info.
Quando inizia davvero una guerra
The Book of the New Words Un progetto teatrale di also.known.as. Quando inizia davvero una guerra? È questa la domanda che muove The Book of the New Words, progetto teatrale a cura di Simone Corso e Jovana Malinarić che si snoda come un viaggio fisico e poetico tra Italia, Bosnia, Siria e Croazia, alla ricerca di una risposta che forse non esiste. Tracce di guerra sembrano disseminate ovunque: nei gesti quotidiani, nelle parole, negli sguardi. Si parte allora per incontrare chi quella guerra l’ha vissuta, provando a decifrarne il linguaggio, o forse a inventarne uno nuovo. Il progetto nasce dal testo teatrale Il libro delle parole nuove di Simone Corso, premiato con una segnalazione al Premio Hystrio Scritture di Scena – RomaEuropa 2022, con questa motivazione: “La scrittura di Simone Corso ha quella giusta attenzione ai dettagli del racconto tipica dei narratori […] cerca un nuovo modo di raccontare la guerra, sorprendendo per la capacità di non aver paura di descrivere la violenza dell’essere umano sui suoi simili attraverso una modalità fantasiosa e precisa.” Dalla parola scritta alla scena, The Book of the New Words prende vita grazie al progetto di ricerca artistica also.known.as., fondato dallo stesso Corso insieme alla dramaturg e ricercatrice Jovana Malinarić, con la partecipazione dell’autore, regista e attore siriano Wael Kadour. Il cast è composto da performer provenienti da Italia, Bosnia, Siria e Croazia, e i cinque personaggi parlano in italiano, bosniaco, arabo e croato, dando voce a un reenactment di storie vere, ricordi e testimonianze raccolte sul campo. La genesi di The Book of the New Words è il risultato di un processo creativo articolato, che ha preso forma attraverso diverse residenze artistiche internazionali. Il primo passo è stato compiuto a Trieste, al Teatro La Contrada, nel settembre 2023, dove il gruppo ha avviato l’elaborazione della versione multilingue della pièce e ne ha presentato una prima forma in veste di conferenza-spettacolo. Successivamente, nel giugno 2024, il progetto si è spostato a Sarajevo, ospitato dal SARTR – Sarajevo War Theatre. Questa tappa è stata resa possibile grazie al sostegno del bando Movin’Up Performing Arts 2023/24 e ha visto il coinvolgimento di Selma Alispahić, attrice bosniaca tra le fondatrici dello stesso teatro durante gli anni del conflitto. Il lavoro svolto in Bosnia ha rappresentato un momento centrale nell’intreccio tra memoria storica e costruzione scenica. L’estate dello stesso anno ha portato una nuova fase in Sicilia, grazie al supporto della call Culture Moves Europe della Commissione Europea. In questa occasione si è unita al team anche la dramaturg greca Liza Kardami, specializzata nel lavoro sul corpo e sul movimento, contribuendo ad arricchire ulteriormente il dispositivo scenico. Nel 2025 il progetto approderà infine a Zagabria, dove è stato selezionato dal bando Movin’Up Performing Arts 2024/2025 per una nuova residenza presso Yelo Production. Qui, in collaborazione con il team croato, si lavorerà allo sviluppo di un innovativo apparato tecnologico che renderà i sovratitoli parte integrante della drammaturgia. Non più semplici strumenti di traduzione, ma veri e propri elementi narrativi: frasi in più lingue che si trasformano, si sovrappongono, si contaminano, rivelando pensieri interiori e nuove prospettive di senso. The Book of the New Words è un’opera sul linguaggio e sull’impossibilità, spesso, di raccontare l’indicibile. Ma è anche un’opera che prova, nonostante tutto, a trovare parole nuove per dire l’umanità. Perché forse – come si legge nel testo – “nessuna lingua del mondo può raccontare qualcosa che ancora non esiste”. Per informazioni: also-known-as.eu / performingaka@gmail.com Instagram/Facebook: sim.corso / hidden_matches Redazione Italia
Una cosmografia dell’umano
