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Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica
Ombre sulla città: Milano e l’urbanistica  di Barbara Pizzo e Alessandra Valentinelli, RomaRicercaRoma La più recente fase dell’inchiesta giudiziaria che ha portato alla redazione del “Salva Milano”, tra i decreti più controversi del Governo Meloni, ha concentrato di nuovo l’attenzione pubblica sull’urbanistica e il governo delle trasformazioni urbane, un tema di solito poco frequentato, se non addirittura estraneo alla maggioranza della popolazione, nonostante i suoi effetti e i suoi impatti riguardino tutti. Ci sono due aspetti in particolare che pensiamo valga la pena discutere allontanandoci dal fragore mediatico. Il primo riguarda il modo di pensare il governo del territorio da parte di chi è chiamato specificamente ad occuparsene. Il secondo riguarda il territorio, il suo presente e il suo futuro. Riferendosi all’elusione “sistematica” del Piano regolatore di Milano, Giuseppe Marinoni, presidente della Commissione Paesaggio, parlava di “Piano Ombra” caratterizzato da “alte parcelle”. Le indagini, che pure lo riguardano (nei suoi confronti è stata richiesta la custodia cautelare) e che a marzo scorso hanno già portato ad alcuni arresti, dicono del ricorso a modalità di “semplificazione” (per lo snellimento delle procedure) delle trasformazioni urbane in cui l’intervento di singoli decisori risulta particolarmente orientato all’esercizio di quella discrezionalità che invece solo marginalmente dovrebbe caratterizzare i sistemi di regolazione, quali, appunto, quelli urbanistici. Nella nuova tornata di avvisi di metà luglio sono 74 le persone a vario titolo indagate. Tra esse spiccano l’Assessore alla “Rigenerazione” Giancarlo Tancredi, Manfredi Catella, protagonista con il suo gruppo COIMA di alcune fra le più glam delle operazioni immobiliari locali, gli scambi non proprio eleganti tra il Sindaco Sala e l’architetto Stefano Boeri. In particolare, l’indagine evidenzia dinamiche relative alle procedure autorizzative che hanno attirato l’attenzione degli inquirenti per modalità quantomeno disinvolte nell’uso degli strumenti urbanistici. Ciò che emerge è la reiterazione di tali modalità le quali, nei fatti, rendono ambigui ruoli che invece dovrebbero essere chiari e distinti: non sono solo, né tanto, le “laute parcelle per le consulenze” che preoccupano, ma il fatto che divenga consulente chi in realtà dovrebbe controllare, supervisionare, governare, ricordandoci che il tema del “conflitto di interessi”, che può assumere moltissime forme, resta un nodo cruciale, a tutti i livelli e in tutti i settori pubblici, purtroppo incredibilmente sottostimato. A colpire tuttavia, nel vortice di dichiarazioni di maggioranza e opposizione, è la pressoché unanime preoccupazione che le notizie di reato possano fermare la città: “Così si ferma Milano”, “Non si può fermare la città” sono affermazioni ripetute e rilanciate dai media, che suonano tra il terrorizzante e il minaccioso. Allora (ci) chiediamo: ma davvero la Milano che si pensa motore dello sviluppo nazionale potrebbe fermarsi per un blocco dei cantieri? Siamo certi sia la finanza del mattone a costituire la ricchezza della città? Il tema non è semmai quello tutto politico, sollevato dal consigliere Enrico Fedrighini il 17 luglio, del “controllo pubblico per interesse pubblico” delle trasformazioni urbane? Fra le rendite assicurate dai palazzi in costruzione e l’economia meneghina, le differenze non sono sottili. Il capoluogo lombardo è sede di tre prestigiose università, delle principali banche e società informatiche nazionali, della metà delle multinazionali presenti in Italia. È “capitale del design”, dei brevetti in campo energetico e biotecnologico. Milano “è” la Borsa, e detiene i primati per occupazione, concentrazione di imprese e turismo d’affari con un PIL procapite doppio della media italiana. In tale quadro stride il numero di domande in lista d’attesa per l’assegnazione degli appena 600 alloggi popolari che, dai conteggi Sicet pubblicati da Zita Dazzi su Repubblica, ogni anno tornano disponibili: 17.000 famiglie che si sommano ai 4.500 nuclei che hanno già comprato casa negli edifici sequestrati dalla magistratura, o comunque congelati dallo stallo degli uffici comunali sui permessi. Dagli arresti in primavera cui si deve anche il ritiro del discusso “Salva Milano”, non sono mancate le riflessioni sulla bontà di una rigenerazione che espelle residenti: con quotazioni crescenti che oscillano tra 5.000 e oltre 25.000 €/mq per gli appartamenti più lussuosi, “non si trova casa”, denuncia