Una cosmografia dell’umanoL’esordio è una lunga teoria di volti, di mani che sorreggono una sedia,
strascinata come un fagotto da emigrante. Entrano in scena ribadendo che
l’inizio è sempre abborracciato. Difficile metterli a fuoco tutti, ci vuole il
tempo della loro lenta processione attraverso lo spazio di un vecchio edificio
delle Ferrovie dello Stato strappato al degrado della prima periferia della
Capitale.
Si vede così l’avventura in tutta la sua ampiezza, già da ora, abbarbicata al
corpo deglə attorə che non mimano più niente, perché c’è solo una vita e ogni
finzione è soltanto una parte, altra vita che si aggiunge ad altra vita. Poco a
poco, però, alcune frasi si fanno strada attraverso una geografia di donne e di
uomini che si siedono in modo appassionatamente casuale, in contemplazione del
loro stesso arrivo, frasi che si susseguono, si rincorrono, si sovrappongono, in
cerca di un’armonia che si darà solamente a chi non la vorrà per davvero. Chi
siano, perché ci siano, cosa debbano, a chi lo debbano, non è dato saperlo:
tuttə si osservano dall’interno, fissano un oggetto, ne estraggono un motto. È
un rituale di presentazione, ma che non pare presupporre nessun destinatariə
deputatə.
L’ultimo spettacolo di nontantoprecisi, compagnia teatrale che opera al limite
tra esperienza artistica e terapeutica, ci traghetta infatti in un mondo senza
inizio né fine, senza pregiudiziali sociologiche a monte né partizioni di ruolo
rintracciabili in ultima analisi. Portato in scena per la prima volta il 16 e il
17 maggio scorsi, con un titolo, Città instabile: presagio e prefigurazione di
un luogo, che è già di per sé un’opera a parte, lo spettacolo dice molto, ovvero
che dire non basta.
> Bisogna agire, stare, abitare, prima ancora che pensare a come farlo, a come
> coordinare il brulichio dei nostri sensi, dei nostri movimenti, e delle nostre
> parole, naturalmente, che non sono in questo caso appunto troppo
> indispensabili.
Esattamente il contrario di quello che accade e sembra accadere ai nostri
giorni, quando alla dittatura dei corpi irregimentati dai sistemi simbolici di
una volta – dalla tradizione – è subentrata la legge insondabile e insindacabile
degli algoritmi, alla quale devono essere consacrati e sacrificati anche i moti
più segreti e intimi dei nostri sogni – dei nostri desideri più o meno conformi.
La città che si incarica di imporci a cosa aspirare attraverso le sue
infrastrutture sempre più inviolabili è un’aberrazione, a cui occorre replicare
con l’anomalia delle proprie traiettorie più aleatorie, non ancora studiate e
progettate da chi vorrebbe che non ci fosse più niente da indovinare, ma solo da
sapere. Ventiquattro persone in scena – dirette da un regista, Nino Pizza, in
ascolto di ciò che succede – sono la dimostrazione insomma che l’esperienza la
vince sempre sulla scienza. Pittorico, cinematografico, scultoreo, ogni momento
ha infatti una sua sintassi, una sua grammatica, una sua forma espressiva
elettiva, che richiede di essere accolta nella sua specificità, nel suo
sillabarsi ogni volta in piena autonomia.
> Lo spettacolo, in breve, è tutto fuorché un blocco monolitico, orientato alla
> realizzazione di una intenzione creativa escludente. E la musica, che
> accompagna ogni gesto, lo propone a se stesso, è come un fragile commento al
> commento reciproco che le azioni fanno della musica, e si fanno tra di esse.
Ma appunto, questa storia è fatta di continui rivolgimenti. Ogni figura è
l’inverso della precedente, e la successiva lo è a sua volta della prima. I
filosofi avevano ragione, in qualche modo, la fenomenologia dello spirito, la
grande epopea trans-epocale delle scimmie nude, è una sequela di antitesi
sbagliate, che promanano l’una dall’altra noncuranti del loro debito reciproco,
ignorandosi alla fin fine per sempre. È così che tuttə imparano a essere in
sintonia con il nuovo, a credere all’inedito, almeno fino a quando l’attesa non
si fonde con il ricordo, e la prospettiva di andare avanti rischia di collassare
nel baratro di un odio per se stessə in cui da un po’ di tempo affondano i
nostri simili. È così insomma che accade ogni volta l’imprevedibile, ogni volta
l’intera sequenza di apparizioni storiche, materiali o culturali, è ricalcolata
nel suo significato di fondo, spinta in un altrove dal quale la tirerà fuori
solo l’ennesima (dis)organizzazione di gruppo. Ma è così, anche, che la Storia
cambia faccia, sporge infine una ricerca inedita – la tensione a una ricerca
assoluta, alla ricerca della ricerca, ormai forma prominente di una vita che non
cede alla sconfitta.