L’esordio è una lunga teoria di volti, di mani che sorreggono una sedia, strascinata come un fagotto da emigrante. Entrano in scena ribadendo che l’inizio è sempre abborracciato. Difficile metterli a fuoco tutti, ci vuole il tempo della loro lenta processione attraverso lo spazio di un vecchio edificio delle Ferrovie dello Stato strappato al degrado della prima periferia della Capitale. Si vede così l’avventura in tutta la sua ampiezza, già da ora, abbarbicata al corpo deglə attorə che non mimano più niente, perché c’è solo una vita e ogni finzione è soltanto una parte, altra vita che si aggiunge ad altra vita. Poco a poco, però, alcune frasi si fanno strada attraverso una geografia di donne e di uomini che si siedono in modo appassionatamente casuale, in contemplazione del loro stesso arrivo, frasi che si susseguono, si rincorrono, si sovrappongono, in cerca di un’armonia che si darà solamente a chi non la vorrà per davvero. Chi siano, perché ci siano, cosa debbano, a chi lo debbano, non è dato saperlo: tuttə si osservano dall’interno, fissano un oggetto, ne estraggono un motto. È un rituale di presentazione, ma che non pare presupporre nessun destinatariə deputatə.  L’ultimo spettacolo di nontantoprecisi, compagnia teatrale che opera al limite tra esperienza artistica e terapeutica, ci traghetta infatti in un mondo senza inizio né fine, senza pregiudiziali sociologiche a monte né partizioni di ruolo rintracciabili in ultima analisi. Portato in scena per la prima volta il 16 e il 17 maggio scorsi, con un titolo, Città instabile: presagio e prefigurazione di un luogo, che è già di per sé un’opera a parte, lo spettacolo dice molto, ovvero che dire non basta. > Bisogna agire, stare, abitare, prima ancora che pensare a come farlo, a come > coordinare il brulichio dei nostri sensi, dei nostri movimenti, e delle nostre > parole, naturalmente, che non sono in questo caso appunto troppo > indispensabili. Esattamente il contrario di quello che accade e sembra accadere ai nostri giorni, quando alla dittatura dei corpi irregimentati dai sistemi simbolici di una volta – dalla tradizione – è subentrata la legge insondabile e insindacabile degli algoritmi, alla quale devono essere consacrati e sacrificati anche i moti più segreti e intimi dei nostri sogni – dei nostri desideri più o meno conformi. La città che si incarica di imporci a cosa aspirare attraverso le sue infrastrutture sempre più inviolabili è un’aberrazione, a cui occorre replicare con l’anomalia delle proprie traiettorie più aleatorie, non ancora studiate e progettate da chi vorrebbe che non ci fosse più niente da indovinare, ma solo da sapere. Ventiquattro persone in scena – dirette da un regista, Nino Pizza, in ascolto di ciò che succede – sono la dimostrazione insomma che l’esperienza la vince sempre sulla scienza. Pittorico, cinematografico, scultoreo, ogni momento ha infatti una sua sintassi, una sua grammatica, una sua forma espressiva elettiva, che richiede di essere accolta nella sua specificità, nel suo sillabarsi ogni volta in piena autonomia. > Lo spettacolo, in breve, è tutto fuorché un blocco monolitico, orientato alla > realizzazione di una intenzione creativa escludente. E la musica, che > accompagna ogni gesto, lo propone a se stesso, è come un fragile commento al > commento reciproco che le azioni fanno della musica, e si fanno tra di esse. Ma appunto, questa storia è fatta di continui rivolgimenti. Ogni figura è l’inverso della precedente, e la successiva lo è a sua volta della prima. I filosofi avevano ragione, in qualche modo, la fenomenologia dello spirito, la grande epopea trans-epocale delle scimmie nude, è una sequela di antitesi sbagliate, che promanano l’una dall’altra noncuranti del loro debito reciproco, ignorandosi alla fin fine per sempre. È così che tuttə imparano a essere in sintonia con il nuovo, a credere all’inedito, almeno fino a quando l’attesa non si fonde con il ricordo, e la prospettiva di andare avanti rischia di collassare nel baratro di un odio per se stessə in cui da un po’ di tempo affondano i nostri simili. È così insomma che accade ogni