a ogni articolo Lucia Tozzi; “non si trovano tranvieri”, dicono allarmati i milanesi. Del resto se, nonostante i 17 milioni di metri cubi di licenze residenziali rilasciate in 10 anni, Nomisma stima 80.000 immobili sfitti, il 10% del totale, i dati indicano una politica che risponde non alla domanda abitativa ma ai costruttori: “dumping urbanistico” l’ha definita il Presidente dell’INU Michele Talia, ottenuta dimezzando gli oneri a standard e servizi, con scomputi e deroghe che, solo negli ultimi anni secondo la Corte dei Conti ripresa da Barbacetto sul Foglio, hanno prodotto perdite secche per le casse di Palazzo Marino di oltre 100 milioni di euro. Il giro d’affari emerso dalle odierne inchieste è pervasivo quanto la sua retorica; cattura valore dall’esistente, creando “eventi” o aree “strategiche”: nei lotti vuoti del centro, negli ex scali ferroviari, nelle opere per i Giochi invernali del 2026 (già futuro studentato da 1.400 posti), allo Stadio di San Siro (di proprietà del Comune) a rischio demolizione per far posto ad un nuovo impianto (privato) dotato di attività commerciali e terziarie, con il progetto “Milano 2050” per nove “centralità” periferiche collegate alla rete metropolitana, oggetto per la procura di “un’operazione di speculazione intensiva” da 12 miliardi. Chi ci guadagna in questa corsa al mattone? Con inquinanti fuori soglia, verde e servizi in perenne affanno, in disarmo persino Argelati e Lido, le piscine comunali vanto di una città un tempo civile, il Rapporto 2025 di Assolombarda titola implacabile: “Milano perde talenti” per la mancanza di qualità urbana, dissipando un capitale umano la cui coorte giovanile alimenta sempre più i 600.000 coetanei, emigrati all’estero negli ultimi 10 anni. Argelati e Lido riflettono bene il cedimento del pubblico ai privati che Nadia Urbinati imputa alle istituzioni “disfunzionali”. Apprezzate piscine all’aperto, attive nei tre mesi della peggior afa estiva, hanno significato per generazioni di milanesi isole di divertimento, refrigerio e sport a tariffe accessibili. L’Argelati era stata la prima inaugurata nel 1915, poi ampliata nel 1956, seguita dal Lido nel 1930 con un’unica vasca da 6.500 mq balneabili; cartoline di una Milano se non popolare, svagata, accoglievano l’una 30.000, l’altra sino a 50.000 bagnanti a stagione. Così quando la Giunta Sala, tra il 2019 e il 2022, ne ha disposto la chiusura, ha toccato un nervo sensibile del culto ambrosiano, memore degli investimenti sociali nelle vecchie periferie. Ne spiega le implicazioni Antonio Longo, cui va il merito della petizione contro il “Salva Milano” lanciata con altri colleghi del Politecnico. Il suo report sulla “operazione” piscine evidenzia l’insufficienza di risorse comunali da spendere in lavori straordinari, 15 milioni che hanno indotto il Lido all’agonia, poi la sua concessione al privato per 25 milioni e 42 anni di gestione svincolata dal mantenimento del centro balneare: una rinuncia a preservare bene storico e benefici collettivi della funzione anche e non secondariamente climatica che, per Argelati, ancora in attesa di offerte valide, suona come la condanna alla fatiscenza. Sorte analoga alle piscine ha travolto la pista verde del Trotto: anch’esso abbandonato per scarsità di fondi di manutenzione, lo spazio pubblico adiacente lo stadio è stato reso edificabile e, nel 2023, venduto agli sviluppatori di Hines. A Milano, e non solo, la si chiama densificazione e la si giustifica con la “resilienza ambientale” che deriverebbe dal non consumare suolo, ma non si soddisfa nessun equilibrio ecologico se poi si sacrificano i terreni permeabili superstiti nel tessuto costruito, peraltro contravvenendo il Regolamento europeo sul ripristino della Natura, approvato appunto per difenderli. Ci chiediamo dunque: fermare un certo modo di portare avanti lo sviluppo urbano, che estrae valore molto più di quanto non ne produca, che è troppo spesso solo “rendita che produce altra rendita” (Pizzo 2023) e che determina una città sempre più iniqua e diseguale, davvero significa “fermare la città”? E se sì, allora su cosa si basa la sua struttura socioeconomica e in cosa consiste il suo “modello di sviluppo”? Possibile che una città come Milano abbia come sola freccia al proprio arco, l’economia della rendita? Se, invece, questo tipo di economia che intreccia mattoni e finanza, è l’unico modo in cui si pensa sia possibile fare “tutto il resto”, quello che tiene assieme tutto, allora a maggior ragione, dobbiamo (finalmente) riprendere a discutere seriamente di rendita urbana (che “non è più quella di una volta” – Pizzo cit.), e (finalmente) mettere