Tutto questo non conta, d’altronde, se non quando la relazione tra le persone
diventa per la prima volta una vocazione obbligata (si pensi
all’iper-connessione in cui siamo gettati da mattina a sera), impattando sulla
carne di ciascunə di noi come una rivelazione lancinante, assumendo
paradossalmente la cifra di uno slegame universale. Chiamatə a essere qualcosa,
qualcunə, a volere non volere, a praticare la brutale disciplina della condotta
collettiva, ognunə diventa allora un ‘uno’, un uno tutto solo che conta come
qualsiasi altro ‘uno’, e che può prendere posto nella collosa evoluzione di un
muta proliferante. È una visione per certi versi abbacinante, fastidiosa, ma
affascinante. Un corpo in ispezione quasi furiosa della scena, ne aggrega un
altro, a tutta prima incapace di tenersi dritto da solo, come fosse l’appendice
di un essere invece già sicuro, fin troppo diritto, già umano. E a loro volta i
due corpi attraggono altri corpi, cominciano ad annodarsi, a stirarsi, a
prendersi proprio quando stanno per perdersi. Si accumulano, si strattonano, si
sfaldano. È tutto sformato, diveniente, quasi compatto, quasi. La metamorfosi è
l’unica legge dell’esistenza, adesso è chiaro, è indiscutibile, ma questa
mancanza continua di forma non può durare, deve cedere il passo ad altro. Con le
sue forme istituzionali più o meno stabili, con i suoi imperativi a essere
qualcuno o qualcosa di definito, la Storia è iniziata da un pezzo, anche se ogni
tanto ce lo dimentichiamo.
> Ci riconosciamo, allora, ci crediamo che siamo noi a guardarci per la prima
> volta, ci crediamo perché dobbiamo smettere di crederci.
Dietro le quinte avviene infatti nient’altro che l’incessante riassortimento
delle aspirazioni. L’umanità è un tragitto incompiuto, un’impresa a perdere,
senza ritorno di alcun tipo. E le sedie a questo punto possono volteggiare al di
sopra delle teste, per essere riordinate in file parallele, le une davanti alle
altre. È il momento in cui ci si guarda dritti negli occhi, è il momento in cui
bisogna saltare. E saltano, allora, cominciano a correre tuttə quantə, cercando
di non colpirsi, per trovare un posto anche loro, accanto aglə altrə, e forse,
in questo frangente storico decisivo e feroce, anche contro glə altrə. C’è una
situazione stralunata in cui la danza può farsi scomposta, ogni immagine
rinviare a tutte le altre, in un gioco di paralisi improvvisate nel quale non
c’è più spazio nemmeno per eseguire gli ordini, perché persino l’atto della
trasgressione è comunque un programma, una partitura già scritta, una scoperta
fallita. E c’è una voglia sorda e strisciante di ritrovarsi, anche quando tutto
lavora per separarci.
Ma arriva infine la scena che racchiude tutte le altre, che fa precipitare il
racconto dentro una persecuzione senza aguzzini né vittime definitive. Una
giovane donna che fugge, piantandosi ogni volta davanti a uno o più altri corpi,
che la fendono, la impressionano, la proiettano sul limite in cui ogni incontro
diventa deviazione. E senza mai toccarsi, sfiorandosi a malapena, come nel pieno
di un’emergenza pandemica da cui è stato esclusa l’usanza primordiale del
contatto corporeo. Ogni dibattito è tramontato, a ben vedere, ogni attesa di
consenso inabissatasi nel buio. La relazione è ridotta ormai alla sua dimensione
elementare di urto, di impatto, di choc. Di trauma ripetuto.
> C’è un tempo per competere, quindi, e uno per cooperare, se non fosse che il
> grido certe volte rimane chiuso dentro, bloccato da un nodo, fattosi da parte
> a parte nodo puro. Non esplode più, non si fa più scontento e dissenso.