volta l’imprevedibile, ogni volta l’intera sequenza di apparizioni storiche, materiali o culturali, è ricalcolata nel suo significato di fondo, spinta in un altrove dal quale la tirerà fuori solo l’ennesima (dis)organizzazione di gruppo. Ma è così, anche, che la Storia cambia faccia, sporge infine una ricerca inedita – la tensione a una ricerca assoluta, alla ricerca della ricerca, ormai forma prominente di una vita che non cede alla sconfitta. Tutto questo non conta, d’altronde, se non quando la relazione tra le persone diventa per la prima volta una vocazione obbligata (si pensi all’iper-connessione in cui siamo gettati da mattina a sera), impattando sulla carne di ciascunə di noi come una rivelazione lancinante, assumendo paradossalmente la cifra di uno slegame universale. Chiamatə a essere qualcosa, qualcunə, a volere non volere, a praticare la brutale disciplina della condotta collettiva, ognunə diventa allora un ‘uno’, un uno tutto solo che conta come qualsiasi altro ‘uno’, e che può prendere posto nella collosa evoluzione di un muta proliferante. È una visione per certi versi abbacinante, fastidiosa, ma affascinante. Un corpo in ispezione quasi furiosa della scena, ne aggrega un altro, a tutta prima incapace di tenersi dritto da solo, come fosse l’appendice di un essere invece già sicuro, fin troppo diritto, già umano. E a loro volta i due corpi attraggono altri corpi, cominciano ad annodarsi, a stirarsi, a prendersi proprio quando stanno per perdersi. Si accumulano, si strattonano, si sfaldano. È tutto sformato, diveniente, quasi compatto, quasi. La metamorfosi è l’unica legge dell’esistenza, adesso è chiaro, è indiscutibile, ma questa mancanza continua di forma non può durare, deve cedere il passo ad altro. Con le sue forme istituzionali più o meno stabili, con i suoi imperativi a essere qualcuno o qualcosa di definito, la Storia è iniziata da un pezzo, anche se ogni tanto ce lo dimentichiamo. > Ci riconosciamo, allora, ci crediamo che siamo noi a guardarci per la prima > volta, ci crediamo perché dobbiamo smettere di crederci. Dietro le quinte avviene infatti nient’altro che l’incessante riassortimento delle aspirazioni. L’umanità è un tragitto incompiuto, un’impresa a perdere, senza ritorno di alcun tipo. E le sedie a questo punto possono volteggiare al di sopra delle teste, per essere riordinate in file parallele, le une davanti alle altre. È il momento in cui ci si guarda dritti negli occhi, è il momento in cui bisogna saltare. E saltano, allora, cominciano a correre tuttə quantə, cercando di non colpirsi, per trovare un posto anche loro, accanto aglə altrə, e forse, in questo frangente storico decisivo e feroce, anche contro glə altrə. C’è una situazione stralunata in cui la danza può farsi scomposta, ogni immagine rinviare a tutte le altre, in un gioco di paralisi improvvisate nel quale non c’è più spazio nemmeno per eseguire gli ordini, perché persino l’atto della trasgressione è comunque un programma, una partitura già scritta, una scoperta fallita. E c’è una voglia sorda e strisciante di ritrovarsi, anche quando tutto lavora per separarci. Ma arriva infine la scena che racchiude tutte le altre, che fa precipitare il racconto dentro una persecuzione senza aguzzini né vittime definitive. Una giovane donna che fugge, piantandosi ogni volta davanti a uno o più altri corpi, che la fendono, la impressionano, la proiettano sul limite in cui ogni incontro diventa deviazione. E senza mai toccarsi, sfiorandosi a malapena, come nel pieno di un’emergenza pandemica da cui è stato esclusa l’usanza primordiale del contatto corporeo. Ogni dibattito è tramontato, a ben vedere, ogni attesa di consenso inabissatasi nel buio. La relazione è ridotta ormai alla sua dimensione elementare di urto, di impatto, di choc. Di trauma ripetuto. > C’è un tempo per competere, quindi, e uno per cooperare, se non fosse che il > grido certe volte rimane chiuso dentro, bloccato da un nodo, fattosi da parte > a parte nodo puro. Non