L’incubo della sicurezza. Appunti e visioni a Torino(collage di stefania spinelli)
In un crepuscolo di metà maggio un elicottero dei carabinieri gira in circolo
sopra Barriera di Milano, il quartiere di Torino fra la Dora e la Stura.
Volteggia l’elicottero come un insetto assordante e gli abitanti escono in
strada intimoriti: migliaia di occhi s’alzano in cielo. Lungo corso Giulio
Cesare sfrecciano moto blu scuro e cinque, sei auto in fila dei carabinieri.
L’elicottero è sospeso sopra un palazzo e poco dopo escono dal portone
carabinieri con il passamontagna e un ariete per sfondare. Un’altra pattuglia
controlla i documenti accanto a un bar. Poco più a sud, sempre su corso Giulio
Cesare, un drappello di agenti di polizia e guardia di finanza circonda uomini
seduti al tavolini di un caffè. Le guardie hanno le gambe larghe, le mani sui
fianchi o dietro la schiena e fissano chi era in strada per bere una birra, un
caffè. Poliziotti in borghese dirigono il controllo dei permessi di soggiorno.
Nella luce incerta della sera si vede ancora il verde dei tendoni che coprono i
balconi, in strada cuoce il kebab nel fast-food turco e s’abbassano le serrande
del negozio che vende schede telefoniche e offre servizi di assistenza fiscale e
invio di denaro. L’elicottero non smette di ronzare assordante in cielo e il
rumore grava sull’animo di chi vive qui da dannato, e braccato.
“Cento identificati, un’intera palazzina perquisita e due arresti. È il bilancio
dei controlli effettuati dai carabinieri in Barriera di Milano, quartiere nella
zona nord scosso dagli ultimi episodi di violenza. Dopo l’omicidio di Mamoud
Diane, ucciso nella notte tra il 2 e il 3 maggio in via Monte Rosa, e gli
accoltellamenti che si sono susseguiti, il prefetto Donato Cafagna aveva
ordinato un giro di vite. Il blitz di mercoledì sera è solo l’inizio”. Caterina
Stamin, La Stampa, pagine torinesi, 16 maggio 2025.
“Blitz” è termine così inflazionato da oscurare la sua provenienza:
abbreviazione di “Blitzkrieg”, guerra lampo. Vedo immagini di un’occupazione in
quartiere – soldati con i fucili automatici in grembo, ronde di polizia e
carabinieri – e ricordo Gerusalemme. Alla Porta di Damasco c’era il presidio
fisso dell’esercito, soldati israeliani controllavano gli snodi principali fra
le vie della città vecchia. Dietro transenne sostavano due soldati, accanto alla
torrefazione fra i banchi del pane e dei pomodori. Le truppe presidiavano le
strade in nome della guerra al terrorismo, ma il terrorismo era una
giustificazione: la guerra era contro chi viveva sotto occupazione, senza
cittadinanza e diritti.
“Una coltellata alla schiena ha trafitto il cuore di Mamoud Diane, 19 anni, di
origini ivoriane. Lo hanno ucciso in strada nel quartiere Barriera di Milano, a
Torino. Il ragazzo era davanti a un bar all’angolo tra via Monte Rosa e corso
Novara quando è scoppiata una rissa fra due gruppi di persone di origine
africana, nata per debiti di droga secondo i primi riscontri. Erano almeno in
venti. ‘Una decina contro altri sette – racconta un testimone – due gang si sono
fronteggiate con calci, pugni, sputi, bottigliate. Due ragazzi sono caduti a
terra. Uno si è alzato, l’altro si è trascinato per un centinaio di metri. A un
certo punto non si è mosso più. Io credevo si rialzasse, non avevo visto il
coltello’. Sono arrivate le volanti della polizia, l’esercito. ‘Invece
l’ambulanza ci ha messo circa un’ora – prosegue il testimone – quel ragazzo era
già morto’”. Giada Lo Porto, La Repubblica, pagine torinesi, 4 maggio 2025.
La mediocrità del giornalismo torinese deve essere vagliata nonostante la nausea
che induce. Fra le idiozie, le frasi automatiche e i dati dettati dalla questura
emerge a volte un elemento inconscio, una rottura nell’ordine del discorso. Se
un ragazzo riceve una coltellata in Barriera di Milano, arrivano subito i
soldati e le volanti blu; l’ambulanza invece ci mette un’ora.