E tuttavia è proprio adesso che vediamo davvero come stanno le cose. Ci sono
solo moltitudini, in effetti, molteplicità e insiemi irriducibilmente plurali,
dappertutto. L’anarchia elementare e spontanea che da sempre attraversa ogni
lotta si raccoglie in fondo in questa consapevolezza sempre negata e sempre
instancabilmente rinascente. Dal punto di vista del non-umano, l’umanità non è
altro che un profluvio formicolante di aggregati tutti diversi, tutti
ricombinati, non è mai niente di preordinato, niente di perfettamente unito,
niente di preciso. Bisogna scegliere dove guardare, sempre. Non si è mai a casa,
qui, ogni visione è straniante, anche se non mai l’ultima.
Fino a che l’avanguardia di un corpo sociale all’arrembaggio assiepata
epicamente su un trabattello da cantiere avanza verso un punto invisibile, le
cose non sono mai del tutto quello che sembrano. Lo sguardo puntato
all’orizzonte, il fedele ascendere verso il sol dell’avvenire. Non basta, anche
questo deve passare. La sommità della struttura viene quindi smontata pezzo a
pezzo e una cornice vuota, nel frattempo, mette in rilievo i volti di tuttə lə
presenti, li restituisce per un istante alla loro perfetta singolarità. Come una
murata che cade all’improvviso, un ultimo movimento brusco dell’intero gruppo
verso chi guarda e ascolta. Sembra di assistere a un attacco, a un conflitto
preparato sul lungo periodo, ma è la fine, la luce illumina tutto per un
secondo, poi tutto scompare, diventa un’immagine che persiste sulla retina,
fluttuando nel vuoto. L’antropologia trascolora nell’ontologia,
l’auto-comprensione dell’essere umano si traduce in pensiero del mondo, e
viceversa.
Le teorie, le filosofie della storia e della politica, a cui chi comanda
vorrebbe da che tempo è tempo allineare l’intera specie, non sono che la pallida
e stentorea registrazione di quanto hanno fatto gli esseri umani, consci e meno
di farlo. Prima c’è sempre l’indagine disarmata, l’esplorazione senza direzione,
l’andare alla deriva. Uno spettacolo del genere ce lo fa capire, perché non ha
bisogno di articolarlo come un messaggio, ma gli è sufficiente praticarlo.
> Di fronte a questo insolito e rigoroso teorema si resta ricettivi sino
> all’ultimo, si è all’oscuro di ogni significato, e soltanto quando le
> coordinate utili all’intelligenza degli eventi emergono dallo sfondo in cui
> erano annidate e si rendono finalmente percepibili nella chiusura, solo allora
> possiamo risignificare retrospettivamente ogni passaggio.
Si è schiantati da ciò che si vede, per capirlo solo a cose fatte. Abbiamo
assistito a una strana poesia, ora lo sappiamo, una poesia in cui la nostra
vicenda è come colta dal suo margine più estremo, quando la Storia stessa si
mostra nel suo versante meno scontato, quello di una stratigrafia dell’umano, di
una stenografia convulsa e stranita di tutte le sue incarnazioni. Anzi, la posta
in gioco è ancora più alta, ne va della possibilità di tracciare una cosmografia
dell’umano, una scrittura delle sue forme illimitate, sempre eterogenee,
inesauribili, come fosse un continente, o un pianeta, o una galassia, ma vista
da un popolo alieno, ancora all’oscuro del nostro codice di comportamento
indeciso tra il predatorio e il solidale. La soggettività a venire ha questo
profilo, la malattia che l’affligge di questi tempi ne è la lucida anche se
scomposta generazione. Dopo la contro-rivoluzione neoliberista iniziata
quarant’anni fa scopriamo che “essere” significa “essere insieme”, sì, ma come
altrə, come divergenti glə unə daglə altrə. Stare sul confine è difficile,
richiede una vigilanza costante, un esercizio di apertura sempre sul chi vive,
ma è anche una sfida senza la quale non c’è speranza né comunanza reale.
All’inizio erano tuttə solə, ora siamo tuttə unicə.
L’immagine di copertina è di Francesco Falciani (Flickr)
SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS
Per sostenere Dinamopress abbiamo attivato una nuova raccolta fondi diretta. Vi
chiediamo di donare tramite paypal direttamente sul nostro conto bancario,
Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno
utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i
e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno
L'articolo Una cosmografia dell’umano proviene da DINAMOpress.