in relazione finanziarizzazione e teoria della rendita per capire esattamente come e a cosa serve, cosa produce nei vari specifici contesti (a cosa si intreccia, come è usata, cosa produce) – e valutarla conseguentemente. Lo scorso 21 luglio in Aula, il Sindaco ha rivendicato le proprie azioni e chiesto sostegno in cambio del rinvio a settembre del nodo più controverso, il Meazza. Tancredi invece si è dimesso; forse non era il momento per annunciare pure un cambio di passo, a partire da quella Commissione Paesaggio nelle cui dubbie mani sono state accentrate le scelte di trasformazione. Frutto avvelenato dell’ansia di semplificare le procedure, la Commissione ha sottratto margini di verifica all’amministrazione e prerogative al Consiglio, indebolendo l’istituzione nella contrattazione coi privati che era supposta vigilare. La semplificazione ha inoltre agito in concorso con il “dumping” sugli oneri di urbanizzazione, compressi al 5% del valore del volume edificabile contro il 20-30% che le città europee in media incassano per la gestione urbana, redistribuendoli in incrementi e conservazione del patrimonio pubblico, per garantire disponibilità ed efficienza dei servizi collettivi, il diritto all’abitare, la tutela della salute, il contrasto della vulnerabilità al clima. Colluse o indifferenti, a Milano le pratiche edilizie sono al contrario progredite senza il “peso” di un confronto con il carico di nuovi abitanti, l’impatto sulla mobilità, vincoli o salvaguardie ambientali: si è così disatteso il mandato di governo urbanistico che, il 24 luglio bocciando il ricorso contro i sigilli alle Torri “Lac” di Baggio, la Cassazione ha affermato di ritenere imperativo. Bisogna dunque ancora chiedersi: mettere in discussione e sperabilmente provare a modificare un certo modo (solo “ambrosiano”?) di fare urbanistica cosa significa esattamente? Ossia: cosa intendiamo con “fermare la città”? Se significasse fermare o rallentare un modello di sviluppo basato sulla crescita dissennata, un consumo di risorse insostenibile, un’idea di città come luogo del privilegio e dell’esclusione, piuttosto che come diritto e inclusione, allora forse si dovrebbe prendere sul serio la possibilità che una tale macchina vada fermata. Se è così, con la vicenda milanese (ma solo perché è emersa per prima) ci è data davvero l‘occasione di “fermarci”, allontanarci dagli interessi piccoli e grandi, ma immediati, dal “basso cabotaggio”, dalle idee per le città dal respiro breve e dalle prospettive anguste, e provare a chiederci: ma cosa stiamo facendo, per chi? È questa la città che desideriamo? Ed è una città vivibile? Da urbaniste, formate in un tempo in cui non si parlava d’altro che di “crisi” dell’urbanistica, della sua debolezza crescente e quasi-inutilità, ci sorprende che ora tutti i guasti messi in luce da questa inchiesta milanese siano ricondotti a quella disciplina che “improvvisamente” avrebbe invece un così grande potere; ci preoccupa l‘ulteriore delegittimazione e svilimento di una pratica nobile, socialmente rilevante, che questo ennesimo scandalo potrà produrre (e di nuovo a favore di chi vorrebbe “meno urbanistica”). Milano dimostra come una visione subalterna alle logiche della rendita e della finanza immobiliare riduca la città a congerie di eventi, opere e architetture che, per quanto possano incantare con la loro bellezza, rispondono a mire speculative in grado di logorare i luoghi, i modi e le relazioni da cui dipende la qualità della vita urbana. Perciò chiariamo che la soluzione a tutto questo non è “meno urbanistica”, e forse neppure “più urbanistica”, ma certamente un’urbanistica diversa da quella attualmente praticata, che purtroppo anche molti esponenti del così detto “riformismo” hanno più o meno direttamente ed esplicitamente contribuito ad affermare.     Per approfondimenti, si rimanda al testo di Barbara Pizzo Vivere o morire di rendita, Donzelli 2023, e al recente “Dialogo” promosso dalla SIU, tenutasi proprio a Milano il 18 e 19 giugno, intitolato “Mercato e regolazione. Processi di finanziarizzazione e rendita” tra Barbara Pizzo, Sapienza Università di Roma e Tuna Tasan Kok, dell’Università di Amsterdam, che sarà pubblicato a breve in forma di podcast sul sito della SIU; si vedano inoltre, su queste pagine, il Manifesto di Walter Tocci, tratto dal suo intervento al Congresso INU di maggio 2025 “Elogio dell’Urbanistica” e l’appello contro il Decreto “Salva Milano”   (immagine: Milano Murata di AleXandro Palombo, Milano Galleria di Arte Moderna, 21 lug.2025) L'articolo Ombre sulla città, Milano e l’urbanistica proviene da Roma Ricerca Roma.
