Tag - torino

NOTAV: CONCLUSO IL CAMPEGGIO STUDENTESCO A VENAUS. LE VALUTAZIONI
Si è concluso, domenica 7 settembre, il campeggio No Tav che ha visto la partecipazione di studenti e studentesse provenienti da tutta Italia, radunatisi a Venaus, luogo simbolo della lotta contro la costruzione della linea ferroviaria ad alta velocità in Val di Susa, opera inutile e dannosa. Il campeggio, iniziato il 2 settembre, è stato un momento ricco di incontri, dibattiti e momenti di socialità, nei quali le studentesse e gli studenti hanno potuto confrontarsi, riflettere e approfondire le problematiche legate a un sistema che, come è emerso dalle discussioni, li vede sempre più lontani e in conflitto con le logiche istituzionali e politiche dominanti. Le valutazioni della sei giorni con Nicola del KSA, Kollettivo Studentesco Autonomo di Torino. Ascolta o scarica.
NOTAV: 2/7 SETTEMBRE CAMPEGGIO STUDENTESCO A VENAUS, “OCCASIONE DI LOTTA, CONFRONTO, SOCIALITÀ E AGGREGAZIONE”
Inizia oggi il campeggio No Tav per studenti e studentesse delle scuole superiori: continuerà fino a domenica 7 settembre. I giovani, in arrivo da tutta Italia, si sono dati appuntamento a Venaus, provincia di Torino, luogo simbolo della lotta contro la grande opera inutile e dannosa. Sei giorni di confronto e socialità “per toccare i nodi e le contraddizioni principali” di un sistema “che ci vuole in guerra e che ci porta in una direzione di miseria generale”. Studentesse e studenti fanno propria la lotta No Tav, ispirandosi a “un movimento che in tutti i suoi anni di vita è riuscito a costruire la propria autonomia senza mai piegarsi a logiche istituzionali o dei partiti” costruendo “giorno per giorno alterità e contrapposizione di massa popolare”. Il programma, consultabile sulle pagine social del Kollettivo Studentesco Autonomo di Torino, prevede momenti assembleari, formazioni, iniziative di lotta, gite al cantiere TAV, musica e sport. Ci presentano l’iniziativa Daniele e Fabio del Kollettivo Studesco Autonomo di Torino. Ascolta o scarica
Dalle strade alla teoria
(disegno di ericailcane) Dal numero 9 (novembre 2022) de Lo stato delle città Otto anni fa, era primavera, usciva per Monitor il primo articolo sui quartieri accanto alla Dora di Torino. Il resoconto menzionava uno sfratto violento eseguito dalla polizia, i progetti di riqualificazione sognati dagli assessori, le velleità estetiche di una nota scuola di scrittori e la lotta viva dei solidali. Da allora ho, abbiamo esplorato il mondo urbano che da piazza della Repubblica discende fino al fiume e oltre prosegue verso Aurora e Barriera di Milano. Nel tempo abbiamo raccontato gli sgomberi e le forme d’opposizione, abbiamo analizzato i piani di rigenerazione e allestito gallerie fotografiche, pagine di carta hanno accolto la voce di chi ha avuto la forza di resistere: nella cronaca s’incontrano la voglia di comprendere la città e il desiderio di supportare le lotte. Ora, quando contemplo i materiali radunati, mi chiedo se da una sequenza di racconti, immagini e interviste possa nascere un quadro interpretativo, o una teoria; se la narrazione sia un metodo di conoscenza, e di quale tipo. Esistono modelli complessivi, o schemi critici sui processi di trasformazione urbana: “gentrification”, “turistificazione”, “foodification” o “airbnbfication” migrano dal linguaggio accademico agli articoli di giornale, ai libri. Fenomeni peculiari e spesso evidenti – come l’aumento dei prezzi immobiliari, l’evoluzione dell’offerta consumistica, l’espansione del mercato degli alloggi per turisti – sono descritti come cause di un effetto generale e raggruppati in categorie che ambiscono a definire un processo complessivo. Ho il timore che questi modelli siano ormai cristallizzati e inducano l’osservatore a selezionare dati utili a corroborare la tesi di partenza. Gli schemi diventano una briglia per l’immaginazione: i luoghi mostrano quel che i sensi s’attendono, il corso degli eventi appare lineare e inesorabile. Appunti, storie orali, fotografie e resoconti di redazione, tuttavia, non sono meri materiali grezzi e nel tempo ho annotato spunti teorici, tendenze che possano spiegare i cambiamenti del quartiere e le forze dominanti interessate. Queste linee sono suggerite dall’esperienza concreta maturata lungo le sponde della Dora e non è certo che siano applicabili ad altri quartieri o a città diverse. Ho distinto tre linee tendenziali adeguate a generalizzare i fenomeni: l’azione degli investitori e delle istituzioni pubbliche; la gestione commerciale e disciplinare di tratti peculiari dello spazio urbano; il lavoro simbolico di operatori culturali e funzionari del terzo settore. Sulla sponda settentrionale della Dora, quando il Lungo Dora Firenze digrada verso via Bologna, s’apriva un’area libera tra i palazzi. Al centro c’era uno spiazzo d’asfalto e la domenica s’organizzavano partite di cricket, i giocatori scavalcavano le recinzioni e trascorrevano l’intero pomeriggio. Quest’area di ventimila metri quadrati apparteneva al demanio, ma la giunta guidata dalla Cinque Stelle Appendino ne ha permesso l’alienazione e la svendita per sei milioni di euro. Una compagnia olandese che controlla la catena The Student Hotel ha acquistato il prato e gli immobili intorno e ha promesso un investimento da cinquanta milioni di euro per costruire una struttura ibrida: camere costose per studenti, stanze per riunioni, uffici per manager flessibili. E poco più a valle, in via Bologna, s’alza il centro direzionale di Lavazza, inaugurato nel 2018 dopo un investimento da centoventi milioni di euro. Questa è la prima linea di tendenza: il quartiere si trasforma grazie all’intervento di capitali privati supportato dalle istituzioni e dall’impiego della forza pubblica. Soltanto negli ultimi tre anni abbiamo osservato imponenti operazioni