esplode più, non si fa più scontento e dissenso. E tuttavia è proprio adesso che vediamo davvero come stanno le cose. Ci sono solo moltitudini, in effetti, molteplicità e insiemi irriducibilmente plurali, dappertutto. L’anarchia elementare e spontanea che da sempre attraversa ogni lotta si raccoglie in fondo in questa consapevolezza sempre negata e sempre instancabilmente rinascente. Dal punto di vista del non-umano, l’umanità non è altro che un profluvio formicolante di aggregati tutti diversi, tutti ricombinati, non è mai niente di preordinato, niente di perfettamente unito, niente di preciso. Bisogna scegliere dove guardare, sempre. Non si è mai a casa, qui, ogni visione è straniante, anche se non mai l’ultima.   Fino a che l’avanguardia di un corpo sociale all’arrembaggio assiepata epicamente su un trabattello da cantiere avanza verso un punto invisibile, le cose non sono mai del tutto quello che sembrano. Lo sguardo puntato all’orizzonte, il fedele ascendere verso il sol dell’avvenire. Non basta, anche questo deve passare. La sommità della struttura viene quindi smontata pezzo a pezzo e una cornice vuota, nel frattempo, mette in rilievo i volti di tuttə lə presenti, li restituisce per un istante alla loro perfetta singolarità. Come una murata che cade all’improvviso, un ultimo movimento brusco dell’intero gruppo verso chi guarda e ascolta. Sembra di assistere a un attacco, a un conflitto preparato sul lungo periodo, ma è la fine, la luce illumina tutto per un secondo, poi tutto scompare, diventa un’immagine che persiste sulla retina, fluttuando nel vuoto. L’antropologia trascolora nell’ontologia, l’auto-comprensione dell’essere umano si traduce in pensiero del mondo, e viceversa. Le teorie, le filosofie della storia e della politica, a cui chi comanda vorrebbe da che tempo è tempo allineare l’intera specie, non sono che la pallida e stentorea registrazione di quanto hanno fatto gli esseri umani, consci e meno di farlo. Prima c’è sempre l’indagine disarmata, l’esplorazione senza direzione, l’andare alla deriva. Uno spettacolo del genere ce lo fa capire, perché non ha bisogno di articolarlo come un messaggio, ma gli è sufficiente praticarlo. > Di fronte a questo insolito e rigoroso teorema si resta ricettivi sino > all’ultimo, si è all’oscuro di ogni significato, e soltanto quando le > coordinate utili all’intelligenza degli eventi emergono dallo sfondo in cui > erano annidate e si rendono finalmente percepibili nella chiusura, solo allora > possiamo risignificare retrospettivamente ogni passaggio. Si è schiantati da ciò che si vede, per capirlo solo a cose fatte. Abbiamo assistito a una strana poesia, ora lo sappiamo, una poesia in cui la nostra vicenda è come colta dal suo margine più estremo, quando la Storia stessa si mostra nel suo versante meno scontato, quello di una stratigrafia dell’umano, di una stenografia convulsa e stranita di tutte le sue incarnazioni. Anzi, la posta in gioco è ancora più alta, ne va della possibilità di tracciare una cosmografia dell’umano, una scrittura delle sue forme illimitate, sempre eterogenee, inesauribili, come fosse un continente, o un pianeta, o una galassia, ma vista da un popolo alieno, ancora all’oscuro del nostro codice di comportamento indeciso tra il predatorio e il solidale. La soggettività a venire ha questo profilo, la malattia che l’affligge di questi tempi ne è la lucida anche se scomposta generazione. Dopo la contro-rivoluzione neoliberista iniziata quarant’anni fa scopriamo che “essere” significa “essere insieme”, sì, ma come altrə, come divergenti glə unə daglə altrə. Stare sul confine è difficile, richiede una vigilanza costante, un esercizio di apertura sempre sul chi vive, ma è anche una sfida senza la quale non c’è speranza né comunanza reale. All’inizio erano tuttə solə, ora siamo tuttə unicə. L’immagine di copertina è di Francesco Falciani (Flickr) SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Una cosmografia dell’umano proviene da DINAMOpress.