“GUERRA ALLA GUERRA”, ASSEMBLEA DEI MOVIMENTI: LANCIATA PER L’8 NOVEMBRE UNA MANIFESTAZIONE NAZIONALE A ROMA
E’ iniziata con le parole di Nicoletta Dosio, storica attivista della Val di Susa, l’assemblea nazionale “Guerra alla Guerra”, svoltasi domenica 27 luglio durante il Festival Alta Felicità al presidio di Venaus, Torino. Davanti a una platea di oltre 300 persone, riunitasi sotto il tendone dei dibattiti, si è svolta dunque una lunga assemblea nazionale contro guerra e riarmo, ospitata dal Movimento valsusino e che ha visto la partecipazione di decine tra collettivi, realtà, sindacati di base e partiti. E’ necessario “mettere insieme le ragioni della lotta con le pratiche della lotta“, ha ricordato in primis Nicoletta Dosio, sottolineando come – nella lunga e decennale storia del Movimento Notav – “la pratica della lotta è riuscita a mettere insieme idee diverse, modi diversi di approcciarsi alla realtà, ed è riuscita a farli crescere insieme”. “Guerra alla Guerra” è in realtà il titolo di un libro pubblicato ormai 100 anni fa da un cittadino prussiano, Ernest Friedrich. Reduce dal carcere per essersi rifiutato di partecipare al primo conflitto mondiale, ha dato alle stampe Krieg dem Kriege! (Guerra alla guerra), in cui raccolta con oltre 180 immagini della Prima guerra mondiale tratte da archivi medici e militari tedeschi, cos’erano gli orrori della guerra, cosa era accaduto nelle trincee e nei campi di combattimento. Il nostro tempo ha imposto di recuperare questo slogan (ripreso poi, a vario titolo, nei conflitti del ‘900) e il suo rifiuto nei confronti di un mondo che sta alzando sempre più muri spinati, che sta trasformando le proprie economie, armandosi, arruolando. Da qui l’idea – partendo dall’assemblea di domenica – di costruire (come scritto nel comunicato di indizione) un percorso contro la guerra, il riarmo e il genocidio in Palestina. Durante l’apertura è stata ricordata la solidarietà all’equipaggio della nave Handala della Freedom Flotilla, arrestato la notte precedente dall’esercito israeliano, ed è stata salutata la liberazione di George Ibrahim Abdallah, attivista libanese detenuto in Francia per 40 anni. E’ intervenuto poi Quarticciolo Ribelle, da Roma, che ha sottolineato l’importanza di parlare il più possibile alla società civile e non solo “a noi stessi”, intesi come collettivi, realtà, movimenti. Durante l’assemblea si sono susseguiti numerosi interventi da parte delle realtà organizzate presenti: il movimento No Base di Pisa, contro la realizzazione di una nuova base militare sul territorio; i Giovani palestinesi, l’Intifada studentesca, l’Udap, tra le realtà che hanno dato vita a un ampio movimento per la Palestina in Italia e che hanno ricordato l’appuntamento nazionale del 4 ottobre; i lavoratori portuali di Livorno dei GAP e gli operai del collettivo di fabbrica Gkn da Firenze che ha chiuso l’intervento con la frase emblematica “questo autunno compatti: non sfilacciati ma convergenti”, per riprendere il loro storico slogan. Hanno fatto seguito gli interventi delle realtà transfemministe di Non Una di Meno dei Nodi di Torino e Pisa; il Movimento disoccupati 7 novemebre da Bagnoli; il movimento Notav di Vicenza e i Boschi recentemente liberati dalla città veneta; e poi ancora: Extinction Rebellion, la campagna Stop Riarmo, l’Arci nazionale in un forte e sentito intervento che ha parlato della mobilitazione europea Stop Rearm Europe, i Centri sociali del nord est e la rete No dl sicurezza che ha ricordato l’appuntamento del 21 settembre, Potere al Popolo, Reset di Roma, Zam di Milano, operai della Tubiflex, Brancaleone, Usb, Movimenti di lotta per la casa di Roma, Militant. Una lunga e fitta assemblea che, con le dovute differenze e defezioni, ha fatto emergere che se c’è una profonda e diffusa “ragione di lotta” – come sottolineato da Nicoletta Dosio a inizio assemblea – si può partire da una base comune: in primis “l’importanza di muoversi per sabotare la guerra”. Per questo è stata individuata nell’8 novembre la data di mobilitazione nazionale a Roma. L’intervento di Nicoletta Dosio, del Movimento Notav, a inizio assemblea. Ascolta o scarica. Il report di Giulia della redazione di Radio Onda d’Urto dall’assemblea “Guerra alla Guerra”. Ascolta o scarica.
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A QUALCUNO PIACE CALDO, CRONACHE DAL PIANO CLIMA DI ROMA di Lorenzo Paglione e Alessandra Valentinelli, Roma Ricerca Roma Lo scorso 25 giugno, la Protomoteca ha ospitato la presentazione del “Piano Caldo”, ultimo spin off della Strategia di Adattamento lanciata nel gennaio 2024 dall’Ufficio Clima di Roma. Il momento scelto per illustrare dinamiche e risposte alle ondate di calore attese in città certo non poteva essere più propizio per un raffronto diretto con quanto emerso dai vari contributi: di lì a qualche giorno avremmo vissuto le settimane più torride degli anni recenti, sperimentando così in prima persona portata e bontà delle informazioni fornite. Oltre agli esempi di pavimentazioni (drenanti, riflettenti, assorbenti…) e agli elenchi di potenziali rifugi climatici ispirati ai comuni normalmente attivi contro i picchi di temperatura, tra le novità dell’incontro, vale in particolare segnalare la serie di mappe sulla distribuzione delle isole di calore romane. Modellate su cartografie forse non perfettamente aggiornate, tali mappe riflettono la geografia della crescita mal governata della Capitale; una scena desolante di edificato compatto, carenza di verde, piastre logistiche e commerciali