di polizia per sgomberare chi è considerato pericoloso, indesiderabile o inadeguato: ora non esistono più il mercato degli straccivendoli in San Pietro in Vincoli e l’asilo occupato di via Alessandria, un punto d’incontro, di riflessione e di organizzazione delle lotte in città. La seconda linea di tendenza può essere percepita da sensi più acuti, attenti ai minuti movimenti in strada e alla gestione degli angoli del quartiere. Lungo il fiume i proprietari dei piccoli negozi di generi alimentari e bevande, originari di India e Pakistan, ricevono ispezioni e multe per futili inadempienze, in alcuni casi subiscono chiusure temporanee per editti emananti dal sindaco. Sul ponte di ferro venditori irregolari dispongono stuoie e poche merci e devono dileguarsi quando giunge la vettura della municipale di ronda. In queste occasioni i vigili discutono e collaborano con il servizio di guardie private dell’associazione di commercianti che controlla il Balon, il mercato delle pulci ormai adeguato alle attese di turisti e abbienti consumatori. Questi guardiani pattugliano il quartiere ogni sabato e ne garantiscono l’ordine, legittimati dal comune e dalla questura. L’egemonia territoriale di peculiari interessi commerciali si scorge anche nei patti di collaborazione siglati tra il presidente di circoscrizione e alcune attività di ristorazione e svago lungo il fiume. In nome della cura dei beni comuni e della manutenzione di aree pubbliche gli esercenti possono gestire lo spazio intorno ai loro locali in cambio di controllo sociale, pulizia e piccole opere di abbellimento. In alcuni angoli l’ordine assicurato dagli esercenti appare dolce e innocuo, ma per il protocollo “Sponde sicure” la violenza è manifesta. Un barista di Lungo Dora Napoli, referente del protocollo e informatore della polizia, ha il diritto di controllare il tratto di strada accanto al parapetto lungo la Dora: può disporre i suoi tavolini sul suolo pubblico, guadagnare dalla vendita di bevande a turisti e avventori bianchi, allontanare i poveri che trascorrono le ore con una canna o una birra accanto al fiume. Così la disciplina in strada, esito di piccoli e quotidiani gesti di forze pubbliche e private, garantisce il profitto di privilegiate attività commerciali accanto alla Dora. La terza linea tendenziale riguarda la gestione del consenso, ovvero l’amministrazione dei discorsi e dei simboli. I protagonisti sono le associazioni del terzo settore, gruppi informali, cooperative di funzionari e operatori culturali. Lungo la Dora è un esempio peculiare il programma Tonite, un progetto europeo di “community-based urban security”. Secondo Tonite gli eventi culturali, il consumo nei locali, le attività sportive al tramonto e le varie iniziative di coinvolgimento della cittadinanza garantiscono la coesione sociale tra gli abitanti e rafforzano la percezione di sicurezza quando scende il buio. Al bando di Tonite hanno partecipato enti di ricerca universitaria, associazioni e cooperative impegnate nel lavoro sociale ed educativo, locali commerciali, scuole di zona. Abbiamo seguito alcuni progetti: nei mesi artisti di strada hanno decorato un marciapiede antistante l’ingresso di una scuola; un espositore di opere artistiche e fotografie ha organizzato laboratori di editoria lungo il fiume; una fondazione di comunità ha accolto spettacoli teatrali e intrattenimenti nel giardino; operatori sociali portano al tramonto un calcetto in mezzo alla strada; una locanda ospita musicisti esotici per allietare le cene dei clienti. Le foto di ogni azione sono rilanciate nel mondo virtuale, accompagnate da testi brevi con slogan, i nomi delle istituzioni e l’auspicio che la sicurezza urbana sia l’esito di attività sociali partecipate e multiculturali. Intrattenimenti e spettacoli di Tonite avvengono negli stessi luoghi segnati da violenze e azioni disciplinari descritte nelle prime due linee tendenziali, eppure nessuna iniziativa ha elaborato riflessioni e dibattiti sulle speculazioni immobiliari, le discriminazioni, le violenze tra piazza della Repubblica e Barriera di Milano, nessun operatore ha avuto il coraggio di criticare apertamente l’ordine urbano intorno. Le buone intenzioni e la proclamata coesione sociale di Tonite, allora, sono una forma, per quanto inconsapevole, di propaganda: allontanano il rimosso dalla coscienza, diluiscono ogni spunto critico nella soffusa e indistinta patina delle buone intenzioni. Allo stesso tempo, i governanti della città menzionano Tonite in convegni, tavole rotonde, presentazioni, corsi universitari. In strada gli eventi sono spesso partecipati dai soli organizzatori, ma grazie al loro lavoro, spesso volontario o mal pagato, il progetto di sicurezza urbana ha una portata simbolica notevole, garantisce un’egemonia sui contenuti culturali e sulle rappresentazioni, legittima il discorso pubblico delle classi dirigenti. Tonite è un caso di studio, in verità l’intera offerta culturale è integrata in un sistema di patrocini istituzionali e finanziamenti assicurati da progetti europei o fondazioni bancarie. Le opere simboliche, l’arte pubblica, i linguaggi confezionati non sono mera apparenza, o contenuti immateriali, piuttosto mi appaiono come oggetti concreti che s’amalgamano con gli interventi di rigenerazione, gli sgomberi, gli investimenti delle compagnie finanziarie, i gretti interessi di un commercio che s’adegua allo spettacolo per turisti. Ritenere che vi siano cause principali ed effetti primari o secondari, o processi strutturali e rifrazioni immateriali, mi sembra una semplificazione: nello spazio urbano i fenomeni descritti nelle tre linee di tendenza sono legati, collaborano e trovano un equilibrio precario. Abbandono la distinzione tra cause ed effetti e vedo quasi un campo di forze in connessione: alcune, come gli interventi di