Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica
Ombre sulla città: Milano e l’urbanistica
di Barbara Pizzo e Alessandra Valentinelli, RomaRicercaRoma
La più recente fase dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla redazione del
“Salva Milano”, tra i decreti più controversi del Governo Meloni, ha concentrato
di nuovo l’attenzione pubblica sull’urbanistica e il governo delle
trasformazioni urbane, un tema di solito poco frequentato, se non addirittura
estraneo alla maggioranza della popolazione, nonostante i suoi effetti e i suoi
impatti riguardino tutti. Ci sono due aspetti in particolare che pensiamo valga
la pena discutere allontanandoci dal fragore mediatico. Il primo riguarda il
modo di pensare il governo del territorio da parte di chi è chiamato
specificamente ad occuparsene. Il secondo riguarda il territorio, il suo
presente e il suo futuro.
Riferendosi all’elusione “sistematica” del Piano regolatore di Milano, Giuseppe
Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, parlava di “Piano Ombra”
caratterizzato da “alte parcelle”. Le indagini, che pure lo riguardano (nei suoi
confronti è stata richiesta la custodia cautelare) e che a marzo scorso hanno
già portato ad alcuni arresti, dicono del ricorso a modalità di
“semplificazione” (per lo snellimento delle procedure) delle trasformazioni
urbane in cui l’intervento di singoli decisori risulta particolarmente orientato
all’esercizio di quella discrezionalità che invece solo marginalmente dovrebbe
caratterizzare i sistemi di regolazione, quali, appunto, quelli urbanistici.
Nella nuova tornata di avvisi di metà luglio sono 74 le persone a vario titolo
indagate. Tra esse spiccano l’Assessore alla “Rigenerazione” Giancarlo Tancredi,
Manfredi Catella, protagonista con il suo gruppo COIMA di alcune fra le più glam
delle operazioni immobiliari locali, gli scambi non proprio eleganti tra il
Sindaco Sala e l’architetto Stefano Boeri. In particolare, l’indagine evidenzia
dinamiche relative alle procedure autorizzative che hanno attirato l’attenzione
degli inquirenti per modalità quantomeno disinvolte nell’uso degli strumenti
urbanistici. Ciò che emerge è la reiterazione di tali modalità le quali, nei
fatti, rendono ambigui ruoli che invece dovrebbero essere chiari e distinti: non
sono solo, né tanto, le “laute parcelle per le consulenze” che preoccupano, ma
il fatto che divenga consulente chi in realtà dovrebbe controllare,
supervisionare, governare, ricordandoci che il tema del “conflitto di
interessi”, che può assumere moltissime forme, resta un nodo cruciale, a tutti i
livelli e in tutti i settori pubblici, purtroppo incredibilmente sottostimato.
A colpire tuttavia, nel vortice di dichiarazioni di maggioranza e opposizione, è
la pressoché unanime preoccupazione che le notizie di reato possano fermare la
città: “Così si ferma Milano”, “Non si può fermare la città” sono affermazioni
ripetute e rilanciate dai media, che suonano tra il terrorizzante e il
minaccioso. Allora (ci) chiediamo: ma davvero la Milano che si pensa motore
dello sviluppo nazionale potrebbe fermarsi per un blocco dei cantieri? Siamo
certi sia la finanza del mattone a costituire la ricchezza della città? Il tema
non è semmai quello tutto politico, sollevato dal consigliere Enrico Fedrighini
il 17 luglio, del “controllo pubblico per interesse pubblico” delle
trasformazioni urbane?