sovradimensionate, dove il termometro registra i valori massimi. Restituisce le asimmetrie generate dal consumo di suolo che chiunque, girando i quartieri nel pieno dell’ondata di caldo dei giorni successivi, ha potuto misurare nella loro dimensione fisica: l’asfalto infuocato, la scomparsa di ogni refolo d’aria, la preoccupante assenza di calo termico nelle ore notturne, fresco e ombra confinati sotto le (rare) gallerie arboree, vicino all’acqua, nei varchi aperti verso l’Agro o il mare. Così però si delinea anche l’altra mappa, utile ad adattare i nostri spazi quotidiani al clima contrastandone la ferocia: non semplici rifugi, ma polmoni verdi, piazze giardino, strade alberate e aiuole spugna disseminati in tutta la città. In un simile quadro spicca ciò di cui agli incontri dell’Ufficio Clima si continua a non parlare, confermando un’attuazione del Piano che, nonostante i paralleli encomiabili sforzi per sistematizzare in dettaglio gli impatti climatici, procede senza garanzie né di sinergia fra gli interventi cittadini, né di coerenza strategica con la pianificazione di ambiti chiave per la gestione di quelle temperature che non sono più eccezionali, ma ordinarie, ovvero le dotazioni e le tutele ambientali, la mobilità e la sostenibilità energetica. In questo senso, se sicuramente risultano migliorativi gli interventi legati al posizionamento delle nuove pensiline alle fermate del trasporto pubblico di superficie, manca ancora una visione complessiva, capace di leggere il TPL non solo come mitigatore di emissioni climalteranti, ma come vero e proprio strumento per affrontare le disuguaglianze sociali anche legate all’esposizione al calore, dal momento che, sempre per quanto riguarda la mobilità, la riduzione del parco automobili circolanti non può che essere un obiettivo centrale per ridurre le temperature in città. Stesso discorso per quanto riguarda il favorire l’autoproduzione di energia, in un contesto in cui, specialmente per le fasce più vulnerabili (o per la popolazione più esposta), la climatizzazione rappresenta un salvavita: le Comunità Energetiche Rinnovabili e Solidali (CERS), strumento chiave per affrontare questa problematica (al netto di una rivisitazione complessiva dei vincoli sull’aspetto esterno degli edifici, in particolare nella città consolidata della periferia storica), restano purtroppo fuori dal documento conclusivo, nonostante gli sforzi condotti proprio dall’Amministrazione per la stesura del regolamento, mentre i blackout di alcune aree di Roma di questi giorni dimostrano quanto sia fragile l’infrastruttura energetica cittadina quando sottoposta a fortissime sollecitazioni dovute alla climatizzazione degli ambienti. Sin dai suoi esordi la Strategia climatica ha insomma rinunciato all’integrazione delle politiche settoriali per l’adattamento diffuso, privilegiando la realizzazione di opere meglio beneficiate dai finanziamenti. Una strada utile ma insufficiente. Come mostrano Parigi o Barcellona, se si vuol essere efficaci, serve un’organica regia operativa, correlata alle condizioni del territorio, alle intensità di rischio, alla vulnerabilità dei soggetti esposti. Per quanto la Giunta dichiari assumerne le priorità, enumerando alberi piantati, superfici decementificate, persino nuovi parchi, il Piano Clima è solo uno strumento volontario, perseguibile nel singolo appalto ma privo di cogenza sugli altri strumenti ben altrimenti prescrittivi in capo all’Amministrazione. Senza un radicamento nei capitolati delle opere pubbliche, nel Regolamento del Verde, in quello Edilizio o nel Piano Regolatore, senza standard prestazionali obbligatori per gli interventi, dagli spazi minuti dei marciapiedi fino alle nuove piazze, Roma continuerà a fare come ha sempre fatto. E’ difficile infatti non riconoscere, negli esiti delle piazze inaugurate per il Giubileo o nella Rambla di Pietralata, lo scollamento cui si è assistito tra l’elaborazione del Piano Clima e l’adozione delle Norme Tecniche, che si ripropone ora nella programmazione degli interventi, ora nei tanti piccoli e grandi cantieri sparsi per la città; oggi contro il caldo, domani contro le piogge o l’erosione costiera. Lo spazio pubblico, anche superando concezioni tradizionali sul suo aspetto monumentale, deve invece diventare un grande laboratorio di sperimentazione di pratiche di adattamento al clima aperte alle istanze dal basso, dove le comunità partecipano al processo di cambiamento necessario per evitare che nei prossimi dieci anni, Roma sia resa invivibile più che dagli estremi stagionali, dal calore o dagli allagamenti intrappolati e potenziati dalla sua stessa massa di cemento e asfalto. Il 25 giugno, l’Assessore all’Urbanistica Veloccia ha finalmente accennato ad un “prossimo” studio per integrare nel Regolamento edilizio le indicazioni su materiali, colori e cappotti termici. La Strategia di Adattamento suggeriva anche un aggiornamento della Rete Ecologica che l’Assessora all’Ambiente Alfonsi non pare aver ad oggi raccolto. Quel giorno soltanto Ispra ha richiamato la Direttiva europea per il “Ripristino della Natura” che impone il mantenimento di zone verdi e coperture arboree esistenti; contraddizioni nel processo di adattamento della città che, a più di un’anno dall’uscita del Piano, non possono credersi solo apparenti, ma semmai coerenti con la mission ambientale dell’Ufficio Clima di questa Amministrazione. (nella foto in alto: Gualtieri all’inaugurazione della “Rambla” di Pietralata, 25 giugno 2025) L'articolo A qualcuno piace caldo proviene da Roma Ricerca Roma.