polizia e gli investimenti milionari, dispongono di una massa ingente capace di curvare in modo più accentuato lo spazio intorno. E non credo esista una regia unica e cosciente, un disegno. Piuttosto variegati e frammentari interessi puntuali s’incontrano, in certi casi combaciano, e la città appare dominata da una complessiva collaborazione tra investitori, istituzioni, esercenti tutelati, artisti e funzionari capaci di mescolare ingenua inconsapevolezza e spregiudicato cinismo. Forse i legami che tengono insieme i diversi snodi, o punti di forza, sono assicurati da un comune pensiero inconscio, una conformazione sopita delle menti, o ideologia. Ora, alla fine, m’accorgo che la scrittura, se assume un tono saggistico o espositivo, non può evitare il cristallizzarsi di concetti e discorsi. Le categorie proposte qui hanno preso forma, sono scritte, e mi sembrano di nuovo schematiche. Forse gli stessi modelli esplicativi che non mi convincono sono nati un tempo come intuizioni vivaci e poi si sono consunti, si sono trasformati in semplificazioni e sono stati applicati in modo automatico fino a diventare scontati o inconsci. Immagino che la riflessione teorica si muova per cicli: un nuovo sguardo osserva il mondo, emerge un’intuizione, essa si formalizza, diviene stabile; poi inizia l’erosione, la teoria diventa uno schema in necrosi che non interpreta più i fenomeni, ma li imbriglia. Più importante della teoria è allora disporre di un metodo di ricerca che sappia mettersi in movimento, cogliere le mutazioni del paesaggio e della sensibilità di chi osserva: sono le tecniche del viaggiatore e del narratore che si sposta in mondi lontani. Eppure, per chi esplora sempre lo stesso quartiere è impossibile conservare quel senso di lontananza che favorisce il movimento e l’instabilità fecondi. Se la stanchezza dello sguardo è inevitabile, bisogna adottare nuovi espedienti. In questo testo ho usato in modo ambiguo i pronomi, perché mi muovo dalla prima persona singolare alla prima plurale – nel “noi” si nasconde una possibilità. Da tempo esiste un gruppo redazionale di Monitor che s’interroga sul quartiere e sulle più ampie trasformazioni urbane a Torino: così le attitudini percettive divengono, stagione dopo stagione, più varie e molteplici, impiegano diverse tecniche e vari stili e da un’intelligenza collettiva muove il rinnovamento degli strumenti critici. (francesco migliaccio)
Presidi per Gaza, a Torino scattano le richieste d’arresto
Torino è da sempre un’eccezione nel panorama italiano per la gestione del conflitto. A conferma di quello che molti dicono della città, definita come un laboratorio di contrasto ai movimenti sociali, lunedì la procura ha chiesto quattro ordinanze di custodia cautelare in carcere e altre tre agli arresti domiciliari nell’ambito […] L'articolo Presidi per Gaza, a Torino scattano le richieste d’arresto su Contropiano.
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #8. Terra del Fuoco
(disegno di adriana marineo) Da mesi l’amministrazione comunale è impegnata a sgomberare con la forza persone e famiglie – rom e non rom – che occupano appartamenti di case popolari inagibili e lasciati vuoti. Donne, uomini e bambini finiscono in strada, senza ricevere assistenza e soluzioni alternative. Allo stesso tempo la Città e la Regione conducono una campagna di odio pressoché quotidiana contro famiglie rom – spesso sgomberate dalle stesse case occupate – che vivono in strada riparandosi in camper e furgoni. Non stupisce il razzismo delle istituzioni, ma inquieta la collettiva assenza di memoria: le famiglie braccate sono le stesse che furono cacciate dai campi formali e informali che si trovavano lungo la Stura, e non solo. La baraccopoli più ampia e abitata, quella di Lungo Stura Lazio, fu sgomberata nel 2015 grazie alla collaborazione di una cordata di enti del terzo settore fra i quali figurava Terra del Fuoco. *     *     * L’associazione Terra del Fuoco (TDF) nasce a Torino nel 2001 con l’obiettivo di promuovere il “protagonismo giovanile”. Appena nata, l’associazione ottiene in concessione dal comune di Torino una grande struttura dismessa nel quartiere San Paolo, dove un tempo aveva sede il dopo-lavoro degli operai Lancia. La nuova sede viene condivisa con altre due associazioni di giovani torinesi: una di queste è Acmos (Aggregazione, Coscientizzazione, MOvimentazione Sociale), da cui avrà origine Libera Piemonte, creazione di Luigi Ciotti ed emanazione del Gruppo Abele; l’altra è Non più da soli che si occupa di far incontrare studenti universitari interessati a dare sostegno a persone anziane a cambio di una stanza. Presto le tre realtà danno vita ad una associazione di secondo livello – Caraglio 101 – che apre il Centro di Protagonismo Giovanile Belleville. Da qui muoveranno i primi passi futuri esponenti della politica torinese e del privato sociale, garantendosi una carriera all’interno del terzo settore o sviluppando legami politici in vista di future tornate elettorali. Alcuni leader infatti finiranno per candidarsi in partiti nati dalle ceneri del Pci o eredi della Democrazia Cristiana. È il caso, fra gli altri, di Michele Curto, uno dei fondatori di Terra del Fuoco, di cui è presidente fino al 2011. Dal 2006 al 2011 Curto è anche referente dell’area europea di Libera e nel 2011 si candida in Sinistra Ecologia Libertà per appoggiare il Partito Democratico con la candidatura a sindaco di Piero Fassino. Il contesto nel quale TDF e la sua leadership muovono i primi passi è quello del progressivo smantellamento del welfare cittadino seguito alla crisi del 2008 e legato anche all’enorme debito lasciato dalle olimpiadi invernali del 2006 nelle casse comunali. Servizi che per decenni erano stati dati in appalto dal Comune a cooperative storiche della realtà torinese sono tagliati o