SOLDATI NELLE STRADE
Venerdì 19 gennaio 2024 i giornali annunciano che i militari dell’operazione
Strade Sicure s’apprestano a presidiare le vie di Barriera di Milano.
Un’operazione volta a contrastare “spaccio, risse, furti, scippi e degrado” –
scrive La Stampa. Sono annunciati quarantadue soldati in più soltanto nel
quartiere. Era inverno in Barriera e i militari hanno iniziato a piantonare lo
slargo di corso Palermo che dà sul mercato di piazza Foroni. L’invio
dell’esercito era una mossa del governo a supporto di una circoscrizione
amministrata da Fratelli d’Italia. Così il sindaco Lo Russo, afferente al
Partito Democratico, ricordava in un’intervista a La Stampa: “Più controlli
interforze e militari, bene, ma la stessa attenzione che oggi si rivolge a
Barriera non va circoscritta”. Il sindaco non contestava il paradigma della
sicurezza, chiedeva soltanto che venisse applicato anche ai quartieri governati
dal suo partito.
Frammento da un taccuino di appunti, 25 gennaio 2024. “Angolo fra via Malone e
via Lombardore. Vedo un ragazzo appoggiato con la schiena alla parete, si
schiarisce la voce. Poco dopo, da lontano, vedo che il ragazzo è circondato da
tre militari e due poliziotti. Il presidio fisso di corso Palermo può diventare
mobile e pattugliare le vie interne. I militari non possono agire in alcun modo,
per questo sono affiancati dalla polizia di stato. Gli uomini armati in divisa
mimetica sono un corteggio spettacolare. Mi avvicino al gruppo. Il ragazzo ha
sempre le spalle al muro, ma questa volta ha un militare a destra e due a
sinistra, di fronte i due poliziotti. Un poliziotto basso mi osserva e mi fa
cenno di circolare, circolare, un poliziotto alto si occupa del ragazzo. Lo
hanno costretto a togliersi le scarpe: ne controllano la suola. Il ragazzo si
lamenta perché gli hanno fatto male al braccio. Il poliziotto alto: «Ti abbiamo
fatto male? Vuoi un massaggino? Vuoi un massaggino lì? Ascolta, my friends
[sic]. My friends [sic]. You are a good boy, ma non ti voglio più vedere qui.
Capito? Te ne devi andare da qui». Per spiegare il concetto fischia due volte e
muove il polso su e giù con la mano tesa: «Vedi di andartene». Si avvicina il
poliziotto basso e mi guarda: «Per favore, vada via, stiamo facendo un
controllo». Ora si concentrano su di me – al nero dai del tu, al bianco dia del
lei. Il poliziotto alto mi chiede il documento e, intanto, i tre militari mi
circondano e mi fissano”.
L’esercito è inutile, un’operazione di propaganda visibile in una società dello
spettacolo – scrivevo. Eppure lo spettacolo è materiale e il suo arbitrio agisce
sui dannati fermati. Gli esclusi sono disturbati, spesso puniti, a volte
reclusi: lo spettacolo non è rifrazione eterea, ma azione concreta che s’incide
sui corpi.
In che senso posso definire un presidio di soldati “inutile”? Esso è inutile
perché le regole d’ingaggio e le modalità di impiego non servono a contrastare
lo spaccio o i fenomeni di devianza. Mi rendo conto che l’inutilità
dell’esercito è un argomento valido solo se accolgo come veri gli scopi
dichiarati dal governo, se adeguo la mia mente ai proclami del potere.
L’esercito non presidia le strade di Barriera per contrastare lo spaccio,
l’esercito è qui per realizzare un’occupazione militare del quartiere. La lotta
al piccolo crimine è solo una giustificazione: bisogna invertire le cause e gli
effetti. Ricorda Gerusalemme.
(collage di stefania spinelli)
ZONE ROSSE
Il 17 dicembre 2024 il ministero dell’Interno emana una direttiva che dichiara
“l’importanza di individuare, con apposite ordinanze, aree urbane dove vietare
la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi
disporre l’allontanamento”. Si tratta di aree urbane dove funzionano leggi
speciali. Insegno a scuola e un giorno ho spiegato la legge Pica, ovvero le
misure speciali contro il brigantaggio varate nel 1863. L’articolo 1 afferma:
“Fino al 31 dicembre corrente anno, nelle Province infestate dal brigantaggio, e
che tali saranno chiamate con Decreto Reale, i componenti comitiva, o banda
armata, composta almeno di tre persone, la quale vada scorrendo le pubbliche vie
o le campagne per commettere crimini o delitti, ed i loro complici, saranno
giudicati dai Tribunali militari, di cui nel libro II , parte II del Codice
penale militare, e con la procedura determinata dal capo III del detto libro”.