BRESCIA ARCHIVIA LA RACCOLTA RIFIUTI PORTA A PORTA INTEGRALE: “OCCASIONE SPRECATA” PER MIGLIORARE UN MODELLO OBSOLETO
Non è ancora una decisione definitiva ma l’orientamento della maggioranza in consiglio comunale a Brescia sulla raccolta dei rifiuti porta a porta integrale, è quello di mantenere lo status quo. La lista “Al lavoro con Brescia” denuncia delusa la mancanza di coraggio per intervenire su una questione sulla quale si parla da un decennio. Resteranno quindi i cassonetti nelle strade, anche se l’intenzione è quella di sostituirli con modelli che possano calcolare i conferimenti, in modo da poter calcolare una tassa personalizzata. In un comunicato diffuso dalla lista “Al lavoro con Brescia” si sottolinea come la tassa sui rifiuti della città di Brescia sia una delle più economiche d’Italia. Diversi partiti della maggioranza Castelletti, tra cui il PD, avevano infatti agitato lo spauracchio di un aumento medio della tassa di 70 euro. “La questione è però politica e necessita di un dibattito più ampio, che coinvolga associazioni, imprenditori, sindacati e consigli di quartiere”, come ha detto ai nostri microfoni Francesco Catalano, consigliere comunale di “Al lavoro con Brescia”. Ascolta o scarica Riportiamo il comunicato stampa di “Al lavoro con Brescia”: Rifiuti: delusione per una occasione sprecata. Di porta a porta integrale si discute da decenni. Sembrava fosse la volta buona, invece il confronto nella maggioranza consiliare, sebbene non definitivo, ha fatto emergere la propensione dei più per la conservazione del modello attuale. Una delusione per noi che facciamo della questione ambientale e di quella sociale il cuore della nostra azione politica. La tariffa di Brescia rimarrà una delle più basse d’Italia, ma il modello di raccolta sarà uno dei più vecchi. Sembra prevalga la paura del cambiamento, il timore di perdere consenso per l’impopolarità di un aumento delle tariffe. Ci aspettavamo di più da questa maggioranza: un investimento sul futuro green della città, una azione concreta per aumentare la percentuale di differenziata. La risposta è la conservazione dell’esistente. Scelta sbagliata. La nostra proposta di una campagna di ascolto che partisse dai Consigli di Quartiere, per coinvolgere le associazioni, i sindacati, le attività economiche non sembra interessare. Per scelte così importanti è necessario un dibattito pubblico aperto e ampio. E così mentre quasi tutta la provincia si muove sul porta a porta integrale, in città probabilmente continueranno a troneggiare i cassonetti, con la pila di sacchi ai loro piedi. La TARI crescerà comunque, per gli adeguamenti di ARERA e le scelte del Governo nazionale. L’amministrazione avrebbe anche potuto ridurre l’impatto economico sulle fasce più deboli della popolazione. Il restare fermi non fa parte della nostra prassi politica. Soprattutto su un argomento, quello ambientale, che ha più che mai bisogno di scelte innovative. Non nascondiamo la nostra delusione per quella che si configura come una occasione mancata, che non farà altro che posticipare alle prossime amministrazioni una scelta ineludibile. Da parte nostra continueremo ad impegnarci dentro e fuori le istituzioni per dare consenso e prospettiva a scelte ambientali capaci di migliorare davvero la nostra città e la qualità della vita delle nostre concittadine e concittadini. Scelte che non possono rimanere promesse mancate. Confidiamo che il percorso di confronto dei prossimi giorni e mesi riesca ad affrontare molte delle questioni che comunque restano aperte, tenendo ben presenti gli impegni programmatici dell’alleanza che regge questa tornata amministrativa, in una fase segnata da gravi contraddizioni sul piano della democrazia, della giustizia sociale e della tutela ambientale. Mattia Datteri Coordinatore Al lavoro con Brescia Francesco Catalano Consigliere comunale Al lavoro con Brescia
Storica vittoria per il clima, le Sezioni Unite della Cassazione danno ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadini contro ENI: «Da oggi in Italia è finalmente possibile ottenere giustizia climatica»
ROMA, 22.07.25 – Con una fondamentale decisione pubblicata nel pomeriggio di ieri, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, riunitesi lo scorso 18 febbraio, hanno dato ragione a Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini che nei mesi scorsi avevano fatto ricorso alla Suprema Corte, chiedendo se in Italia fosse possibile o meno avere giustizia climatica. Download Ordinanza della Cassazione REPORT PDF | 207.47 KB Scarica il verdetto «Questa sentenza storica dice chiaramente che anche in Italia si può avere giustizia climatica», commentano Greenpeace Italia e ReCommon. «Nessuno, nemmeno un colosso come ENI, può più sottrarsi alle proprie responsabilità. I giudici potranno finalmente esaminare il merito della nostra causa: chi inquina e contribuisce alla crisi climatica deve rispondere delle proprie azioni». L’importantissimo verdetto avrà infatti impatto su tutte le cause climatiche in corso o future in Italia, rafforzando la protezione dei diritti umani legati alla crisi climatica, già riconosciuti dalla Corte Europea dei Diritti Umani (CEDU). Non solo potrà essere decisa nel merito la causa contro ENI, Cassa Depositi e Prestiti S.p.A. (CDP) e Ministero dell’Economia e delle Finanze (MEF), avviata da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini davanti al Tribunale di Roma perché sia imposto alla società di rispettare l’Accordo di Parigi, ma la decisione indica la strada per tutte le future azioni giudiziarie nel nostro Paese. Questa pronuncia si inserisce nel quadro delle più importanti decisioni giudiziarie europee ed internazionali di climate change litigation. Nel maggio 2023, Greenpeace Italia, ReCommon e i 12 cittadine e cittadini italiani avevano presentato una causa civile nei confronti di ENI, di CDP e del MEF – questi ultimi due enti in qualità di azionisti che esercitano un’influenza dominante su ENI – per i danni subiti e futuri, in sede patrimoniale e non, derivanti dai cambiamenti climatici a cui il colosso italiano del gas e del petrolio ha significativamente contribuito con la sua condotta negli ultimi decenni, pur