fortemente ridimensionati: ha inizio l’era dei bandi e di chi vince al ribasso, con vecchie e nuove associazioni e cooperative sociali che si ritrovano a competere tra loro. Nel giro di pochi anni i grandi enti del terzo settore torinese si trasformano in imprese sociali attive in diversi campi di intervento per accedere a un maggior numero di bandi al fine di ottenere finanziamenti, complice anche un “marketing del bene” che coinvolge la società civile attraverso la creazione di un immaginario politicamente e socialmente impegnato, mentre parallelamente i soggetti più marginali e fragili da “utenti” diventano “clienti” dei loro servizi. Questa nuova generazione di enti che incarnano l’impegno civile e la ragione umanitaria gettano le basi del terzo settore che osserviamo oggi: sono vere e proprie “imprese del bene” che coltivano, attraverso azioni simboliche e narrazioni, un capitale politico e sociale in grado di garantire un ritorno economico. All’inizio TDF s’impegna nelle politiche giovanili ed educative e tra le varie attività spicca il Treno della memoria che dal 2005 promuove viaggi nei campi di Auschwitz e Birkenau per gli studenti delle scuole superiori. In seguito si specializza nel “settore migranti e politiche sociali”, all’interno del quale rientrano sia le persone rom che rifugiati e richiedenti asilo. A partire dal 2006 TDF inizia a lavorare con persone originarie della Romania che vivono in campi e baraccopoli di Torino o dei comuni limitrofi. TDF diventa capofila del progetto di “autorecupero” di un edificio nel Comune di Settimo Torinese, che verrà chiamato “il Dado”, adibito a social housing per persone e famiglie rom e italiane. All’origine del progetto Dado vi è un rogo accidentale che nel novembre 2006 distrugge un campo a Mappano dove vivono centinaia di persone originarie della regione di Timisoara. Le persone e famiglie rimaste senza casa sono costrette a vagare per mesi tra tendopoli e campi di “emergenza” gestiti da Croce Rossa e protezione civile. Mentre TDF inserisce alcune famiglie rimaste senza casa dopo l’incendio (otto in tutto) all’interno del social housing innovativo, per tutte le altre persone sfollate l’unica possibilità è cercare rifugio nella baraccopoli di Lungo Stura Lazio, il Platz. Gli ospiti del Dado devono seguire una serie di regole stabilite dall’associazione, pena l’espulsione dalla struttura. Gli ospiti non devono solo farsi carico di parte della ristrutturazione (secondo la pratica definita di “autorecupero”), ma devono anche firmare un “patto di cittadinanza” che impone loro il raggiungimento di diversi “obiettivi” come la frequenza scolastica dei minori e l’inserimento lavorativo degli adulti, in modo da stimolare l’“autoresponsabilizzazione” e “l’integrazione” delle famiglie coinvolte. L’esperienza del Dado verrà in seguito riconosciuta come “Best practice” dall’Unione Europea, accreditando TDF tra le associazioni e cooperative più autorevoli che storicamente si sono occupate di popolazioni romanì. Dal 2010 TDF ha avuto in gestione dal comune di Torino il campo informale di corso Tazzoli, in zona Mirafiori sud, abitato da circa tredici anni da oltre duecento persone povere, originarie della Romania, etichettate come “rom”. Anche in questo spazio, in linea con l’esperienza del Dado, vige un regolamento redatto dall’associazione su chi può o non può risiedere e accedere nel campo o intraprendere un viaggio, insieme ad altre forme di controllo e le relative sanzioni. Nella gestione del campo TDF collabora con il nucleo nomadi, un nucleo della polizia municipale apertamente di tipo etnico specializzato nella gestione dei “rom” e nato a Torino nei primi anni Ottanta. Nel 2009 per il comune di Torino è diventato troppo dispendioso e problematico gestire i numerosi campi rom definiti legali, creati cioè dalle stesse istituzioni a partire dagli anni Settanta. Così il comune affida la gestione dei campi autorizzati (quello in via Germagnano e quello in strada Aeroporto) alle cooperative Valdocco, Liberi Tutti, Stranaidea, all’associazione Aizo (Associazione Italiana Zingari Oggi) e alla Croce Rossa. Nel gennaio 2010 inizia il progetto Selarom (che significa “villaggio rom”) nel campo di via Germagnano e strada Aeroporto. Selarom è realizzato dalle stesse cooperative e associazioni strutturate in Rtc (Raggruppamento temporaneo di concorrenti). Alla fine del 2011 Terra del Fuoco entra ufficialmente nella cordata di associazioni. Nel 2010 TDF ha già iniziato alcune attività all’interno della più grande baraccopoli torinese che si trova in Lungo Stura Lazio, nella zona nord della città, dove vivono circa duemila persone povere, rom e non rom, originarie della Romania. Anche in questo caso istituzioni e forze dell’ordine etichettano tutti gli abitanti dell’insediamento come “rom”. A partire da agosto 2010 ha luogo una “bonifica” dei rifiuti presenti nella baraccopoli, promossa da TDF e inserita in una più ampia campagna di volontariato a cui fa capo Legambiente con il patrocinio del comune di Torino e della regione Piemonte. L’iniziativa, a cui viene dato particolare risalto mediatico, rappresenta al contempo un’operazione di polizia e una strategia per iniziare a separare i poveri “buoni” dai “cattivi”. In quest’occasione soci di TDF e volontari vengono immortalati mentre spalano rifiuti o addirittura li rimuovono a mani nude (come ricordano alcuni abitanti di Lungo Stura Lazio) e lo stesso Curto, presidente dell’associazione, dichiara a La Stampa che i partecipanti rom alla pulizia dimostrano «di volersi integrare» a differenza di «chi invece tende a vivere di espedienti a danno della collettività». Poco dopo la bonifica del campo Michele Curto lascia la presidenza di TDF per candidarsi con Sel e viene eletto in consiglio comunale. Nello stesso anno delle elezioni comunali