Esistevano zone speciali, ovvero specifiche aree appenniniche dove valevano
leggi diverse, eccezionali. Il fine era l’occupazione militare, e coloniale, del
territorio.
Per rispondere alla direttiva ministeriale, la Città di Torino istituisce
all’inizio del 2025 le “zone a vigilanza rafforzata”. Sono quattro aree speciali
– l’area attorno alla stazione di Porta Nuova, il lungofiume della Dora, il
cuore di Barriera di Milano, piazza Vittorio – dove sono intensificati i
controlli di polizia. In queste zone è legittimo imporre “il divieto di
stazionamento e l’allontanamento di soggetti con specifici precedenti per reati
predatori, contro la persona ed inerenti agli stupefacenti, che assumano
comportamenti aggressivi, minacciosi e insistentemente molesti”.
Ricostruisco la logica delle “zone a vigilanza rafforzata”. Nelle aree speciali
avvengono frequenti pattugliamenti con collaborazione fra soldati e forze
dell’ordine. Compito dei controlli è individuare i soggetti molesti, gli
indisciplinati e i fastidiosi ed esaminare i loro documenti. Se la persona
controllata ha precedenti per piccoli reati, l’autorità pubblica dispone
l’allontanamento dalla zona in questione per le successive 48 ore. La violazione
di questa disposizione è un’infrazione della legge e di conseguenza può scattare
un provvedimento penale. L’autorità pubblica ha creato un nuovo reato: sostare
in aree definite speciali dopo un’ingiunzione di allontanamento. Si tratta di
uno strumento in più da applicare a discrezione contro chi è ritenuto fonte di
turbamento dell’ordine pubblico. Accade lo stesso nelle scuole: si definiscono
nuove regole disciplinari in modo da avere più strumenti discrezionali da
impiegare contro gli studenti mal sopportati. «Non dovete controllare chi si
comporta bene», diceva un graduato dei carabinieri ai soldati in presidio in
Borgo Dora – era l’inizio di questa primavera.
La mente rimugina sui dati, scrutina le visioni per tentare un’astrazione. Se la
sicurezza è un pretesto, qual è la causa materiale dei controlli di polizia? Il
governo deve disciplinare e reprimere gli scarti, ovvero la forza lavoro –
precaria, spesso senza documenti, dunque facilmente sfruttabile – che non
s’adatta silente e quieta al meccanismo della riproduzione sociale. Gli atti (i
controlli, le retate) e le infrastrutture (la cella in questura, il carcere, il
Cpr) costruiscono un paradigma di contenimento di sfaccendati refrattari alla
schiavitù.
Mentre volteggia l’elicottero sopra Barriera di Milano assisto al controllo dei
documenti richiesti agli avventori del bar. Sferraglia il tram mentre siamo
circondati dagli agenti, in particolare sono tenuti d’occhio tre ragazzi mentre
un poliziotto in borghese dirige le operazioni di accertamento sui loro
passaporti. Poco fa sedevano senza pensieri al tavolino, sorseggiavano il caffè
dopo, chissà, una giornata di lavoro. I controlli paiono lunghi e meticolosi.
Forse qualcosa non va? S’è fatta sera. Repentini dieci agenti si stringono in un
muro blu e s’avvicina una camionetta. Oltre le schiene dei poliziotti i tre
ragazzi sono caricati nella camionetta, scorre il portello e si allontanano le
luci lampeggianti. Due di loro saranno gli unici arrestati di questa
spettacolare esibizione dello stato. Così, per un irragionevole movimento degli
eventi, due uomini finiscono forse in una struttura detentiva per il rimpatrio.
I tre fermati non mi sembrano diseredati, emarginati o soggetti che lo sguardo
della polizia può definire “pericolosi”; paiono piuttosto tre lavoratori
impigliati per caso nella rete della sicurezza. Le esperienze concrete allentano
la tenuta della teoria e alla mente non resta che tornare ai dati, alle visioni.