Fra le rendite assicurate dai palazzi in costruzione e l’economia meneghina, le
differenze non sono sottili. Il capoluogo lombardo è sede di tre prestigiose
università, delle principali banche e società informatiche nazionali, della metà
delle multinazionali presenti in Italia. È “capitale del design”, dei brevetti
in campo energetico e biotecnologico. Milano “è” la Borsa, e detiene i primati
per occupazione, concentrazione di imprese e turismo d’affari con un PIL
procapite doppio della media italiana. In tale quadro stride il numero di
domande in lista d’attesa per l’assegnazione degli appena 600 alloggi popolari
che, dai conteggi Sicet pubblicati da Zita Dazzi su Repubblica, ogni anno
tornano disponibili: 17.000 famiglie che si sommano ai 4.500 nuclei che hanno
già comprato casa negli edifici sequestrati dalla magistratura, o comunque
congelati dallo stallo degli uffici comunali sui permessi. Dagli arresti in
primavera cui si deve anche il ritiro del discusso “Salva Milano”, non sono
mancate le riflessioni sulla bontà di una rigenerazione che espelle residenti:
con quotazioni crescenti che oscillano tra 5.000 e oltre 25.000 €/mq per gli
appartamenti più lussuosi, “non si trova casa”, denuncia a ogni articolo Lucia
Tozzi; “non si trovano tranvieri”, dicono allarmati i milanesi. Del resto se,
nonostante i 17 milioni di metri cubi di licenze residenziali rilasciate in 10
anni, Nomisma stima 80.000 immobili sfitti, il 10% del totale, i dati indicano
una politica che risponde non alla domanda abitativa ma ai costruttori: “dumping
urbanistico” l’ha definita il Presidente dell’INU Michele Talia, ottenuta
dimezzando gli oneri a standard e servizi, con scomputi e deroghe che, solo
negli ultimi anni secondo la Corte dei Conti ripresa da Barbacetto sul Foglio,
hanno prodotto perdite secche per le casse di Palazzo Marino di oltre 100
milioni di euro. Il giro d’affari emerso dalle odierne inchieste è pervasivo
quanto la sua retorica; cattura valore dall’esistente, creando “eventi” o aree
“strategiche”: nei lotti vuoti del centro, negli ex scali ferroviari, nelle
opere per i Giochi invernali del 2026 (già futuro studentato da 1.400 posti),
allo Stadio di San Siro (di proprietà del Comune) a rischio demolizione per far
posto ad un nuovo impianto (privato) dotato di attività commerciali e terziarie,
con il progetto “Milano 2050” per nove “centralità” periferiche collegate alla
rete metropolitana, oggetto per la procura di “un’operazione di speculazione
intensiva” da 12 miliardi. Chi ci guadagna in questa corsa al mattone? Con
inquinanti fuori soglia, verde e servizi in perenne affanno, in disarmo persino
Argelati e Lido, le piscine comunali vanto di una città un tempo civile, il
Rapporto 2025 di Assolombarda titola implacabile: “Milano perde talenti” per la
mancanza di qualità urbana, dissipando un capitale umano la cui coorte giovanile
alimenta sempre più i 600.000 coetanei, emigrati all’estero negli ultimi 10
anni.
Argelati e Lido riflettono bene il cedimento del pubblico ai privati che Nadia
Urbinati imputa alle istituzioni “disfunzionali”. Apprezzate piscine all’aperto,
attive nei tre mesi della peggior afa estiva, hanno significato per generazioni
di milanesi isole di divertimento, refrigerio e sport a tariffe accessibili.
L’Argelati era stata la prima inaugurata nel 1915, poi ampliata nel 1956,
seguita dal Lido nel 1930 con un’unica vasca da 6.500 mq balneabili; cartoline
di una Milano se non popolare, svagata, accoglievano l’una 30.000, l’altra sino
a 50.000 bagnanti a stagione. Così quando la Giunta Sala, tra il 2019 e il 2022,
ne ha disposto la chiusura, ha toccato un nervo sensibile del culto ambrosiano,
memore degli investimenti sociali nelle vecchie periferie. Ne spiega le
implicazioni Antonio Longo, cui va il merito della petizione contro il “Salva
Milano” lanciata con altri colleghi del Politecnico. Il suo report sulla
“operazione” piscine evidenzia l’insufficienza di risorse comunali da spendere
in lavori straordinari, 15 milioni che hanno indotto il Lido all’agonia, poi la
sua concessione al privato per 25 milioni e 42 anni di gestione svincolata dal
mantenimento del centro balneare: una rinuncia a preservare bene storico e
benefici collettivi della funzione anche e non secondariamente climatica che,
per Argelati, ancora in attesa di offerte valide, suona come la condanna alla
fatiscenza. Sorte analoga alle piscine ha travolto la pista verde del Trotto:
anch’esso abbandonato per scarsità di fondi di manutenzione, lo spazio pubblico
adiacente lo stadio è stato reso edificabile e, nel 2023, venduto agli
sviluppatori di Hines. A Milano, e non solo, la si chiama densificazione e la si
giustifica con la “resilienza ambientale” che deriverebbe dal non consumare
suolo, ma non si soddisfa nessun equilibrio ecologico se poi si sacrificano i
terreni permeabili superstiti nel tessuto costruito, peraltro contravvenendo il
Regolamento europeo sul ripristino della Natura, approvato appunto per
difenderli.
Ci chiediamo dunque: fermare un certo modo di portare avanti lo sviluppo urbano,
che estrae valore molto più di quanto non ne produca, che è troppo spesso solo
“rendita che produce altra rendita” (Pizzo 2023) e che determina una città
sempre più iniqua e diseguale, davvero significa “fermare la città”? E se sì,
allora su cosa si basa la sua struttura socioeconomica e in cosa consiste il suo
“modello di sviluppo”? Possibile che una città come Milano abbia come sola
freccia al proprio arco, l’economia della rendita? Se, invece, questo tipo di
economia che intreccia mattoni e finanza, è l’unico modo in cui si pensa sia
possibile fare “tutto il resto”, quello che tiene assieme tutto, allora a
maggior ragione, dobbiamo (finalmente) riprendere a discutere seriamente di
rendita urbana (che “non è più quella di una volta” – Pizzo cit.), e
(finalmente) mettere in relazione finanziarizzazione e teoria della rendita per
capire esattamente come e a cosa serve, cosa produce nei vari specifici contesti
(a cosa si intreccia, come è usata, cosa produce) – e valutarla
conseguentemente.