si prospetta l’arrivo di un ingente finanziamento per la Città di Torino grazie ai fondi stanziati dal ministero dell’Interno per la cosiddetta “Emergenza nomadi”. Ha così inizio nel 2013 un mega-progetto di oltre cinque milioni di euro che il Comune affida al raggruppamento temporaneo d’impresa  formato dalle stesse organizzazioni del progetto Selarom. Questa volta gli enti del terzo settore hanno presentato il progetto La città possibile, il cui scopo dichiarato è ancora una volta “realizzare percorsi efficaci di integrazione e di cittadinanza” per le circa 1300 persone “rom” che abitano nei campi di Lungo Stura Lazio, corso Tazzoli, via Germagnano, strada Aeroporto. Nei fatti viene finanziata l’enorme macchina dello sgombero della baraccopoli di Lungo Stura Lazio dove in realtà vivono – a dispetto del censimento dei responsabili e della prefettura – oltre duemila persone. Gli abitanti classificati come “meritevoli” devono firmare un “patto di emersione” dall’illegalità e partecipare attivamente allo sgombero distruggendo la propria baracca. I “meritevoli” selezionati dalle organizzazioni umanitarie vengono collocati in case o strutture reperite dalle stesse associazioni e cooperative sul mercato privato degli affitti (come lo stabile di corso Vigevano 41, di proprietà del noto palazzinaro Giorgio Molino) o devono accettare il rimpatrio “volontario” in Romania. Nell’arco di pochi mesi, o al massimo di un anno, queste stesse persone e famiglie vengono sfrattate a causa della fine dei fondi del progetto che sostenevano i costi dell’affitto, mentre tutti gli altri sono costretti a costruire una nuova baracca in altri campi e baraccopoli della città. Quando la grande operazione militare di sgombero della baraccopoli è quasi giunta al termine, emergono alcune inchieste giudiziarie che di fatto non portano a nulla, ma che svelano alcuni aspetti interessanti sulla gestione dei fondi e sui costi sostenuti da cooperative e associazioni. Una delle inchieste si chiude nel dicembre 2017 con la sola accusa di “truffa aggravata” contestata agli esponenti di Valdocco e Terra del Fuoco contro cui lo stesso comune si costituisce parte civile. A fine progetto (novembre 2015) le ultime famiglie escluse da La città possibile, insieme a un gruppo di solidali e alle altre persone e nuclei che nel frattempo sono stati sfrattati dalle varie, insostenibili soluzioni abitative, decidono di occupare un lato dell’ex-caserma di via Asti, uno spazio enorme di circa ventimila metri quadrati nella precollina torinese. L’ex-caserma però è già stata “occupata” nell’aprile dello stesso anno da alcuni membri di TDF che, mossi da valori civici e democratici, dichiarano di voler utilizzare la struttura per chi si trova in condizioni di disagio abitativo e sociale. Qui nel corso dei mesi TDF organizza eventi sociali e culturali con la collaborazione di accademici, intellettuali e politici di sinistra o di orbita Sel. In questa fase il Comune assume direttamente il ruolo di mediatore tra TDF e la Cassa Depositi e Prestiti, proprietaria dell’edificio, avviando una trattativa segreta affinché la struttura resti ai giovani volenterosi dell’associazione. Quando giungono le famiglie rom rimaste senza casa e senza alcuna alternativa abitativa, le istituzioni decidono di agire con forza: prefettura, questura e Comune sgomberano in grande fretta tutti gli occupanti della vecchia caserma, compresi quelli di TDF. Lo sgombero dell’ex-caserma e l’inizio delle inchieste giudiziarie e amministrative legate al progetto La città possibile segnano per l’associazione un rapido declino d’immagine, accompagnato da difficoltà di ordine politico. Michele Curto ha iniziato da tempo un’attività imprenditoriale nel settore della produzione del caffè a Cuba e altri dirigenti e amministratori di TDF fondano una nuova cooperativa sociale, Babel, che partecipa a bandi pubblici e privati. La cooperativa Babel partecipa da subito al nuovo progetto di sgombero delle palazzine occupate dell’Ex-Moi nella zona sud di Torino, portato avanti da vari enti torinesi del terzo settore che si spartiscono gli ingenti fondi messi a disposizione da ministero dell’Interno e dalla Compagnia di San Paolo (2017-2019). Anche in questo caso l’obiettivo è sgomberare in modo “dolce” circa mille e cinquecento persone con la diretta partecipazione degli sgomberati che finiscono, in una minima parte, in progetti definiti di “terza accoglienza”. Questa, certo, è un’altra storia, parte di un più ampio, feroce, disegno complessivo. (voce a cura di manuela cencetti) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA
“RIFUGIATI IN RIFUGIO”: QUATTRO INCONTRI IN MONTAGNA SU MIGRAZIONI, ASILO E PROTEZIONE INTERNAZIONALE
“Rifugiati in rifugio, dialoghi per condividere e conoscere” è il titolo del ciclo di quattro incontri organizzati in rifugi di montagna da ASGI (Associazione Studi Giuridici sull’immigrazione) e Università Cattolica del Sacro Cuore. Obiettivi sono la conoscenza dei fenomeni migratori, in particolare l’asilo e la protezione internazionale, ma anche creare momenti di dialogo tra diverse esperienze. Primo appuntamento fissato per sabato 5 luglio al rifugio Tita Secchi di Breno, Valle Camonica, provincia di Brescia; secondo incontro il 23 agosto sulle Alpi Giulie, al rifugio Pellarini di Tarvisio, provincia di Udine; terzo appuntamento il 20 settembre sulle Dolomiti Bellunesi, rifugio Settimo Alpini, provincia di Belluno; quarto incontro il 4 ottobre in val Pellice, al rifugio Jervis, provincia di Torino. La presentazione del ciclo di quattro incontri con Francesca De Vittor, docente in diritto internazionale all’Università Cattolica e co-organizzatrice di “Rifugiati in rifugio”. Ascolta o scarica I dettagli e il programma cliccando qui.
L’incubo della sicurezza. Appunti e visioni a Torino
