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Sulle carceri la politica è subalterna al populismo
Il Presidente della Repubblica, il 30 giugno, rivolgendosi al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (D.A.P.) ha espresso un richiamo forte rivolto al Governo e alla Politica in generale con cui, espressamente, ha sottolineato che le carceri non possono calpestare i diritti dei detenuti e “non devono essere una fabbrica di criminalità”. D’altronde, […] L'articolo Sulle carceri la politica è subalterna al populismo su Contropiano.
“Ma quale casa?”, la campagna per introdurre il diritto all’abitare in Costituzione
Avere un tetto sopra la testa è giusto, no? Per questo non abbiamo un’unica bandiera. Proveniamo da mondi diversi, abbiamo età differenti, a qualcuno piace il mare, altri non si muovono dalla montagna. Ma una cosa ci accomuna: crediamo che la casa debba essere riconosciuta concretamente come un diritto fondamentale della persona. Alcuni di noi hanno dato corpo alla protesta delle tende contro il caro affitti, altri si battono per la giustizia abitativa in associazioni, sindacati o amministrazioni locali. Da queste esperienze abbiamo imparato che alzando la voce si attira l’attenzione, ma è parlando piano che si cambiano le cose. Le nostre esperienze, però, sono solo un piccolo mattone in questo enorme tema che, se ci pensi, riguarda tutte e tutti. Riduciamo ai minimi termini il problema italiano dell’abitare: nei centri maggiori le case sono inaccessibili; nei piccoli comuni molte sono vuote. Cambiare la Costituzione significa modificare le regole del gioco. Vuol dire tracciare una linea netta tra ciò che è lecito, possibile e ciò che è invece inapplicabile. Occuparsi di casa oggi non implica solo parlare di studenti, caro-affitti, caro-bollette o case popolari. Ma tutte queste e altre cose, insieme. In sintesi, la nostra proposta vuole introdurre il riconoscimento del diritto all’abitazione in Costituzione e l’attuazione delle politiche pubbliche necessarie a tutelarlo. Se approvata, ogni altra norma dovrà adeguarsi a un principio tanto semplice quanto disarmante: avere un tetto sopra la testa è giusto. La proposta di iniziativa popolare La presente proposta di legge di iniziativa popolare mira a modificare la Costituzione al fine di introdurre elementi per il riconoscimento e la promozione del diritto all’abitazione e per l’articolazione delle politiche volte a rendere effettivo il godimento di tale diritto. La codificazione di tale diritto nel testo della Costituzione italiana rappresenterebbe un passo decisivo per la creazione di una società più equa, giusta e solidale, in cui ogni individuo possa godere di una vita dignitosa, che non solo vede l’accesso a un’abitazione adeguata come bene primario e diritto della persona, ma che pone la stessa come principio in grado di orientare l’ordinamento e per la futura produzione normativa. Con la pandemia si è compreso che la casa può divenire molto più di un luogo fisico: essa può diventare ufficio, scuola, spazio sociale, ma può anche trasformarsi in una gabbia. Garantire una casa sicura, dignitosa, e accessibile è il primo passo per garantire il pieno benessere della persona. Senza una casa, non possiamo immaginare una vita. Il riconoscimento giuridico del diritto, pur non essendo espressamente sancito dalla nostra Costituzione, è stato riconosciuto in via interpretativa dalla Corte dalla Corte costituzionale con un orientamento ormai risalente e consolidato. Le sentenze nn. 49/1987, 217/1988, 404/1988 e 119/1999 della Corte Costituzionale, infatti, hanno rappresentato momenti cruciali per la definizione e il riconoscimento di tale diritto, creando un percorso interpretativo che ha ispirato la formulazione di questa proposta. La sentenza n. 217 del 1988, ad esempio, ha posto l’accento sulla necessità di tutelare la persona in ogni sua dimensione, qualificando l’abitazione come diritto sociale e riconoscendo che “contribuire a che la vita di ogni persona rifletta ogni giorno e sotto ogni aspetto l’immagine universale della dignità umana, sono compiti cui lo Stato non può abdicare in nessun caso”. A