essendone pienamente consapevole. ENI, CDP e MEF avevano eccepito “il difetto assoluto di giurisdizione del giudice ordinario adito”, ritenendo che nel nostro Paese una causa climatica non fosse procedibile. Greenpeace Italia, ReCommon e le cittadine e cittadini che hanno promosso la “Giusta Causa” hanno dunque fatto ricorso per regolamento di giurisdizione alla Suprema Corte, a cui hanno chiesto un pronunciamento in via definitiva. Il verdetto delle Sezioni Unite della Cassazione, pubblicato nel pomeriggio di ieri, ha infine dato ragione a cittadine, cittadini e organizzazioni. Il responso della Suprema Corte sancisce senza ombra di dubbio che i giudici italiani si possono pronunciare sui danni derivanti dal cambiamento climatico sulla scorta tanto della normativa nazionale, quanto delle normative sovranazionali e che, dunque, le cause climatiche nel nostro Paese sono lecite e ammissibili anche in termini di condanna delle aziende fossili a limitare i volumi delle emissioni climalteranti in atmosfera. La Cassazione ribadisce anche che un contenzioso climatico come quello intentato da Greenpeace Italia e ReCommon non è affatto un’invasione nelle competenze politiche del legislatore o delle aziende, quali Eni. La tutela dei diritti umani fondamentali di cittadine e cittadini minacciati dall’emergenza climatica è superiore a ogni altra prerogativa e da oggi sarà possibile avere giustizia climatica anche nei tribunali italiani. Inoltre le Sezioni Unite chiariscono che i giudici italiani sono competenti anche in relazione alle emissioni climalteranti emesse dalle società di ENI presenti in Stati esteri, sia perché i danni sono stati provocati in Italia, sia perché le decisioni strategiche sono state assunte dalla società capogruppo che ha sede in Italia. A questo punto il giudice a cui è stato assegnato il contenzioso climatico lanciato nel 2023 da Greenpeace Italia, ReCommon e 12 cittadine e cittadini italiani dovrà entrare nel merito dei danni che ENI ha contribuito ad arrecare agli attori ricorrenti, ma non c’è più alcun dubbio sul diritto ad agire per la tutela dei loro diritti di fronte a un giudice italiano quando gli effetti del cambiamento climatico si verifichino in Italia e quando le decisioni che hanno contribuito al cambiamento climatico siano state prese in Italia. Grazie alla presente azione e alla decisione della Suprema Corte a Sezioni Unite l’Italia si allinea agli altri paesi più evoluti in cui il clima e i diritti umani trovano una tutela giurisdizionale. Greenpeace Italia e ReCommon attendono ora che il giudice ordinario a cui spetta tornare a decidere su “La Giusta Causa”  superi ogni altra eccezione preliminare ed entri finalmente nel merito, come già avvenuto nei tribunali dei più importanti paesi europei. Le due organizzazioni e i 12 cittadine e cittadini chiedono che la giustizia faccia il suo corso, come già avviene nei più avanzati ordinamenti giuridici europei.
IDRO (BS): CORTEO CONTRO IL PRELIEVO DELL’ACQUA DEL LAGO A FAVORE DELL’AGRICOLTURA INTENSIVA
Indetta una manifestazione domenica 20 luglio, in opposizione allo sfruttamento delle acque del lago d’Idro che vorrebbe Regione Lombardia. Organizzano gli Amici della Terra lago d’Idro e Valle Sabbia, con la partecipazione della Federazione del Chiese e del Comune di Idro (provincia di Brescia). L’appuntamento è ad Idro, alle ore 18, in via Trento, via principale che costeggia il lago. I gruppi ambientalisti, sostenuti anche dagli operatori turistici del territorio, si dicono contrari al progetto regionale che vedrebbe, tramite opere di regolazione, prelevare 3,5 metri verticali di acque ogni estate per cederli agli agricoltori delle basse lombarde. Si tratterebbe di un prelievo che irrigherebbe oltre 45 mila ettari di aree agricole, di cui molte coltivate a mais da trinciare per alimentare le mucche negli allevamenti intensivi. Dal lago d’Idro se ne andrebbero quindi 40 milioni di metri cubi di acqua ogni estate, per essere utilizzati dall’agricoltura tramite la tecnica irrigua a scorrimento, cioè inondando i campi, comportando un consistente spreco di acqua. Ci spiega le ragioni della manifestazione Gianluca Bordiga, presidente dell’associazione Amici della Terra lago d’Idro e Valle Sabbia e della Federazione del Chiese. Ascolta o scarica
NON È STATO UN CASO – 9 luglio 2025
Condividiamo il comunicato del comitato dei genitori che ha organizzato una assemblea pubblica mercoledì alle 18 davanti alla scuola Balzani. Tutta la cittadinanza è invitata a partecipare *************** NON È STATO UN CASO MERCOLEDI 9 LUGLIO H 18:00 ASSEMBLEA PUBBLICA DAVANTI ALLA SCUOLA BALZANI Per troppo tempo, come Comitato dei Genitori della Balzani, abbiamo denunciato i rischi di un sito produttivo come quello della MCR Metalli e dell’impianto GPL a ridosso della scuola. Non siamo stati ascoltati. Le nostre preoccupazioni sono state ignorate, le nostre richieste si sono perse nei meandri di una burocrazia indifferente. L’incendio di venerdì 4 luglio è la prova drammatica che avevamo ragione. Un bilancio pesantissimo che per puro caso non si è trasformato in una strage. È la conseguenza diretta di una scelta precisa: quella di privilegiare la logica industriale a discapito del diritto alla salute e alla sicurezza, specialmente dei più piccoli. Non si tratta di un incidente, ma del risultato di decisioni che non hanno mai messo al primo posto il benessere delle persone e la qualità della vita del territorio. Di fronte alla scuola ferita, a un Quartiere duramente colpito, la nostra pazienza è finita. Come Comitato dei Genitori, non ci accontentiamo più di rassicurazioni. Pretendiamo un cambio di rotta immediato e garanzie reali, non più promesse: la messa in sicurezza e la bonifica della zona, lo spostamento definitivo delle attività industriali, il ripristino nel più breve tempo possibile della funzionalità della scuola. Annunciamo un’assemblea il 9 luglio davanti alla scuola, in via Romolo Balzani 55 alle ore 18 per rilanciare, insieme agli abitanti del quartiere e alle reti sociali, il tema di una visione diversa del territorio e degli spazi pubblici. L'articolo NON È STATO UN CASO – 9 luglio 2025 proviene da Casale Garibaldi.