(collage di stefania spinelli) In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura. Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri. L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno. Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato. “Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025. “Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza: abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza cittadinanza e diritti. “Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025. La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora. SOLDATI NELLE STRADE Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano. Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” – scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati dal suo partito. Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo, per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends [sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui. Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi circondano e mi fissano”. L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide sui corpi. In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere. L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio, l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli effetti. Ricorda Gerusalemme. (collage di stefania spinelli) ZONE ROSSE Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara “l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma: “Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”. Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del territorio. Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali – l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”. Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera. La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro – precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla schiavitù. Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi. Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio. I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni. REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno, e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile; l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte: morte artificiale, o seconda morte. Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare? Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano la repressione. Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti. Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo. Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett. a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le origini delle sue procedure. La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante, o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso. (collage di stefania spinelli) SICUREZZA INTEGRATA I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL e UIL. La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una “collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una “strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a “rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il “contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata esperienza ed [sic] attivi sul territorio”. Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami, tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025 per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato, fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”. Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado, implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza. So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio: esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale, numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto le forze benevolenti e paternalistiche. In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie? (francesco migliaccio)
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #7. Il Sermig
(disegno di Adriana Marineo)   Queste cartografie aggregano voci enciclopediche per un archivio del terzo settore e dell’innovazione sociale. Nei contributi prevale un tono espositivo a cui si alternano spunti critici. L’ordine e i tempi delle uscite dipendono dalle energie a disposizione, dal tenore delle nostre ricerche, da eventi puntuali che notiamo in quartiere. Da tempo riflettiamo sul Sermig e sulla sua storia, ma non a caso proponiamo ora una voce specifica. Qualche giorno fa una straccivendola lungo la Dora è finita in questura a causa di una segnalazione alla polizia effettuata da un membro del Sermig. La donna aveva disposto i suoi oggetti in vendita accanto all’ingresso della struttura e questo, evidentemente, dava fastidio. È importante chiedersi perché un ente umanitario e filantropico non esiti a rivolgersi alla polizia e denunciare persone che potrebbero pagare un caro prezzo nel terribile sistema delle espulsioni di questo stato. Bene, non v’è nulla di cui stupirsi. Il Sermig è coinvolto da anni nel governo d’un quartiere da cui reietti e indisciplinati sono espulsi. * * * Il Sermig (Servizio Missionario Giovani) fu fondato a Torino nel 1964 su iniziativa del bancario Ernesto Olivero insieme ad alcuni giovani cattolici: intendeva operare come gruppo missionario nel mondo. Presto il Sermig iniziò a occuparsi anche della povertà presente a Torino e dal gruppo originario nacque la Fraternità della Speranza, “una comunità di persone libere, unite dal Vangelo, che sceglie consapevolmente di mantenersi laica”. Dal 1983 la sede principale del Sermig è l’ex arsenale militare della città, in piazza Borgo Dora, ribattezzato Arsenale della Pace. La struttura è stata assegnata al Sermig in comodato dal Comune e trasformata in “casa di accoglienza per i poveri”. L’Arsenale di Borgo Dora offre oggi, fra gli altri servizi, un