Libri al Corto Circuito. Manualetto di Fisica Coatta.
Ritorniamo a presentare un libro al Corto circuito e lo facciamo con il simpatico “Manualetto di Fisica Coatta” insieme all’autore Paolo Barruca. A Seguire Apericena e poi, ci sarà uno spettacolo teatrale di Giovan Bartolo Botta. Inizio evento alle ore 19:00 link alla pagina Facebook  La copertina del Manualetto di Fisica Coatta. Momo Edizioni «Avemo fatto un’osservazione, avemo visto persone normali che studiavano fisica. L’avemo stanate e ne avemo trovate un boato: persone che la fisica l’hanno studiata e, pensate un po’, fanno ’na vita normale. Le potete incontrà anche ar supermercato o a’o stadio. Nun se deve sceje tra la fisica e l’AS Roma!» Scritto da fisici esperti (quelli, esilaranti, de La Scienza coatta) con rigorosa precisione concettuale, questo libro racconta, in un linguaggio romanesco divertente e spiazzante, la lunga storia della fisica proprio come se fosse un piccolo manuale scolastico: dalle esaltanti origini agli albori della scienza fino ai principi della termodinamica, dallo spaziotempo di Einstein alle teorie quantistiche più avanzate. Questo intrepido viaggio nella scienza è facilitato da una serie di illustrazioni che aiutano il lettore a farsi largo nei concetti più complicati e affascinanti della fisica (sia tradizionale che contemporanea). Perché, come dice Giorgio Parisi nella sua prefazione – proprio ora, in questo momento di diffusa sfiducia nel metodo scientifico – dobbiamo raccontare la scienza e coinvolgere i lettori in un modo semplice, divertente, avvincente. La Scienza Coatta è un progetto di divulgazione scientifica e umorismo in romanesco dell’APS Tavola Rotonda, nato su Facebook nel 2015. Fondato da un trio di menti diaboliche prestate alla scienza e mai restituite, dar 2018 si espande (come l’Universo) con l’aiuto di straordinari volontari e volontarie. L’idea è semplice: il vero motore della scienza, è uno solo, la coattanza. La nostra sfida è mostrare che la scienza – e gli scienziati – non fanno parte di quel mondo ovattato, serioso, accademico e impenetrabile che molti credono. Lo facciamo provando a raccontare, oltre i concetti scientifici, anche le vicende umane e gli aneddoti più curiosi che li riguardano, forte e chiaro, senza filtri, con meme dissacranti. L’autore: Paolo Barucca. Nato e cresciuto a Roma, zona San Cleto. Dottorato in Fisica dei sistemi disordinati alla Sapienza e Associate Professor all’University College London. Scienziato coatto della prima ora divulga forte specie dopo il secondo gin e tonic. A Seguire, ci sarà uno spettacolo teatrale di Giovan Bartolo Botta che, nel 2016 ha vinto il premio come miglior attore al Fringe Festival. Un pò di info su di lui: Giovan Bartolo Botta. Nato a Belo Horizonte (Brasile), anno di grazia 1981. Cuspide. Diseducazione cuneese. Attore teatrale. Un attore qualunque. Esponente della corrente teatrale ipocondriaca. Ultras teatro a guardia di una fede. Produzioni Nostrane la sezione. Inizio attività di guitto con la compagnia Talli Ruggeri, successivamente lo ritroviamo in piccoli cammei nella compagnia Valli De Lullo Falk Albani Guarnieri. Per alcuni anni porge la battuta al grande Salvo Randone con religioso silenzio. Ha recitato con i più grandi. Romolo Valli, Salvo Randone, Paolo Stoppa, Tino Buazzelli, Lilla Brignone, Adelaide Ristori, Erminio Macario, Ermete Zacconi, Renzo Ricci, Elsa Albani e l’intramontabile Gustavo Modena. Peccato che loro non se ne siano mai accorti. Giovan Bartolo botta The post Libri al Corto Circuito. Manualetto di Fisica Coatta. first appeared on CSOA CORTO CIRCUITO.