Tensione tra giudiziario e politica: un’analisi democratica attraverso il caso İmamoğlu in Turchia e il referendum sulla riforma della giustizia in Italia
Negli ultimi anni, sia la Turchia sia l’Italia hanno attraversato svolte
critiche che ridefiniscono l’influenza delle istituzioni giudiziarie sulla sfera
politica. In Turchia, l’arresto e il processo del sindaco metropolitano di
Istanbul Ekrem İmamoğlu, minacciato da una pena fino a 2.430 anni di carcere e
da un potenziale divieto politico, hanno provocato una profonda crisi che mette
in discussione la posizione del potere giudiziario rispetto all’esecutivo e
l’equità della competizione democratica.
Nel frattempo, in Italia, la riforma della giustizia proposta dal governo
Meloni volta a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri e a
ristrutturare il Consiglio Superiore della Magistratura è stata sottoposta a
referendum costituzionale. Se approvata nel voto popolare, previsto tra marzo e
aprile 2026, ridefinirebbe il ruolo istituzionale della magistratura.
Questo articolo intende analizzare, in prospettiva comparata, il nesso tra il
meccanismo politico-giudiziario reso visibile dal processo İmamoğlu in Turchia e
la decisione del governo Meloni di ricorrere al referendum per attuare la
riforma della giustizia in Italia.
Che cosa è accaduto in Turchia? E che cosa sta accadendo ora?
La transizione verso l’autocrazia in Turchia (2016–2025)
L’apparente democratizzazione della Turchia dei primi anni 2000 ha ceduto il
passo, nell’ultimo decennio, a una progressiva deriva autocratica. Dopo il
fallito golpe del 2016, epurazioni massicce e riforme costituzionali hanno
ampliato il potere esecutivo, portando alla rimozione di migliaia di magistrati
e rendendo il sistema giudiziario strutturalmente dipendente dalla presidenza.
Pertanto, il periodo 2016–2025 segna una fase in cui l’autoritarismo si è
istituzionalizzato e la magistratura è emersa come uno strumento strategico del
potere politico. L’arresto improvviso di İmamoğlu nel marzo 2025 ha provocato
uno shock nazionale. Figura ampiamente ammirata, la sua detenzione ha generato
proteste di massa riunite sotto lo slogan “Hak, Hukuk, Adalet” (“Diritti, Legge,
Giustizia”). Considerato il principale sfidante dell’opposizione per la
presidenza, il suo caso è stato definito “il segno che una competizione
elettorale autentica in Turchia è ormai terminata” (Nistor & Popescu, 2025) e un
“classico esempio di lawfare” volto a eliminare un rivale in ascesa e
consolidare il potere del partito di governo (Tecimer, 2025).
Le valutazioni concordano: i meccanismi legali operano ormai in modo trasparente
a favore del potere esecutivo. Nel complesso, il periodo 2016–2025 rappresenta
la trasformazione della Turchia da un regime competitivo-autoritario a un
modello sempre più non competitivo. Il caso İmamoğlu costituisce una
manifestazione simbolica di un sistema in cui la competizione democratica non
solo è ostacolata, ma strutturalmente smantellata.
La riforma della giustizia di Meloni e il percorso verso il referendum
La decisione di sottoporre la riforma a referendum ha riacceso un dibattito
fondamentale sul ruolo della magistratura nel sistema politico italiano. Oltre
ai dettagli tecnici, il nodo centrale riguarda il futuro equilibrio tra potere
esecutivo e potere giudiziario.
La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha dichiarato: “Questa non
è una riforma della giustizia… Non interverrà sulla lunghezza dei processi, sul
sovraffollamento carcerario né sulle misure alternative. L’obiettivo è un altro:
indebolire l’indipendenza della magistratura affinché sia più assoggettata al
potere di chi governa.”
Aggiunge inoltre: “Il punto è semplice: Meloni ha detto che questa riforma le
serve per avere le mani libere e porsi al di sopra della Costituzione.”
Il dibattito tocca anche lo strumento referendario. Come sintetizzato da Pagella
Politica: “La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata
dalla maggioranza dei voti validi, ma non ha bisogno del quorum.”
Ciò aumenta il rischio politico poiché anche un’affluenza bassa ma altamente
mobilitata potrebbe deciderne l’esito. I sostenitori affermano che la riforma
spezzerebbe il corporativismo giudiziario e aumenterebbe la responsabilità; i
critici temono che possa ridurre il controllo sull’esecutivo. La campagna assume
così la forma di un plebiscito sull’indipendenza della magistratura e sui limiti
del potere governativo, fondandosi non solo su valutazioni giuridiche ma anche
sulla fiducia nelle istituzioni. Le voci accademiche sottolineano che l’asse
reale della riforma riguarda il potere, non l’efficienza. Giovanni Verde (Il
Sole 24 Ore) scrive: “La riforma avrà scarse o nulle ricadute sull’efficienza
del servizio, avendo come obiettivo quello del riequilibrio tra i poteri dello
Stato.”
Avverte inoltre: “Sarebbe necessaria una robusta partecipazione al voto, dato
che la riforma riguarda il modo di essere della nostra democrazia.”
Paolo Balduzzi osserva che un “Sì” chiuderebbe una battaglia durata decenni,
mentre un “No” rappresenterebbe una sconfitta politica diretta per il governo.
Qual è il collegamento? Quali sono le implicazioni future?
La persecuzione di İmamoğlu e il referendum italiano rivelano una sfida comune
alle democrazie contemporanee: stabilire se la magistratura resti garante della
competizione democratica o diventi uno strumento dell’esecutivo. In Turchia, il
caso İmamoğlu incarna un lawfare ormai istituzionalizzato che restringe lo
spazio politico; in Italia, pur attraverso un processo democratico, la riforma
costituzionale solleva dubbi di legittimità perché ridefinisce l’equilibrio tra
esecutivo e magistratura.
La traiettoria turca, culminata nel processo contro il sindaco della sua città
più popolosa, minacciato da migliaia di anni di carcere, mostra come una
giustizia politicizzata possa spingere un paese fuori dall’ordine democratico.
Criminalizzare un sindaco eletto perché considerato una minaccia politica è un
chiaro indicatore di come la perdita dell’indipendenza giudiziaria laceri la
democrazia in modi difficili da recuperare. Per questo motivo, il dibattito
italiano e il referendum del 2026 non rappresentano mere modifiche tecniche:
sono un bivio esistenziale per l’equilibrio dei poteri. L’esperienza turca è un
monito: quando la magistratura cade sotto l’influenza politica essa smette di
amministrare giustizia e diventa uno strumento di coercizione. Le istituzioni
resistono non solo grazie ai testi legali, ma perché la società ne difende
l’indipendenza.
In conclusione, la scelta dell’Italia nel referendum del 2026 plasmerà non solo
il presente, ma anche la sicurezza democratica delle generazioni future.
L’auspicio è che l’Italia non debba mai assistere al doloroso percorso che la
Turchia ha già vissuto.
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Redazione Romagna