dormitorio maschile e una casa di accoglienza femminile, distribuzione di cibo e vestiti, visite mediche gratuite. L’orientamento imprenditoriale e il contributo dei volontari hanno permesso la ristrutturazione complessiva di un’area di 45.000 metri quadri: una cittadella della benevolenza nel quartiere della Dora. Successivamente, la Fraternità ha aperto a São Paulo in Brasile (1996) e in Giordania (2003) ulteriori strutture: i “progetti di sviluppo nel mondo” sono descritti come l’anima del Sermig, che vanta anche “missioni di pace” in molti paesi. Il principio cardine del Sermig, si legge nei loro documenti, è la “restituzione”: “trasformare beni, competenze, tempo, professionalità in opportunità per gli ultimi, per chi vive ai margini, per chi ha perso tutto”. Questo accade grazie al “contributo gratuito” dei volontari, che tengono in piedi l’impero di attività, progetti e servizi. Essi offrono la loro collaborazione senza chiedere rimborsi e pagandosi le spese. Accanto a questo “capitale umano”, la capacità finanziaria del Sermig si fonda principalmente sulle donazioni di persone fisiche, enti o aziende, ma anche sulla partecipazione a bandi o sulle richieste di contributi a enti pubblici o privati, come le fondazioni bancarie. Inoltre, il Sermig attua una politica che definisce “di autofinanziamento” fornendo servizi o vendendo prodotti. Per poter agire nel mondo la Fraternità della Speranza ha scelto di costituirsi in “emanazioni” che possono prendere la forma di ONLUS, associazioni del terzo settore, scuole ed enti di formazione, associazioni sportive e dilettantistiche, fondazioni. Tra queste figura l’Associazione Centro Come Noi S. Pertini che ha ricevuto, tra gli altri, finanziamenti dal bando Tonite. Le visite al Sermig di Mattarella, in veste di presidente della Repubblica, sono state numerose. Il presidente è venuto qui nel dicembre del 2019, poco dopo la cacciata dal quartiere di centinaia di straccivendoli, poi nel novembre del 2021 e nel luglio del 2024. L’ultima visita è avvenuta il 16 maggio di quest’anno: per un giorno intero la strada è stata chiusa al traffico, decine di agenti hanno presidiato l’ingresso e un graffito sulla facciata (“Palestina liberaci”) è stato rimosso con una mano di bianco. Nell’aprile del 2022 il presidente del Consiglio Mario Draghi ha visitato Torino e ha negoziato l’entità degli aiuti finanziari dello stato per contenere il debito della città. Dopo gli impegni istituzionali Draghi ha visitato due luoghi soltanto: il Sermig di Olivero e il centro direzionale Lavazza. Il Sermig appare come una struttura assistenziale dotata di notevole potere, apprezzata da istituzioni governative di vertice. Per descrivere il ruolo del Sermig nel quartiere è opportuno ricostruire il suo rapporto con straccivendoli e venditori poveri che, da decenni, si ritrovano il sabato nelle strade di Borgo Dora. Sin da inizio secolo gli straccivendoli disponevano le loro stuoie nel canale Molassi, una stretta via che separa la struttura principale dell’Arsenale da un complesso di laboratori artigianali gestito dal Sermig. Nell’aprile del 2018 il Sermig ha firmato una lettera assieme a un comitato di quartiere e altre associazioni di commercianti per affermare “la necessità e l’urgenza dello spostamento” del mercato dei poveri, definito come un “fenomeno esplosivo incontrollato e incontrollabile che da sempre funziona da catalizzatore di criticità devastanti”. Nel novembre dell’anno successivo, il mercato degli straccivendoli viene sgomberato con la violenza dalle forze dell’ordine.  Nonostante la repressione e l’esilio dei cenciaioli – relegati in un’area lontana, vicina al cimitero monumentale – nel quartiere è nato negli ultimi anni un nuovo, piccolo mercato informale dove alcuni venditori espongono oggetti raccattati nei bidoni, recuperati da solai e cantine. Gli straccivendoli si riuniscono la mattina vicino al ponte Carpanini, proprio davanti all’Arsenale del Sermig. Durante questa primavera la polizia municipale ha organizzato ronde e presidi sin dall’alba per impedire ai venditori di esporre la loro merce. Soltanto quando i vigili smettono di piantonare il marciapiede s’organizza un mercato di vestiti e oggetti ritrovati. Gli agenti spesso hanno un’aria arrogante, in altri casi appaiono a disagio per il compito assegnato. Alcuni di loro affermano di dover eseguire gli ordini: è il comando, dicono, che li manda su richiesta del Sermig e dell’associazione che gestisce il mercato degli antiquari in via Borgo Dora. Il Sermig si è rivelato negli anni un soggetto attivo nella repressione e nell’allontanamento dei cenciaioli più poveri. Persone senza casa, marginali, soggetti fragili sono graditi solo se possono essere parte del meccanismo di accoglienza della struttura: essi sono il carburante di un’industria della benevolenza caritatevole. Se i dannati della terra, tuttavia, sopravvivono ai confini del Sermig in autonomia, attraverso la vendita informale degli oggetti ritrovati, e senza adeguarsi ai progetti predisposti per loro, allora diventano un problema di ordine pubblico. I vertici dell’ente non hanno scrupoli a chiedere l’intervento delle forze dell’ordine, sebbene siano consapevoli delle conseguenze tragiche che possono sortire da un controllo dei documenti. La storia del Sermig suggerisce così una riflessione sul ruolo del privato sociale nel governo della città: il terzo settore in questo caso non è soltanto complementare alle istituzioni repressive, ma può collaborare direttamente con esse per portare ordine e disciplina nel quartiere. (voce a cura di francesco migliaccio e stefania spinelli)
Il 2 giugno dei Senzapatria. Antimilitaristi in corteo a Torino