questo riguardo, un’altra importante sentenza, la n. 49 del 1987, aveva già precisato che fosse oltretutto “doveroso da parte della collettività intera impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione”, rafforzando anche la rilevanza della sussidiarietà orizzontale, principio al quale, tra gli altri, questa proposta si ispira individuando nella Repubblica il titolare dell’obbligo di garantire e promuovere il diritto all’abitazione. La sentenza n. 404 del 1988 ha ulteriormente rafforzato tale impostazione, consolidando il contenuto delle due precedenti sentenze. In tale decisione, la Corte metteva in evidenza le differenze rispetto alla ’previsione di cui all’art. 47 Cost, il quale tutela il solo “accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”. Nella motivazione si evidenziava come le precedenti pronunce della Corte avessero invece “una portata più generale”, trattandosi, in quei due casi, del “fondamentale diritto umano all’abitazione” il quale, evidentemente, prescinde dal solo profilo della proprietà dell’abitazione medesima. La Corte rimarcava, nel contesto di un’ordinata gestione del territorio e della proprietà, che lo Stato deve “impedire che delle persone possano rimanere prive di abitazione”, ricavando in via interpretativa “un diritto sociale all’abitazione collocabile fra i diritti inviolabili dell’uomo di cui all’art. 2 Cost.”. Si affermava inoltre che “indubbiamente l’abitazione costituisce, per la sua fondamentale importanza nella vita dell’individuo, un bene primario, il quale deve essere adeguatamente e concretamente tutelato dalla legge”, con ciò riprendendo una nozione – quella di “bene primario” – già presente nella giurisprudenza fin dalla sentenza n. 3/1976 e che la presente proposta di legge intende inserire espressamente nel testo costituzionale. Ancora, in modo analogo, la sentenza n. 119 del 1999 ribadiva l’importanza del diritto all’abitazione nel contesto delle politiche pubbliche, sollecitando un intervento statale che risponda ai bisogni dei cittadini più svantaggiati e che riesca a sostenere situazioni di emarginazione sociale. La Corte ha evidenziato l’esigenza di adottare misure adeguate ad evitare l’’esclusione abitativa, riconoscendo implicitamente che tale diritto costituisce un elemento fondamentale del benessere individuale e collettivo. L’importanza di un riconoscimento forte del diritto all’abitazione è anche ampiamente condivisa a livello internazionale. La Dichiarazione universale dei diritti umani (art. 25), il Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (art. 11) e la Carta sociale europea (art. 31) stabiliscono inequivocabilmente che l’accesso a un’abitazione adeguata è parte integrante dei diritti umani fondamentali. Questi trattati e convenzioni internazionali impongono agli Stati di garantire politiche abitative che assicurino il diritto di ogni individuo ad una abitazione dignitosa. Inoltre, diversi Stati membri dell’Unione europea hanno già esplicitamente riconosciuto tale diritto nelle loro Costituzioni. Ad esempio, la Costituzione portoghese all’articolo 65 stabilisce che lo Stato garantisce il diritto ad “un’abitazione di dimensione adeguata, in condizioni di igiene e conforto, e che preservi l’intimità personale e la riservatezza familiare”. E ancora, la Costituzione spagnola afferma al suo articolo 47 che tutti i cittadini hanno diritto a godere di un’abitazione degna e che la pubblica autorità promuove le condizioni necessarie per questo. D’altra parte, se si allarga lo sguardo al più vasto panorama delle Costituzioni mondiali, ci si avvede non soltanto del fatto che il diritto all’abitazione è riconosciuto in una ampia serie di Costituzioni – più o meno risalenti – ma sussistono alcune consolidate linee di orientamento sia sul piano della definizione di tale diritto che sulla sua collocazione sistematica che, infine, sulla presenza di disposizioni dirette a organizzare e articolare concrete politiche per l’abitare. Così, un primo gruppo di Costituzioni (tra cui vale la pena menzionare – in Europa – l’articolo 2 della legge costituzionale svedese sul governo e – fuori dall’Europa – gli articoli 7.4 e 23.IX della Costituzione del Brasile) legano il diritto all’abitare alla garanzia del minimo esistenziale, così riconoscendo il nesso tra l’abitare e condizioni di vita dignitose. Un secondo gruppo di Costituzioni, invece, riconosce il diritto all’abitare come grandezza autonoma: in questo secondo gruppo – oltre ai già ricordati esempi spagnolo e portoghese si possono menzionare, in Europa, l’articolo 23, n. 3 della Costituzione belga, l’articolo 19 della Costituzione finlandese e l’articolo 21.4 della Costituzione greca; e, fuori dall’Europa, l’articolo 19 della Costituzione boliviana del 2009 (“Every person has the right to an adequate habitat and home that dignifies family and community life”) o all’articolo 100 della Costituzione del Paraguay che parla di una abitazione dignificante (“dignifying”). Altrettanto interessanti, infine, quelle Costituzioni che – pur in assenza di una esplicita proclamazione del diritto all’abitare – si occupano invece di articolare le relative politiche pubbliche, ad esempio sul piano del riparto di competenze tra livelli di governo (è il caso, ad esempio, dell’articolo 74.1 della Legge Fondamentale tedesca del 1949). Di questi spunti comparativi la proposta di legge tiene conto, articolando su più livelli i dispositivi di riconoscimento del diritto all’abitare. La proposta si compone di tre articoli. L’articolo 1 propone la modifica del primo comma dell’articolo 44, aggiungendo ad esso un ulteriore periodo, il quale sancisce l’impegno della Repubblica nell’indirizzare e coordinare lo sviluppo delle aree urbane, e nel garantire l’accesso all’abitazione quale bene primario e mezzo necessario per assicurare alla persona l’effettivo esercizio dei diritti e una vita libera e dignitosa. La scelta dell’articolo 44 come sede di intervento deriva tanto dall’oggetto di tale disposizione – la fissazione di principi e criteri per l’articolazione di politiche relative allo sviluppo delle aree agricole (e, secondo la presente proposta, anche urbane) – quanto, soprattutto, dalle finalità rispetto alle quali la disposizione in parola curva il proprio intervento. Infatti, accanto al fine di conseguire il “razionale sfruttamento del suolo” la disposizione enuncia anche l’obiettivo di “stabilire equi rapporti sociali”. Tali finalità giustificano pienamente la scelta di estendere l’attuazione di tali obiettivi – oggi limitata all’ambito agricolo – anche alle aree urbane, indirizzandone lo sviluppo e includendo in tali direttrici anche la garanzia dell’accesso all’abitazione. Anche le politiche urbanistiche e abitative sono infatti finalizzate – secondo quel che si è detto – ad assicurare rapporti sociali equi, conciliando il pieno sviluppo della persona umana (la “vita libera e dignitosa” che discende, nella logica della presente proposta, dalla disponibilità di una abitazione) con il godimento dei diritti fondamentali ma anche con la tutela dell’ambiente. In questo senso, una equilibrata articolazione delle politiche abitative – opportunamente orientata al fine di stabilire equi rapporti sociali – diviene ponte tra la libera realizzazione della personalità individuale, la convivenza sociale secondo giustizia ed eguaglianza e la necessaria armonia tra attività umane e salvaguardia dell’ambiente. La modifica proposta individua nella Repubblica il titolare dell’obbligo di garantire e promuovere l’accesso all’abitazione: con ciò si è voluta valorizzare la doppia dimensione del principio di sussidiarietà (di cui all’articolo 118, commi primo e ultimo, della Costituzione), che chiama in causa lo Stato, le Regioni, le Province, Comuni (quali articolazioni territoriali della Repubblica), ma anche singoli individui e formazioni sociali, nel segno della cooperazione e della solidarietà(principi che hanno, parimenti, rilievo costituzionale: cfr. l’articolo 2 e l’articolo 45). L’articolo 2 modifica il secondo comma dell’art. 47. Tale disposizione, che attualmente tutela l’accesso del risparmio popolare alla “proprietà” dell’abitazione, viene modificata nel senso di estendere tale tutela anche al “godimento” dell’abitazione medesima. Il “godimento” comprende infatti forme alternative di accesso all’abitazione quali l’affitto e la gestione pubblica o sociale degli alloggi, le quali rispondono a esigenze abitative diverse rispetto alla tradizionale proprietà privata. La modifica vuole così farsi carico e dare copertura costituzionale ad una realtà in cui molte persone e molte famiglie non sono in grado di acquistare una casa, ma potrebbero egualmente beneficiare della protezione giuridica rafforzata dell’accesso a un’abitazione dignitosa. L’articolo 3 infine modifica il secondo e il terzo comma dell’art. 117, inserendovi un riferimento esplicito e coordinato al riparto di competenze in materia di politiche abitative. In particolare, si aggiunge una ulteriore lettera all’elencazione – contenuta nel secondo comma dell’articolo 117 – delle materie di competenza esclusiva dello Stato, con riguardo alle “norme generali in materia di politiche abitative”. L’aggiunta di questa specifica norma si rende necessaria per garantire che l’indirizzo delle politiche per l’abitare, da intendere in senso estensivo, sia uniforme su tutto il territorio nazionale e che non dipenda da differenze regionali che potrebbero comprometterne l’effettività. Inoltre, si modifica il terzo comma dell’articolo 117 – relativo alle materie di competenza concorrente – giustapponendo alla competenza in materia di “governo del territorio” quella in materia di “programmi di edilizia residenziale pubblica” così sottolineando ulteriormente la responsabilità dello Stato, condivisa con le Regioni, nel promuovere e attuare politiche abitative che rispondano ai bisogni sociali più urgenti. In Italia, il tema del diritto alla casa è diventato sempre più centrale in un contesto di crescente disagio abitativo. L’aumento dei costi delle abitazioni, la crescita esponenziale e incontrollata di affitti brevi in determinati quartieri delle nostre città, la difficoltà di accesso al credito, la precarizzazione del lavoro, l’assenza di un salario minimo legale e l’espansione di fenomeni di povertà assoluta e relativa – sono quasi 14 milioni le persone in povertà assoluta o relativa oggi in Italia – hanno alimentato una situazione di già grave emergenza. Milioni di persone, in particolare giovani, studenti, anziani soli, famiglie a basso reddito, migranti, lavoratori precari, e giovani coppie si trovano a fronteggiare difficoltà insormontabili nell’accedere a una casa, e ad una casa che sia dignitosa. L’alta incidenza di sfratti, il crescente numero di persone senza dimora – quasi 500 mila secondo l’Istat – la difficoltà di accesso al mercato degli affitti e la scarsità di alloggi pubblici sono solo alcune delle manifestazioni più evidenti di una crisi abitativa che coinvolge una porzione tragicamente significativa della popolazione. Non è infatti possibile parlare dei problemi dell’abitare in maniera organica se consideriamo le sole statistiche e non riflettiamo, con uno sguardo più ampio, su tutte le situazioni di difficoltà in cui la precarietà abitativa incide in maniera determinante. A questo riguardo, vanno dunque considerate, per fare esempi tristemente noti a tutti noi, anche le migliaia di persone che si trovano in difficoltà a causa di eventi sismici o dei tragici avvenimenti metereologici dovuti al cambiamento climatico, le quali, spesso a distanza di anni, ancora faticano a trovare una soluzione abitativa stabile e vedono la propria vita precaria e in stallo. La complessità di tale situazione richiede quindi una risposta consapevole, decisa, e strutturata da parte della Repubblica nel suo insieme, che non rappresenti solamente una soluzione di rapida narrazione, ma possa fissare nuovi princìpi per la futura produzione normativa e diventare la base su cui costruire ed orientare una nuova stagione di politiche abitative. Sito “Ma quale casa?” PROPOSTA DI LEGGE COSTITUZIONALE Redazione Italia
Considerazioni inattuali sul referendum