Lo scorso 21 luglio in Aula, il Sindaco ha rivendicato le proprie azioni e
chiesto sostegno in cambio del rinvio a settembre del nodo più controverso, il
Meazza. Tancredi invece si è dimesso; forse non era il momento per annunciare
pure un cambio di passo, a partire da quella Commissione Paesaggio nelle cui
dubbie mani sono state accentrate le scelte di trasformazione. Frutto avvelenato
dell’ansia di semplificare le procedure, la Commissione ha sottratto margini di
verifica all’amministrazione e prerogative al Consiglio, indebolendo
l’istituzione nella contrattazione coi privati che era supposta vigilare. La
semplificazione ha inoltre agito in concorso con il “dumping” sugli oneri di
urbanizzazione, compressi al 5% del valore del volume edificabile contro il
20-30% che le città europee in media incassano per la gestione urbana,
redistribuendoli in incrementi e conservazione del patrimonio pubblico, per
garantire disponibilità ed efficienza dei servizi collettivi, il diritto
all’abitare, la tutela della salute, il contrasto della vulnerabilità al clima.
Colluse o indifferenti, a Milano le pratiche edilizie sono al contrario
progredite senza il “peso” di un confronto con il carico di nuovi abitanti,
l’impatto sulla mobilità, vincoli o salvaguardie ambientali: si è così disatteso
il mandato di governo urbanistico che, il 24 luglio bocciando il ricorso contro
i sigilli alle Torri “Lac” di Baggio, la Cassazione ha affermato di ritenere
imperativo.
Bisogna dunque ancora chiedersi: mettere in discussione e sperabilmente provare
a modificare un certo modo (solo “ambrosiano”?) di fare urbanistica cosa
significa esattamente? Ossia: cosa intendiamo con “fermare la città”? Se
significasse fermare o rallentare un modello di sviluppo basato sulla crescita
dissennata, un consumo di risorse insostenibile, un’idea di città come luogo del
privilegio e dell’esclusione, piuttosto che come diritto e inclusione, allora
forse si dovrebbe prendere sul serio la possibilità che una tale macchina vada
fermata. Se è così, con la vicenda milanese (ma solo perché è emersa per prima)
ci è data davvero l‘occasione di “fermarci”, allontanarci dagli interessi
piccoli e grandi, ma immediati, dal “basso cabotaggio”, dalle idee per le città
dal respiro breve e dalle prospettive anguste, e provare a chiederci: ma cosa
stiamo facendo, per chi? È questa la città che desideriamo? Ed è una città
vivibile?
Da urbaniste, formate in un tempo in cui non si parlava d’altro che di “crisi”
dell’urbanistica, della sua debolezza crescente e quasi-inutilità, ci sorprende
che ora tutti i guasti messi in luce da questa inchiesta milanese siano
ricondotti a quella disciplina che “improvvisamente” avrebbe invece un così
grande potere; ci preoccupa l‘ulteriore delegittimazione e svilimento di una
pratica nobile, socialmente rilevante, che questo ennesimo scandalo potrà
produrre (e di nuovo a favore di chi vorrebbe “meno urbanistica”). Milano
dimostra come una visione subalterna alle logiche della rendita e della finanza
immobiliare riduca la città a congerie di eventi, opere e architetture che, per
quanto possano incantare con la loro bellezza, rispondono a mire speculative in
grado di logorare i luoghi, i modi e le relazioni da cui dipende la qualità
della vita urbana. Perciò chiariamo che la soluzione a tutto questo non è “meno
urbanistica”, e forse neppure “più urbanistica”, ma certamente un’urbanistica
diversa da quella attualmente praticata, che purtroppo anche molti esponenti del
così detto “riformismo” hanno più o meno direttamente ed esplicitamente
contribuito ad affermare.
Per approfondimenti, si rimanda al testo di Barbara Pizzo Vivere o morire di
rendita, Donzelli 2023, e al recente “Dialogo” promosso dalla SIU, tenutasi
proprio a Milano il 18 e 19 giugno, intitolato “Mercato e regolazione. Processi
di finanziarizzazione e rendita” tra Barbara Pizzo, Sapienza Università di Roma
e Tuna Tasan Kok, dell’Università di Amsterdam, che sarà pubblicato a breve in
forma di podcast sul sito della SIU; si vedano inoltre, su queste pagine, il
Manifesto di Walter Tocci, tratto dal suo intervento al Congresso INU di maggio
2025 “Elogio dell’Urbanistica” e l’appello contro il Decreto “Salva Milano”
(immagine: Milano Murata di AleXandro Palombo, Milano Galleria di Arte Moderna,
21 lug.2025)
L'articolo Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica proviene da Roma Ricerca
Roma.