Nel giorno in cui la Repubblica Italiana celebra se stessa con parate e manifestazioni militari gli antimilitaristi hanno riempito piazza Palazzo di Città con tanti interventi e il canzoniere antimilitarista del Cor’Okkio. Il presidio si è presto trasformato in corteo ed ha raggiunto la piazza della cerimonia dell’ammaina bandiera gonfia di retorica nazionalista ed esaltazione […]
Cartografie del terzo settore e della innovazione sociale a Torino #6. Community Land Trust
(disegno di adriana marineo) Sulle serrande chiuse davanti al giardino Maria Teresa di Calcutta, in corso Giulio Cesare, compaiono due scritte: “meno filantropi, più licantropi” e “Partito Democratico e Sinistra Ecologista: per ogni sgombero un bene comune”. Incalza da anni la repressione delle occupazioni nei quartieri a nord della Dora: l’asilo di via Alessandria è stato sgomberato nel 2019 e un’altra palazzina occupata poco lontano è stata circondata dalla polizia nel gennaio del 2021. E numerosi, solo nell’ultimo anno, sono gli interventi contro le occupazioni delle case popolari: questi sgomberi sono rivendicati dall’amministrazione attuale, guidata dai due partiti menzionati dal graffito. Appare il paesaggio contemporaneo delle politiche per la casa: assieme alle irruzioni di polizia nascono e si diffondono le soluzioni abitative sedicenti innovative, promosse dal terzo settore e dai capitali delle fondazioni bancarie. Forze diverse disegnano un presente dove è rimossa la possibilità di occupare la proprietà. Le serrande su cui compaiono le scritte appartengono al primo Community Land Trust in Italia. *   *   * C’è un palazzo di sei piani in corso Giulio Cesare, vicino alla scuola Parini e di fronte all’ingresso del giardino Madre Teresa di Calcutta. Il palazzo ora è vuoto, le persiane sono chiuse, ma voci in quartiere raccontano di un’occupazione informale sgomberata dalla polizia al tempo della pandemia. In strada, accanto al portone, ci sono un fast food e un bar che prepara frullati alla frutta. Il palazzo accoglierà il primo Community Land Trust (CLT) in Italia. Il CLT è una forma di proprietà che afferisce al diritto privato con il fine di rendere accessibile la piccola proprietà immobiliare alle classi sociali meno abbienti. Il CLT s’origina dalle pratiche abitative comunitarie negli Stati Uniti del secolo scorso ed è giunto in Europa come nuovo strumento delle politiche sociali innovative, ovvero iniziative dove gli interessi privati si armonizzano, almeno nelle intenzioni, con il beneficio pubblico. Alla base del CLT c’è un soggetto privato – un trust – che compra l’intera proprietà e rivende le unità immobiliari singole (gli appartamenti), mantenendo però il controllo del suolo. Un appartamento senza il valore del suolo è così acquistabile a un prezzo inferiore rispetto alle altre unità presenti nella medesima area. Gli acquirenti, in seguito, possono rivendere il loro appartamento soltanto al trust, che trattiene buona parte dell’incremento di valore immobiliare accumulato nel tempo. A sua volta il trust immetterà sul mercato la stessa unità, ma a un prezzo superiore adeguato all’inflazione e all’aumento dei prezzi avvenuto nell’area urbana. Il CLT controlla così il plusvalore immobiliare e al contempo promette prezzi delle case più bassi rispetto agli standard del quartiere. Il palazzo in corso Giulio Cesare è stato rilevato nel 2023 dalla Fondazione di Comunità di Porta Palazzo. La fondazione ha impiegato i fondi (circa mezzo milione di euro) raccolti dalla Compagnia di San Paolo, da enti privati e da singoli cittadini a cui è garantita la restituzione del prestito dopo due anni con il due per cento di interessi. Per governare il trust è stata costituita la Fondazione CLT Terreno Comune che, alla fine della ristrutturazione, venderà gli appartamenti a famiglie selezionate che rispettino criteri stringenti, fra cui quello di avere un unico reddito fra i 1300 e i 1500 euro mensili. Ogni famiglia accederà a un mutuo per acquistare l’appartamento. Il CLT è governato da un consiglio di amministrazione dove siedono rappresentanti dei proprietari, degli abitanti del quartiere e dei portatori di interesse pubblico che insistono sull’area. Il governo del CLT ha il compito, fra gli altri, di investire i capitali accumulati in interventi di rigenerazione dell’isolato, così da incrementare ulteriormente il valore e l’appetibilità del palazzo. I promotori del CLT in corso Giulio Cesare sostengono di aver creato uno strumento volto al contrasto della speculazione immobiliare e dell’esclusione abitativa. Le contraddizioni, tuttavia, appaiono a uno sguardo attento. Nonostante sia un progetto di inclusione sociale con ambizioni di gestione democratica, la selezione delle famiglie che hanno la possibilità di accedere al mutuo per acquistare gli appartamenti sarà appannaggio della stessa fondazione. Ancora una volta sono le classi dirigenti – borghesi, progressiste, bianche – a scegliere chi siano i meritevoli ad accedere ai progetti di innovazione sociale. La selezione, d’altra parte, deve essere ben ponderata: sarebbe spiacevole sfrattare una famiglia perché chi lavora ha perso un impiego precario e non può più pagare il mutuo. Inoltre questo modello non ostacola la rendita immobiliare, anzi la sostiene e fomenta. Le classi dirigenti progressiste si limitano a controllare la speculazione, promettendo di calmierare gli effetti più violenti e redistribuire i dividendi ai loro sostenitori. Più che lotta alla speculazione, il CLT sembra un governo del capitale immobiliare da parte di un soggetto privato e filantropico, capace di elaborare politiche sociali remunerative a del tutto inadeguate a rispondere alle esigenze delle classi sociali più povere e precarie. Un programma di ingegneria sociale governato dai buoni sentimenti di una borghesia convinta d’essere illuminata. (voce a cura di francesco migliaccio) ______________________________ QUI L’INDICE DELLA CARTOGRAFIA