Il referendum precedente si è tenuto nel giugno 2022. Si trattava di 5 quesiti, presentati dalla Lega e dai Radicali, sul tema della giustizia. In particolare si trattava di: abolizione della legge Severino sull’incandidabilità dei condannati, limitazione delle misure cautelari, separazione delle funzioni dei magistrati, valutazione dell’operato dei magistrati, riforma del Consiglio Superiore della Magistratura. In quella occasione votò soltanto il 20,4% degli aventi diritto. Tra i votanti prevalsero i sì, appena sopra il 50% per i primi due quesiti e oltre il 70% sulle altre tre proposte di abrogazione. Nel referendum del giugno 2025 i votanti sono stati il 30,6%, con un’inversione di tendenza e un aumento di partecipazione del 50% rispetto al referendum di tre anni prima. Quindi la partecipazione al referendum del 2025 dovrebbe essere considerata da tutti un fatto positivo, seppure ancora insufficiente. In particolare, colpisce la contraddizione di chi oggi sostiene che i quesiti del 2025 non interessavano agli elettori e contemporaneamente sta proponendo la riforma della giustizia, che nel 2022 aveva interessato un numero nettamente inferiore di elettori. Tra il 1974 (divorzio) e il 1995 (privatizzazione RAI) si sono tenuti nove referendum abrogativi. Soltanto nel caso del 1990 (caccia) non si è raggiunto il quorum del 50% dei votanti rispetto agli aventi diritto. Dal 1997 ad oggi si sono svolti dieci referendum abrogativi e soltanto nel 2011 (acqua pubblica e produzione energia nucleare) si è superato il quorum. L’affluenza alle urne referendarie è diminuita di pari passo con quella registrata nelle elezioni politiche. Infatti fino a metà anni ‘90 si è registrata una forte partecipazione elettorale (circa 90% alle politiche, 80% alle amministrative, 70% alle europee), con un calo progressivo negli ultimi 30 anni. Nel 2022 alle politiche ha votato il 64% degli aventi diritto, nel 2023 alle regionali della Lombardia soltanto il 42% ha espresso un voto, alle elezioni europee del 2024 l’affluenza è stata del 48%. Di fronte a questi dati il 30,6% di partecipazione nel referendum 2025 potrebbe essere riconsiderato. Ad esempio, se il quorum venisse riformulato in modo relativo anziché assoluto, cioè utilizzando come riferimento non più gli elettori aventi diritto, ma il 50% dei votanti alle ultime elezioni, la prospettiva sarebbe assai diversa. I partiti dovrebbero smetterla di promuovere o di appropriarsi dei referendum. In Assemblea Costituente Costantino Mortati spiegò che “il referendum si basa sul presupposto che il sentimento popolare possa divergere da quello del Parlamento”. I partiti che non fanno parte della maggioranza di governo, non riuscendo a far approvare alcune proposte, ricorrono talvolta al referendum, cercando di ottenere per via referendaria ciò che non sono riusciti a raggiungere per via parlamentare. La Costituzione prevede di norma che siano 500 mila elettori o cinque consigli regionali a proporre i quesiti referendari (art. 75). È una facoltà dei cittadini o degli enti locali. Non delle forze parlamentari. Di solito durante le campagne referendarie siamo sommersi dalle indicazioni dei partiti, mentre sarebbe più utile ascoltare le formazioni sociali, in particolare quelle coinvolte direttamente dal quesito referendario. Pensando al referendum del 2022 non aveva senso che i promotori fossero la Lega e i Radicali. Come si può ritenere inopportuno che il referendum sulla tempistica per chiedere la cittadinanza italiana sia stato promosso dal partito + Europa. Nella campagna referendaria del 2025 si è molto discusso se il voto referendario sia un dovere o se ci si possa legittimamente astenere in varie forme. La Costituzione afferma che “L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1), cioè sul contributo attivo di ognuno: nel lavoro, nella scuola, nella famiglia, nelle formazioni sociali. In particolare “ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società” (art. 4). Inoltre, “la Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2) e l’esercizio del voto (anche referendario) è “dovere civico” (art. 48). In questa prospettiva, quando si vota, non si dovrebbe scegliere sulla base del proprio interesse egoistico, ma secondo una logica di solidarietà, equità e giustizia.  