REPRESSIONE AL PONTE CARPANINI
In Borgo Dora, lungo la riva destra del fiume, le istituzioni si impegnano da
anni a contrastare e reprimere il mercato di straccivendoli, robivecchi e
raccoglitori di rifiuti che esiste da più di un secolo. Nel 2019 è stata
impiegata la Celere per sgomberare centinaia di mercanti, nelle stagioni
successive la polizia municipale s’è impegnata a contrastare e cacciare chi ha
tentato il ritorno. In questi mesi, accanto al ponte Carpanini, squadre di
vigili organizzano presidi all’alba del sabato per impedire che gli
straccivendoli dispongano le loro stuoie. È notevole il dispendio di energie
pubbliche per una repressione che non riesce a soffocare del tutto il fenomeno,
e nonostante i duri colpi inferti. Vedo le nuove insorgenze del mercato come
fioriture d’una vita spontanea, espressione di un’esigenza incontenibile;
l’operato della polizia e delle istituzioni m’appare come un’induzione di morte:
morte artificiale, o seconda morte.
Ascolto spesso gli straccivendoli chiedere ai vigili: «Che cosa dobbiamo fare?
Andare a rubare? Spacciare? Andiamo a spacciare allora!». È il meccanismo
circolare del potere: più reprime, più crea condizioni di vita che giustificano
la repressione.
Mi sono chiesto quale sia la catena di comando che induce i vigili, all’alba del
sabato, a piantonare il marciapiede accanto alla struttura in acciaio del ponte
Carpanini. Chi emana l’ordine, e perché, e secondo quali modalità? Diverse forze
chiedono l’allontanamento dei lavoratori informali: l’associazione che gestisce
il vicino mercato dell’antiquariato, l’ente filantropico e cattolico disturbato
dalle attività autonome dei poveri. Poi immagino che sia il comando dei vigili
di zona, su pressione del comune e della circoscrizione, a mandare gli agenti.
Per ricostruire i passaggi formali e le ragioni peculiari di una tattica di
controllo urbano ho deciso di consultare i verbali del Tavolo di osservazione
per la sicurezza della circoscrizione pertinente. A questo tavolo siedono il
presidente di circoscrizione, un rappresentante della prefettura, uno del comune
e i referenti delle forze di polizia che agiscono sul campo.
Ho richiesto i verbali del Tavolo di osservazione per la sicurezza della
Circoscrizione 7 tramite accesso civico generalizzato. La risposta è stata
emanata direttamente dalla prefettura: “Al riguardo, si rileva che la
documentazione richiesta è riconducibile alle previsioni di cui all’art. 5 lett.
a) D.Lgs 33/2013: ‘L’accesso civico […] è rifiutato se il diniego è necessario
per evitare un pregiudizio concreto alla tutela di uno degli interessi pubblici
inerenti a: a) la sicurezza pubblica e l’ordine pubblico’”. La sicurezza è un
allucinante spettacolo visibile e mediatico, eppure oscure e invisibili sono le
origini delle sue procedure.
La sicurezza. La sicurezza è il pretesto ideologico per legittimare il controllo
militare e poliziesco di aree urbane peculiari. La sicurezza è un motore
pragmatico che produce atti politici territoriali e modifica il volto dei
quartieri e la vita degli abitanti, ma il meccanismo di questo motore emanante,
o principio primo, è invisibile, inafferrabile. La sicurezza è un incubo che
abita le nostre menti e ci impedisce di immaginare la possibilità che essa possa
essere smantellata, cancellata dall’orizzonte d’ogni pensiero e discorso.
(collage di stefania spinelli)
SICUREZZA INTEGRATA
I tavoli di osservazione per la sicurezza delle circoscrizioni sono stati
istituiti dall’articolo 4 di un protocollo del dicembre 2019: “Accordo per la
sicurezza integrata e lo sviluppo della Città di Torino”. Era il tempo della
giunta guidata da Appendino, il protocollo porta la firma, fra gli altri, dei
rappresentanti della Città, della Regione Piemonte, dell’Ufficio Scolastico
Regionale, dell’Unione Industriali, della Compagnia di San Paolo e di CGIL, CISL
e UIL.