BRESCIA: “IL PARCO DELLE CAVE TORNI A ESSERE UN POLMONE VERDE E SIA GESTITO DA UN ENTE AD HOC”
Conferenza stampa del Comitato spontaneo contro le nocività, a Brescia, sul presente e futuro del Parco delle Cave. Lo spazio verde a sudest della città, per il Comitato, “doveva essere un importante tassello per migliorare la qualità dell’aria della città di Brescia e dei comuni limitrofi: un luogo non antropizzato nel quale la natura doveva esser l’unica padrona. La relazione illustrativa redatta per il riconoscimento del Parco inaugurato nel 2018, sottolineava infatti come l’area avrebbe dovuto essere un luogo per preservare la biodiversità, rigenerare l’ambiente, tutelare la fauna, limitando attività invasive, come quelle umane. Negli anni invece il Comune di Brescia ha incluso diversi soggetti quali comitati, associazioni ed aziende che hanno snaturato il Parco, nel quale oggi si “verificano comportamenti che violano il regolamento del Parco, disturbano la fauna selvatica, producono rifiuti”. Così, nero su bianco, il Comitato spontaneo contro le nocività che ha denunciato le attuali criticità in conferenza stampa nella mattinata di lunedì 7 luglio. La proposta è quella di togliere la gestione al Comune di Brescia, creando un ente ad hoc che abbia come unico obiettivo quello di tutelare flora e fauna esistenti. Ai nostri microfoni Daniele Marini del Comitato spontaneo contro le nocività. Ascolta o scarica Il Comunicato stampa inviatoci dal Comitato:
L’UCCELLO ‘NOTAV’ FERMA I CANTIERI: IL GRUCCIONE PROTETTO NIDIFICA NEI CANTIERI E BLOCCA I LAVORI DELLA TRATTA BRESCIA-VERONA
La natura, a volte, si ribella alla devastazione dei territori. È di questi giorni la notizia che presso i cantieri del Tav Brescia-Verona sono stati fermati (momentaneamente) i lavori di realizzazione. A essere interessato dal blocco temporaneo il lotto in fase di realizzazione sul Garda: nel tratto tra Lonato e Desenzano i lavori si sono stati fermati per via della presenza nel cantiere dei nidi del gruccione, l’uccello “più colorato d’Europa” e specie altamente protetta. E’ stato l’ornitologo e fotografo gardesano Guido Parmeggiani a rilevare la presenza del volatile protetto: sono infatti 18 le coppie di gruccione che hanno nidificato nei cantieri. A favorire la presenza del variopinto uccello la movimentazione durante i lavori della terra sabbiosa, terreno perfetto per la creazione di cunicoli lunghi fino a 3-5 metri che i gruccioni scavano per deporre le uova, nel contesto del fragili colline moreniche del Garda. Intanto, il progetto mastodontico della tratta Tav Brescia-Verona, composto da 17 km di gallerie e decine di cantieri, prosegue: dopo aver cantierizzato mezza autostrada A4, vivendo una serie di gravi problemi realizzativi tra cui l’enorme voragine creatasi a seguito del crollo del terreno sopra i lavori di una galleria a Campagna di Lonato (BS), il lotto è ora arrivato a Mazzano. Un aggiornamento su Radio Onda d’Urto con Sergio Salodini, del Tavolo Ambiente Garda. Ascolta o scarica.
«Fa caldo, governo ladro»: ma è assalto al ‘treno verde’
Non solo l’Europa fa marcia indietro, come già scritto su queste pagine, ma abbandona ogni presidio lasciando che i predoni del clima assaltino il ‘treno verde’. E l’Italia applaude. Siamo in piena restaurazione e il negazionismo climatico si sta riprendendo lo spazio da cui era stato bandito. Il faro del […] L'articolo «Fa caldo, governo ladro»: ma è assalto al ‘treno verde’ su Contropiano.