Perché “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese” (art. 3). Perché “tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi” (art. 54). È anche opportuno ricordare che l’Italia è una Repubblica a seguito di un referendum! In un Paese con un tasso di astensionismo crescente, le istituzioni dovrebbero impegnarsi per promuovere il voto. La volontà della maggioranza dovrebbe formarsi nel procedimento deliberativo e non al di fuori di esso. Il fatto che ci siano partiti e soprattutto cariche istituzionali che invitano a boicottare un referendum è un fatto grave. Bisognerebbe almeno distinguere tra la scelta soggettiva di non votare e quella di indurre all’astensione dal voto. L’incitamento a non far funzionare correttamente un istituto di democrazia diretta (qual è il referendum) non dovrebbe appartenere a chi ricopre un ruolo pubblico, a maggior ragione se questo ruolo è stato assunto attraverso un voto. L’art 54 della Costituzione stabilisce anche che “i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento”. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nel messaggio per la ricorrenza del 2 giugno ha scritto: “Il compito di attuare in concreto gli ideali costituzionali, di renderli vivi nella società quale costante criterio ispiratore delle scelte, è una missione mai esaurita, affidata ogni giorno anzitutto alla premura di quanti, con dedizione e competenza, prestano la loro opera nelle istituzioni e nella società civile. La Costituzione affida, infatti, a ciascun cittadino la responsabilità di concorrere alla coesione sociale del Paese”. Pertanto, invitare alla non partecipazione, al non adempimento di un dovere civico inderogabile, è un atteggiamento censurabile, incivile e tendenzialmente contrario alla Costituzione, che si è giurato di osservare lealmente.         Rocco Artifoni
Riceviamo e pubblichiamo dal Coordinamento Nazionale Docenti della Disciplina Diritti Umani Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani celebra il 2 giugno, Festa della Repubblica Italiana, riaffermando la centralità della memoria storica e del ruolo educativo delle istituzioni scolastiche nel promuovere i valori fondanti della democrazia e della pace. La Repubblica nacque da un atto di volontà popolare nel 1946, dopo un ventennio di dittatura nazifascista e due guerre mondiali che avevano devastato l’Europa e il mondo. La Costituzione, frutto di quella rinascita civile, non solo restituì dignità ai cittadini, ma sancì con chiarezza un principio fondamentale: “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli” (art. 11). Oggi, mentre celebriamo quella scelta storica, non possiamo ignorare il drammatico ritorno della guerra nel cuore dell’Europa e in molte altre aree del mondo. La guerra in Ucraina, il conflitto in Medio Oriente, le crisi belliche dimenticate in Africa, come in Sudan o nella Repubblica Democratica del Congo, ci ricordano ogni giorno quanto la pace sia fragile, e quanto sia urgente difenderla. Per questo, dedichiamo simbolicamente la Festa della Repubblica alle vittime innocenti delle guerre, civili e militari, passate e presenti: a chi ha perso la vita per difendere i valori della libertà, a chi l’ha persa senza aver mai potuto scegliere. La Repubblica è nata anche per impedire che queste tragedie si ripetano. Le scuole, come luoghi di costruzione della coscienza critica, hanno oggi il dovere di non ridurre il 2 giugno a una semplice celebrazione cerimoniale, ma di trasformarlo in un’occasione di educazione alla pace, alla responsabilità democratica, alla comprensione del mondo globale. Percorsi didattici, confronti sui conflitti in corso, studio della Costituzione, letture critiche e incontri con testimoni sono strumenti preziosi per dare senso a tale ricorrenza. Il Coordinamento Nazionale Docenti della disciplina dei Diritti Umani rinnova il proprio impegno a promuovere un’educazione ai diritti civili atta a formare cittadini attivi, solidali e consapevoli, nel segno di una Repubblica che vive nei principi della Costituzione e nel cuore di chi li fa propri. “Dietro ogni articolo della Costituzione sta il sacrificio di migliaia di giovani. Non è una carta morta, è un testamento.” (Sandro Pertini) Redazione Italia