La sicurezza è “integrata” – leggo nel protocollo – perché prevede una
“collaborazione tra amministrazioni centrali, istituzioni locali […] società
civile” e forze dell’ordine. Le premesse sono in questo senso illuminanti: in
nome del principio di “sussidiarietà” si ritiene necessario delineare una
“strategia di intervento complessiva che mette la città e i cittadini al centro
delle politiche di sicurezza”. La “sicurezza” infatti è un “bene primario dei
cittadini […] per la cui efficace realizzazione si rende necessario il concorso
di diversi soggetti, tutti funzionali, in una governance multilivello”. Il
documento propone d’incentivare “un processo di partecipazione alla gestione
della sicurezza […] nel quadro di una sicurezza sempre più integrata e
partecipata”. In sostanza non può essere soltanto l’operato della polizia a
“rimuovere le cause profonde di devianza e di degrado”, ma deve esistere “il
coinvolgimento” della cittadinanza attiva attraverso i patti di collaborazione
e, in modo più generale, la partecipazione intrisa di valori civici. Il
“contenimento dei fattori criminogeni” è il punto di confluenza dove possono
incontrarsi poliziotti, amministratori, sindacati confederali, fondazioni
bancarie, scuole e, immancabilmente, gli “enti del terzo settore di comprovata
esperienza ed [sic] attivi sul territorio”.
Il protocollo stipulava l’ampliamento dei sistemi di videosorveglianza per il
controllo “pubblico e privato” del territorio, un più intenso scambio
informativo tra polizia locale e polizia di stato, la detrazione fiscale per gli
esercizi commerciali e condominî dotati di telecamere in strada, il
rafforzamento dell’illuminazione pubblica, una rinnovata sinergia fra enti
amministrativi e realtà territoriali per la prevenzione delle occupazioni. Il
patto aveva durata di due anni, molte soluzioni erano soltanto proclami,
tuttavia permangono ancora i tavoli di sicurezza delle circoscrizioni e i
presupposti ideologici di quell’approccio. In un’intervista del 30 maggio 2025
per le pagine torinesi del Corriere della Sera, il prefetto Cafagna annuncia la
nascita di un osservatorio sulle periferie: “L’obiettivo, su indicazione
ministeriale, è ideare e organizzare nuove iniziative concrete e coordinate fra
i diversi enti coinvolti, per affrontare tutte le problematiche. L’11 giugno
saranno presenti Regione, Città, associazioni sindacali e di volontariato,
fondazioni bancarie e rappresentanti della scuola e dell’autorità giudiziaria”.
Il giornalista chiede da dove si debba partire. E il prefetto: lotta al degrado,
implementazione di illuminazione pubblica e videosorveglianza.
So che nell’area metropolitana di Torino ci sono enti del terzo settore
coinvolti attivamente in pratiche di repressione e controllo del territorio:
esistono associazioni direttamente responsabili degli sgomberi dei campi
informali, un centro d’accoglienza cattolico ha collaborato all’esilio di
centinaia di straccivendoli, una cooperativa sociale è disposta a montare
telecamere di videosorveglianza attorno al perimetro del proprio locale,
numerosi soggetti hanno accettato finanziamenti europei in nome del
miglioramento della sicurezza percepita, una fondazione di comunità impedisce
alle persone senza casa di dormire nel parco pubblico che controlla. La
sicurezza non si risolve soltanto nell’operato violento e razzista delle forze
dell’ordine, ma è un dispositivo che coinvolge anche le iniziative dolci, e
democratiche, delle aggregazioni progressiste diffuse a diversi livelli
operativi nella società civile. Se il governo del territorio mostra una
capillare attitudine a escludere e discriminare, questo è l’esito di un
esercizio integrato che coinvolge tanto i soggetti apertamente razzisti quanto
le forze benevolenti e paternalistiche.
In un regime di sicurezza integrata la critica deve analizzare e smontare tutti
gli elementi che lo compongono. Per questo l’antifascismo declinato come
denuncia dei partiti di destra non è più sufficiente. Chiedo a chi incontro in
strada, ai compagni di viaggio, quanto sia allucinante il delirio spettacolare
cui assistiamo, e se ci sono delle formule per sfatarlo. Domando a chi legge se
è possibile risvegliarsi da questo incubo della sicurezza; e se esiste una forza
frenante, e collettiva. La disperazione ha in dono un residuo di energie?
(francesco migliaccio)